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Quel baluardo così fragile delle banche greche
Redazione Edicola - Opinioni banche, euro, europa, fabio pavesi, grecia, il sole 24 ore
Fabio Pavesi – Il Sole 24 Ore
Nel delicato (e pericoloso) gioco a scacchi tra la Troika e il Governo di Alexis Tsipras le prime a rischiare sono le banche greche. Un’eventuale rottura nel difficile negoziato si propagherebbe come un uragano sul sistema creditizio, primo fragile baluardo della zoppicante economia ellenica. Le profonde oscillazioni dei titoli bancari che avvengono pressoché giornalmente ne sono la prova più evidente. Certo le condizioni di base non sono quelle della prima crisi di Atene che diede vita a una fuga eclatante dei depositanti che sono culminati nel settembre 2012 in una emorragia di ben 90 miliardi di soldi sottratti dai conti correnti, oltre il 30% dello stock totale. Da allora il sistema si è stabilizzato ma non ripreso. I volumi dei depositi sono risaliti da allora di soli 15 miliardi. E la nuova fiammata di tensione ha fatto uscire dai conti correnti almeno 3 miliardi in pochi giorni. Se le cose dovessero precipitare la fuga dalle banche potrebbe riprendere vigorosamente corpo, facendo ricollassare l’intero Paese.
Gli effetti di quella fuga mai colmata sono stati devastanti. Le pericolanti banche greche non solo hanno dovuto attingere ai rubinetti della Bce per ben 160 miliardi per sopravvivere, ma hanno dovuto drasticamente tagliare gli impieghi per un centinaio di miliardi. Ecco il cortocircuito che ha aggravato la già traballante economia ellenica. Ora il fabbisogno da Francoforte è sceso a 60 miliardi e le banche greche hanno ricominciato a approvvigionarsi sul mercato interbancario. Ma basterebbe molto poco, un passo falso di troppo per far riesplodere il bubbone. Nuova potente fuga dai conti, mercato interbancario di nuovo congelato e nuova richiesta di assistenza. Una via oggi difficilmente ripercorribile come allora. Ma non solo. Le banche greche sono solo apparentemente sicure: nonostante il taglio dei prestiti, la recessione ha portato un fardello enorme nei conti. Solo le quattro principali banche hanno in pancia tuttora sofferenze pari in media al 30% del totale degli impieghi. Difficile credere che ci possa essere un prodigioso rientro dei crediti inesigibili da molti anni nel breve termine. E allora quei bilanci andranno incontro nei prossimi mesi a nuove perdite per le rettifiche sempre rimandate, ma prima o poi da effettuare. Ecco perché la partita a scacchi di Tsipras vede come epicentro di un’eventuale nuova devastante crisi proprio il sistema creditizio. Il primo baluardo che cadrebbe in un attimo se la trattativa dovesse naufragare in malo modo.
Il fisco setaccia i conti
Redazione Edicola - Argomenti fisco, libero, sandro iacometti, tasse
Sandro Iacometti – Libero
Il grande fratello fiscale affila gli artigli. Il progetto, che viaggia sottotraccia da anni, era stato annunciato qualche mese fa. Obiettivo: fare in modo che il fisco abbia a portata di mouse la possibilità di controllare in qualsiasi momento anche il più piccolo dettaglio della vita finanziaria, lavorativa, sociale e anche biologica di ogni singolo contribuente. Tutto, ovviamente, nel nome della lotta all’evasione e della semplificazione, che dovrebbe passare per il progressivo trasferimento di una serie di adempimenti fiscali (vedi il 730 precompilato) dal cittadino all’amministrazione. L’operazione ruota intorno al progetto di «vista unica del contribuente» su cui lo scorso autunno il nuovo direttore dell’Agenzia delle entrate, Rossella Orlandi, ha iniziato a premere l’acceleratore. L’idea è quella di eliminare sovrapposizioni e duplicazioni e unificare tutti i flussi di informazione in un solo canale. I dati confluiranno poi in una Anagrafe nazionale della popolazione residente su cui il supercervellone della Sogei, Serpico (Servizi per i contribuenti), effettuerà controlli, incroci e verifiche.
