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Toga toga toga
Redazione Edicola - Opinioni davide giacalone, diritto, giustizia, libero
Davide Giacalone – Libero
Al grido di Toga Toga Toga l’Italia si lancia verso il ridicolo e il ribaltamento di ogni divisione e gerarchia dei poteri. La differenza, rispetto al Tora Tora Tora, con cui i giapponesi comunicarono il successo dell’attacco contro gli americani è che quello fu a sorpresa, mentre qui non si sorprende nessuno.
Il Tribunale amministrativo regionale di Palermo ferma i lavori per la realizzazione, oramai quasi completata, del Muos, sistema di comunicazioni satellitari. Lavori seguiti dalla Marina militare Usa, naturalmente in accordo con il governo italiano. Già a suo tempo fermati dalla Regione Sicilia, dopo che al suo vertice era arrivato il megafonato esponente anti-Muos, Rosario Crocetta. Poi riavviati per ferma volontà del nostro ministero della difesa. Nelle stesse ore i lavori per il Tap (Trans adriatic pipeline), rete necessaria all’approvvigionamento energetico, che erano stati da poco sbloccati dal Tar del Lazio, finiscono oggetto d’inchiesta penale, a cura della procura della Repubblica di Roma, che indaga sulle procedure seguite dal ministero dell’ambiente e che avevano portato al rilascio della Via (valutazione impatto ambientale). Può essere questione militare o economica, riguardare la sicurezza o l’energia, coinvolgere alleati o partners, smentire autorità locali o nazionali, ma tutto finisce in toga.
Se ne potrebbe dedurre, in un eccesso d’ottimismo, che in Italia si largheggia nel tutelare la certezza del diritto. È vero il contrario: si è generosi nell’ingigantire la sua incertezza. Tutti e due i casi citati, del resto, si basano sull’interminabile diatriba circa la nocività dei lavori già autorizzati e in corso. Il che non tutela affatto la salute pubblica, limitandosi a moltiplicare i costi e diluire i tempi dei lavori stessi. Dato che a contraddirsi sono autorità pubbliche, ciascuna teoricamente incaricata di tutela del diritto, della salute e dell’ambiente, il succedersi singhiozzante di decisioni contraddittorie certifica che il diritto tutto è, dalle nostre parti, meno che certo.
Le comunicazioni satellitari funzionano in tutto il mondo, senza generare disastri. Esporsi a emissioni ad alta intensità è certamente pericoloso, non a caso tale genere d’impianti si trovano in zone che dovrebbero essere adeguatamente protette e isolate. Ma pur sempre su questa terra. L’area che si trova a Niscemi, in Sicilia, è stata ripetutamente considerata adeguata nel non creare pericoli per la popolazione civile. La quale, del resto, usa abbondantemente le comunicazioni satellitari per tante cose cui nessuno rinuncerebbe, dalla televisione ai telefoni. Trovi sempre, però, qualcuno pronto a scrivere il contrario, ovvero che qualche pericolo residua. Il che è anche vero, ne sono sicuro, perché il solo modo per sottrarsi ai pericoli connessi allo sviluppo e alla civilizzazione consiste nel vivere da eremiti, lontani da ogni illuminazione e comunicazione, quindi non nel pericolo, ma nella certezza di crepare al primo mal di denti.
In tutto il mondo le tubazioni portano verso i clienti il gas e il petrolio estratto in altro luogo del pianeta. Così come gli elettrodotti portano l’energia con cui alimentiamo le nostre case, stampiamo questo giornale e scrivo questo articolo. I campi di margherite sono più belli da vedersi, non lo discuto, ma dubito assai che la regressione allo stadio pre-energetico suggerisca all’umanità di lanciarsi nella passione per la botanica. Anzi, ora che ci penso, sarebbe impossibile, perché i fertilizzanti e i pesticidi si producono con petrolio, energia e chimica.
