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Renzi da Merkel senza paura!

Renzi da Merkel senza paura!

Massimo Blasoni – Metro

L’incontro domani a Berlino tra il nostro premier Renzi e la cancelliera tedesca Merkel non si annuncia facile. In gioco vi è soprattutto la richiesta italiana di ottenere la necessaria flessibilità per far quadrare i nostri conti pubblici. C’è da scommettere che molti osservatori dipingeranno il primo come uno scolaretto irruento e sbadato al cospetto dell’inflessibile maestrina dalla penna rossa che (di fatto) governa l’Europa. Eppure, per certi aspetti, l’Italia non dovrebbe soffrire di alcun complesso di inferiorità. Negli ultimi 15 anni, infatti, abbiamo contribuito al budget dell’Unione europea con più risorse (213 miliardi di euro) di quante che ne sono state poi accreditate dai diversi programmi comunitari (poco più di 141 miliardi). Un contributo netto complessivo di 72 miliardi che ci fa rientrare a pieno titolo nel club dei Paesi che pagano un biglietto di prima classe per l’Ue. Anzi, in rapporto al Pil, siamo quelli che fanno maggiori sacrifici.

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Fondi Ue 2000-2014: al Sud il 67,9% delle risorse. Basilicata, Sardegna e Calabria in testa alla classifica

Fondi Ue 2000-2014: al Sud il 67,9% delle risorse. Basilicata, Sardegna e Calabria in testa alla classifica

Dei 47,6 miliardi di fondi europei destinati alle regioni italiane negli ultimi 15 anni quasi la metà (47,1%) è appannaggio di tre regioni del mezzogiorno: Sicilia, Campania e Puglia. Complessivamente al Sud e alle Isole sono andati in questi anni il 67,9%  del totale degli accrediti effettuati dall’Unione Europea e riservati direttamente alle regioni. Il 21% finisce invece a regioni del Nord e l’11,1% al blocco delle regioni centrali. Dal punto di vista degli accrediti pro-capite è la Basilicata ad essere la maggior beneficiaria di contributi europei con 2899 € a cittadino divisi sui quindici anni presi in esame dallo studio. Segue la Sardegna con 2170 €, la Calabria con 1714 € e la Sicilia con 1598 € a residente. Tutti dati nettamente superiori alla media nazionale di 783 €. Tra le regioni del nord solo la Valle d’Aosta fa registrare un andamento della contribuzione europea superiore alla media nazionale con 1221 € a cittadino, mentre Lombardia (194 € a cittadino in quindici anni), Lazio (295 €) e Veneto (343 €) chiudono la classifica.

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La tendenza è confermata anche dall’analisi dell’ultimo anno disponibile, il 2014, con il Mezzogiorno d’Italia che riceve il 69,3% del totale dei fondi arrivati da Bruxelles alle singole regioni e con Campania, Sicilia e Puglia che da sole si vedono accreditate il 56,1% delle risorse complessive. La maggior beneficiaria è ancora la Basilicata che nel 2014 si assicura risorse per 200 € a cittadino residente, seguita dalla Campania (187 €), dalla Sicilia (147€) e dalla Sardegna (129 € ad abitante).  Sempre ultima la Lombardia, con 13, 4 € ad abitante ricevuti nel 2014 e preceduta da Trentino Alto Adige (23,8 €) e Lazio (25,9 €). Tra le regioni del nord si conferma la Valle d’Aosta che con i suoi 85,5 € pro capite di contributi europei  rimane stabilmente sopra la media nazionale di 65,4 €.

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Truffe e tasse, perché da noi è così difficile vendere online

Truffe e tasse, perché da noi è così difficile vendere online

di Gianluca Baldini – Il Venerdì di Repubblica del 22 gennaio 2016

Se volete aprire un sito di e-commerce forse l’Italia non sembra essere il Paese che fa per voi. Negli ultimi 12 mesi, secondo una ricerca del Centro studi ImpresaLavoro, realizzata su elaborazione di dati Eurostat, solo il 26 per cento dei cittadini italiani di età compresa trai 16 e i 74 anni ha effettuato online l’acquisto di almeno un bene o servizio. Il nostro Paese si colloca cosi al quart’ultimo posto di questa particolare classifica europea, appena sopra Cipro (23 per cento), Bulgaria (18) e Romania (11). Ai vertici della graduatoria 2015 si collocano invece i consumatori di Regno Unito (81 per cento), Danimarca l79), Lussemburgo (78) e Germania (73). 

