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Caro Renzi, i conti non sono un’opinione

Caro Renzi, i conti non sono un’opinione

Massimo Blasoni – Metro

È proprio vero che la matematica è un’opinione. Almeno per il presidente del Consiglio Matteo Renzi, che l’altro giorno ha esultato per il +0,8% di crescita del Pil italiano nel 2015. Intendiamoci, si tratta pur sempre di un dato positivo perché segna finalmente un’inversione di tendenza rispetto alla decrescita registrata negli ultimi anni: -2,8% del 2012, -1,7% del 2013 e -0,4% nel 2014. Basterebbe però alzare lo sguardo oltre i confini nazionali per decidersi a conservare le bottiglie di champagne per occasioni migliori. L’anno scorso tutti i nostri principali competitor europei hanno infatti registrato una crescita decisamente più marcata del proprio Prodotto interno lordo: +1,2% in Francia, +1,7% in Germania, + 2,2% nel Regno Unito e addirittura +3,2% in Spagna.

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Massimo Blasoni a Radio1 News Economy Magazine

Massimo Blasoni a Radio1 News Economy Magazine

L’intervento del presidente di ImpresaLavoro, Massimo Blasoni, nell’edizione del 27 febbraio di Radio1 News Economy Magazine. Argomento dell’intervista: il nostro studio “Gli extracomunitari nel nostro Paese trovano lavoro più facilmente degli italiani“.

Massimo Blasoni interviene a Radio News Economy (Radio1 Rai)

L'intervento del presidente di ImpresaLavoro, Massimo Blasoni, nell'edizione del 27 febbraio di Radio1 News Economy Magazine: perché gli extracomunitari nel nostro Paese trovano lavoro più facilmente degli italiani?

Posted by ImpresaLavoro on Wednesday, March 2, 2016

Il lessico delle tasse

Il lessico delle tasse

di Giuseppe Pennisi*

Le tasse e le imposte hanno un proprio lessico, anzi una propria lingua, non necessariamente per ragioni tecnico-giuridiche, ma allo scopo di “mascherare l’ideologia e farla apparire scienza”. Lo documenta Richard E. Wagner della George Mason University, fortilizio liberista non troppo distante da Washington. Il paper diffuso on line a fine febbraio si intitola “The Language of Taxes: Ideology Masquerading as Science” ed è il George Mason University Paper Np 16-1.

Il lavoro parte dalla premessa che la scienza delle finanze ed, in particolare, la teoria della tassazione marcia su due differenti binari. Uno cerca di dare una spiegazione scientifica a perché esistono tasse ed imposte e a spiegare la tipologia di tributi che questo o quel Governo di questo o quel Paese crea; su questo binario, di politica economica “positiva” perché studia la realtà effettuale delle cose, viaggiano le analisi delle differenti strutture tributarie. L’altro binario è “normativo” o “esortativo”: il suo obiettivo è quello di istruire Governi su come “estrarre tasse dalla popolazione”. “Non c’è nessuna buona ragione – scrive Richard E. Wagner – perché un economista interessato alla teoria non possa contribuire ai due filoni”. Non può farlo allo stesso tempo, perché “la posizione del «partigiano politico» è profondamente differente da quella dell’«analista economico» ed anche da quella dell’«analista politico». Le due tipologie impiegano linguaggi spesso differenti. Tuttavia, in certi casi, “due distinti ruoli e le loro formulazioni si confondono perché in certi aspetti il lessico tributario può provocare intrecci tra punti di vista ideologici ed analisi scientifiche”. Dopo avere definito queste due visioni della teoria della tassazione, il resto del saggio esamina differenze e possibili commistioni nei linguaggi delle due scuole di scienza delle finanze, ovviamente in anglo-americano, con l’obiettivo di una distinzione netta tra una visione e l’altra, soffermandosi soprattutto sull’imposta personale dei redditi e sull’imposizione sulle transazione.

C’è un problema simile anche da noi? Certamente sì. Lo documenta un paper di Barbara Annichiarico e Claudio Cesaroni, ambedue dell’Università di Roma Tor Vergata: Tax Reform and the Underground Economy- A Simulation- Based Analysis, CEIS Working Paper N0 366. Il lavoro studia varie “riforme tributarie” italiane che non hanno raggiunto i loro obiettivi perché non hanno tenuto conto dell’economia sommersa – trascurata dai tributaristi “normativi” od “esortativi” ma al centro delle riflessioni di quelli “positivi”.