Questi procedimenti giurisdizionali, per la natura dei lavori che colpiscono, si proiettano in mondovisione, rendendo chiaro il perché l’Italia della genialità e degli ottimi lavoratori è anche Paese dal quale stare lontani: per le pessime regole. Certo che il cittadino anelante giustizia è bene trovi un giudice che possa dargli ragione, o torto. Male che ne trovi una moltitudine, pronta a smentirsi e riprodursi. Un incubo. La giustizia funzionante, nella sua promessa di equità e nella sua continua minaccia di severità, è un bene non rinunciabile. Ma per farla funzionare va anche riordinata e sfoltita. Il procedimento amministrativo è divenuto una barzelletta che non fa ridere. La giustizia contabile non aspira neanche al rango di barzelletta, è una scemenza. Le sovrapposizioni fra penale, fiscale, civile e amministrativo producono caos. Non ci sono sistemi perfetti, ma non è una buona ragione per tenerci il peggiore, fra quelli civili.
Delega fiscale, il verso dell’avvoltoio
Redazione Edicola - Opinioni bad bank, davide giacalone, delega fiscale, fisco, libero
Davide Giacalone – Libero
Prima era agghiacciante, ora è devastante. Il decreto legislativo nato sotto al titolo “certezza del diritto” non riesce ad assicurare neanche la certezza della data, in compenso è già garantito che per inseguire quella certezza si dovrà venire meno a quanto prevede la legge, ovvero la scadenza della delega fiscale, fissata al prossimo 27 marzo. Un anno di tempo non è stato sufficiente al governo, altrimenti noto per voler fare tutto velocemente e a passo di carica. Prorogare è meglio che perdere del tutto l’occasione di riformare, certo. Ma guai a far finta di non capire cosa questo significa. Se neanche la delega fiscale prende corpo, essendo un atto governativo e non dipendendo dalle maggioranze parlamentari, vuol dire che attraverseremo l’anno iniziato fidando solo sulle spinte esterne, senza coinvolgimenti economici e legislativi interni, e ciò porterà a chiuderlo senza modificare le previsioni, che ci vedono in crescita meno della metà dell’eurozona. Non è robetta, è robaccia.
La semplificazione fiscale, essenziale per la crescita quanto la discesa della pressione, è direttamente connessa alla materia degli accertamenti, della certezza del diritto, della giustizia tributaria, del coinvolgimento penale e delle modalità di riscossione. Tutto questo è rinviato a maggio. Decretare a maggio significa avere rinunciato a vedere i risultati delle novità nel 2015. Nel frattempo continueranno a essere avviati procedimenti penali che poi cadranno nella zona delle depenalizzazioni, quindi a far svolgere lavoro inutile. Il tempo perso non è solo guadagno mancato, ma anche spesa sprecata.
La delega fiscale, e il conseguente riassetto della materia, è anche l’occasione per non rendere devastanti gli effetti del reverse charge Iva. È una materia che a molti non dice nulla, ma i cui effetti riguardano tutti. In settori che vanno dalle costruzioni alle forniture verso la pubblica amministrazione, puntando anche a quelle verso la grande distribuzione (i supermercati, si attende solo il via libera Ue), l’Iva non è più messa nella fattura che il cliente paga, ma scorporata da quella e versata dal cliente direttamente al fisco. Apparentemente non cambia nulla ma nella realtà cambia tutto, perché i fornitori si ritrovano con il 22% in meno di cassa, sebbene per cifre da gestire finanziariamente e dover poi sborsare. Ciò li porta, tutti, ad andare pesantemente a credito d’Iva. Poco male, se non fosse che lo Stato non paga i suoi debiti, che consistono in quei crediti. Quindi l’Iva diventa, per quelle società, un costo da sopportare per un tempo troppo lungo. In queste condizioni saltano.
Nei giorni scorsi abbiamo parlato di quella che, impropriamente, è chiamata “Bad Bank”, in pratica uno strumento per sgravare le banche di crediti incagliati e deteriorati, in modo che possano fornire più credito al sistema produttivo. Ma il rischio grosso è che il maggior credito andrà a finanziare proprio l’inefficienza dello Stato: che prende e non restituisce, non paga e ritarda le riforme. Quel credito, dunque, almeno per sua parte consistente, non genererà produzione sviluppo ma galleggiamento in attesa che l’elefante state decida di togliere le terga dal groppone di chi lavora. E mentre questa attesa consuma le settimane, i mesi e gli anni, i concorrenti che lavorano in altre parti dell’eurozona (non dico mica in Asia, no, qui in Ue) si muovono con meno zavorre e pesi morti. Ecco (anche) perché cresciamo la metà degli altri.