La rivoluzione a cui sta lavorando la Orlandi si sviluppa su più fronti e prevede il coinvolgimento di tutti i soggetti in possesso di informazioni sensibili dei contribuenti, dai sostituti d’imposta ai commercialisti, fino agli enti previdenziali e alla sanità. Punta di diamante del progetto resta, comunque, il cosiddetto archivio dei rapporti, il contenitore dell’Anagrafe tributaria a cui tutti gli intermediari finanziari (banche, assicurazioni, sim e Poste), come previsto dal Salva Italia di Monti, devono periodicamente inviare le informazioni sui clienti. Incamerati negli scorsi anni i dati relativi al 2011 e 2012, il direttore dell’Agenzia delle Entrate ha deciso ora di cambiare passo. Nel provvedimento firmato ieri si stabiliscono infatti le nuove regole per l’invio dei dati. Tempi strettissimi per le informazioni relative al 2013, che dovranno avvenire entro il 28 febbraio, e al 2014, entro il 29 maggio. Poi, dal 2016, il sistema entrerà a regime, con l’invio periodico delle comunicazioni relative all’anno precedente entro il 15 febbraio. La banca dati sarà ricca di informazioni. Ci sarà non solo il nome dei contribuente ma anche il codice identificativo del rapporto, il saldo di inizio e fine anno, l’importo totale dei movimenti attivi e passivi dell’anno.
La novità principale, nell’ottica dell’unificazione di cui si diceva, riguarda le modalità di trasmissione dei dati. Al momento, infatti, le comunicazioni mensili, con le intestazioni dei rapporti attivi, e quelle annuali, con i saldi, viaggiano su un doppio binario: mensilmente tramite Entratel e Fisconline, annualmente tramite Sid (il nuovo Sistema di interscambio dati). Dal 2016 tutto viaggerà tramite Sid. Un’infrastruttura che rispetta standard di sicurezza più elevati e risponde anche alle perplessità sollevate a suo tempo dal Garante della privacy sul rischio di vulnerabilità dei dati sensibili dei contribuenti. L’utilizzo di un solo canale di trasmissione rientra in uno schema di unificazione dei flussi, ma complicherà molto la vita agli intermediari. La sua gestione richiede infatti una serie di accorgimenti tecnici e di automatismi che risulteranno gravosi per gli istituti più piccoli. Basti pensare che nel 2011 il 77% degli operatori finanziari (10mila su 13mila) aveva meno di 100 rapporti da segnalare. Mentre 260 operatori avevano complessivamente più di 550 milioni di rapporti su un totale di 600 milioni. Con il nuovo sistema le segnalazioni mensili conterranno anche il codice univoco del rapporto oltre alle informazioni del tipo e natura e dei soggetti collegati. Un modo per rendere più facile al cervellone il collegamento di polizze, conti, titoli, mutui e tessere telefoniche con ogni singolo contribuente.
Bad & Bank
Redazione Edicola - Opinioni bad bank, banche, davide giacalone, libero
Davide Giacalone – Libero
Alleggerire i bilanci delle banche dal peso dei crediti sofferenti e incagliati è utile. Trasferirli al contribuente non è solo inaccettabile, ma anche pericoloso. Siccome andiamo verso la creazione di un contenitore dove scaricarli, che lo si chiami Bad Bank o meno, e siccome in quello avrà un ruolo lo Stato, quindi i contribuenti, meglio fissare dei paletti e rendere comprensibile a tutti la faccenda, senza inutili tecnicismi.
