About

Posts by :

Lavoro: con la crisi persi 656mila posti di lavoro. Nell’ultimo anno lieve ripresa, sopratutto al Sud

Lavoro: con la crisi persi 656mila posti di lavoro. Nell’ultimo anno lieve ripresa, sopratutto al Sud

Nel periodo 2008-2015 il numero dei lavoratori occupati in Italia è complessivamente calato di 656.911 unità: ben 486mila posti di lavoro sono stati persi al Sud e nelle Isole, 249mila nelle regioni del Nord, mentre il Centro (grazie ai 116mila posti di lavoro in più registrati in Lazio) fa segnare un dato in controtendenza, +78mila. Poche regioni italiane hanno oggi livelli occupazionali vicini a quelli fatti segnare prima della crisi. Ad essere sopra i livelli del 2008 ci sono due regioni: oltre al Lazio, infatti, solo il Trentino Alto Adige ha visto in questi anni aumentare il numero dei propri occupati (+20mila).

Occupati1

In termini percentuali ad aver risentito maggiormente della crisi è stata la Calabria, dove sono andati in fumo il 12,92% dei posti di lavoro. A seguire il Molise (-9,52%) e la Sicilia (-9,27%). Al Nord la regione che ha sofferto di più in questi anni è il Friuli Venezia Giulia (-4,32%), seguita dal Veneto (-4,06%) e dalla Liguria (-3,86%). La Lombardia (-0,66%) è sostanzialmente ai livelli di occupazione fatti riscontrare prima della crisi, mentre il Trentino Alto Adige riesce addirittura a far crescere del 4,37% i propri occupati. Un dato in controtendenza rispetto al trend nazionale e più in particolare rispetto alla condizione del resto del nordest del Paese.

Tabelle_lavoro

L’ultimo anno ha confermato il trend di recupero dell’occupazione iniziato nel 2014. I dati al terzo trimestre 2015 fanno segnare complessivamente un aumento di 154mila occupati su base annua, con una composizione per regione della nuova occupazione che questa volta sembra premiare il Sud del Paese. In valori assoluti la regione in cui si sono creati più nuovi posti di lavoro è la Puglia (+38mila700), seguita dalla Toscana (+23mila200), dalla Sicilia (+19mila600) e dalla Sardegna (+18mila200). Rimane drammatica la situazione della Calabria che nei primi nove mesi del 2015 perde ulteriori 13mila400 posti di lavoro, rimanendo la regione italiana più colpita dalla crisi dell’occupazione in questi anni e l’unica tra quelle del sud a non registrare alcuni segnale di ripresa. Al nord crescono sensibilmente Liguria (+12mila) e Lombardia (+8mila500 occupati), mentre arretra il Veneto che perde 10mila800 posti di lavoro nel solo 2015.

occupati3

In termini di variazione percentuale degli occupati, la miglior performance regionale è quella della Basilicata (+3,5% in un anno), seguita da Puglia (+3,39%), Sardegna (+3,33%) e Umbria (+2,34%). Al nord la regione in cui l’occupazione è andata meglio nell’ultimo anno è la Liguria (+2,01%) mentre il Veneto fa segnare un piccolo arretramento degli occupati sull’anno (-0,52%). I nuovi posti di lavoro sono stati quindi creati principalmente al Sud e nelle Isole (89mila posti pari al 57,9% del totale dei nuovi occupati) mentre al Nord si sono registrati 34mila nuovi occupati (22,2%) e al Centro 31mila circa (19,9%).

occupati4

Negli ultimi 35 anni Italia prima tra i paesi OCSE per aumento della pressione fiscale

Negli ultimi 35 anni Italia prima tra i paesi OCSE per aumento della pressione fiscale