La notizia è: in campo discale possiamo ancora aspettare fino a settembre, sicché gli effetti si vedranno nel 2016, quando, secondo i dati della Commissione europea che abbiamo già pubblicato, il nostro svantaggio relativo si sarà ulteriormente accresciuto. Non s’è mai capito cosa significhi “cambiare verso”, ma temo che questo sia il verso dell’avvoltoio.
Nessuno è innocente nella tragedia greca
Redazione Edicola - Opinioni euro, europa, grecia, l'espresso, luigi zingales
Luigi Zingales – L’Espresso
Nelle tragedie dell’antica Grecia l’eroe era al tempo stesso colpevole e innocente. Si pensi ad Edipo, che uccide il padre e sposa la madre. Ha commesso due orribili crimini, parricidio ed incesto, e in quanto tale è colpevole. Ma ha agito inconsapevolmente. Non è forse anche innocente?
Nella stessa situazione si trova oggi il popolo greco, di fronte alla tragedia economica. Da un lato è colpevole. Colpevole di aver vissuto per anni al di sopra delle proprie possibilità, per di più mentendo al mondo intero sulla reale situazione delle proprie finanze. Una volta ricalcolato correttamente, il deficit di bilancio del governo greco nel 2009 era 16% del Prodotto interno lordo. La cosiddetta austerity, ovvero il taglio della spesa pubblica, non è una cattiveria imposta dalla Troika, ma una necessità, il frutto inevitabile di una colpa. Il popolo greco è anche colpevole di aver dilapidato una fortuna nelle Olimpiadi del 2004 (Renzi pensaci finché sei in tempo) e in spese improduttive e clientelari. Infine il popolo greco è colpevole di aver votato per anni due partiti, uno più corrotto dell’altro: vivevano di clientelismo finanziato dalla spesa pubblica e di favori fatti ai potenti oligarchi, che controllano quel poco di economia privata che funziona, e ai capi sindacali, che controllano il resto. Ma allora hanno ragione i tedeschi che sostengono che la Grecia deve pagare per le sue colpe?
Come nelle tragedie greche, la risposta non è così semplice. Il popolo greco, al pari di Edipo, era per lo più inconsapevole. Inconsapevole dei falsi in bilancio dei propri governi, almeno quanto lo erano i funzionari dell’Unione Europea che oggi si ergono a giudici. Inconsapevole dell’insostenibilità della propria situazione economica, almeno quanto le banche francesi e tedesche che hanno prestato, senza troppa attenzione, i soldi che hanno permesso ai greci di continuare a spendere. Inconsapevole che l’aiuto offerto dall’Unione Europea e dal Fiondo Monetario Internazionale era innanzitutto un aiuto alle banche tedesche e francesi. Ma allora ha ragione Syriza a chiedere un taglio del debito e la fine dell’austerità? Anche in questo caso la risposta non è semplice. Oggi un taglio nominale del debito sarebbe difficile da ottenere e forse nemmeno così necessario. Se in termini nominali il debito rimane elevato, in termini reali no. La maturità del debito è stata allungata a tassi di favore. Quindi il peso reale del debito non è così elevato come appare.
Il vero problema della Grecia rimane la bilancia dei pagamenti. Per lunghi anni il paese ha importato più di quello che ha esportato. Negli ultimi anni si è avvicinata al pareggio, ma lo ha fatto solo grazie a un crollo delle importazioni: la contrazione del reddito interno ha ridotto i consumi e soprattutto i consumi di beni esteri. Purtroppo le esportazioni non sono cresciute. Una ripresa del reddito, quindi, porterebbe inevitabilmente un deficit della bilancia commerciale difficilmente sostenibile. Per risolvere questo problema non c’è che una svalutazione. Ma finché la Grecia rimane nell’euro non ha questa possibilità. Il nuovo governo greco capeggiato da Syriza vorrebbe una ripresa dei consumi in Grecia senza un’uscita della Grecia dall’euro. A meno di un drammatico cambio della competitività della Grecia, i due obiettivi sembrano incompatibili. Prima o poi Syriza dovrà cedere su uno dei due. È più facile che ceda sul secondo.
