luciano capone

In Italia il problema non è aver fatto austerity, ma aver fatto l’austerity peggiore d’Europa

In Italia il problema non è aver fatto austerity, ma aver fatto l’austerity peggiore d’Europa

Luciano Capone – Il Foglio.it

Nei giorni di SwissLeaks e della diffusione dei dati bancari della sede ginevrina della Hsbc sottratti dal dipendente infedele Hervé Falciani, si ha la sensazione che la Svizzera sia un “paradiso fiscale”, il più grande paradiso fiscale d’Europa. L’idea trova conferma nell’“Indice della libertà fiscale in Europa” realizzato dal centro studi di ispirazione liberale ImpresaLavoro, che verrà diffuso nei prossimi giorni e che il Foglio ha potuto vedere in anteprima. L’indice analizza i sistemi fiscali di 10 paesi europei (Bulgaria, Francia, Germania, Italia, Lituania, Regno Unito, Repubblica Ceca, Romania, Svezia e Svizzera) che vengono valutati su una scala in centesimi sulla base di quattro parametri utilizzando i dati confrontabili di Eurostat e della Banca mondiale: struttura e peso della tassazione rispetto al pil, Implicit tax rate sul reddito da lavoro, capitale e consumo, complessità fiscale e livello di decentramento fiscale. Se nella classifica che va da 0 a 100 è la Svizzera ad essere il “paradiso fiscale” europeo con un punteggio di 76 (forte di una pressione fiscale al 28 per cento, di un sistema semplificato e decentralizzato), l’”inferno fiscale” dista pochi chilometri, ci si arriva con l’autostrada del San Gottardo, è proprio l’Italia che ha un punteggio di 42, uno in meno della Francia.

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Ricchi, eguali

Ricchi, eguali

Luciano Capone – Il Foglio

In questi 30 anni – quelli del “liberismo selvaggio” che affama i popoli, distrugge il pianeta, aumenta le disuguaglianze – l’umanità sta vincendo la più grande guerra contro la miseria. La Banca mondiale, lo scorso 9 ottobre, ha pubblicato un rapporto sulla povertà nel mondo. I dati dicono che la percentuale della popolazione mondiale che vive in condizioni di povertà estrema – ovvero con meno di 1,25 dollari al giorno – è crollata dal 36,4 per cento del totale nel 1990 al 14,5 per cento nel 2011. È la più grande riduzione della povertà nella storia dell’umanità, circa 1 miliardo di poveri in meno, una cifra mostruosa, una rivoluzione silenziosa che forse meriterebbe maggiore attenzione del libro glamour di Thomas Piketty, premiato ieri da quei burloni del Financial Times.

La caduta vertiginosa della percentuale di poveri, mentre la popolazione mondiale è cresciuta esponenzialmente, spazza via il malthusianesimo di ritorno, le boiate sulla decrescita felice e il pauperismo no global. Secondo le proiezioni della Banca mondiale, con un tasso di crescita globale pari a quello degli anni 2000, nei prossimi 20 anni la povertà si ridurrà ulteriormente fino a scendere al 5 per cento della popolazione mondiale, che vuol dire altri 600 milioni di poveri in meno. L’ampiezza di questo fenomeno è ancora più impressionante se si guarda allo studio di un economista catalano della Columbia University, Xavier Sala-i-Martin, che dimostra come in un arco di tempo più ampio, dal 1970 al 2006, il tasso di povertà assoluta è crollato dell’80 per cento. Ma non basta: oltre a diventare più ricco il mondo è diventato anche meno diseguale. Sala-i-Martín mostra che sia il coefficiente di Gini sia l’indice di Atkinson (indicatori che misurano la distribuzione dei redditi) segnalano una riduzione della disuguaglianza a livello globale.