* Presidente del board scientifico del Centro Studi “ImpresaLavoro”

Renzi, Padoan e l’incognita del Pil

Renzi, Padoan e l’incognita del Pil

di Luca Fornovo

Dopo le pagelle poco incoraggianti dell’Europa sull’economia italiana, stamattina arriva un test importante per il governo del premier Matteo Renzi che lo metterà alla prova sia sulla bontà delle sue previsioni che sulla credibilità di cui potrà godere in un futuro prossimo in Europa.

L’Istat diffonde tra poche ore i dati su Prodotto interno lordo (Pil) e indebitamento nel 2015 e la stima su occupati e disoccupati a gennaio del 2016. Manco a dirlo, gli occhi sono puntati sul debito, che si sa è più alto del previsto, ma soprattutto sulla crescita che stenta a decollare.

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Le attese ottimistiche aiutano nel braccio di ferro con la Ue

Le attese ottimistiche aiutano nel braccio di ferro con la Ue

Luigi dell’Olio – Italia Oggi

All’analisi del Centro studi ImpresaLavoro presto potrebbe aggiungersi un altro tassello di errori per eccesso di ottimismo. Infatti, anche per il 2016 l’Italia si avvia verso una crescita su ritmi più contenuti rispetto a quanto stimato dal governo. Nei giorni scorsi l’Ocse ha detto di attendersi per l’anno in corso un Pil in crescita dell’1% netto rispetto a quanto registrato nel 2015, contro il +1,6% usato dall’Esecutivo nella definizione della legge di Stabilità. Uno scostamento non di poco conto, dato che sta a indicare il 37,5% di crescita stimata in meno. Evidentemente Renzi e i suoi ministri si attendevano una più rapida ripresa da parte della Cina e non avevano messo in conto un nuovo indebolimento delle principali grandezze macro nel Vecchio continente.

Tuttavia, se si considera che gli errori negli ultimi anni sono stati generalizzati, senza particolari differenze quanto al colore politico della compagine di governo, è legittimo avanzare il sospetto che non si sia trattato solo di valutazioni errate per incapacità. A maggior ragione se si considera che gli errori nella medesima direzione hanno coinvolto anche gli esecutivi guidati da economisti. Probabilmente nella redazione dei documenti di bilancio per l’anno a venire entrano in gioco una serie di valutazioni politiche che vanno a inficiare la “purezza” delle stime. Questo vale a maggior ragione dall’ingresso in Europa, con tutti i paletti che ne conseguono per i singoli Stati aderenti.

Nel momento in cui il governo indica la sua previsione in merito al Pil dell’anno successivo, fissa una bandierina intorno alla quale costruire tutti gli interventi. Infatti, dai tagli di spesa a eventuali nuove tasse fino alla dismissione di beni pubblici, tutto viene parametrato al Pil atteso in modo da rispettare i vincoli europei. Eccedere nell’ottimismo significa non dover agire con l’accetta, quanto meno in un primo momento. Se poi nella realtà si verificano le condizioni che confermano le previsioni, ogni preoccupazione viene accantonata. Se la crescita si rivela invece inferiore alle attese, si potrà imputare il dato a cause esterne (come la turbolenza dei mercati finanziari o l’improvvisa frenata degli emergenti) per sforare rispetto alle regole europee. In caso di stime effettuate con un atteggiamento prudenziale, si rischierebbe un effetto poco gradito dai politici: quello di una crescita economica superiore alle attese che farebbe accelerare il calo del deficit e del rapporto debito/pil più di quanto imposto dall’Europa. A quel punto reclamare spazi di manovra per premiare il rispetto delle attese sarebbe difficilmente produttivo.

Considerazioni da tenere ben presenti nelle prossime settimane, dato che è iniziata l’analisi in vista del Def 2017 che già parte con 24 miliardi di euro da trovare per non far scattare le clausole di salvaguardia (a cominciare da un nuovo aumento dell’Iva). E il conto è destinato a salire per finanziare interventi a sostegno della crescita. Così non ci sarebbe da stupirsi in caso di nuove stime ottimistiche.

Cattaneo (Forza Italia): “Il troppo ottimismo offusca le previsioni”

Cattaneo (Forza Italia): “Il troppo ottimismo offusca le previsioni”

di Alessandro Cattaneo*

Cattaneo1È davvero interessante e preoccupante vedere la grande differenza che c’è fra le previsioni di crescita del Pil fatte ogni anno dai vari governi italiani che si sono succeduti ed i reali risultati veramente raggiunti. I dati dello studio di ImpresaLavoro fanno riflettere sul come troppo spesso nel nostro Paese si proceda con il fare annunci troppo ottimistici che non consentono di disporre di previsioni macroeconomiche serie e utili.

