Editoriali

Tra cataclismi e scontri sociali

Tra cataclismi e scontri sociali

Stefano Biasioli – Segretario Generale Confedir

“Piove, governo ladro”.
Da 2 mesi a questa parte, non piove ma diluvia. Esondano fiumi e fiumiciattoli; la terra smotta e distrugge case e persone. Bombe d’acqua su bombe d’acqua. Acquazzoni mai visti, per durata ed intensità. Lo sappiamo. Da decenni a questa parte, governi su governi, amministrazioni regionali e locali hanno fatto strage del territorio: in montagna, in collina, in pianura. Non solo non hanno programmato ed attuato la doverosa manutenzione dei corsi d’acqua (fiumi, torrenti, rii, lagune, laghi) ma hanno consentito di costruire in zone a rischio di alluvione. Hanno permesso la costruzione di case sul greto dei torrenti (Genova e dintorni) e sopra risorgive (Caldogno-Vi; Ospedale di San Bonifacio-Vr). Poche citazioni, per tutte. Il discorso è identico per l’intero Paese: Nord, Centro e Sud.
Pur di costruire, pur di muovere soldi (bianchi e neri) le amministrazioni pubbliche hanno concesso di tutto, fino a pochi anni fa. Ma ora è tardi. Il cambiamento del clima e le piogge “equatoriali” di questi mesi hanno fatto il resto. Il Po era stranamente alto in Agosto; immaginatevi ora, con i suoi affluenti di destra e di sinistra strapieni. Dora Riparia, Dora Baltea, Ticino, Adda, Oglio, Mincio……A memoria, ce li facevano imparare. Ora le cronache televisive ce li mostrano “arrabbiati, tumultuosi, pieni di materiale vario…..che arriva da Nord”. Conosciamo la litania: “Non ci sono soldi per pulire i corsi dei fiumi…”. Abbiamo sprecato tanto, nei tempi del consociativismo catto-comunista, del craxismo, del berlusconismo, del prodismo. Abbiamo sprecato e violentato la natura.
Ora ne vediamo le conseguenze. Il mio povero nonno Angelo (famoso ispettore forestale veronese, quello che ha rimboscato l’alta Val d’Illasi) ripeteva a me bambino (tenendomi sulle ginocchia):”Stefanino, ricordati che la natura va rispettata. Se non lo fai, si vendica…per rimettere in ordine le cose…”. Non ci si difende dalle esondazioni con i soli muraglioni, ma soprattutto pulendo i corsi d’acqua. Non si evita l’acqua alta con il faraonico Mose (80 maxi-paratie meccaniche) ma pulendo, ciclicamente i canali di Venezia. E cosi’ via. Una sola cosa avrebbe dovuto fare il governo Renzi, invece di impigliarsi sull’articolo 18. Avrebbe dovuto finanziare un “Piano Fanfani” (i piu’ vecchi se lo ricordano!) non per l’INA-casa ma per la sistemazione del dissesto idrogeologico in un paese, il nostro, che dovrebbe vivere di turismo e di cultura. Non l’ha fatto, Matteo. E la natura gli si ritorce contro, con una continuità mai vista prima. E siamo solo in autunno. Cosa succederà, se nevica in modo altrettanto pesante ? “Matteo, il boy-scout, porta sfiga”. Dopo la cacciata di Mazzarri, questo motto si sta diffondendo.
Ritorna il sessantotto.