Ma a cosa è dovuto questo portentoso progresso? Nazioni Unite? Fondo monetario internazionale? Qualche programma governativo? Aiuti ai paesi in via di sviluppo? No. È merito della globalizzazione, del libero mercato, dei diritti di proprietà, del rule of law, della caduta di barriere interne ed esterne. In una parola, del capitalismo. E questo è evidente anche ai più scettici, dato che il contributo più grande alla riduzione della povertà l’hanno dato i popoli di due paesi fino a poco fa (e in parte ancora oggi) prigionieri dello stato e della pianificazione economica, cioe la Cina e l’India. Come hanno illustrato magistralmente il premio Nobel Ronald Coase e Ning Wang nel loro libro “Come la Cina è diventata un paese capitalista”, pubblicato in Italia dall’Istituto Bruno Leoni, sono stati l’apertura al mercato, la rottura dei monopoli statali, il superamento dei “piani quinquennali” e l’estensione dei diritti di proprietà a garantire una vita più decente a centinaia di milioni di esseri umani, tanto che adesso la povertà estrema sembra essere un problema africano e in particolare subsahariano, riguardante cioè quelle aree dove il capitalismo non ha ancora messo piede.

Questi dati smentiscono gli “intellettuali” che dai pulpiti di paesi ricchi e stanchi da anni parlano di “ritorno a Marx”, crisi del capitalismo, caduta del saggio di profitto e proletarizzazione della borghesia. D’altronde lo stesso Karl Marx, a differenza dei marxisti, era un alfiere entusiasta della globalizzazione e aveva capito bene la potenza rivoluzionaria del capitalismo. E forse, oltre ai marxisti di ritorno, quella che può essere considerata come la più grande moltiplicazione dei pani e dei pesci della storia dell’umanità, seppure di origine non sovrannaturale, dovrebbe indurre a una riflessione anche Papa Francesco sul suo anti capitalismo pauperista esposto nella “Evangelii Gaudium”.

Per gli investitori esteri l’Italia è ancora il regno di burocrazia, tasse e giustizia malata

Per gli investitori esteri l’Italia è ancora il regno di burocrazia, tasse e giustizia malata

Luciano Capone – Libero

L’Aibe, Associazione fra le banche estere in Italia, ha presentato la seconda edizione del suo indice che misura “l’attrattività dell’Italia presso gli investitori esteri”. I risultati non sono positivi, l’Italia viene superata dalla Spagna e fatta 100 l’attrattività dei primi della classe, gli Stati Uniti, l’indice per l’Italia si ferma a 38.

L’Aibe, attraverso un istituto specializzato come Ispo, ha posto una serie di domande ai vertici di grandi investitori internazionali 26 (multinazionali, private equity, investitori industriali) per misurare la loro percezione sull’attrattività del nostro “sistema paese”. Un’opinione molto rilevante per un paese che attrae pochi investimenti e che, vista la carenza di risorse interne, difficilmente potrà riprendersi senza l’arrivo di capitali esteri. L’indice ha segnato un leggero miglioramento rispetto alla rilevazione di sei mesi fa, ma la posizione relativa rispetto agli altri paesi è peggiorata. I miglioramenti derivano dalla maggiore stabilità del sistema politico e dalla percezione che qualcosa si sta muovendo sul fronte della riduzione del costo del lavoro e sulla flessibilità del mercato del lavoro. Nonostante i risultati degli stress test, che hanno segnalato la situazione critica di Mps e Carige, c’è molta fiducia nella solidità del sistema bancario, ma il vero punto di forza è l’elevata qualità delle risorse umane. I segnali positivi si fermano qui.