«In Italia usiamo poco il computer e Internet in genere», spiega al Venerdì Massimo Blasoni, presidente del Centro studi ImpresaLavoro. «Incidono fattori tecnici come la scarsa velocità della rete ma anche e soprattutto aspetti psicologici: gli italiani non si fidano ad acquistare online, sono abituati a usare il contante piuttosto che le carte di credito e temono le truffe digitali». Analizzando le scelte dei consumatori negli ultimi tre mesi, si osserva poi come resti bassissima la frequenza degli acquisti (quasi sempre uno o due acquisti a testa, solo il 5 per cento ne ha effettuato da 3 a 5) e comunque per importi che non superano quasi mai la soglia dei 500 euro. Nell’ultimo anno i beni più acquistati dagli italiani sono stati viaggi e vacanze (11 per cento) e vestiti (10). Curiosamente, solo il 2 per cento ha deciso di affidarsi alla rete per l’acquisto di tecnologia o servizi di telecomunicazione.

Ma qualcosa sta cambiando. «Da una parte è vero che negli ultimi anni in Italia si sta seguendo un trend di crescita positivo. Una crescita simile a quella degli altri Stati europei che però sono più avanti in termini assoluti», spiega Dario Tana, consulente di e-commerce che aiuta le aziende a fare business in rete. «Dall’altra alcune aziende italiane hanno un sito che però utilizzando come una semplice vetrina senza nessuna strategia per farlo diventare un business. Inoltre aprire un’azienda in Italia che voglia vendere online non e facile: colpa della troppa burocrazia e della tassazione elevata».

Palmieri (Forza Italia): “Ecco come recuperare il ritardo nell’e-commerce”

Palmieri (Forza Italia): “Ecco come recuperare il ritardo nell’e-commerce”

di Antonio Palmieri*

Il divario che separa l’Italia dal resto d’Europa nell’utilizzo dell’e-commerce deve essere spiegato soprattutto in termini culturali. Troppi italiani, in generale, ancora non conoscono le potenzialità del web. E dunque troppi imprenditori non riescono a comprendere la possibilità di sfruttare la rete come mezzo di comunicazione per accrescere il business della propria impresa o come mezzo per dare vita ad iniziative di commercio elettronico.

C’è poi un dato strutturale, rappresentato dal ritardo nella penetrazione della banda larga in Italia, che non deve essere sottovalutato. A questo fattore si accompagna la forte presenza di piccole e media imprese nell’economia italiana, che non di presta troppo all’ultilizzo dell’e-commerce: non parlo tanto di dimensioni, quanto di tipologia di business. In molti casi, queste imprese non possono permettersi di affrontare il costo principale dello sviluppo di un’attività di commercio elettronico, che è quello cognitivo, soprattutto in termini di tempo e attenzione.

Sarebbe interessante capire quali sono i settori merceologici in cui, in Italia, l’e-commerce è più sviluppato, magari confrontando questi dati con la situazione negli altri paesi europei. Un’analisi di questo tipo potrebbe suggerirci quali siano i settori sui quali potrebbe valere la pena cercare di incidere con investimenti di tipo culturale. In questo senso, da qualche anno alcune associazioni di categoria si stanno muovendo nella giusta direzione. Ma è arrivato il momento di passare dalla formazione all’azione.