Le cronache di questi giorni sono piene di notizie su cortei e scontri. Allo sciopero sociale organizzato dalla CGIL e dai Cobas si sono sovrapposti, in tutta Italia (in almeno 50 città) scontri con la polizia, da parte di esponenti della cosiddetta frangia antagonista: no-global, centri sociali, studenti. “Scontri sociali” li hanno definiti. Decine di feriti, soprattutto tra le forze dell’ordine. Non spetta a Noi fare la cronaca dettagliata dei fatti e dei fattacci. Ci sia permessa una riflessione veneta, da estendere pero’ al paese. 44 anni fa, a Padova, tutto incomincio’ dalle parti della Facoltà di Lettere e di Scienze politiche. Dal regno di Toni Negri e dintorni. Il 14 novembre 2014 l’episodio più grave è avvenuto a due passi dalla Facoltà di Lettere. Il passato ritorna. La novità, caso mai, è racchiusa da un particolare: gli scontri sono avvenuti perché gli autonomi volevano occupare la sede del PD.
Ovvie le dichiarazioni ufficiali. “Solidarietà alle forze dell’ordine….Non ci faremo intimidire…” (Massimo Berrin, Segretario Provinciale PD)…”Nella confusione fratricida della sinistra, ci rimettono la polizia e la città…”(Maurizio Sala, assessore di Bitonci)….”Hanno vinto loro, i professionisti del disordine” (Gessica Stellato, M5S). E’ già nato un leader: Zeno Rocca, 23 anni, veronese, attivista del centro sociale Pedro, iscritto a Legge. Un cambio generazionale, forse. Quello che si è visto a Padova, Milano, Roma, Napoli, Pisa, Palermo è forse qualcosa di nuovo. Qualcosa che rimanda, per alcuni aspetti, al sessantotto. In strada c’erano le sigle degli studenti, medi ed universitari; c’erano gli antagonisti (centri sociali ed anti TAV ), c’era l’Adl Cobas e Cobas scuola: il sindacato forte nei centri della logistica e delle spedizioni, nelle cooperative sociali e nei servizi. Quelli che il pubblico ha regalato al privato. In altre parole: c’erano gli antagonisti; c’erano i precari; c’era il precariato spinto. I nomi degli antagonisti? Pedro, Bios, Collettivo di Scienze Politiche, Gramigna, Rivolta, Sale Docks, Bocciodromo, Arcadia, Django, Casa dei Beni comuni. Uno o piu’ di uno, per ogni provincia veneta.
“Una giornata di sciopero sociale”, ha detto uno che se ne intende: Beppe Caccia, protagonista nei movimenti sociali di 20-30 anni fa. “L’assenza di prospettive e di speranza ha riunito i disperati nelle piazze”. “Padova,città aperta”, ha detto uno di loro. Padova come laboratorio per riunire le varie forme di lotta e di rivendicazione sociale.  Ecco, ci siamo. La prolungata crisi economica, il precariato spinto, la disoccupazione hanno – alla fine- portato alla coagulazione di forze eterogenee. Che non si accontenteranno delle sceneggiate televisive del premier fiorentino ma chiederanno, chiedono già da ora, risposte certe, diritti, lavoro, reddito. “Botte: governo ladro!”. Chi non ha lavoro ha perso la pazienza. Non siamo convinti che Renzi capisca. Non siamo convinti che questo Governo, questa politica, questi sindacati siano in grado di dare una seria prospettiva al Paese.
Alcune baggianate sulla legge Madia

