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Italia, terra di tassator scortesi

Italia, terra di tassator scortesi

Matteo Rigamonti – Formiche

Tra le cause della crisi economica dell’Occidente industrializzato ci sono anche le tasse. È ciò che mette in luce l’Indice della libertà fiscale in Europa, stilato dal centro studi “Impresa lavoro” e di cui Formiche.net è in grado di anticipare i contenuti. L’ipertassazione, peraltro, che secondo il centro studi pregiudica la capacità produttiva di un paese, raggiunge i suoi livelli massimi in Italia, dove l’onere del prelievo è direttamente proporzionale a quello della burocrazia. Due voci sempre da riformare, ma che non cambiano mai. Proviamo a capire perché.

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Polemica Padoan-Bce, l’Italia non sa accettare la realtà

Polemica Padoan-Bce, l’Italia non sa accettare la realtà

Davide Giacalone – Libero

Dalle zampogne alle rampogne. Dai dati Ocse ai rilievi della Bce. In ventiquattro ore la musica passa da «allegro immotivato» a «mesto con brivido». Questo, però, solo nella bocca dei propagandisti e nelle pagine degli approssimativi, perché qui avevamo osservato la realtà ed avevamo visto giusto. Ieri ancora suonavano le trombe per la correzione delle previsioni Ocse. Che lette attentamente, senza lasciarsi distrarre dal chiasso strumentale, erano preoccupanti.

Nell’autunno scorso l’Ocse prevedeva una crescita italiana, per il 2015, di appena lo 0,2%. Ora corregge quella previsione al rialzo, portandola allo 0,6. Una buona cosa? Certamente, ma solo se si commette l’imperdonabile errore di misurarsi con sé stessi, in una sorta di autoerotismo statistico.

Gli stessi dati Ocse ci dicono che la crescita dell’eurozona è prevista all’1,4%. Quindi la nostra è meno della metà. Può festeggiare solo chi pensa diingannare gli altri e nel frattempo si prende in giro da solo. Lo 0,6 era la previsione fatta dalla Commissione europea a novembre, sempre per l’Italia, quando la stessa fonte immaginava una crescita dell’eurozona pari all’1%. Eravamo a poco più della metà. A gennaio hanno rivisto le previsioni: eurozona +1,3; Italia +0,6. Inchiodati e ricollocati a meno della metà. L’Ocse ha confermato questa prospettiva, che è allarmante, non rassicurante. Quando l’alta marea, indotta dall’aumento di liquidità praticato dalla Banca centrale europea, rilluirà, quando l’espansionismo monetario non potrà essere spinto oltre, alcuni avranno preso il largo e dispiegato le vele, mentre noi saremo ancora a ridosso degli scogli. Per di più con la ciurma che discute di riforme costituzionali.

Ieri è arrivato il bollettino della Banca centrale europea, che conferma queste nostre riflessioni. Per niente fenomenali, semmai piuttosto banali e di buon senso. Merce che scarseggia, nel gran bazar della propaganda. Dicono alla Bce: la politica di bilancio, in Italia, non sta rispettando il necessario programma di rientro dal debito. E va di lusso, perché se non avessimo accettato le correzioni alla legge di stabilità e non fosse partita la politica espansiva europea (e se i greci non facessero intatti), a questo punto ci troveremmo con la trimestrale di cassa che certifica il disallineamento, provocando la reazione altrui e innescando il meccanismo delle ulteriori (dolorose) correzioni.