L’Italia detiene un record molto particolare in campo economico: tra i paesi monitorati dall’OCSE, infatti, è quello in cui la pressione fiscale è cresciuta di più dal 1979 ad oggi. Prima degli anni ’80 il peso delle tasse nel nostro paese superava di poco il 25% del Prodotto Interno Lordo mentre nel 2014, secondo i calcoli dell’OCSE, si è stabilito al 43,6%. Un balzo in avanti di più di 18 punti di Pil che non ha eguali tra i paesi sviluppati. Solo Turchia, Grecia, e Portogallo fanno segnare performance simili, ma comunque inferiori, alle nostre mentre esistono paesi come gli Stati Uniti o il Regno Unito che vedono sostanzialmente stabile l’incidenza del prelievo fiscale sulla ricchezza prodotta. Per tacere di chi, come la Germania, paga oggi un po’ meno tasse (-0,2%) che nel 1979. A crescere negli ultimi 35 anni sono state tutte le principali tipologie di imposte: il prelievo sui redditi è aumentato dell’82,6%, quello sui consumi del 64,5% e le tasse sulla proprietà sono cresciute del 164,1% assorbendo oggi 1,6 punti percentuali di Pil. “L’elaborazione – spiega Massimo Blasoni, imprenditore e presidente del Centro Studi ImpresaLavoro – dimostra che al di là degli scostamenti dello zero virgola, la questione fiscale nel nostro paese rimane una vera e propria emergenza che si può affrontare solo tagliando decisamente la spesa. La spending review è, invece, rimasta solo un annuncio: se non vogliamo accontentarci di tagli fiscali solo sulle slide, avremo bisogno di una revisione e di una riduzione coraggiosa del perimetro dello Stato”.

Il Bel paese delle tasse. Dal ’79 nessuno al mondo le ha alzate come l’Italia

Il Bel paese delle tasse. Dal ’79 nessuno al mondo le ha alzate come l’Italia

di Antonio Signorini – Il Giornale

Sono passati 35 anni, 15 governi e due repubbliche, ma poco è cambiato. Il vizio della politica italiana di risolvere tutto aumentando le tasse non è passato di moda e il risultato è che siamo il paese Ocse (organizzazione che riunisce le economie più sviluppate del pianeta) dove la pressione fiscale è aumentata in misura maggiore. È decollata negli anni Settanta, quando un po’ ovunque si pensava che il fisco servisse a redistribuire ricchezza, ma è cresciuta anche negli Ottanta, quando nel resto del mondo tutti si erano accorti che aumentando le tasse non si fa altro che danneggiare imprese e famiglie. Nulla è cambiato nemmeno negli anni Novanta né con il terzo millennio.

La fondazione ImpresaLavoro, approfittando delle serie storiche della pressione fiscale rese disponibili dalla stessa Ocse, è arrivata alla conclusione che l’Italia detiene saldamente il primato degli aumenti delle tasse. Nel 1979 il peso delle tasse nel nostro paese superava di poco il 25% del Prodotto Interno Lordo, nel 2014 si è stabilito al 43,6%. Un balzo in avanti di più di 18 punti di Pil che non ha eguali tra le economie avanzate. Seguono a distanza Paesi come la Turchia con aumenti del 16,9% e la Grecia con il 14,6%. La Francia, statalista e burocratica, nello stesso periodo ha infierito sui contribuenti solo per il 7,1%. La media Ocse è del 4,4%, quattro volte inferiore alla poco invidiabile performance italiana. Dai dati Ocse emerge che ci sono economie che hanno lasciato la pressione fiscale più o meno invariata. Sono le democrazie di tradizione più solida e antica: il Regno unito (più 1,88%) e gli Stati Uniti (più 0,83%). Ma ci sono anche stati che possono vantare una riduzione della pressione fiscale. E non sono dei «mostri» del liberismo selvaggio. La Germania, culla del welfare, ha registrato un calo dello 0,2 per cento. Svezia e Norvegia, hanno registrato un calo dell’1,2%. Nel 1979 la pressione fiscale italiana era simile a quella degli Stati Uniti, poco sopra il 25%, la Germania era al 36%. Oggi il superstato riunificato è sempre sulla stessa percentuale, noi otto punti sopra. Avevamo un vantaggio competitivo e ce lo siamo mangiato.