Le banche sono imprese il cui mestiere consiste nel raccogliere il denaro e darlo in prestito. Se lo prestano a soggetti sbagliati, talché non ne ricevono indietro il giusto guadagno, o, addirittura, non rivedono più i quattrini, è segno che fanno male il loro mestiere. Quindi è bene che falliscano. Se questa è la regola generale si deve anche aggiungere, però, che dopo tre anni di recessione e quattro lustri di perdita di competitività, molti crediti si sono deteriorati non per colpa delle banche, ma perché i debitori non sono stati più nelle condizioni di pagare. Così come si deve aggiungere che, fin qui, l’Italia ha speso poco e niente per aiutare le proprie banche mentre tedeschi, francesi e inglesi (per citare solo i più grossi) hanno già abbondantemente messo mano al portafoglio pubblico.
Posto ciò, se lo strumento per raccogliere i crediti deteriorati (circa 300 miliardi, di cui più di 180 sulla soglia dei soldi persi) fosse un consorzio fra banche, quindi tutto privato, il compito pubblico sarebbe solo quello di verificarne la trasparenza e affidabilità. Per il resto: affari loro e del mercato. Ma non andrà cosi, perché non solo si parla di intervento pubblico, ma il ministro dell’economia, Pier Carlo Padoan, ha detto di averne parlato con la Commissione europea e di avere chiarito che non si tratterebbe di aiuti di Stato (che sono proibiti). Se il dubbio c’è vuol dire che il problema sussiste. Il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, ha detto che l’intervento pubblico può configurarsi in due modi: a. prestando garanzia; b. defiscalizzando l’operazione. Nel primo caso ci si appoggia ai soldi pubblici, nel secondo si rinuncia al gettito. ln tutti e due si fa riferimento ai soldi dei contribuenti, senza contare che è in discussione anche l’ipotesi di finanziare direttamente il fondo. Si deve fare? A quali condizioni? E che altro è bene fare?
Togliere quei pesi dai bilanci bancari serve a rendere maggiormente possibile l’erogazione di credito verso il sistema produttivo. Sì, si deve fare. Facendolo, però, si alleggeriscono le banche anche dai loro errori. Il che è distorcente e corruttivo, quindi si mettano delle condizioni: a. l’intervento deve essere temporaneo; b. le cartolarizzazioni devono essere negoziabili e le perdite, alla fine, devono essere ripartite per quota fra chi le ha generate; c. nel corso di questa operazione, per tutta la sua durata, ciascuna banca che avrà crediti sgravati nel fondo (a partecipazione o garanzia pubblica, diverso se privato) non potrà pagare un solo centesimo di premi ai propri dirigenti. Il premio, semmai, dovrebbero darlo ai contribuenti. In altre parole: il ricorso alla garanzia pubblica deve essere possibile, ma disincentivato. Il tutto senza dimenticare che il nostro è un sistema esasperatamente bancocentrico. Siccome non siamo geneticamente diversi da paesi dove la realta è più equilibrata, la ragione va cercata in un fisco satanico, nemico dell’impresa, e in una burocrazia stregonesca. Mali per curare i quali non servono i soldi del contribuente, ma serve prendergliene di meno e ridurre o cancellare superfetazioni inutili e dannose.
La doppia morale di Tsipras
Redazione Edicola - Opinioni alberto mingardi, euro, europa, grecia, la stampa, tsipras
Alberto Mingardi – La Stampa
Ci sono diversi modi per raccontare la crisi greca. Uno, molto semplice, punta l’attenzione su un dato di fatto. Per certo, sappiamo che una delle parti in trattativa è il governo, piaccia o non piaccia, democraticamente eletto (quand’anche con poco più di un terzo dei suffragi) dal popolo greco. Chi sia la controparte è meno chiaro. C’è la Banca centrale europea, monumento di sapienza tecnocratica che suscita sospetto e diffidenza. C’è il Fondo monetario internazionale. E poi la Commissione europea: non c’è un solo europeo che si senta «rappresentato» da questo esecutivo continentale, che non si capisce bene cosa faccia né tantomeno a chi risponda. Sono della partita anche i governi nazionali: Matteo Renzi ha chiuso la porta a soluzioni «creative» del problema greco, non prima di aver regalato una cravatta ad Alexis Tsipras. I governi nazionali temono una Grecia insolvente, perché essi stessi le hanno prestato quattrini. Sui giornali sono apparse le simulazioni del costo pro capite di un default di Atene, per gli altri cittadini europei. La gente, però, presta poca attenzione. Sono decisioni che sente lontane. Alzi la mano chi, alle scorse elezioni europee, ha votato pensando non a vaghi ragionamenti sulla «austerità» ma alle concrete modalità di funzionamento dei meccanismi anti-crisi.