Siamo solo agli scappellotti, e va bene. Risponde il nostro ministro dell’Economia: lavoriamo sul debito operando con le riforme. In serata tramite comunicato, il Mef addirittura specifica che il bollettino contiene imprecisioni. La politica di bilancio non deve dire grazie solo al risparmio sui tassi d’interesse. Una risposta poco cortese e soprattutto affrettata, perché il secondo rilievo della Bce è chiaro: sulle riforme l’Italia è in ritardo e il Paese deve portarne a termine altre, se si vogliono usare per la crescita. Si rammenti che la Bce, anche perché unica protagonista attiva di rango europeo, ha una visione positiva dei dati, tanto è vero che colloca la crescita dell’Eurozona, per l’anno in corso, all’1,5. Più dell’Ocse e della Commissione europea. A Francoforte non c’è alcuna propensione al pessimismo. Ma i numeri sono numeri e i fatti sono fatti. Contestare i numeri appare come 1’ultimo tentativo di negare la realtà.

Neanche qui si ha alcuna propensione all’umore funesto. Se guardiamo la curva del prodotto interno lordo, da anni in caduta, e la accostiamo a quella delle esportazioni, da anni in crescita, vediamo ad occhio nudo la forza indomita del nostro sistema produttivo. Gli splendidi risultati che dobbiamo a imprese e lavoratori. Ma quello è solo un pezzo d’Italia. Sulle cui spalle, per giunta, carichiamo il peso di una spesa pubblica improdutüva e galoppante. Non è la realta industriale italiana (pur molto provata) a provocare il pessimismo, è la superba cretineria di usare gli indicatori economici per misurare il proprio presente istantaneo con il proprio passato prossimo. Esercizio da scemi. O da imbroglioni.

In Italia il problema non è aver fatto austerity, ma aver fatto l’austerity peggiore d’Europa

In Italia il problema non è aver fatto austerity, ma aver fatto l’austerity peggiore d’Europa

Luciano Capone – Il Foglio.it

Nei giorni di SwissLeaks e della diffusione dei dati bancari della sede ginevrina della Hsbc sottratti dal dipendente infedele Hervé Falciani, si ha la sensazione che la Svizzera sia un “paradiso fiscale”, il più grande paradiso fiscale d’Europa. L’idea trova conferma nell’“Indice della libertà fiscale in Europa” realizzato dal centro studi di ispirazione liberale ImpresaLavoro, che verrà diffuso nei prossimi giorni e che il Foglio ha potuto vedere in anteprima. L’indice analizza i sistemi fiscali di 10 paesi europei (Bulgaria, Francia, Germania, Italia, Lituania, Regno Unito, Repubblica Ceca, Romania, Svezia e Svizzera) che vengono valutati su una scala in centesimi sulla base di quattro parametri utilizzando i dati confrontabili di Eurostat e della Banca mondiale: struttura e peso della tassazione rispetto al pil, Implicit tax rate sul reddito da lavoro, capitale e consumo, complessità fiscale e livello di decentramento fiscale. Se nella classifica che va da 0 a 100 è la Svizzera ad essere il “paradiso fiscale” europeo con un punteggio di 76 (forte di una pressione fiscale al 28 per cento, di un sistema semplificato e decentralizzato), l’”inferno fiscale” dista pochi chilometri, ci si arriva con l’autostrada del San Gottardo, è proprio l’Italia che ha un punteggio di 42, uno in meno della Francia.

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Lavoro, una riforma prematura

Lavoro, una riforma prematura

Gaetano Pedullà – La Notizia

Una riforma che guarda a sinistra ma non vede lontano. L’abolizione dei contratti di collaborazione coordinata e continuativa, gli ormai famosi co.co.co., insegue un principio giusto: basta con le scappatoie che favoriscono il precariato. E basta con il lavoro palesemente subordinato spacciato per prestazione autonoma o a progetto. Detto questo, il successo delle forme contrattuali nel mirino del ministro Poletti testimoniano come le imprese ancora oggi non abbiano molta scelta nelle assunzioni. La rigidità nella prosecuzione del rapporto anche in caso di difficoltà da parte delle aziende, scoraggiano le assunzioni a tempo indeterminato. E siccome non è vero che le famiglie (e le imprese) si stanno arricchendo – come sostiene il premier – la rincorsa del giusto obiettivo di ridurre la precarietà rischia di rivelarsi un boomerang. La ripresa infatti è ancora lontana e smantellare con tanta fretta uno dei maggiori elementi di flessibilità contrattuale è una mossa prematura. Partiti di sinistra e sindacati ne faranno una bandiera, ma l’effetto concreto sul mercato del lavoro rischia di essere negativo, proprio mentre la crescita all’orizzonte spingerebbe le imprese a investire di più. Un azzardo.