*Ufficio Presidenza e Responsabile nazionale Formazione Forza Italia. Già sindaco di Pavia.

Per 11 volte in 14 anni il governo ha previsto una crescita del Pil che non c’è stata

Per 11 volte in 14 anni il governo ha previsto una crescita del Pil che non c’è stata

Tredici errori su quattordici: con 11 previsioni sbagliate per eccesso e soltanto due per difetto. Il Centro studi ImpresaLavoro ha preso in esame le previsioni di crescita del Pil (riferite all’anno successivo) contenute nei principali documenti di programmazione economica del governo, dal 2002 al 2015. E le ha confrontate con i numeri effettivi della variazione del Prodotto interno lordo certificati dall’Ocse.

Dai dati raccolti da ImpresaLavoro emerge con chiarezza come – a parte che in tre casi (2006, 2007 e 2010) – le previsioni del governo siano sempre state troppo ottimistiche. Il caso più eclatante è quello che riguarda il 2009, quando a fronte di una previsione di crescita dello 0,9% effettuata un anno prima, il Pil è in realtà calato di 5 punti percentuali e mezzo. Ma non è stata soltanto la crisi a mettere fuori strada gli estensori dei documenti di programmazione economica: nel 2003, invece di crescere del 2,9% il Pil è salito soltanto dello 0,2%; nel 2012, invece di crescere dell’1,3% è addirittura calato del 2,8%. E scarti sostanziali tra previsioni e realtà – con le previsioni sballate sempre per eccesso – sono arrivati nel 2002 (-1,9%), 2008 (-2,9%), 2011 (-1,4%), 2013 (-2,2%) e 2014 (-1,7%).

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Questa distonia tra le ipotesi del governo e i numeri dell’economia reale non può essere spiegata soltanto con una volatilità intrinseca che rende le previsioni molto complicate. Se questa fosse l’unica spiegazione, infatti, alle frequenti sopravvalutazioni dei dati si sarebbe dovuta accompagnare anche una sottovalutazione meno rara di quanto in realtà è accaduto. Stupisce in particolar modo il fatto che, anche durante i periodi di crisi, nessun documento di programmazione economica abbia mai previsto una crescita negativa (che putroppo, invece, si è verificata in 5 anni su 14).

Fatto 100 il Pil del 2001, se le previsioni del governo si fossero avverate, il Prodotto interno lordo del nostro Paese sarebbe dovuto crescere del 23,75% rispetto a quindici anni fa. In realtà, invece, il Pil italiano è fermo al 97,84% di quello del 2001.

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«Questi scostamenti dalle previsioni sono preoccupanti – dichiara Massimo Blasoni, presidente del Centro studi ImpresaLavoro – perché è proprio su ipotesi di questo tipo, spesso per di più pluriennali, che si basano le simulazioni di sostenibilità del nostro debito pubblico e del nostro sistema pensionistico. Ma se i governi non riescono a fare previsioni accurate per l’anno successivo, come possiamo pensare che ci riescano con orizzonti temporali più ampi?».

 

A volte anche i friulani si incazzano, e uno di loro vuole privatizzare tutto

A volte anche i friulani si incazzano, e uno di loro vuole privatizzare tutto

Tino Oldani – Italia Oggi

La pressione fiscale era intorno al 15% del pil in epoca fascista, è salita al 18% nel dopoguerra, per attestarsi intorno al 20% nel 1972, quando Bruno Visentini varò una storica riforma tributaria, che introdusse la trattenuta alla fonte sui redditi da lavoro. Da allora, la pressione fiscale è cresciuta di continuo, fino ad attestarsi al 43,7% attuale, con le tasse locali che negli ultimi vent’anni sono cresciute del 248% e quelle nazionali del 72%. È da questi dati che prende le mosse un bel libro («Privatizziamo!»; Rubbettino), scritto da un imprenditore di prima generazione del Nord Est, Massimo Blasoni, 45 anni, che, in base all’esperienza personale (è stato anche in politica), giudica ormai inaccettabile la pervasività asfissiante dello Stato in ogni settore, uno Stato cresciuto troppo, che si nutre di troppe tasse, uno Stato inefficiente e in perenne deficit, che va messo a stecchetto al più presto, con una radicale politica di privatizzazioni, lasciando al settore pubblico soltanto l’esercito, la giustizia e la polizia, oltre al compito di fare le leggi.