Nelle tragedie di Euripide, l’ultimo degli autori classici, venne introdotto il “deus ex machina”, ovvero un personaggio divino calato sulla scena mediante una macchina teatrale per risolvere la situazione quando l’azione era tale che i personaggi non avevano più vie d’uscita. Anche l’odierna tragedia greca ha un disperato bisogno di un deus ex machina. Senza di esso, un’uscita della Grecia dall’euro sembra inevitabile, anche contro la volontà del popolo greco, che a stragrande maggioranza vuole rimanere nella moneta comune. Senza un deus ex machina a rimetterci saremo anche noi spettatori.
Punto Economia – Puntata n.2
Redazione Media davide giacalone, impresalavoro, massimo blasoni, Punto Economia, simone bressan, telefriuli
L’approfondimento di Telefriuli curato dal Centro Studi ImpresaLavoro, in onda ogni giovedì alle 20.15 – Puntata del 12 febbraio 2015
È al capolinea l’Europa dei piccoli passi
Redazione Edicola - Opinioni Adriana Cerretelli, europa, il sole 24 ore
Adriana Cerretelli – Il Sole 24 Ore
Se è vero, come è vero, che l’Europa riesce a fare passi avanti soltanto quando arriva sull’orlo del burrone, questa volta si potrebbe essere molto ottimisti sul suo futuro. Al momento, infatti, di precipizi davanti non ne ha uno ma due. La Grecia di Alexis Tsipras che, se tirerà troppo la corda pensando di stare a un tavolo di poker invece che a una partita negoziale regolata da Trattati e patti precisi e vincolanti, finirà per fare default trascinando nella sua caduta coesione, irreversibilità e credibilità dell’euro, con tutte le incognite del caso.
E la Russia di Vladimir Putin, la sfinge che da un anno non cessa di mestare nelle disgrazie dell’Ucraina, di fare la guerra parlando di pace, firmando gli accordi di Minsk dopo aver annesso la Crimea e poi alimentato, imperturbabile, la secessione del Donbass e domani chissà di cosa ancora. Raramente per l’Europa una giornata ha avuto una carica di potenziale portata storica come quella di ieri, con la riunione straordinaria a Bruxelles dell’Eurogruppo per discutere le richieste ufficiali di Atene ai partner e, nelle stesse ore, l’incontro a Minsk tra il cancelliere tedesco Angela Merkel, i presidenti francese François Hollande, ucraino Petro Poroshenko e Putin. Con la speranza di veder finalmente attuati gli accordi di Minsk finora vilipesi e violati tanto che nei loro cinque mesi di vita hanno cambiato la situazione sul terreno: l’Ucraina si è fatta più piccola, i separatisti con l’appoggio russo non cessano di combattere e allargarsi. Tensione altissima, incomunicabilità diffusa intorno ai due tavoli paralleli. E tra loro il rischio di intrecci pericolosi.
Come ha già fatto con Cipro, Putin corteggia apertamente con profferte di aiuti la nuova Grecia (il suo ministro degli Esteri proprio ieri era in visita a Mosca), la quale coglie la palla al balzo per dire che, se non li otterrà dai partner europei, si rivolgerà altrove, a Russia, Cina e Stati Uniti. Gradassate? Anche: di questi tempi le casse russe non straripano e l’80% dei greci vuole restare nell’Unione. L’Europa comunque non sta solo a guardare. Al vertice di oggi a Bruxelles ha invitato Poroshenko, una scelta politica che è anche uno sgarbo deliberato allo zar del Cremlino. La verità è che è ormai al capolinea l’Europa dei piccoli passi, delle mezze misure, degli accordi ambigui, delle inclusioni “buoniste” a garanzia del quieto vivere, l’Europa che si illudeva che la storia, la geografia e le sue stesse contraddizioni non le avrebbero un giorno tirato brutti scherzi e presentato il conto. Era convinta di cavarsela con l’integrazione selettiva, il mercato unico incompleto e l’unione monetaria senza quella economica e neanche politica, unico caso al mondo di moneta comune e pluricefala. Incassato lo shock della riunificazione tedesca, si era addormentata sul dopo Yalta, certa che l’inviolabilità delle frontiere fosse un dogma intoccabile per tutti, la pace sul continente una conquista eterna e irreversibile, la cultura pacifista una sorta di dovere sociale e l’euro-difesa un diritto troppo costoso e anche inutile con le garanzie della Nato e dello scudo americano.