La narrazione, lo storytelling, democrazia contro tecnocrazia è appassionante. Ecco perché ci sta investendo proprio Tsipras, il cui motto è «democrazia dappertutto». Nel suo discorso al Parlamento, ha rinnovato gli impegni elettorali: aumenterà il salario minimo, fermerà le privatizzazioni, alzerà la soglia della no tax area. Un programma centrato su un aumento di spesa pubblica, senz’altro non bilanciato dalla riduzione del 50% del parco macchine blu e neppure dalle sforbiciate ai costi della politica o dalla lotta all’evasione. Auguri ai greci, ma almeno in Italia sembra il solito libro dei sogni delle coperture. Secondo Tsipras, «l’austerità non ha soltanto impoverito il nostro popolo ma lo ha privato del diritto di decidere». Decidere, ma coi soldi di chi? Nello storytelling democrazia contro tecnocrazia, il «diritto di decidere» viene sottratto ai popoli per la vendetta di entità misteriose, i «mercati», che si divertirebbero a calpestarne le prerogative. A questi «mercati», gli Stati, fra cui la Grecia, hanno per anni chiesto prestiti: che per definizione a un bel momento devono essere ripagati. Questi prestiti li hanno chiesti per «decidere», direbbe Tsipras. Decidere stanziamenti, programmi, sussidi.
Indebitarsi non è mai stato obbligatorio. Se uno Stato vuole fare più cose, può sempre aumentare le tasse. In questo caso, la popolazione si accorge immediatamente del costo di «solidarietà», «investimenti» e «Stato sociale». Accorgendosene, potrebbe pensare che è meglio vivere in un Paese dove la spesa pubblica è un po’ meno generosa, ma le persone possono decidere da sé che fare di una quota maggiore dei propri redditi. Se lo Stato s’indebita, il problema non si pone: qualcuno un bel giorno il conto lo dovrà pagare, ma non gli elettori che votano alle prossime elezioni. La classe politica promette allegramente: nel lungo periodo, saremo tutti morti. Non ha torto chi ricorda che gli Stati hanno sempre disposto dei loro debiti in modo diverso dalle famiglie o dai comuni cittadini: cioè che hanno sempre evitato, quando possibile, di onorarli. Il ricorso alla svalutazione li aiutava a diluirne il peso. Grazie all’odiata Troika, la Grecia di Tsipras oggi ha un avanzo primario e potrebbe, nel breve, continuare a pagare gli stipendi. Nel medio periodo, farebbe fatica a chiedere nuovi prestiti, come qualsiasi debitore insolvente.
Diceva Adam Smith: «Ciò che è saggezza nella gestione di ogni privata famiglia, difficilmente può risultare follia nel governo di un grande regno». La questione è tutta qui. È giusto che ci sia una «doppia morale»? Gli Stati già fanno cose che nessun altro può fare: se vengo fermato dopo aver rapinato una banca, ho un bel dire alla polizia che volevo soltanto ridurre le diseguaglianze. È auspicabile che gli Stati possano considerare i loro debiti carta straccia? Se così fosse, non si capirebbe perché qualcuno debba prestar loro dei soldi: e non solo alla Grecia. Tanto peggiore è la reputazione dei governi, tanto più alti sono gli interessi che dovranno corrispondere, per avere credito. E perché di uno Stato che non paga i suoi debiti i cittadini dovrebbero fidarsi quando promette loro la pensione, quando giura che non abuserà dei dati confidenziali in suo possesso, quando dice la sua verità alle famiglie delle vittime di un dirottamento aereo? Dove passa il confine fra le bugie lecite e quelle illecite? Per «decidere» Tsipras intende: scegliere senza subire le conseguenze delle proprie scelte. È un diritto che tutti sogniamo, ma che nessuno dovrebbe avere.