È un errore imperdonabile cancellare la Riforma Biagi

È un errore imperdonabile cancellare la Riforma Biagi

Giuliano Cazzola – Libero

Tra un mese esatto ricorrerà il tredicesimo anniversario dell’assassinio di Marco Biagi. E domani – stando alle anticipazioni – il Consiglio dei ministri, nel dare attuazione alle deleghe del Jobs act Poletti 2.0, prenderà a picconate la legge che porta il nome del professore bolognese. In sostanza, a Matteo Renzi e a Giuliano Poletti riuscirà ciò che venne impedito all’Unione di Romano Prodi nel 2007 e ad Elsa Fornero nel 2012. Eppure, mentre Prodi presiedeva un esecutivo (Cesare Damiano era ministro del Lavoro) sostenuto anche dalle formazioni neocomuniste, Renzi ha nella sua maggioranza i gruppi confluiti in Area popolare, i cui esponenti giustificano loro presenza nella coalizione vantando la partecipazione ad un progetto riformatore.

Da giorni viene annunciato un bel po’ di «macelleria giuridica» nel nome (abusato) della lotta al precariato. Sotto la scure giustiziera del governo legislatore-delegato finirebbero taluni rapporti atipici già rivisitati ampiamente dalla legge Fornero: l’associazione in partecipazione, il lavoro ripartito e quello intermittente subirebbero la gogna dell’abrogazione. Mentre verrebbe fortemente depotenziato l’effetto-innovazione derivante dalla riforma del contratto a termine. E che dire, poi, del «superamento» del contratto di collaborazione a progetto? Il ricorso alla potatura delle forme contrattuali (anche se talune solo di nicchia) prima ancora di essere grave, rappresenta una scelta stupida. Il titolare di un ristorante che ha la necessità di due camerieri in più, la domenica in cui gli capita di ospitare un matrimonio, non sa che farsene del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti; gli serve avvalersi del lavoro a chiamata. Ma l’errore di politica del diritto sta nella convinzione che basti rendere un po’ meno rigido, in uscita, il rapporto di lavoro a tempo indeterminato per potersi sbarazzare delle forme flessibili.

In tutti questi anni, si è diffusa la teoria che i rapporti atipici, regolati con meticolosità e sapienza giuridica da Marco Biagi, consentissero di sottrarsi al giogo di un contratto a tempo indeterminato imprigionato nel «carcere di massima sicurezza» dell’articolo 18 dello statuto. Sarebbe bastato, secondo quella tesi, modificare la disciplina del recesso per riportare quel rapporto al centro del mercato del lavoro. Non era questa l’opinione del mio amico Marco Biagi, il quale non pensava affatto di introdurre, nella legge a lui intestata, tipologie flessibili in entrata, allo scopo di consentire ai datori di aggirare, in uscita, le forche caudine della reintegra da parte del giudice.

Biagi riteneva, giustamente, che la frammentazione esistente nella realtà del mercato del lavoro potesse essere affrontata in modo adeguato e pertinente – ed utile alle imprese ed ai lavoratori – solo attraverso la previsione di una gamma di contratti specifici, mirati a regolare le diversità delle condizioni lavorative, anziché imporre, per via legislativa, una sorta di reductio ad unum nell’ambito di un contratto a tempo indeterminato, sia pure meno oppressivo e poliziesco per quanto riguarda la tutela del licenziamento.