«Al di là degli scostamenti dello zero virgola – spiega Massimo Blasoni, imprenditore e presidente del Centro Studi ImpresaLavoro – il dato dimostra che la questione fiscale nel nostro paese rimane una vera e propria emergenza che si può affrontare solo tagliando decisamente la spesa. La spending review è, invece, rimasta solo un annuncio: se non vogliamo accontentarci di tagli fiscali solo sulle slide, avremo bisogno di una revisione e di una riduzione coraggiosa del perimetro dello Stato». Una volontà che, stando ai fatti, non c’è. Le imposte sulla proprietà dal 1979 al 2015 sono aumentate del 164%. Quelle sui redditi e sui profitti dell’82,6%. Il partito della patrimoniale non ha mai vinto le elezioni. Ma il suo obiettivo l’ha raggiunto lo stesso: ha trascinato giù tutto il Paese.

Acquisti on-line: nel 2015 italiani al quart’ultimo posto in Europa

Acquisti on-line: nel 2015 italiani al quart’ultimo posto in Europa

Negli ultimi 12 mesi solo il 26% dei cittadini italiani di età compresa tra i 16 e i 74 anni ha effettuato online l’acquisto di almeno un bene o servizio. Il nostro Paese si colloca così al quart’ultimo posto di questa particolare classifica europea, appena sopra Cipro (23%), Bulgaria (18%) e Romania (11%). Ai vertici della graduatoria 2015 si collocano invece i consumatori di Regno Unito (81%), Danimarca (79%), Lussemburgo (78%) e Germania (73%). Lo rivela una ricerca del Centro studi ImpresaLavoro, realizzata su elaborazione di dati Eurostat.

paesiue
In Italia i consumatori più attivi online risultano essere quelli di età compresa tra i 25 e i 34 anni (40%) e i giovanissimi tra i 16 e i 24 anni (36%). Col progredire dell’età aumentano invece in proporzione la diffidenza e il digital divide, tanto che a comprare online sono soltanto il 17% dei cittadini di età tra i 55 e i 64 anni e il 7% dei cittadini di età tra i 65 e i 74 anni.

persone
Analizzando le scelte di questi consumatori negli ultimi 3 mesi, si osserva poi come resti bassissima la frequenza degli acquisti (quasi sempre uno o due acquisti a testa, solo il 5% ne ha effettuato da 3 a 5) e comunque per importi che non superano quasi mai la soglia dei 500 euro. Nell’ultimo anno i beni più acquistati dagli italiani sono stati viaggi e vacanze (11%), vestiti (10%), articoli casalinghi (7%), libri e abbonamenti a riviste (7%), biglietti per eventi (5%). Curiosamente, solo il 2% ha deciso di affidarsi alla Rete per l’acquisto di hardware per computer o servizi di telecomunicazione (banda larga, abbonamenti a canali televisivi, ricarica di carte telefoniche prepagate…).

tipologia

Massimo Blasoni a “L’Aria che Tira” – La7

Massimo Blasoni a “L’Aria che Tira” – La7

Il presidente del Centro Studi ImpresaLavoro, Massimo Blasoni, è stato ospite di Myrta Merlino a “L’Aria che Tira”. Con lui in studio il capogruppo della Lega Nord alla Camera dei Deputati, Massimiliano Fedriga, e il parlamentare europeo del Partito democratico, Pina Picierno.

Le responsabilità del PD nella nomina dei vertici di banche che non si sono comportate correttamente è sotto gli occhi di tutti. Dalla vicenda Monte dei Paschi guidata da un presidente legato a filo doppio con il PD alla famosa frase di Piero Fassino “Abbiamo una banca” parlando della scalata alla Bnl. Oggi la vicenda del padre della Boschi nominato vicepresidente della Banca Etruria in corrispondenza con la nomina della figlia a Ministro. Ci hanno rimesso migliaia di piccoli risparmiatori che qualche volta hanno perso tutto. Eppure esiste un problema ancor più grande. Le banche continuano a non imprestare a famiglie e imprese (meno 0,5% su base annua) e il Governo, ostaggio dell’Europa, non fa nulla.Oggi a L’Aria che tira su La7.