Blasoni è a capo di un’azienda che costruisce e gestisce residenze sanitarie per anziani, ha 1.600 dipendenti, e fa buoni utili. In passato è stato consigliere comunale a Udine per Forza Italia, ed è stato poi eletto consigliere regionale in Friuli, risultando il più votato. Ma, di quell’esperienza, non conserva un buon ricordo. Anzi, nel libro racconta la delusione che provò quando propose di istituire un Fondo regionale di garanzia, per dare liquidità alle aziende friulane in crisi, e la burocrazia regionale si mise di traverso. Un superburocrate regionale non trovò di meglio che affossare l’iniziativa con un sorrisetto di scherno: «Eh, voi imprenditori. Gli imprenditori evadono, già facciamo molto per le imprese, bisogna sostenere i lavoratori non le imprese, e la burocrazia ha i suoi tempi”. Purtroppo, tempi vergognosamente lenti: “Da un anno e mezzo”, annota Blasoni, “attendo la concessione di una licenza edilizia in Veneto, e con me tutti i lavoratori impegnati nel progetto, mentre le Asl piemontesi impiegano mediamente dieci mesi per i pagamenti».

Uscito dalla politica, Blasoni ha fondato un proprio centro studi (ImpresaLavoro), che negli ultimi due anni ha messo insieme una montagna di dati sui danni dello statalismo. I confronti con gli altri paesi sono impietosi. Se in Italia ci fosse la stessa pressione fiscale che c’è in Germania (39,4%, contro il nostro 43,7%), pagheremmo 54 miliardi di tasse in meno ogni anno. Andrebbe ancora meglio se da noi ci fosse la pressione fiscale della Spagna (34%): 145 miliardi di tasse in meno. Per rilasciare una concessione edilizia, la burocrazia italiana impiega 233 giorni, contro 96 della Germania e 87 della Gran Bretagna. Lo Stato, in media, paga le forniture private con un ritardo di 144 giorni, mentre la media Ue è di meno di un mese, con il risultato che lo Stato non è ancora riuscito a pagare i debiti che aveva con i fornitori privati, cosa che Matteo Renzi ha dato più volte per fatta. «Come ha certificato la Banca d’Italia, mancano ancora 70 miliardi», sostiene Blasoni.

La scarsa efficienza di tutti i servizi pubblici, dalla sanità agli sportelli comunali, si deve al fatto che lo status dei dipendenti pubblici è tuttora diverso da quello dei privati, un punto sul quale né il Jobs act, né la riforma Madia hanno cambiato una virgola. «Lo so per esperienza diretta», dice Blasoni: «Un sindaco non ha neppure il potere di spostare un impiegato da un ufficio a un altro. E un lavoratore privato, quando deve fare la fila a uno sportello pubblico, è il primo a toccare con mano che i tempi di lavoro dell’impiegato pubblico sono molto diversi da quelli che vigono in ogni azienda privata. Ecco perché serve una riforma vera della burocrazia, che renda paritario lo status dei dipendenti pubblici e privati, ma soprattutto privatizzi tutti quei servizi che i privati svolgerebbero con maggiore efficienza rispetto a Comuni e Regioni».

Lo Stato vuole fare tutto, anche l’immobiliarista, ma lo fa male. «Prendiamo l’Inps: possiede 22.500 immobili, del valore di 3,2 miliardi, ma ci rimette più di 100 milioni ogni anno nella gestione. È il segno che funziona male», sostiene l’imprenditore friulano. «Visto che la riforma Fornero ha reso le pensioni contributive, che senso ha fare gestire ancora i contributi previdenziali a un ente pubblico inefficiente come l’Inps? Una società privata li gestirebbe meglio. Lo Stato, poi, che aspetta a dismettere l’immenso patrimonio immobiliare, visto che lo gestisce così male?».

L’organizzazione del settore pubblico che conosciamo non è l’unica possibile. Siamo solo abituati a pensarlo. Ma non sta scritto da nessuna parte che uffici pubblici, scuola, sanità, trasporti, pensioni e acqua debbano essere gestite direttamente dallo Stato. Tanto più se il costo dell’intermediazione politica (fatta di Cda, assunzioni ingiustificate e gestione non economica degli acquisti) genera costi impropri, che vengono fatti pagare a tutti noi, famiglie e imprese, con una tassazione folle. Contro lo Stato cattivo imprenditore e cattivo immobiliarista, che si è trasformato in un’idrovora fiscale pur di mantenere un apparato burocratico pletorico, a stipendio garantito e ostile all’impresa, c’è un solo rimedio, per Blasoni: privatizzare. Difficile dargli torto.