Improvvisamente il crollo delle certezze, le violente spallate all’ordine costituito, economico e geo-politico, dalla democrazia greca in rivolta contro l’eccesso di rigore e di sacrifici e da un Putin in visibile difficoltà di fronte a un paese allo sfascio, entrambi accumunati dalla stessa accecante emotività nazionalista. E così l’Europa è costretta a guardarsi in faccia, a decidere senza perdere altro tempo, che cosa vuole fare di se stessa e del suo futuro. La sfida di Tsipras può trasformarsi in una provocazione intelligente e costruttiva solo se saprà fermarsi al momento giusto e negoziare con realismo dentro i paletti delle regole europee. Solo così potrà alleggerire il fardello del debito e dell’austerità in Grecia. In caso contrario, Grexit potrebbe essere dietro l’angolo. Tutti i creditori sono in linea e i tempi di un’intesa sono strettissimi: quelli dell’Eurogruppo di lunedì. L’assistenza Ue scade a fine mese e per approvare eventuali modifiche agli accordi il Budenstag sarà in sessione tra il 23 e il 28 febbraio. Con Putin l’Europa è condannata a subire: non è in grado di ristabilire lo status quo ante in Ucraina, le sanzioni non servono. Potrà solo prendere atto, con un futuro accordo Minsk-2, delle nuove frontiere scavate dalla guerra e sperare che questa volta funzioni. Portando davvero la pace e fermando il contagio della destabilizzazione continentale prima che attraversi i confini Ue per colpire i Baltici o qualche paese dell’ex-impero. Comunque la si guardi la lezione della doppia crisi che l’aggredisce è la stessa: non è più tempo di abdicare alle proprie responsabilità rifugiandosi nel gioco degli equivoci. L’Europa a metà non funziona: né in casa né fuori. Sia pure in modo molto diverso, Tsipras e Putin ne sono la prova.
Troppe “bad bank” in casa
Redazione Edicola - Opinioni bad bank, banche, francesco manacorda, la stampa
Francesco Manacorda – La Stampa
La «bad bank» con i soldi pubblici? In attesa che si concretizzi, una buona fetta del sistema bancario pare impegnata – suo malgrado – a farsela in casa, accumulando perdite record su crediti concessi nel passato e che adesso non si riescono più a esigere dai clienti. Solo ieri Mps ha annunciato perdite nell’esercizio per 5,3 miliardi dopo rettifiche sui crediti per quasi 8 miliardi, mentre il Banco popolare perde 2 miliardi a fronte di 3,5 miliardi di rettifiche sui crediti, e il piccolo Credito Valtellinese accumula comunque oltre 300 milioni di perdite. Nello stesso giorno, mentre nuovi atti giudiziari raggiungono i vertici di Ubi Banca, la Banca d’Italia commissaria Banca Etruria per problemi patrimoniali legati guardacaso a «consistenti rettifiche sui crediti».
Un panorama drammatico che da una parte deve spingere a considerare se sono stati fatti errori in fase di negoziazione con la Bce sui criteri con cui valutare la qualità del credito – le maxisvalutazioni di questi giorni sono figlie anche delle nuove regole di Francoforte – e dall’altra porta a chiedersi se dopo questa ennesima operazione-pulizia i bilanci bancari siano adesso davvero in ordine. Insomma, è finita la lunghissima fase in cui il crollo dell’economia reale ha colpito i bilanci bancari e adesso si può sperare che il settore creditizio possa finalmente servire da volano per una ripresa dell’economia? La questione è essenziale, perché il Quantitative easing, l’iniezione di liquidità che la Banca centrale europea farà da marzo per spingere l’economia, deve passare proprio dal sistema creditizio per arrivare al suo obiettivo e curare l’Eurozona dal male della deflazione. Le banche maggiori dimostrano di essere abbastanza in salute e quindi pronte anche ad assumere questo ruolo, ma quando si scende un po’ più in basso nel sistema creditizio i problemi non mancano.