Posted by Massimo Blasoni on Monday, December 14, 2015

La concentrazione dell’export italiano

La concentrazione dell’export italiano

di Paolo Ermano

Sommario
Il ruolo delle esportazioni nell’economia italiana è aumentato negli ultimi anni. Prendendo in considerazioni i dati tra il 2005 e il 2014, osserviamo come le nostre imprese stringono relazioni commerciali con sempre più partner in ogni parte del pianeta per crescere e espandersi. Questo processo porta con sé delle conseguenze: stiamo assistendo ad una concentrazione verso l’alto delle imprese che esportano, in cui le più internazionalizzate acquisiscono un ruolo sempre più rilevante, lasciando indietro le piccole e i territorio storicamente più arretrati del Paese.

Esportazioni nel nuovo millennio
L’Italia ha storicamente una vocazione al commercio internazionale. Negli ultimi anni di crisi, questa vocazione ha permesso di riportare la bilancio commerciale in attivo, anche grazie al calo delle importazioni, un calo dovuto principalmente, ma non esclusivamente, alla riduzione dei consumi interni. Stando ai dati forniti dell’Istat il grado di apertura del nostro Paese, misurato come rapporto tra somma di esportazioni e importazioni di beni e servizi e prodotto interno lordo, è aumentato, passando da un valore prossimo al 50% nel 2005 a un valore di 55,2% nel 2014; il dato è ancora più interessante se si pensa che questo aumento avveniva mentre le importazioni calavano dopo il 2008.

Non tutte le imprese, però, hanno una vocazione esportatrice e non tutte le imprese esportatrici beneficiano di questo miglioramento della bilancia commerciale. Il numero di operatori è cresciuto del 5% fra il 2005 e il 2014, con un’impennata nell’ultimo quinquennio (2009-2014) con un +9,15%; mentre il valore delle esportazione cresceva contestualmente del 30,82% (+35,7% 2009-2014). L’effetto combinato di queste due espansioni è l’aumento di quasi ¼ il valore medio dell’export per singolo operatore, passato da €1,47 milioni del 2005 a €1,83 nel 2014. Però, entrando nel dettaglio questa espansione è frutto soprattutto dell’aumento della taglia delle imprese esportatrici più grandi. Come si vede nella tabella 1, solo la classe che contiene le aziende che realizzano più di €50 milioni di export ha visto aumentare la quota sulle esportazioni del 17% a danno di tutte le classi più piccole.

export1

Approfondendo la lettura sul numero degli operatori, di nuovo si osserva come siano soprattutto le aziende con volumi consistenti di esportazioni (oltre i 15 milioni) ad essere diventate percentualmente più numerose. I grandi, insomma, oltre a sopravvivere al nuovo millennio hanno trovato in esso nuove opportunità di espansione. Si tenga conto che nel 2014, più del 50% delle nostre esportazioni dipende da aziende con volumi d’affari sui mercati internazionali di oltre €50 milioni: stiamo parlando di imprese che normalmente hanno più di 250 addetti.

Più concentrati e con più mercati
Diverse sono le ragioni alla base di questo processo di concentrazione, ma quasi tutte possono essere riassunte nella locuzione size matter, la dimensione conta. Avere volumi di esportazioni elevati significa aver a che fare con aziende grandi, capaci di investire in innovazione di prodotto, di processo, in marketing, nella logistica. Significa considerare aziende capaci di sostenere i costi legati all’esportazione, soprattutto per quanto riguarda l’adeguamento agli standard tecnici, ambientali, di salute, cresciuti di molto negli anni post-2008 come una forma di protezionismo accettabile per il WTO.