Non è un caso che, in occasione della prima lettura del Senato, nell’emendamento dei partiti centristi a firma di Pietro Ichino, campeggiassero le parole senza alterazione dell’attuale articolazione delle tipologie dei contratti di lavoro. C’era la consapevolezza che il mercato del lavoro non potesse essere rinchiuso in un’unica fattispecie, anche se prevalente e meno vessatoria sul versante del recesso. Per lanciare il contratto di nuovo conio sono arrivati al punto di retribuire i datori di lavoro, i quali, per ogni assunto nel 2015, riceveranno, in ciascuno dei prossimi tre anni, un bonus di 8mila euro. Ciò significa che un’intera annualità di retribuzione (pari a 24mila euro) sarà a carico di Pantalone.

Basta bugie, più imposte anche sulla casa

Basta bugie, più imposte anche sulla casa

Gianluigi Paragone – Libero

«Basta con l’industria della lagna, non è vincente» dice Matteo Renzi. Basta con l’industria delle promesse e delle parole al vento, potremmo replicare noi. Aggiungendo che le bugie alla lunga innervosiscono (e sto buono con le parole). Renzi non ha chiaro che i numeri, alla lunga, sono macigni. Prendiamo le tasse. Dopo averci raccontato che sulla casa avremmo pagato di meno e che i Comuni sarebbero stati accorti agli equilibri sociali, esce fuori che tra Imu e Tasi i Comuni hanno recuperato nel 2014 l’intero gettito del 2012 della sola Imu. Altro che riforma per abbassare le imposte sulla casa: qui stiamo pagando di più. La tassa sui rifiuti è molto più costosa rispetto al passato. Non solo. Chi è uscito penalizzato dal gap fiscale sono proprio le fasce più deboli, visto che i più facoltosi – come dimostreremo oltre – nel 2012 pagarono di meno. Alla faccia degli ottanta euro come mossa sociale…

I numeri, dunque. Partiamo da chi ha rendite catastali più basse. Chi ha pagato tra Tasi e Imu fino a 50 euro ha avuto un incremento pari al 21,7% rispetto al 2012. Chi invece ha pagato tra i 50 e i 100 euro s’è preso una mazzata di un bel più 40,1 per cento. Saliamo ora di livello e prendiamo la fascia di coloro che hanno rendite catastali alte e che hanno pagato tra i 500 e i 600 euro tra Tasi e Imu. Bene, per costoro il risparmio è stato del 32,9%, Meglio ancora se hanno versato oltre 600 euro: quasi meno 50 per cento di differenza rispetto al 2012. Per essere un governo la cui golden share è detenuta da un partito di centrosinistra direi che come asimmetria di gettito non è male. La morale è che dalle parti del Pd la tassazione aumenta, visto che al quadro ora descritto vanno aggiunti aumenti di Iva, imposte di registro e bollo, Irpef fondiaria e sulle locazioni e compagnia cantante. La cantonata sull’Iva infine sarebbe stata talmente forte che il governo ha fatto l’ennesima retromarcia tornando al vecchio regime dei minimi. Evidentemente Renzi ritiene che il jolly degli 80 euro (bonus speso per pagare gli aumenti vari) lo metta al riparo sul fronte sociale. Non è cosi.

Anche il casino generato sul contante da versare in banca è sintomatico della predisposizione di questo governo verso il mondo bancario e a totale svantaggio dei cittadini meno abbienti. La retromarcia di Casero non cancella l’idea di fondo messa già nero su bianco. L’esperienza insegna che quando si passa dalle parole ai fatti significa che a qualcuno è stato promesso qualcosa. E le promesse fatte ai forti si mantengono. Nel caso specifico, il qualcuno sono le banche le quali hanno solo da guadagnarci se si applica un balzello sui versamenti bancari. Dico di più. Assottigliare anche l’uso del contante non risolverà nulla sul fronte della lotta all’evasione (il grande capitale mica è in banconote!), di contro consentirà agli istituti di credito di aumentare i servizi legati alla moneta digitale e – peggio ancora – di agevolare eventuali e futuri prelievi forzosi dai conti corrente come accadde in Italia con Amato e recentemente a Cipro.