Il governo ha messo mano in modo assai deciso alla riforma delle banche popolari, anche per sciogliere un groviglio di interessi che il più delle volte manteneva al potere per decenni una casta di banchieri di provincia – e non solo – al tempo stesso padroni assoluti della banca e fedeli servitori dei loro creditori di riferimento, spesso presenti in veste di azionisti. È stata una scelta giusta, ma non è la sola scelta che andrebbe fatta. Il Pd guidato dal segretario Matteo Renzi, azionista di maggioranza del governo guidato dal premier Matteo Renzi, non può ignorare degenerazioni come quella del Mps, legata storicamente – come e più di tante Popolari – alla politica locale, ovviamente targata Pd. Chi si è preso la briga di fare qualche calcolo ha visto ieri che in tre anni sono stati oltre 10 miliardi i crediti di Mps finiti sostanzialmente in fumo. L’ennesima prova che il binomio banca&politica, che sia declinato in chiave iperlocale o meno, è garanzia quasi sicura di scadente qualità del credito.
Premi e assenteismo, se la Corte dei Conti salva solo se stessa
Redazione Edicola - Argomenti corruzione, corte dei conti, il giornale, lavoratori, lavoro, paolo bracalini
Paolo Bracalini – Il Giornale
«Una corruzione devastante per la crescita». Come ogni monito della Corte dei conti anche dall’ultimo esce un Paese allo sbando, una pubblica amministrazione preda di sciacalli, tangentari, ladri di ogni tipo. Ma chi vigila su questo disastro di pubblica amministrazione? La Corte dei conti stessa, per l’appunto. Che però, quando si tratta di giudicare il proprio operato, pur di fronte ad uno scenario descritto come devastante, si promuove a pieni voti. Basta guardare le tabelle sugli incentivi e premi pubblicati dalla magistratura contabile nella sezione «Trasparenza» per l’ultimo anno disponibile, il 2011 (e quelli più recenti?). Anche per i severissimi giudici contabili non ci si distacca da una prassi molto diffusa negli uffici pubblici italiani: la percentuale schiacciante cioè di funzionari modello che si meritano, ogni anno, un premio economico in aggiunta allo stipendio. Nel caso della Corte dei conti, su 2.477 dipendenti totali (circa 600 magistrati), le pecore nere che non hanno avuto incentivi o bonus sono stati soltanto 56, gli altri 2.421 invece hanno incassato premi fino a 1.760 euro a testa per i risultati ottenuti nel controllo di sprechi, opacità e dissesti delle finanze pubbliche, oggetto però di malagestione e corruzione come denunciato dalla stessa Corte. Se la percentuale di premiati si avvicina al 100%, non così avviene per le presenze negli uffici. A gennaio 2014 un terzo degli uffici superava il 30% di assenze, mentre negli ultimi mesi dell’anno ferie e malattie sono calate, anche se con punte del 26% all’Ufficio servizi sociali o e del 27% all’Ufficio centralino.
E come sono i conti della Corte dei conti? Nel decreto di approvazione del bilancio firmato dal presidente Raffaele Squitieri, segnala come le misure della spending review «abbiano inciso in modo evidente anche sulle risorse assegnate alla Corte dei conti». Rispetto al 2014, parliamo di un 5% in meno di fondi. Quest’anno, per il funzionamento della Corte dei conti, andranno 268.427.893 euro, 12 milioni in meno del 2014. La dieta a cui la spending review ha costretto i magistrati contabili – che non sembrano averla gradita particolarmente – non tocca però alcune voci di spesa, definite «non modulabili», cioè intoccabili. Leggiamo: «Risultano incomprimibili le spese non rimodulabili, che incidono per circa il 78% sul totale del bilancio, con una percentuale del 74% riservata alle competenze fisse ed accessorie a favore di tutto il personale. In particolare, per i capitoli relativi al trattamento economico del personale di magistratura si rileva uno stanziamento invariato rispetto a quello del precedente esercizio».