La maggior dimensione permette di approcciare diversi mercati: sempre più imprese commerciano con almeno 11 paesi diversi, fino al punto che le aziende che esportano su più di 40 mercati son cresciute del 14% nel periodo considerato. In particolare, fra il 2009 e il 2015 queste aziende con più di 40 mercati hanno visto aumentare il valore delle proprie esportazioni di quasi il 50%. Non solo nuovi mercati e nuovi partner commerciali, ma osserviamo un processo di globalizzazione dell’attività delle nostre imprese sempre più spinto, un processo necessario per ridurre il rischio-paese o il rischio-area (si pensi che ancora più del 50% delle esportazioni sono verso Paesi UE) e per presidiare i mercati dalla concorrenza altrui.

Un’analisi territoriale
Le realtà territoriali in Italia, purtroppo, non si muovono quasi mai all’unisono: abbiamo territori economicamente più fertili di altri che si adattano più in fretta. Nella tabella 2 è riportata la suddivisione regionale delle esportazioni: il ruolo delle grandi regioni del Nord emerge con forza. Veneto, Lombardia, Piemonte e Emilia Romagna, da sole, contano per il 65% del valore delle esportazioni nazionali.

export2

Il Sud Italia, ancora una volta, non partecipa allo sviluppo economico derivato da una bilancia commerciale positiva visto che il peso sull’export nazionale è poco superiore al 10%. Tutte le regioni del Meridione perdono posizioni relative nel periodo considerato: in particolare, il Molise riduce il suo ruolo del 50%, la Calabria e la Basilicata del 25% circa. Andando nel dettaglio, il valore medio delle esportazioni per operatore è sceso in Sardegna (-15%), in Calabria (-16%), in Basilicata (-20%) e in Molise (-23%). Le grandi regioni del Sud, che da sole contano per il 67% dell’export di quell’area, registrano valori positivi: la Puglia fa meglio della media nazionale con un +29%, la Campania registra un +14%, la Sicilia +2%: anche in queste grandi Regioni che comunque hanno meno beneficiato dell’aumento del peso delle esportazioni sull’economia nazionale osserviamo un processo di ridimensionamento verso l’alto degli operatori.

Conclusione
Concentrazione verso l’alto delle imprese e differenziazione dei mercati. Alla fine, come riassunto nella tabella 3, il peso del Sud sull’export nazionale ne esce ridimensionato fra il 2005-2014. L’ennesima riprova che anche un fenomeno così importante per la nostra economia, come il miglioramento della bilancia commerciale, migliora la condizione economica del Centro-Nord, distanziando ancora di più questa Italia divisa in due. Sarà compito dello Stato redistribuire le risorse per non lasciare indietro nessuno. Tuttavia, il compito dell’attore pubblico è gravoso: se non si trova una strategia di sviluppo seria per il Sud, i costi della redistribuzione non potranno che aumentare, vincolando sia l’operato dello Stato, costretto a tamponare un’emergenza economica oramai cronica, sia quello delle imprese competitive, gravate dalla necessità di fornire allo Stato le risorse per sostenere il Sud.

Errori politici pagati dai cittadini

Errori politici pagati dai cittadini

di Massimo Blasoni – Panorama

Il Quantitative Easing della BCE ha immesso nel sistema creditizio enormi quantità di denaro. Questa liquidità, però, non si è trasmessa a famiglie e imprese: l’andamento del credito continua a non dare segnali di ripresa (meno 0,5% prestiti al settore privato su base annua secondo Bankitalia). Il problema risiede in un sistema bancario che eroga con difficoltà il credito a causa di istituti strutturalmente sottocapitalizzati e di un livello di crediti deteriorati che stenta a diminuire. Lo Stato e la politica devono stare lontano dall’economia e quindi anche dalle banche, soprattutto dalla loro gestione. Troppe volte in questi anni le scelte sbagliate di partiti e governo in tema bancario sono state pagate dai cittadini che avevano investito in istituti in crisi da tempo. E si è trattato spesso di piccoli investitori, magari inconsapevoli, che hanno perso i risparmi di una vita.

Massimo Blasoni
Imprenditore e presidente del Centro studi ImpresaLavoro