Imu agricola col perdono
Redazione Edicola - Argomenti agricoltura, francesco cerisano, imu, italia oggi, tasse
Francesco Cerisano – Italia Oggi
Niente sanzioni e interessi per i ritardati o erronei versamenti dell’Imu agricola. Si è chiuso ieri, ultimo giorno per pagare l’imposta, la telenovela che per due mesi ha creato tensioni nel governo e tra i contribuenti, fino ad arrivare al clamoroso dietrofront con cui l’esecutivo ha abbandonato la classificazione altimetrica tornando a quella Istat. La buona notizia è che a coloro che hanno sbagliato a versare non dovrebbero essere irrogate sanzioni da parte dei Comuni, a condizione che la regolarizzazione avvenga in tempi brevi. Un emendamento in tal senso potrebbe essere depositato in commissione Finanze del Senato dove è all’esame il decreto legge n.4/2015. Quello che ha esentato totalmente 3.456 Comuni classificati come totalmente montani dall’Istat, non facendo pagare l’Imu ai coltivatori diretti e agli imprenditori agricoli negli enti parzialmente montani. Secondo quanto risulta a ItaliaOggi, sull’ipotesi di sanatoria sarebbe già al lavoro il relatore, Federico Fornaro, che peròo attenderebbe l’ok del governo per formalizzare la proposta, a favore della quale militerebbero ragioni di «galateo tributario» (lo Statuto del contribuente sterilizza le sanzioni in presenza di obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione della norma e vieta di imporre adempimenti fiscali prima che siano decorsi 60 giorni dall’entrata in vigore delle disposizioni) unite a un importante precedente: quello della cosiddetta «Mini-Imu» del 2014. Se ne saprà qualcosa in più domani quando il governo sarà presente in commissione per iniziare a valutare gli emendamenti che dovranno essere presentati entro le ore 18. Tra questi, un nutrito pacchetto di proposte di modifica arriva dall’Anci che ieri in audizione ha rimarcato i molti punti di criticità lasciati aperti dal decreto.
Pur apprezzando il provvedimento, in quanto riduce da 359 a 230 milioni i tagli per i Comuni, risultando meno penalizzante (rispetto al dm 28 novembre 2014) soprattutto per gli enti montani, l’Anci continua a rimarcare come si tratti di una «decurtazione di risorse certe a fronte di un gettito ipotetico e di difficile recupero». Secondo l’Associazione dei Comuni, le stime di gettito potenziale previste dal Mef sono sbagliate in eccesso e non tengono conto delle difficoltà che i sindaci incontreranno nel riscuotere l’Imu soprattutto in presenza di versamenti di modico valore. Per questo l’Anci ha chiesto, in sede di conversione del dl 4, l’inserimento di «opportune modalità di verifica del gettito e di eventuale compensazione dei minori importi che ne potranno risultare». E anche secondo l’associazione guidata da Piero Fassino, gli eventuali ritardi nel pagamento dell’imposta non dovranno essere sanzionati, in considerazione dei tempi stretti fissati per il versamento (il decreto che ha spostato la scadenza al 10 febbraio è stato varato solo il 23 gennaio) e delle «connesse difficoltà di assicurare un’adeguata pubblicità dei nuovi obblighi tributari».