Costanti aumenti delle tasse e squilibri sociali nella forbice tributaria sono la molla che spingono all’evasione cosiddetta di sopravvivenza. Più lo Stato mette alle corde i piccoli e più sarà inevitabile scegliere tra il pagamento degli stipendi o il mantenimento della famiglia da una parte e il pagamento delle imposte e delle tasse dall’altro. Se infine ci metti il delirio del grande fratello fiscale ispirato alla esasperazione burocratica e al sospetto del potenziale evasore (poi mi dovranno spiegare perché per Serra vale la presunzione di innocenza rispetto alle operazioni in Borsa sulle popolari mentre su artigiani, commercianti eccetera s’inverte l’onore della prova fiscale obbligando i cittadini a dimostrare di non essere evasori…) il governo ha fatto bingo.

Ah, dimenticavo. Per capire le logiche su cui si muove la lotta all’evasione è giusto ripetere fino alla noia l’esempio (mica isolato…) del salumiere napoletano che per avere regalato un panino a un uomo con problemi psichici s’è beccato una multa per evasione fiscale! Ecco, questa è l’Italia. Più tasse per i deboli e mano pesante sulla gente perbene. In mezzo a tante parole, se Renzi avesse voglia di spiegare non sarebbe male…

È una banca o no? Che rebus la carta d’identità di Cdp

È una banca o no? Che rebus la carta d’identità di Cdp

Angelo De Mattia – Milano Finanza

A fronte della chiarezza e validità di alcune posizioni del governo e di altre autorità in materia bancaria e finanziaria, vi sono aree di confusione e a volte di inadeguatezza nella preparazione dei provvedimenti che destano stupore. L’ultimo caso riguarda la proposta, che sarebbe stata confezionata nel ministero dell’Economia ma che è stata disconosciuta dal viceministro Casero, per introdurre la tassazione dei versamenti in contanti superiori a 200 euro.

Il ricorso al più naturale mezzo di pagamento verrebbe così sottoposto a un’assurda imposizione, nell’incapacità, evidentemente, di distinguere un’equilibrata limitazione dell’uso del contante dalla sottoposizione a tassazione, che equivarrebbe a considerare un reddito il possesso, per esempio, di 201 euro. Mai si sarebbe potuto prevedere che la funzione storica di una banca centrale – l’emissione della moneta – equivalesse a mettere in circolazione un mezzo sul quale lo Stato percepirebbe una tassa. Sarebbe bene che un’ipotesi così bizzarra, che invoglierebbe a un’oscurantistica tesaurizzazione, venga recisamente esclusa dal novero dei progetti governativi, se non altro per evitare gravi problemi operativi nelle transazioni.

Ma, sempre in tema di fattura dei provvedimenti progettati o approvati, nasce un altro caso: il riconoscimento per la Sace, con il noto decreto, di poter svolgere anche attività bancaria, che si affianca alla peculiare attività assicurativa, sua ragione sociale, per una sorta di eterogenesi dei fini ripropone il problema della natura giuridica della Cdp, titolare della partecipazione totalitaria nella predetta società, perché con la nuova funzione della Sace si realizzerebbe un conglomerato che avrebbe l’effetto di sottoporre la Cdp a una Vigilanza della Banca d’Italia ben diversa da quella ora esercitata nel presupposto che la Cassa sia oggi un intermediario finanziario non bancario secondo l’articolo 107 del Testo Unico Bancario.