Alcune baggianate sulla legge Madia

Stefano Biasoli – Segretario Generale Confedir

Siamo costretti oggi a ricordare nuovamente gli effetti deleteri prodotti dall’art. 6 della Legge MADIA (114/2014), il cui titolo pare chiarissimo:”Divieto di incarichi dirigenziali a soggetti in quiescenza”. Il titolo di questo articolo conferma, anzi esplicita, la volontà della Madia di rottamare i pensionati pubblici e privati , negando loro la possibilità di svolgere incarichi professionali e dirigenziali per la P.A., con 2 sole eccezioni: componenti di giunte degli enti territoriali o simili, incarichi e collaborazioni della durata di un anno, gratuite e non rinnovabili. Tutto chiaro? Tutto legittimo? No, certamente no. Ma procediamo con ordine.
Premessa legislativa. Dalla legge 135/2012 alla legge 114 /2014.
Con  la legge 135/2012 (art.5, c.9) era stato introdotto il divieto, per le amministrazioni pubbliche, di attribuire incarichi di STUDIO e CONSULENZA a soggetti, già appartenenti ai ruoli delle stesse amministrazioni e collocati in quiescenza, che avessero svolto, nel corso dell’ultimo anno di servizio, funzioni e attività corrispondenti a quelle oggetto dello stesso incarico di studio e di consulenza. La disposizione allargava, di fatto, il fronte dell’intervento, meno restrittivo, proposto in passato con una disposizione della legge n. 724/1994 (Legge Finanziaria) che si limitava ad indicare che i destinatari erano solamente i dipendenti cessati per pensionamento di anzianità e non di vecchiaia.
La norma del 2012 estendeva, invece, il divieto a tutti i dipendenti collocati in quiescenza, senza alcuna distinzione. Nella relazione tecnica del Senato era infatti chiaramente scritto che “la disposizione è intesa ad introdurre una forma specifica di incompatibilità nell’affidamento delle consulenze da parte delle amministrazioni di cui all’art. 1, comma 2, del D.Lgs. n. 165/01…”. La legge n. 114/2014 (come risulta dal testo coordinato in G.U. 190/2014, Supp.Ordinario n°70) ha aggravato le regole di incompatibilità per i pensionati, come risulta dalla premessa del presente articolo.
Per chiarire meglio il tutto, riportiamo innanzitutto integralmente il testo dell’art.5 della legge 135/2012: … (“ E’ fatto divieto alle pubbliche amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo n. 165 del 2001, nonché alle pubbliche amministrazioni inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, come individuate dall’Istituto nazionale di statistica (ISTAT) ai sensi dell’articolo 1, comma 2, della legge 31 dicembre 2009, n. 196 nonché alle autorità indipendenti ivi inclusa la Commissione nazionale per le società e la borsa (Consob) di attribuire incarichi di studio e di consulenza *a soggetti, già appartenenti ai ruoli delle stesse e collocati in quiescenza, che abbiano svolto, nel corso dell’ultimo anno di servizio, funzioni e attività corrispondenti a quelle oggetto dello stesso incarico di studio e di consulenza *”.)
Ecco invece la formulazione nel nuovo disposto dell’articolo 6 della legge 114/2014 che prevede che all’ “ articolo 5, comma 9, della legge 135/2012 convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 135, le parole da “a soggetti, già appartenenti ai ruoli delle stesse”  fino alla fine del comma sono sostituite dalle seguenti: * – “a soggetti già lavoratori privati o pubblici collocati in quiescenza.- Alle suddette amministrazioni è, altresì, fatto divieto di conferire ai medesimi soggetti incarichi dirigenziali o direttivi o cariche in organi di governo delle amministrazioni di cui al primo periodo e degli enti e società da esse controllati, ad eccezione dei componenti delle giunte degli enti territoriali e dei componenti o titolari degli organi elettivi degli enti di cui all’articolo 2, comma 2-bis, del decreto-legge 31 agosto 2013, n. 101, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 ottobre 2013, n. 125. Incarichi e collaborazioni sono consentiti, esclusivamente a titolo gratuito e per una durata non superiore a un anno, non prorogabile né rinnovabile, presso ciascuna amministrazione. Devono essere rendicontati eventuali rimborsi di spese, corrisposti nei limiti fissati dall’organo competente dell’amministrazione interessata. Gli organi costituzionali si adeguano alle disposizioni del presente comma nell’ambito della propria autonomia”. “c.2. Le disposizioni dell’art.5,c.9 della legge 135/2012, come modificato dal c.1, si applicano agli incarichi conferiti a decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto”, ossia dal 18/08/14.
Dalla cronistoria alle sue conseguenze
Se sappiamo leggere e capire norme contorte e bizantine, sovrapposte le une alle altre, la nuova disposizione porta questi, pesanti, effetti.
1) L’incompatibilità si allarga dai pensionati pubblici a quelli privati;
2) L’incompatibilità diviene assoluta.
3) Infatti si estende dal divieto di “incarichi di studio e consulenze” ex legge 135/2012 agli