Bad Bank? Giusto salvare le banche, ma non a spese dei contribuenti
Videocommento di Davide Giacalone
Redditi, uno su quattro sotto i 10mila euro
Redazione Edicola - Argomenti Corriere della Sera, Enrico Marro, povertà, reddito
Enrico Marro – Corriere della Sera
«La distribuzione del carico fiscale e contributivo tra i lavoratori e le famiglie», illustrata nel Focus diffuso ieri dall’Istat, mostra un Paese dove il prelievo sul lavoro è eccessivo, in alcuni casi supera lo stipendio netto, ma pieno di incongruenze, spiegabili solo con un alto livello di evasione. Risultato: la progressività insita nel sistema penalizza molto chi non evade, in particolare coloro che hanno un reddito medio-alto. I dati sono del 2012. Data la crisi, la situazione dei redditi non ha subito cambiamenti di rilievo, mentre sul carico fiscale il governo Renzi è intervenuto prima con il bonus di 80 euro al mese e il taglio dell’Irap e poi con gli sgravi sulle assunzioni a tempo indeterminato.
Il costo medio del lavoro dipendente al lordo delle imposte e dei contributi sociali è stato di 30.953 euro nel 2012, ma al lavoratore sono entrati in tasca solo 16.498 euro netti (1.375 euro al mese), il 53,3%. Il resto, cioè il 46,7%, è andato in imposte e contributi, di cui il 25,6% a carico dei datori di lavoro e il 21,1% dei lavoratori. Il cuneo fiscale e contributivo cresce all’aumentare del reddito e quindi in genere con l’età, il titolo di studio, l’anzianità di servizio. Tra i dirigenti era del 52,2%. Passiamo ora dai dipendenti ai lavoratori autonomi. Il loro reddito lordo è stato in media di 23.432 euro, cioè circa 7.500 euro in meno di quello dei dipendenti, ma il netto praticamente lo stesso: 16.237 euro. Per gli autonomi, infatti, il cuneo fiscale e contributivo rappresentava in media il 30,7%.
L’incidenza delle imposte dirette sui redditi lordi al netto dei contributi sociali, continua l’Istat, è stata del 21,3% per i dipendenti, del 17,5% per i pensionati e del 17,1% (Irap inclusa) per gli autonomi e, tra questi ultimi, del 14,7% per gli artigiani e del 15,5% per i commercianti. «Il minor carico fiscale delle famiglie con reddito da lavoro autonomo — si legge nel Focus — particolarmente visibile nella classe di reddito fino a 15 mila euro, è da attribuire agli effetti di alcuni provvedimenti in materia di tassazione dei redditi degli autonomi e alla revisione al ribasso dei parametri degli studi di settore».
I dati che appaiono più distanti dalla realtà riguardano la distribuzione dei redditi lordi. Il 25,8% si colloca sotto i 10 mila euro (meno di 833 euro lordi al mese), il 54% tra 10 mila e 30 mila, il 17,6% tra 30 mila e 70 mila e solo il 2,4% oltre i 70 mila. Confermate le differenze tra lavoratori. I dipendenti con un reddito fino a 15 mila sono il 39%. Superano il 55%, invece, tra gli autonomi. Nel 2012 l’aliquota media del prelievo fiscale a livello familiare è stata del 19,4%: meno nel Mezzogiorno (16,3%), più nel Nord-Est (19,9%), nel Centro (20,1%) e Nord-Ovest (21%). «Data la progressività del sistema, l’aliquota media d’imposta cresce più che proporzionalmente all’aumentare del reddito». In particolare, «per i redditi superiori a 55 mila euro l’aliquota media applicata al reddito da lavoro dipendente risulta di 8 punti superiore alla componente da lavoro autonomo».
Sempre ieri, la Svimez ha diffuso uno studio sulla crisi e i redditi delle famiglie: sono mediamente scesi del 24,8% nel periodo 2007-12 nel Sud mentre al Nord sono cresciuti dell’1,7%. Infine, l’Ocse certifica che nel 2013 il Pil procapite in Italia era inferiore del 30% rispetto alla media dei primi 17 Paesi industrializzati mentre lo era del 22,7% nel 2007. Pil procapite che, dice l’Istat, è stato in media di 26.700 euro nel 2013 con forti differenze: 17.200 euro nel Mezzogiorno, 31.700 euro nel Centro-Nord. Al primo posto c’è la provincia di Bolzano con 39.800 euro, ultima la Calabria con 15.500.