Per quanto riguarda le istituzioni, è invece difficile pensare a interventi diretti per incidere sullo status quo. Qualche anno fa avevo proposto una misura che garantisse un minimo incentivo fiscale per le imprese che avessero aperto una propria piattaforma di e-commerce. Poi questa misura si è persa nel labirinto delle leggi di stabilità. Ma credo ancora che la strada degli incentivi fiscali sia quella giusta. Insieme, aggiungo, a campagne informative che raccontino le enormi potenzialità del commercio elettronico, progettate insieme alle associazioni di categorie e ai grandi player del mercato, che già offrono alcune soluzioni interessanti per le piccole e medie imprese.

Ma, ripeto, prima di tutto ci sono resistenze culturali da vincere. E questo è un lavoro molto complesso, che si può soltanto immaginare nel lungo periodo.

*responsabile Internet e nuove tecnologie di Forza Italia

Fedriga (Lega Nord): “Cifre impietose, Europa da rifondare”

Fedriga (Lega Nord): “Cifre impietose, Europa da rifondare”

di Massimiliano Fedriga*

L’analisi numerica su costi e benefici della presenza italiana nella comune casa europea negli ultimi 15 anni è impietosa: cifre che evidenziano un vero e proprio salasso per i cittadini, a fronte di ritorni modesti e comunque settoriali. Ma il fallimento dell’Unione Europea non va letto esclusivamente in questi pur preoccupanti e significativi dati, bensì anche nella totale incapacità di una struttura elefantiaca e sempre più lontana dalla gente di mettere in piedi strutture e servizi – penso ad esempio alla Politica Estera di Sicurezza Comune, alla gestione dei flussi migratori e alle politiche del lavoro – per far fronte alle necessità dei popoli anziché di quelle di qualche élite. E lo studio di ImpresaLavoro rappresenta in tal senso un chiaro campanello d’allarme sulla pressante urgenza di rifondare l’Europa ripartendo dalle persone, ponendole al centro di un progetto serio, condiviso e responsabile.

* capogruppo della Lega Nord alla Camera dei Deputati

Unione Europea: in quindici anni Italia contribuente netto per 72 miliardi

Unione Europea: in quindici anni Italia contribuente netto per 72 miliardi

In un momento in cui il livello della tensione tra istituzioni italiane e quelle europee sembra essere tornato ai massimi storici di qualche anno fa, i risultati di una ricerca del centro studi “ImpresaLavoro” (su dati della Ragioneria generale dello Stato) ci ricordano come – dal 2000 ad oggi – il nostro Paese resti comunque un contributore netto dell’Unione Europea. Ciò significa che versiamo per il budget della Ue più risorse di quante poi ci vengono accreditate dai diversi programmi finanziati dall’Europa.

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Il saldo negativo con l’Europa non è, per l’Italia, una novità. L’analisi dei dati, però, dimostra una tendenza preoccupante. Se infatti il 2000 si era chiuso con una differenza di poco superiore al miliardo di euro, tra gli oltre 11 versati nelle casse di Bruxelles e i quasi 10 tornati nei confini della nostra economia, questa forbice si è andata progressivamente espandendo, fino a raggiungere i 4,2 miliardi del 2005 e i 7,3 miliardi del 2013 (17,1 in uscita e 9,8 in entrata). In totale, tra il 2000 e il 2014, l’Italia ha contribuito al budget europeo per una somma superiore ai 213 miliardi di euro, ottenendo erogazioni per poco più di 141.

Di questi 213 miliardi, secondo i conti della Ragioneria generale dello Stato, poco più di 22 (in media, circa 1,4 all’anno) sono quelli catalogati come “risorse proprie tradizionali”, cioè i dazi versati per l’esistenza di uno spazio doganale unificato; mentre quasi 45 (poco meno di 3 all’anno) sono quelli legati all’imposta sul valore aggiunto. Tutto il resto – circa 146 miliardi, poco meno di 10 all’anno – sono contabilizzati sotto la voce calcolata in base al reddito nazionale lordo.