4) Incarichi dirigenziali o direttivi o cariche in organi di governo delle amministrazioni, con l’eccezione dei componenti delle giunte degli enti territoriali e dei componenti titolari degli organi elettivi degli enti ex art.2,c.2 bis, della legge 125/2013. Comunque sia,
5) Incarichi e collaborazioni sono consentiti solo per un anno e gratuitamente;
6) L’incompatibilità vale anche anche per gli organi costituzionali, che “devono adeguarsi nell’ambito della propria autonomia” (?).
7) L’incompatibilità crea situazioni di discriminazione assoluta nei confronti di molti professionisti pensionati, che stavano intrattenendo rapporti con le amministrazioni pubbliche.
Dal danno teorico al danno reale. Alcuni esempi.
A) Ex dipendente pubblico o privato, con pensione maturata entro il 31/12/12 (40 anni contributivi, con le regole Fornero, soggetto oggi con eta’ inferiore a 65 anni), attualmente possessore di P.IVA e con molteplici rapporti con la P.A. Si può trattare di Segretari comunali e provinciali, di Avvocati, di Ingegneri, di Amministrativisti, di Medici, di Professionisti laureati – già pensionati- che attualmente hanno in corso contratti pluriennali con la P.A.: come professionisti esterni, come consulenti ma anche – nel SSN- come direttori generali, direttori sanitari, direttori amministrativi e direttori del sociale. Ne conosciamo molti, in Veneto e non solo. Ebbene, tutti costoro se ne andranno a casa. Chiediamo: perché? Per far posto a giovani privi dei titoli necessari per compiti simili? Pensate che nessuno di costoro reagirà?
B) Pensionato con Cassa Professionale Autonoma (es. ENPAM, ENPAF, ENPAP etc), con più di 65 anni, con P.IVA: e con attività di consulenza di vario tipo per varie strutture pubbliche. Si pensi ai medici INAIL, ai controllori dell’INPS etc. Si pensi ai medici ed ai professionisti della della protezione civile….
C) Pensionato di ogni genere e grado, con carica di consigliere comunale, provinciale, regionale; con presenza in Enti pubblici: IPAB, consorzi vari, partecipate. Presenza, quindi, come consigliere e non come membro di giunte, ossia di esecutivi. Adesso, non lo potrà piu’ fare, se non per un anno e gratuitamente.
Considerazioni logiche
Il furore rottamatorio di Renzi e della Madia si è spinto oltre il lecito. Per cercare di dare lavoro ai giovani (proposito encomiabile, ma da declinare correttamente) si è deciso di varare una legislazione antidemocratica, indegna anche della Russia di Lenin e di Stalin. Qui ci si dimentica che siamo nella U.E., che impone la libera circolazione di professionalità e di professionisti, pensionati o no che siano. Non succederà che pensionati francesi od ucraini prendano il posto di quelli italiani, nei rapporti con la P.A.?
Ancora. Mentre si amplia lo spoil system nella P.A. fino al 30% degli organici (articolo 11 della legge 114/2014), ossia mentre si impone l’invasione delle scelte discrezionali della politica nelle nomine dei dirigenti pubblici, nel contempo si cacciano a casa i consulenti, i dirigenti ed i direttivi (pensionati con P.IVA) che possono, senza problemi, testimoniare e documentare le scorrettezze e le illegalità spesso connesse a tali “nomine politiche”.
Ancora. C’è da chiedersi se le norme valgano per tutti o se, ancora una volta, ci saranno figli e figliastri. Siamo in Italia, le leggi valgono per tutti, tranne che per i “soliti noti”. E che non ci venga a dire che siamo prevenuti. Infatti, in 2 soli mesi, il Governo ha (illegittimamente) fatto due eccezioni. Ha nominato il 75enne pluripensionato Tiziano Treu a Commissario dell’INPS, con una prebenda superiore ai 200.000 euro. Non contento, lo stesso Governo ha concesso a Giovanni Valentini, giornalista pensionato, la responsabilità di un ente pubblico (un’Agenzia o giu’ di li’) e non certamente senza un compenso. Due atti governativi illegittimi, che qualcuno – nei dintorni di palazzo Chigi – ha giustificato sostenendo che l’articolo 6 della legge Madia non vale per le nomine governative. Cosi’ hanno riportato alcune cronache giornalistiche. Stranamente né Report né Striscia la notizia hanno indagato su questo. Perché?
Ancora. È ricominciata la corsa al Quirinale. Girano i nomi di tanti papabili, il 90% di loro è pensionato. Insomma. Il nuovo Presidente della Repubblica non avrà prebende personali, per colpa della Madia? O, ancora una volta, Qualcuno eccepirà? Intanto, dal 19/08/14 i “pensionati normali” sono già stati esclusi dagli incarichi dirigenziali pubblici.
Per questo e per molto altro, ancora una volta, saremo costretti – noi pensionati lesi – a ricorrere alla magistratura, italiana ed europea. Caro Renzi, Ella è all’interno di una favola di Esopo. Quella della tartaruga e della lepre. Noi, professionisti pensionati, siamo la tartaruga. Siamo lenti, ma pensanti e tanto, tanto, testardi.
Aprirsi ai commerci, ridimensionare il potere. In Cina come in Occidente