Diecimila licenziati in un anno, ora anche il manager è partita Iva
Redazione Edicola - Argomenti Corriere della Sera, dario di vico, lavoro, licenziamenti, partite iva
Dario Di Vico – Corriere della Sera
A suonare l’allarme è stato Silvestre Bertolini, presidente della Cida, la confederazione dei dirigenti pubblici e privati. Secondo i numeri che ha dato ieri a Roma in un’assemblea sono circa 10 mila i manager privati rimasti senza lavoro nell’ultimo anno e per affrontare quest’emergenza la Cida chiede ammortizzatori sociali. In sostanza vuole che il governo nell’ambito dei decreti attuativi del Jobs act preveda contratti di ricollocazione anche per i dirigenti e crei un apposito Fondo presso l’Inps. Ora al di là delle richieste di carattere sindacale è positivo che i riflettori inquadrino il mondo della dirigenza. Va detto innanzitutto che a fronte di quelle 10 mila uscite non si sono persi altrettanti posti di lavoro, il turnover non è bloccato.
Secondo una recente e ampia indagine di Manageritalia – che fa parte del Cida – sui dati Inps, dal 2008 al 2013 il numero dei dirigenti è -4,5% mentre i quadri sono cresciuti del 10%. Capita infatti che persino un direttore di albergo con 80 camere o il direttore di un grosso supermercato venga assunto come quadro. Vale la pena ricordare come per la natura delle imprese italiane i dirigenti in Italia siano di meno che nelle altre aziende europee: nel 67% dei casi sono solo parenti dell’imprenditore.
Il numero complessivo diminuisce anche perché le multinazionali stanno andando verso strutture più piatte, dovute a un processo di accentramento dei livelli decisionali e in qualche caso di accorpamento dei country manager di Paesi limitrofi. Va infine tenuta presente la diffusione di figure contrattuali ibride che vanno dalla consulenza, al co.co.pro. o addirittura alla partita Iva con mono-committenza. In alcune medie aziende persino il direttore commerciale è a partita Iva. Sono state le ristrutturazioni aziendali a determinare quel grosso ricambio nella dirigenza di cui parla Bertolini. Il turnover tra i dirigenti privati è da sempre attorno al 20% l’anno, ma ora si può stimare che si sia passati dai 5 mila licenziati l’anno agli attuali 10 mila e la spiegazione del raddoppio sta nella chiusura di aziende ma anche nell’adozione di strutture manageriali piatte, di modelli organizzativi toyotisti e nel fatto che le Pmi continuano a non utilizzare manager esterni alla famiglia e nell’effetto spiazzante del digitale. Basta pensare l’impatto di una struttura di vendite online sulle tradizionali competenze commerciali.
Secondo l’indagine di Manageritalia prima si stava più a lungo nelle aziende, anche 8 anni, oggi si è passati a una media di 6. «Le competenze diventano vecchie in mesi e non più in anni» commenta Enrico Pedretti, il direttore marketing. Si raccontano così storie di dirigenti diventati tassisti, di altri che hanno dato vita a una start up, aperto un negozio o una catena di lavanderie in Brianza oppure del manager Dior che ha ristrutturato la casa di campagna a Siena e lanciato un agriturismo. Si è abbassato anche il livello delle indennità di buonuscita e spesso sono di soli sei mesi di stipendio e questo ha spinto la Cida a chiedere maggiore interlocuzione con il governo. Da qui a concepire dei veri ammortizzatori sociali però ce ne corre.