La spesa per gli stipendi e il personale, dunque, resta «incomprimibile». Il totale previsto per questa voce, nel 2015, è di 236 milioni di euro. I vertici hanno subito il taglio della retribuzione al tetto di 240mila euro fissato dal governo. Così, se fino al 30 aprile 2014 al presidente della Corte andavano 311mila euro, ora lo stipendio, al netto di contributi previdenziali e assistenziali, è solo di 227mila euro. Tra i 150mila e i 200mila sono gli altri incarichi di vertice, mentre ai dirigenti vanno dai 70mila ai 135mila. Tra le spese del segretariato generale, «missione tutela delle finanze pubbliche», si trovano 140mila euro per «erogazione dei buoni pasto al personale di magistratura», 475mila euro come «indennità di rimborso spese di trasporto al personale di magistratura per trasferimenti nel territorio nazionale», 84mila per quelle all’estero, 76mila euro per «acquisto mobili e arredi», e 26 milioni complessivi come «retribuzioni corrisposte al personale di magistratura». I quali magistrati, poi, sono spesso impegnati fuori, con incarichi esterni. Il prospetto relativo al primo semestre 2014 conta 76 dipendenti, non solo magistrati, autorizzati a svolgere una funzione in un altro ente pubblico. Comuni, regioni, ministeri, Asl. Dove vengono chiamati a svolgere funzioni apicali. Come il consigliere Luigi Caso, che al ministero del Lavoro ricopre il ruolo di Capo di Gabinetto, o il consigliere Francesco Alfonso, capo dell’Ufficio del consigliere giuridico al ministero dell’Economia; o come i vari magistrati nei consigli di revisori o organismi di controllo di enti pubblici. Cioè proprio quella pubblica amministrazione verso cui la Corte dei conti lancia i suoi ripetuti (e sacrosanti) strali.
Il “salva Italia” del fisco poliziotto
Redazione Edicola - Opinioni fisco, francesco forte, il giornale
Francesco Forte – Il Giornale
In Italia il Fisco dispone già di 129 banche dati. Ma non gli basta. Ora chiede a tutte le banche e agli altri intermediari finanziari, comprese assicurazioni e fondi pensione, di trasmettere entro il 28 febbraio all’Agenzia delle entrate tutti i dati del 2013 di movimentazione di conti correnti, depositi, carte di credito, portafogli di titoli, accessi a cassette di sicurezza, premi assicurativi e contributi versati. Il fisco dovrà altresì riceverei dati sugli acquisti di oro e preziosi. Entro il 29 maggio dovranno esser inviate le stesse informazioni per il 2014. Una indigestione di dati, con molti effetti negativi.
Il principale è l’incentivo che essa dà a svicolare dalle operazioni bancarie il più possibile e a pagare in contante, aumentando le evasioni fiscali. La motivazione di ciò, genuina o di comodo, sarà che non si vogliono far conoscere al fisco i propri affari personali, che in uno Stato basato sulla libertà personale, dovrebbero essere protetti dalla privacy. Se si paga l’albergo con la carta di credito, il fisco può vedere dove uno va durante le trasferte fuori sede e dall’ammontare che spende può desumere se era solo o accompagnato. Il regalo di un gioiello, anche di modico valore, indica una possibile relazione con la persona a cui si è fatto il regalo. Gli studi sull’evasione mostrano che in genere le imposte vengono pagate in modo più fedele là dove il fisco è cortese e non vessatorio. È vero che le norme della legge «Salva Italia» del governo Monti, da cui questi obblighi derivano e i decreti di attuazione del governo attuale, che li applicano in modo estensivo anziché restrittivo, prescrivono che solo un particolare gruppo di funzionari fiscali può avere accesso a queste informazioni. Ma le fughe di notizie riservate è più la regola che l’eccezione. D’altro canto se il fisco ha troppi dati, l’eccesso di informazioni accresce la difficoltà della loro utilizzazione. Se si appesantisce il loro utilizzo informatico, aumenta la possibilità di errori.