La stessa Corte dei Conti di recente, a prescindere dal caso Sace, ha sollevato il problema della natura della Cdp avanzando dubbi sull’attuale configurazione e sollecitando un chiarimento. Ma la norma sulla Sace, se verrà confermata, renderà inevitabili le accennate conseguenze, che però gli esponenti della Cdp vedono al momento come fumo negli occhi e dunque prospettano il rischio di una minore erogazione di risorse al sistema per via dei più ristretti vincoli patrimoniali e di altro tipo che ne discenderebbero. Sarà interessante valutare quale esito avrà questa vicenda, sempre che sia mantenuta a Sace l’attribuzione delle funzioni di banca e non si ricorra all’introduzione di una forma atipica di intermediario, rendendo la toppa peggiore del buco. Ma, intanto, chi ha predisposto il provvedimento conosceva gli impatti che si sarebbero avuti su Cdp? Erano stati sentiti i vertici di quest’ultima? O siamo all’ennesima improvvisazione?

Stendiamo un velo sulla famigerata norma del decreto fiscale sulla non punibilità anche per frodi fiscali non superiori al 3% dell’imponibile, ma poi vi è il caso delle Popolari. Una sorta di assurda damnatio riguarda il settore, mentre ci si concentra su alcune di esse, ora nell’occhio del ciclone anche giudiziario, per dimostrare la fondatezza dell’obbligo della loro trasformazione in spa che diventerebbe una vera panacea. Ma si è dato uno sguardo alle contemporanee situazioni di altre spa, del pari sotto l’occhio e l’azione della magistratura per vicende di gran lunga più rilevanti? Si è ricordata la storia di altre spa, dalle banche Sindona all’Ambrosiano di Calvi, fino alla spa Montepaschi prima del risanamento in atto? Veramente si vuole continuare a essere così poco obiettivi? La riforma va fatta ma con equilibrio e avvedutezza, non facendo apparire la rivisitazione, che interessa soci, economie e istituzioni, come una crociata per il bene nazionale. Ci si apra a opportuni emendamenti al decreto – scritto con sciatteria e inesperienza – che ha disposto la trasformazione in spa, evitando soluzioni di transizione.

E che dire poi di taluni aspetti della Vigilanza europea? ll governatore Visco ha sottolineato di recente che per non ostacolare i segnali di ripresa delle economie occorrerà calibrare con cautela le ulteriori richieste alle banche di incremento delle dotazioni di capitale. Ieri Angeloni, membro del supervisory board della Bce, ha dato ragione a Visco ma subito dopo ha detto che non vi è contraddizione tra l’aumentare il capitale delle banche e i prestiti. Il «perseverare diabolicum» non è solo quello di Enria, presidente Eba, come giustamente ha scritto su questo giornale Filippo Buraschi, ma anche quello di alcuni all’interno del suddetto board. Tanto per gareggiare con le superficialità e le bizzarre testardaggini di cui si è detto prima. Continueremo nella confusione?

Quelle riforme troppo lente

Quelle riforme troppo lente

Massimo Blasoni – Metro

Il cammino verso le riforme a cui il nostro Paese si è avviato è troppo lento e poco incisivo. Anche se alcuni provvedimenti vanno nella giusta direzione, la loro lenta attuazione rischia di vanificarne gli effetti. I tempi dell’economia sono più rapidi di quelli della politica. Renzi governa da un anno, prima di lui Letta era stato premier per un periodo di poco inferiore, ma ad oggi pressoché nessuna riforma strutturale è pienamente compiuta, compreso il Jobs Act che necessita dei regolamenti attuativi. Sul piano economico – al di là dell’incremento del debito e della riduzione del Pil reale – è interessante mettere a confronto gli indicatori che con riferimento al medesimo periodo emergono dal report annuale di Banca Mondiale/Doing Business e da quello sulla competitività elaborato dal World Economic Forum.
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Tassa sui versamenti in contanti, ndo cojo cojo