Per il resto, le criticità evidenziate dai potenziali investitori esteri sono le stesse che sono costretti ad affrontare gli investitori, i lavoratori e i cittadini italiani: eccessivo peso della burocrazia, poca chiarezza del sistema normativo, tempi della giustizia, eccessivo carico fiscale, incertezza sulle regole. Nonostante gli investitori guardino con favore alla maggiore stabilità politica garantita dal governo Renzi, non viene giudicata incisiva l’azione riformatrice: per il 54% l’Italia non è più attrattiva di 6 mesi fa e solo per una minoranza del 46% ha attuato una strategia per attrarre investimenti. La richiesta fatta al governo è quella di concentrarsi sulle riforme strutturali piuttosto che cercare un cambiamento delle politiche economiche europee. «Ciò che risulta inconcepibile agli occhi degli investitori esteri – sottolinea il presidente Aibe Guido Rosa – è la pessima abitudine di approvare norme fiscali retroattive, di decidere a novembre-dicembre di far pagare imposte a partire dal 1 gennaio». Un’abitudine anche di questo governo che ha aumentato retroattivamente l’Irap per il 2014.

Tutte le sberle del PD sul mattone

Tutte le sberle del PD sul mattone

Luciano Capone – Libero

Matteo Renzi ha sconvolto i tradizionali schemi politici e dice cose che sono da sempre nelle corde dell’elettorato di centrodestra sul ruolo dei sindacati, sull’articolo 18, sulla burocrazia, sulle riforme istituzionali. Ma qualche differenza forse esiste ancora, ad esempio sul tema fiscale, dove tendenzialmente la destra preferisce tasse più basse rispetto alla sinistra. La conferma arriva dai risultati di uno studio di due economisti italiani che lavorano a Harvard, uno di fama internazionale, Alberto Alesina, e uno giovane, Matteo Paradisi, che hanno analizzato l’effetto dei cicli elettorali sulla scelta dell’aliquota Imu da parte dei Comuni. Dai dati emerge che i Comuni di centrosinistra tassano di più di quelli di centrodestra, o meglio che è più alta la percentuale di Comuni di centrosinistra che hanno alzato l’aliquota Imu.

Il lavoro di Alesina e Paradisi non si occupa delle differenze tra destra e sinistra, ma di vedere se e quanto i Comuni sono influenzati nella scelta dell’imposizione fiscale dalle scadenze elettorali. Gli economisti sono partiti dall’introduzione dell’Imu nel 2011 per vedere come si sono comportate le amministrazioni locali nell’applicazione della parte variabile dell’aliquota Imu. La scelta di studiare l’Imu, nonostante le difficoltà a spiegare il meccanismo dell’imposta al pubblico internazionale, è giustificata per la parziale autonomia di cui dispongono i Comuni nella scelta dell’aliquota, perché è un’imposta con un gettito rilevante (circa 24 miliardi di euro), che interessa un’ampissima fetta di contribuenti (circa 26 milioni), in un Paese in cui oltre il 60% delle famiglie ha una casa di proprietà. La ricerca mostra l’esistenza di un «ciclo elettorale», ovvero la scelta da parte degli amministratori di abbassare le tasse prima delle elezioni per essere riconfermati e questo effetto è più evidente nei piccoli Comuni e nel Sud Italia. Nei piccoli Comuni perché si trovano a gestire problemi meno complessi e quindi l’Imu assume un’importanza più rilevante nel dibattito politico; per quanto riguarda l’Italia meridionale la spiegazione è di tipo culturale: nel Sud c’è minore «coscienza civica», partecipazione alle decisioni pubbliche e controllo sugli amministratori e quindi l’elettorato è più manipolabile dai politici, che basano le loro scelte sulla base del ciclo elettorale.

Ma i dati più interessanti, anche se occupano solo una parte della ricerca, sono quelli sulle differenze tra centrodestra e centrosinistra: al netto del ciclo elettorale, «la sinistra tende a imporre imposte più alte della destra». ll 35% dei Comuni amministrati dal centrosinistra ha scelto aliquote più alte di quella standard, contro il 27,6% del centrodestra. Mentre i pochi Comuni che hanno scelto di abbassare l’aliquota Imu sulla prima casa sono per l’8,4% di centrodestra e per il 6,5% di centrosinistra. E questo, spiegano gli economisti, «è coerente con le due diverse impostazioni ideologiche sulla tassazione della ricchezza». Un solo dato è in controtendenza: il 3% dei Comuni di sinistra ha deciso di abbassare l’aliquota sulle seconde case contro appena lo 0,2% dei Comuni di destra.