Ci sono vari effetti negativi a carico del sistema bancario e previdenziale. Aumenteranno gli esodi di capitali verso l’estero. Comunque, c’è un nuovo disincentivo a dotarsi di un conto e di una carta di credito per gli italiani sopra i 16 anni che attualmente ne sono privi. Un altro effetto negativo riguarderà l’ ammontare dei conti bancari, dato il disincentivo a servirsene e la preferenza per il contante, mentre sarebbe desiderabile che accadesse l’opposto, per accrescere gli attivi degli istituti di credito. C’è anche un disincentivo ai fondi pensione, alle assicurazioni sulla vita, alle altre forme di risparmio, che possono essere interpretati come indice di ricchezza. Va notato che una parte dei personali redditi è tassato con cedolari secche e metodi catastali e quindi non risulta al fisco. Inoltre ci sono spese a carico del patrimonio e non del reddito. Ma il fisco, sulla base di questi indici di investimento finanziario, apparentemente eccessivi rispetto al reddito dichiarato, potrebbe fare partire degli accertamenti a campione torchiano contribuenti in regola, con controlli che destano sempre timore. E per le banche queste nuove incombenze per centinaia di milioni di conti comportano un costo, di cui esse si rivarranno sui clienti. Un lavorio enorme, per schedarci in ogni atto della nostra vita privata, che ci dobbiamo anche pagare. Il bello è che si chiama «Salva Italia».
E Cottarelli disse: la riforma Madia? Non ha risparmi
Redazione Edicola - Argomenti antonella baccaro, carlo cottarelli, Corriere della Sera, marianna madia, spending review
Antonella Baccaro – Corriere della Sera
Gli ormai mitici testi della spending review dell’ex commissario Carlo Cottarelli, reclamati da più parti in nome della trasparenza, restano tuttora coperti dal mistero. In compenso l’Istituto Bruno Leoni ha dato alle stampe l’ultimo discorso ufficiale del commissario: la «Lectio Marco Minghetti», tenuta a fine 2014, commentata da Lucrezia Reichlin (London Business School) e Nicola Rossi (Università Tor Vergata Roma). Parole, quelle di Cottarelli, che suonano talvolta caute, talaltra accusatorie. Come quando afferma che «non bisogna farsi illusioni: la riforma è stata avviata ma è lontano dall’essere completata», o quando ammette che la parte del leone nella spending «l’hanno fatta i tagli alle spese di beni e servizi», e che va verificato ex post che «gli enti territoriali siano riusciti effettivamente a raggiungere i risparmi» senza aumenti di tasse.
Ed ecco i messaggi in bottiglia: al ministro della Funzione pubblica, Marianna Madia, dice che «gli obiettivi della riforma della P.a. non sembrano includere, almeno non esplicitamente, il risparmio di risorse»: «Spero si possa ovviare» è la chiosa. E ancora: «Non si può tar tinta che (con i tagli ndr) non ci siano risparmi in termini di personale». Al governo (Letta e Renzi, l’incarico di Cottarelli è a cavallo tra i due esecutivi) rimprovera la mancanza di obiettivi: «In un anno non ho mai sentito dire che una certa proposta di spesa non è accettabile perché è contraria ai nostri principi fondamentali su quello che lo Stato dovrebbe fare». Ma anche che «occorre riconoscere che spesso scelte impopolari sono necessarie». E possono «comportare revisioni che toccano non solo i soliti “pochi privilegiati”, ma anche un’ampia fascia della popolazione».
Ed è ancora un’accusa quella del commissario che dice: «La complessità dei testi legislativi è tale che i vertici dei ministeri a partire dai ministri hanno difficoltà» a seguirne la definizione: «Non è talvolta chiarissimo chi abbia scritto materialmente questo o quell’altro comma». O quando, sull’attuazione delle leggi, sollecita «controlli di sostanza e non di forma» e «penalità in caso di mancata implementazione». Infine una curiosità: proponendogli l’incarico, il ministro del Tesoro, Fabrizio Saccomanni, spiegò che «si cercava una figura che elevasse il profilo del dibattito sulla revisione della spesa». D’accordo sul profilo ma il bilancio, commenta Rossi, è «piuttosto deludente». Alla spending è «mancata una motivazione» di fondo, conclude Lucrezia Reichlin.