Tassa sui versamenti in contanti, ndo cojo cojo

Davide Giacalone – Libero

Provando e riprovando è una cosa, ndo cojo cojo un’altra. Il primo è il motto dell’Accademia del cimento, ispirato al metodo galileiano, il secondo è la cieca e disperata speranza di azzeccarne una. Dopo il dietrofront, indietro march, sul fronte libico, arriva la retromarcia su quello fiscale. Il Sole 24 Ore (mica un pettegolezzo) aveva anticipato uno dei provvedimenti che il prossimo Consiglio dei ministri avrebbe varato: imposta di bollo progressiva per chi versa in banca più di 200 euro al giorno. Silenzio nella foresta. La mattina, a chi chiamava allarmato, dal governo fanno sapere: è solo una cosa allo sttrdio. Poi, nel pomeriggo, una nota che smentisce l’ipotesi. Potremmo chiuderla qui, ma rimane la volontà di ridurre l’uso del denaro contante, che può anche andare bene, a determinate condizioni, ma fuori da quelle è la trappola nella quale erano caduti. Quindi meglio metterci un cartello.

Prendete lavoratori come i tabaccai, i giornalai, i tassisti e tanti altri: è normale che incassino più di 200 euro, in contante, ogni giorno, ed è normale che li versino in banca. Devono essere puniti, per questo? L’incasso, inoltre, non è mica il guadagno, ad esempio: la gran parte dei soldi che un tabaccaio incassa li deve poi girare allo Stato, visto che vende beni sottoposti al suo monopolio; per pagare lo Stato deve fare un’operazione bancaria; per farla deve avere i soldi sul conto. Lo Stato che incassa è lo stesso che pretende di avere un’imposta di bollo superiore perché quel delinquente versa i soldi in banca? E c’è anche l’orrida beffa: scorrendo le cronache si trovano rapine, subite dai tabaccai, in tutta Italia. Come anche peri benzinai. Tali rapine sono incentivate dal fatto che queste piccole imprese hanno un giro d’affari magari non elevato, ma quasi tutto in contante. Quando un tabaccaio viene rapinato, sperando che salvi la pelle, deve poi comunque pagare allo Stato i soldi che s’è fatto derubare, quale corrispettivo di beni già venduti. Quindi: il tabaccaio porta sulle spalle il rischio legato ai soldi che incassa e lo Stato potrebbe anche chiedergli di pagare di più quando li versa in banca.

Non basta che la cosa sia smentita, è necessario rendersi conto che è culturalmente e logicamente abominevole. Una cosa è colpire l’evasione fiscale, altra demonizzare e/o tassare l’uso di banconote che, fino a prova contraria, sono prodotte e tutelate dallo Stato, dalla banca centrale nazionale e da quella europea. L’imposta su cui lavoravano avrebbe colpito le persone oneste, proprio perché tali. Più assurdo di cosi è difficile immaginare. Pensare di colpire l’evasione fiscale colpendo il contante è come supporre di frenare la violenza carnale punendo il sesso: nel migliore dei casi ne viene fuori una società di pervertiti. Che è l’inferno fiscale italiano.

Il tutto senza contare che l’economia più forte d’Europa, nonché quella che ha reagito meglio alla crisi, ovvero la Germania, è anche la sola a non avere limite all’uso del contante. Che ci sia un nesso? Si vuole disincentivare il contante e incentivare la moneta elettronica? Non è questa la strada. Semmai si renda più conveniente la seconda, mentre oggi è vero l’opposto. Sia per il cliente. Sia per il negoziante, che deve pagare una percentuale per avere, in ritardo, i soldi relativi a una prestazione che ha reso o a una merce che ha venduto. Per forza che quando si vanno a pagare piccoli acquisti, specie se il guadagno è percentualmente molto basso, all’apparire della carta di credito vedi occhi imploranti: non è che siano tutti evasori, è che se paghi il pizzo su un margine microscopico non si capisce perché ti alzi al mattino e tiri su la saracinesca. Non dimenticando, infine, che se lo Stato vuole incentivare la moneta elettronica (giusta e bella cosa) dovrebbe cominciare a rendere obbligatorio accettarla, in tutte le sue forme consentite, ovunque abbia sportelli propri per pagamenti, riscossioni e transazioni. Invece non è così, sicché predica claudicando e ruzzola praticando.