Con la nuova delega la caccia agli evasori è più difficile
Redazione Edicola - Argomenti delega fiscale, evasione, fisco, la stampa, paolo baroni, tasse
Paolo Baroni – La Stampa
Altro che soglia del 3%, si potrebbe dire. Nel decreto sulla certezza del diritto, quello della famigerata norma salva-Berlusconi, alla luce delle novità sulla lista Falciani, c’è un altro “buco” grande come un paradiso fiscale. È la norma che elimina il raddoppio degli anni di indagini in caso di reati fiscali. Oggi, infatti, se il Fisco ha 4 anni di tempo per richiedere il pagamento di una tassa evasa e notificarlo al contribuente infedele, sul piano penale i tempi sono doppi, 8 anni. E questo perché tra quando è stato commesso il reato in questione e quando lo si scopre, occorre molto più tempo per disporre delle relative prove, condurre le indagini, attivare rogatorie internazionali, indagare su paradisi fiscali e triangolazioni internazionali, e misurarsi con marchingegni contabili alquanto complessi e sofisticati.
E per venire al caso Falciani-Swissleaks, acclarato che chi era presente nella prima lista di 5439 nomi (ora lievitata a 7437) e non è stato pizzicato per tempo vede il suo reato prescritto, va detto che anche i nuovi nomi presenti nella lista di qui a breve non potrebbero assolutamente più essere perseguiti penalmente, come ad esempio ha già annunciato di voler fare la Procura di Roma.
La nuova strategia contenuta nei decreti delegati in via di approvazione, che parte dal sacrosanto bisogno semplificare i rapporti col fisco e affermare in questo campo la certezza del diritto, potrebbe avere l’effetto di spuntare le armi contro eventuali reati. Introducendo, al rovescio, nel nostro ordinamento una norma pro-evasori. Le nuove norme, che avevano già ricevuto il via libera del consiglio dei Ministri, contenevano infatti un articolo che di fatto in pochi hanno notato (e contestato) con «modifiche alla disciplina del raddoppio dei termini» per presentare le denunce penali. «Il raddoppio – recita il nuovo testo – opera a condizione che la denuncia sia presentata o trasmessa entro la scadenza dei termini ordinari».
La lista Falciani purtroppo è del 2009, la magistratura e il fisco italiano l’hanno acquisita poi l’anno seguente. Il Fisco nel passato ha già attivato controlli e contestazioni e ieri la Guardia di Finanza ha presentato il suo rapporto sull’attività di riscossione svolta (su 740 milioni di evasione accertata, 30 milioni di tasse da incassare ma appena 3,3 già messi a ruolo), ma sul piano penale (senza tornare alla questione della possibilità o meno di utilizzare dossier ottenuti in maniera fraudolente), di fatto non si può combinare nulla. La preoccupazione che circolava in ambienti tributari, raccolta ieri dall’Agenzia Ansa, è che se dovessero emergere nuovi nomi o nuovi reati il tempo risulterebbe scaduto: non potrebbero essere più contestati davanti al giudice. L’unica chance rimasta è quella di una corsa contro il tempo, prima dell’approvazione delle nuove norme che torneranno al consiglio dei ministri del 20 febbraio: una corsa ad ostacoli impossibile vista la complessità tecnica degli adempimenti necessari per avviare una contestazione penale.
L’Agenzia delle entrate, informalmente, nelle scorse settimane aveva fatto presente che il riallineamento dei termini di prescrizione avrebbe creato grossi problemi nel campo delle indagini, ma le sue proteste sono rimaste inascoltate. Oltre alla vicenda che tiene banco in questi giorni infatti c’è un problema generale, di prospettiva, visto che in questo modo si complica in maniera esponenziale la vita ai magistrati chiamati ad indagare sugli evasori fiscali. L’ex ministro Vincenzo Visco, in più occasioni, ha segnalato il problema: non solo sarebbe molto più complicato istruire i processi, ma questo cambiamento – tra l’altro – rischia di provocare una perdita di gettito davvero ingente, una perdita sia immediata (e poi permanente) di molti miliardi in quanto verrebbero vanificati moltissimi accertamenti.