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Tra le risorse finanziarie che l’Italia riesce a recuperare, la fetta più sostanziosa riguarda i 74 miliardi del FEAGA (Fondo Europeo Agricolo di Garanzia) che rappresentano più della metà dei 141 miliardi arrivati in Italia da Bruxelles negli ultimi quindici anni. Significativi anche i 35,7 miliardi del Fondo europeo di sviluppo regionale e i 15,3 miliardi del Fondo sociale europeo destinato agli interventi di sviluppo socio-economico. Il 61% delle risorse complessivamente trasferite in questi anni è insomma riferito ai settori dell’agricoltura e della pesca. Mentre il 25% è appannaggio del Fondo europeo di sviluppo regionale.

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Italia e Unione Europea: oltre i numeri, il coraggio di cambiare

Italia e Unione Europea: oltre i numeri, il coraggio di cambiare

di Simone Bressan*

È certamente vero che i flussi finanziari non sono tutto e che la mera aritmetica tra quanto versiamo a Bruxelles e quanto riceviamo dall’Europa non può consegnare la cifra della nostra partecipazione al programma di integrazione europeo. Però quei numeri dicono comunque molto sul ruolo che abbiamo e su quello che dovremmo avere. Sediamo nei consessi europei con la timidezza dello scolaro che non ha fatto i compiti per casa quando invece dell’Unione siamo un pilastro irrinunciabile, oltre che un paese fondatore.

L’andamento della nostra economia nei 14 anni dell’euro è stato sempre peggiore della media dei nostri partner continentali, eppure il nostro paese non si è sottratto ai suoi compiti. Ha versato nelle casse dell’Unione più di quanto ha ricevuto in cambio, ha partecipato con 58 miliardi a strumenti di stabilità finanziaria di cui non ha usufruito, ha pagato con l’instabilità politica interna e un’endemica debolezza economica la sua partecipazione a mercato e moneta unica.

Ci sono stati certamente dei benefici e delle opportunità non colte: le frontiere che cadono, per un paese così votato all’export come il nostro, sono un indubbio vantaggio, così come Euro, BCE e fondi salva-stati hanno consentito all’Italia di ottenere sensibili risparmi sul fronte del costo del nostro ingente debito pubblico. Spazi di manovra che sono stati sfruttati male o dilapidati in un continuo rinvio delle riforme necessarie al paese e in una spesa pubblica che, al netto di annunci e proclami, si fatica a ridimensionare.

La posizione di contributori netti dovrebbe garantirci autorevolezza nell’ottenere flessibilità in cambio di buone riforme, ma non può in nessun caso diventare un alibi per frenare la modernizzazione del paese. Abbiamo il total tax rate sulle imprese più elevato del continente e una pressione fiscale reale vicina al 50%: se dobbiamo battere i pugni in Europa facciamolo per avvicinare la nostra economia a quella dei paesi più dinamici e non per difendere uno status quo che non conviene né all’Europa né tantomeno a noi.

*direttore del Centro Studi ImpresaLavoro

Massimo Blasoni a “Virus” – Rai Due

Massimo Blasoni a “Virus” – Rai Due

Il presidente del Centro Studi ImpresaLavoro, Massimo Blasoni, è intervenuto ieri a “Virus”, su RaiDue, ospite di Nicola Porro. In collegamento, insieme a lui: Maurizio Belpietro, direttore di Libero, e Filippo Taddei, responsabile economico del Partito democratico.

Massimo Blasoni a Virus (Rai2)

Il presidente di ImpresaLavoro, Massimo Blasoni, ospite di Nicola Porro ieri sera a "Virus" (Rai2)