Per ora il tentativo è fallito. Bene. Ma una roba simile non va messa nel congelatore, come l’altra inversione di marcia, relativa alla delega fiscale, per poterci pensare qualche mese. Meglio buttarla direttamente via. Fra rifiuti non riciclabili, così si rispetta anche la raccolta differenziata.

Per il lavoro una politica industriale

Per il lavoro una politica industriale

Walter Passerini – La Stampa

Quella di oggi pomeriggio è un’occasione importante. L’incontro tra governo e parti sociali, sindacati e imprese, officiato a nome dell’esecutivo dal ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, suscita aspettative al di là dell’ordine del giorno formale, che parla soprattutto di Jobs act e di revisione delle tipologie contrattuali. «Speriamo non sia un monologo», commenta Susanna Camusso (Cgil). «È una pagina nuova da scrivere», incalza Anna Maria Furlan (Cisl). «Sono pronto a stupirmi», rincara Carmelo Barbagallo (Uil). Il summit cade due giorni prima del prossimo Consiglio dei ministri, che avrà nell’agenda molti temi e qualche sorpresa, se si sta alle parole di Matteo Renzi, che alla Direzione Pd ha affermato: «Finalmente approveremo cose di sinistra».

All’opinione pubblica e ai cittadini interessa una risposta chiara: che cosa sta facendo il governo per agganciare la ripresa? L’Istat ha comunicato che l’Italia vede la fine della recessione ma la crescita rischia di restare al palo. Quello 0,0% del nostro Pil invariato nell’ultimo trimestre 2014 brucia di fronte allo 0,7% della Germania, allo 0,7% della Spagna e allo 0,3% dell’Eurozona. Bisogna fare di più e in fretta. Sindacati e imprese porranno al governo anche temi includibili: crescita, fisco, pensioni. Va bene disegnare un mercato del lavoro più flessibile, tutelato e dinamico, ma le regole da sole non bastano più, ci vuole sostanza.

Il Jobs Act ha portato a casa troppo poco: venerdì verranno approvati gli unici due decreti operativi (contratto a tutele crescenti e nuovi ammortizzatori), ma molti provvedimenti viaggiano con il freno a mano. Altri tre ne verranno annunciati (cassa integrazione, semplificazione contrattuale e maternità), ma tra quelli rinviati e che più contano ci sono le politiche attive, i servizi per il lavoro e l’Agenzia nazionale per l’occupazione. Regole e contratti sono importanti, ma c’è una poltrona vuota al tavolo delle trattative: le nuove politiche industriali. Un’assenza stridente, un silenzio assordante. Lo testimonia la stessa Confindustria con il direttore generale, Marcella Panucci («Positivo l’investment compact, ma va potenziato»): si tratta di disegni e cornici più fiscali che industriali.

Quali sono i settori economici e produttivi su cui vogliamo puntare? Una domanda oggi senza risposta. Eppure i liberisti Obama e Angela Merkel lo hanno fatto per le loro due locomotive, individuando i settori su cui investire e incentivare. Noi ancora no. Quanto investiremo in made in Italy, nelle quattro A (alimentare, abbigliamento, arredamento, automazione), nel digitale e nel green? Senza dimenticare l’industria manifatturiera, senza la quale non ci sara alcuna ripresa. Lo ricorda la Fondazione Edison con orgoglio: nel manifatturiero siamo sesti al mondo per valore aggiunto, quinti per bilancia commerciale, secondi per quota di esportazione di prodotti dopo la Germania e davanti agli Stati Uniti. Il fatturato manifatturiero dal 2008 al 2013 è cresciuto nell’estero del 17%, ma è calato del 16% all’interno. Le imprese italiane sono tra le più competitive al mondo. La zavorra è il crollo della domanda interna, non la competitività dell’industria.