Smentito Franceschini, la tassa Siae fa aumentare i prodotti Apple

Smentito Franceschini, la tassa Siae fa aumentare i prodotti Apple

Luciano Capone – Libero

«Firmato il decreto “copia privata”. Il diritto d’autore garantisce la libertà degli artisti e i costi vanno sui produttori, non sui consumatori» dichiarava il ministro dei Beni culturali Dario Franceschini. Lo stesso concetto espresso dal presidente della Siae Gino Paoli: «Questo compenso, però, non deve essere a carico di chi acquista lo smartphone ma del produttore, che riceve un beneficio dal poter contenere sul proprio supporto un prodotto autorale». Dopo un mese dalla firma del decreto che ha innalzato il costo dell’imposta che grava su tutti i dispositivi elettronici con supporto di memoria come telefonini, computer, televisioni, memorie di massa e quant’altro, è arrivata la smentita da parte del mercato: la Apple (e come lei tante altre aziende) ha ritoccato i propri listini alzando il prezzo di iPhone, iPad e MacBook per recuperare gli aumenti delle tariffe previsti dal decreto e destinati alla Siae.

La Siae ha attaccato l’azienda di Cupertino per la sua azione «provocatoria» e i sindacati l’hanno definita un’operazione «di pura mistificazione della realtà, mirata a mantenere inalterati i propri ingenti profitti». Il ministro Franceschini, di fronte alla rivincita della realtà sulle sue promesse, si è detto «allibito per non dire indignato» e si è scagliato contro l’azienda americana per un «aumento puramente ritorsivo nei confronti dei loro clienti italiani». Secondo il ministro la dimostrazione è il fatto che «in Francia un iPhone 5s costa 709 euro a fronte di una tariffa per copia privata di 8 euro, in Germania 699 con una copia privata di 36 euro, in Italia 732,78 euro con la copia privata a 4 euro». Così la Apple, conclude Franceschini, «scarica sui soli consumatori italiani il legittimo compenso dovuto agli autori pur di non ridurre lievemente il proprio margine di guadagno». Parole quasi sovrapponibili a quelle di Gino Paoli.

In realtà non è accaduto che la cattiva e speculatrice multinazionale americana, chissà per quale strano motivo, abbia messo in atto una «ritorsione» sui propri clienti, che tra l’altro sarebbe un comportamento abbastanza controproducente visto che i clienti sono la fonte dei guadagni della Apple, ma è avvenuto un semplice comportamento che in economia si chiama traslazione d’imposta, ovvero il trasferimento da parte di un contribuente del costo di una tassa sugli altri contribuenti. Il governo può aumentare le imposte ma non può decidere chi di fatto le paga perché (per fortuna) non può fissare il prezzo dei beni che in un mercato libero vengono decisi dall’incrocio fra domanda e offerta, cioè dai produttori e dai consumatori. Era prevedibile che l’aumento dell’imposta per la copia privata, in quanto aumento del costo del prodotto, avrebbe inciso anche sul prezzo finale e quindi sulle tasche dei consumatori. Come era evidente che quella di Franceschini fosse un’affermazione infondata per un altro motivo: sulla copia privata si paga l’Iva e un aumento delle copia privata comporta per forza di cose un aumento dell’Iva, che per definizione ricade sui consumatori. Ma il fatto che la copia privata venga pagata per intero dai consumatori è ammesso indirettamente anche dalla Siae, che prevede esenzioni e rimborsi per le imprese che acquistano i supporti di memoria per esclusivi scopi professionali, cioè senza fare copie private. Quindi se la Siae non eroga il rimborso ai produttori ma restituisce i soldi ai consumatori, chi l’ha pagata la copia privata? Le multinazionali o i consumatori?