Aprirsi ai commerci, ridimensionare il potere. In Cina come in Occidente

Carlo Lottieri

Entro questa Europa che sta avvitandosi su se stessa, l’unica vera strategia può consistere nell’allargare gli spazi di libertà. Solo una fuoriuscita dal mito dallo Stato e, di conseguenza, dall’interventismo pubblico può ridare una chance alle popolazioni europee. E in questo senso, una spinta nella direzione giusta potrebbe venire dal TTIP, ossia da quel “Transatlantic Trade and Investment Partnership” (trattato transatlantico per il commercio e gli investimenti) che dovrebbe unificare le economie di Stati Uniti ed Europa.
De negoziati in atti, però, si parla assai poco e questo in promo luogo perché ben pochi credono che ampliare gli scambi sia un atto di civiltà e una scelta che favorisce la prosperità. In questo senso dovremmo imparare da chi, negli ultimi decenni (per giunta partendo da una situazione ben peggiore della nostra), ha saputo imboccare la strada giusta. Al riguardo può essere molto utile quanto scrissero Ning Wang e Ronald Coase – quest’ultimo scomparso lo scorso anno – in uno straordinario volume (il libro è stato tradotto in italiano da IBL Libri) volto a spiegare come e perché la Cina sia riuscita a diventare un Paese capitalista. Com’è successo che uno dei Paesi più statici, piegati dallo statalismo e distrutto da progetti folli quali la Rivoluzione Culturale e il Grande Balzo in Avanti abbia saputo mettersi sui giusti binari, tanto da crescere al ritmo del 10% all’anno? Mentre Europa e Nord America vanno perdendo sempre più dinamismo, com’è possibile che la Cina abbia invece imboccato la strada opposta?
Wang e Coase insistono su vari punti, ma in particolare su due. In primo luogo, essi sottolineano il carattere altamente decentrato della Cina, che è un autentico continente e che nel corso dei secoli non è mai stato gestito direttamente da Pechino, poiché nessun regime ha mai preteso tanto. Per giunta, lo stesso Mao evitò ogni dirigismo economico sovietico (basato su piani economici quinquennali) perché riteneva che una struttura di quel tipo avrebbe rafforzato i luogotenenti politici e avrebbe quindi rappresentato un pericolo per la sua leadership. Avere tanti capetti di livello locale era probabilmente meglio che non dotarsi di una tecnostruttura che disponeva dell’economia cinese.
Mao non aveva alcuna delle preoccupazioni che gli studiosi liberali hanno di fronte alla al dirigismo, ma perseguendo in modo assai machiavellico i suoi calcoli bloccò ogni eccessiva concentrazione del potere economico in poche mani. L’altra questione su cui gli autori insistono è il ruolo che hanno avuto i cambiamenti “ai margini”. In definitiva la Cina collettivizzata da Mao si è trovata a dover affrontare una povertà terribile e una disoccupazione di grandi dimensioni. In questo quadro drammatico e, spesso, a migliaia di chilometri dalla capitale, in varie circostanze quella che ebbe luogo fu una privatizzazione di fatto dei terreni che produsse ottimi risultati e poi venne presentata dal regime come l’effetto di una scelta strategia.
Anche nelle città, la nascita di imprese private ebbe luogo nell’illegalità. Non solo il regime comunista non organizzò in alcun modo i primi passi del sistema privato, ma neppure creò un quadro giuridico che favorisse tutto questo. L’afflusso nelle città di masse di disoccupati obbligò però molti ad arrangiarsi: e anche stavolta il Pcc si attribuirà i buoni risultati conseguenti. Il regime subì i cambiamenti, anche se ebbe la furbizia di non ostacolarli una volta che le cose ebbero avuto luogo e, anzi, si attribuì le trasformazioni quali effetti di decisioni “lungimiranti”.
Spesso s’insiste sul pragmatismo di cui diedero prova i comunisti cinesi e, in particolare, Deng Xia-ping, cui poco interessava se fosse meglio adottare Stato o mercato, perché l’importante era che l’economia crescesse. Questo è cruciale per capire l’apertura al mercato della Cina, ma anche Deng avrebbe potuto fare ben poco se – lontano dai centri potere – non ci fosse stata la coraggiosa iniziativa di chi ha osato, sfidando i pregiudizi e gli interessi consolidati. E oggi la partita cinese è assai più aperta – anche sotto il profilo politico – proprio grazie all’espansione di imprese che sfidano il mercato invece che rispondere a esigenze politiche.
Non lo si dice quasi mai, ma l’esperienza cinese è soprattutto quella di un potere che, un po’ alla volta, si è ridimensionato e ha finito per perdere il monopolio sulla società. Oggi – nonostante i molti problemi che persistono: dal partito unico alla situazione tibetana – la libertà individuale in Cina è assai più rispettata e il potere meno ramificato, perché le forze del mercato hanno creato spazi di autonomia e sparigliato le carte.
Se il coraggio d’intraprendere ha condotto entro un ordine capitalistico pure la Cina del marxismo in salsa maoista, perché non dovrebbe poter succedere lo stesso anche nella nostra Europa dominata da iper-regolamentazione, tassazione e redistribuzione? E se l’apertura del mercato cinese ha tanto aiutato quella società, perché mai questo non dovrebbe succedere anche sulle due coste dell’Atlantico?
Incentiviamo gli acquisti