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Distribuiti 8 miliardi pubblici, più di metà alle partecipate

Distribuiti 8 miliardi pubblici, più di metà alle partecipate

Mirko Molteni – Libero

Nella galassia italiana delle aziende partecipate dagli enti locali, gli ultimi anni hanno visto un panorama quasi stabile, per l’ammontare complessivo dei contributi alle imprese. Ma al suo interno sono aumentati i finanziamenti ai soggetti pubblici, a scapito però dei destinatari privati. Emerge da un nuovo rapporto realizzato dal Centro Studi ImpresaLavoro, istituto che raggruppa esperti di ispirazione liberale, e divulgato oggi in esclusiva dal nostro quotidiano.

L’indagine esclude le aziende di tipo sanitario-ospedaliero, ed è basata su dati del Siope, il «Sistema Informativo sulle Operazioni degli Enti Pubblici». Copre gli anni dal 2011 al 2014 compresi, lasciando fuori il 2015 di cui mancano informazioni complete. Anzitutto spicca come il totale dei fondi si sia mantenuto sopra gli 8 miliardi di euro, pur con tendenza altalenante. Se infatti nel 2011 gli enti locali hanno versato alle imprese partecipate un totale di 8.451 milioni di euro, nell’anno successivo la cifra era calata a 8.110, per risalire aun picco di 8.605 nel 2013 e scendere agli 8.218 sganciati fra gennaio e dicembre del 2014.

Fra alti e bassi la situazione complessiva sembra dunque quasi immutata, ma il Centro Studi ImpresaLavoro ha scavato sotto la superficie notando come, dietro le apparenze, nei quattro anni presi in esame molto in verità sia cambiato. I trasferimenti sono stati infatti ridistribuiti pesantemente a favore delle aziende pubbliche, per le quali l’aumento medio in tutto l’intervallo 2011-2014 è stato di ben il 35%. Alle ditte private partecipate, invece, è toccata nel medesimo periodo una diminuzione complessiva del 17%, ammanco che di questi tempi potrebbe essere definito grave. Numeri alla mano, infatti, i trasferimenti alle pubbliche sono decollati di ben un miliardo di euro, dai 2.668 milioni del 2011 ai 3.602 del 2014.

Quasi speculare la discesa sul lato delle private, da 4.705 a 3.890, cioè oltre 800 milioni in meno. In pratica l’ammontare dei fondi rivolti ai due principali settori si avvia a diventare all’incirca equivalente. Per quanto concerne il profilo degli enti locali più coinvolti, sono le Regioni, in media, a rafforzare il proprio ruolo, arrivando a coprire ben il 77 % dei contributi, mentre gli altri enti, fra Comuni, Province, Città Metropolitane e Unioni di Comuni, non vanno oltre il 23% tutti insieme e sono più costretti a tirare la “cinghia”. Nel dettaglio delle sole imprese pubbliche si nota poi che sono rimasti piuttosto stabili i trasferimenti correnti, mentre quelli in conto capitale hanno avuto un’evoluzione molto diversa a seconda degli enti, poiché le Regioni, confermatesi ancora una volta dalle spalle più larghe, li hanno raddoppiati, da 766 a 1.505 milioni, mentre i conto capitale dagli altri enti sono stati più ondivaghi risultando nel 2014 circa la metà che tre anni prima. La situazione ha andamenti un po’ ribaltati nelle partecipate private, dove invece “tengono” Comuni e Province con trasferimenti piuttosto stabili, mentre le Regioni hanno calato i trasferimenti correnti, da 1.498 a 1.282 milioni, e soprattutto quelli in conto capitale, da 2.725 a 2.102 milioni.

L’analisi propone anche l’ammontare pro-capite delle spese per imprese pubbliche regione per regione, notando che ai vertici della classifica stanno tre regioni a Statuto Speciale come Trentino Alto Adige (295 euro per abitante), Val d’Aosta (205 euro) e, ben di- stanziato, Friuli Venezia Giulia (116). Locomotive del Paese, come Lombardia (33 euro per abitante) e Veneto (29) in posizione medio-bassa della classifica, a testimoniare non solo una minor dipendenza delle imprese pubbliche dai fondi degli enti locali, ma anche una diversa efficienza in rapporto al numero di abitanti.

Più occupati tra gli extra Ue

Più occupati tra gli extra Ue

Massimo Blasoni – Metro

I Paesi europei in cui i cittadini stranieri sono occupati più e meglio dei cittadini nazionali si contano sulle punte delle dita di una mano. L’Italia è uno tra questi. Analizzando gli ultimi dati Eurostat disponibili, quelli del 2014, si scopre infatti che il tasso di occupazione dei cittadini italiani nel nostro Paese è del 55,4%, quasi dieci punti percentuali in meno della media Ue (65,2%). In Europa, solo Grecia e Croazia hanno un mercato del lavoro meno efficiente del nostro.

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