Posted by ImpresaLavoro on Friday, January 22, 2016

Con l’Ue è più dare che avere: 72 miliardi per contare zero

Con l’Ue è più dare che avere: 72 miliardi per contare zero

Il Giornale del 22 gennaio 2016

Chiedete a un tedesco mediamente informato (compresi alcuni giornalisti che lavorano nello Stivale) quale è il rapporto tra l’Italia e l’Europa. La risposta in molti casi sarà: prende soldi. Pregiudizio duro a morire. Quando Der Spiegel – autorevole settimanale di target medio alto – provò a dimostrare il contrario, forte dei dati della direzione bilancio della commissione Ue, sul web comparvero commenti poco lusinghieri per l’Italia. Il Centro studi ImpresaLavoro ieri ha messo in fila quattordici anni di rapporti finanziari tra l’ltalia e Bruxelles. Dove nel dare ci stanno i finanziamenti diretti dello Stato all’Ue e la quota di imposte girate alla contabilità europea; nell’avere i contributi arrivati nella penisola attraverso i vari programmi europei. Il risultato è una serie ininterrotta di segni meno, cioè un saldo negativo per l’Italia e positivo per le istituzioni europee. Come se non bastasse lo sbilancio a favore dell’Europa è cresciuto ininterrottamente con il tempo, anche negli anni più difficili per le casse pubbliche italiane.

Dal 2000 al 2014 la somma di tutte le posizioni nette è di 72 miliardi. Ne abbiamo versati 213 e incassati 141. Contributori netti, senza nessun dubbio. Siamo a pieno titolo nel club dei Paesi che pagano un biglietto di prima classe per l’Ue. Anzi, in rapporto al Pil, siamo quelli che fanno maggiori sacrifici. Colpisce la progressione del saldo tra entrate e uscite. Una «tendenza preoccupante», per il Centro studi fondato da Massimo Blasoni. «Se infatti il 2000 si era chiuso con una differenza di poco superiore al miliardo di euro», questa forbice «si è andata progressivamente espandendo, fino a raggiungere i 4,2 miliardi del 2005 e i 7,3 miliardi del 2013 (17,1 in uscita e 9,8 in entrata)». Di 213 miliardi italiani finiti nel budget europeo, quasi 45 vengono dalla quota di Iva che va alle istituzioni Ue. Le risorse proprie dell’Unione, quelle provenienti da dazi, sono appena 22 miliardi, circa 1,4 all’anno. Tutto il resto è contabilizzato sotto la voce «reddito nazionale lordo». Cioè è la somma variabile che viene assegnata a ciascuno Stato membro. Sul fronte delle entrate, ben 74 miliardi sono riferibili al Fondo europeo agricolo di garanzia. Segue il Fondo europeo di sviluppo regionale con 35,7 miliardi, poi il Fondo sociale europeo con 15,4 miliardi.

La progressione dei versamenti è costantemente in crescita. Con la sola eccezione del 2006, 2007 e 2010 quando calarono. Le entrate hanno invece un andamento molto irregolare. La conferma che il problema è anche nazionale, cioè la scarsa capacità di spendere risorse europee. L’Italia è un contributore sempre più importante per l’Europa. Ma «a questo dato di fatto – commenta Blasoni – non corrisponde un ruolo altrettanto importante nelle dinamiche politiche europee. Ogni Paese, infatti, tende ancora a difendere i propri interessi nazionali senza alcuna solidarietà: dalle banche agli immigrati, senza dimenticarci i vincoli di bilancio, sono ancora molti i fronti aperti con Bruxelles. Questo però non può diventare un alibi: il nostro è un Paese ancora lontano dalla ripresa economica, con una pressione fiscale non più sostenibile e il fardello del debito pubblico che continua a crescere». La questione delle risorse resta centrale per l’Europa. La recente crisi italo-europea è stata causata principalmente dai contributi per la Turchia, che l’Italia vuole contabilizzare nel bilancio Ue.

Leggi l’articolo sul sito de “Il Giornale”

Edilizia, serve velocizzare

Edilizia, serve velocizzare

Massimo Blasoni – Metro

In Italia per un permesso a costruire si attendono mediamente 233 giorni, in Germania 96, in Danimarca 64, negli Stati Uniti 78, nel Regno Unito 105. Negli ultimi 5 anni la richiesta di costruzione si è dimezzata per la crisi (dal 2008 a oggi il comparto ha registrato un calo del 23,78% degli occupati, pari a 464mila posti di lavoro) ma i tempi per l’ottenimento di una licenza edilizia non sono cambiati. È un evidente controsenso: il numero degli addetti pubblici non è diminuito e la mole di lavoro si è dimezzata. Con evidenti ricadute negative per i cittadini, per le imprese, per il nostro Pil che non riparte.

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