Incentiviamo gli acquisti

Massimo Blasoni – Metro

Non occorre essere una Sibilla Cumana per prevedere che nel 2015 saremo costretti ad aumentare l’Iva complessivamente di almeno un punto percentuale. Il governo prevede infatti una crescita dello 0,6% del Pil nel 2015, dell’1% nel 2016 e dell’1,3% nel 2017. Sappiamo quanto poco valgano queste professioni di ottimismo (nel Def era prevista per quest’anno una crescita del Pil dello 0,8% e invece dobbiamo registrare addirittura una decrescita del -0,3%) ed è quindi purtroppo molto più realistico immaginare che anche l’anno prossimo il nostro Pil rimanga nella migliore delle ipotesi piatto. Questo dato comporterebbe minori entrate fiscali per 4 miliardi su base annua, compensabile solo con un immediato aumento dell’Iva. La clausola di salvaguardia, insomma, rischia di essere applicata in ogni caso, indipendentemente dall’effettivo conseguimento dei difficili obiettivi fissati dal governo Renzi: 15 miliardi dalla spending review e altri 3,8 miliardi dal contrasto all’evasione fiscale. Se poi il Pil dovesse ulteriormente calare, ci troveremmo di fronte a uno scenario ancora più drammatico per i nostri conti pubblici.
Intendiamoci: le misure contenute nella legge di Stabilità non sono tutte da censurare, anzi. L’abolizione dall’imponibile Irap del costo del lavoro così come la decontribuzione per 3 anni per i nuovi contratti a tempo indeterminato sono misure intelligenti, che vanno nella giusta direzione. Tuttavia, e lo abbiamo già visto con gli effetti nulli prodotti dagli 80 euro in più in busta paga, non è detto che siano decisive per la ripresa economica. Il rischio è semmai che, in un contesto dominato dall’incertezza, imprese e lavoratori decidano semplicemente di accantonare queste risorse. La stessa Bankitalia conferma una netta ripresa dei risparmi: dall’agosto 2012 all’agosto 2013 le famiglie hanno depositato in banca ben 37,4 miliardi. Ecco perché sarebbe più utile ridurre le imposte indirette a quanti decidono di acquistare una casa o cambiare la propria auto e al tempo stesso ridurre le tasse alle aziende che effettuano investimenti, piuttosto che ridurre genericamente l’Irap.
Siena: in piccolo, una fotografia del disastro italiano

Siena: in piccolo, una fotografia del disastro italiano

Carlo Lottieri

Siena è una città bellissima, ricca di storia e monumenti, che conserva istituzioni e tradizioni uniche. Una città che conquista chi la visita e che è ancora oggi carica di potenzialità. Ma in questo tempo di scandali si tratta ormai di una realtà umiliata, piegata in due, smarrita, che vede venir meno ogni riferimento. Questo minuscolo capoluogo del mondo è sempre più una rappresentazione in scala ridotta del disastro italiano, un’esagerazione di quanto sta avvenendo nell’intera Penisola: sia per quanto esso è bello, sia per quanto è disperato. La folle vicenda del Monte dei Paschi è solo l’ultimo episodio di una disfatta. Negli scorsi anni si era assistito anche al progressivo declinare del sistema turistico e alberghiero, con molti esercizi costretti a chiudere, e soprattutto allo sfaldarsi dell’università, che sotto il rettorato Tosi ha infoltito oltre ogni ragionevolezza gli organici – specie nel settore amministrativo – e si è lanciata in spese difficilmente giustificabili, accumulando una quantità impressionante di debiti. Ora l’ateneo sta provando a risalire la china, ma deve fare i conti con una pesante eredità.
Siena è un piccolo gioiello magnifico che si trova ora a fare i conti con un recente passato pieno di errori, un presente che l’ umilia e un futuro davvero a rischio. E le ragioni di questa situazione sono chiare. A Siena è trionfato quel mix di ideologia e cinismo che è uno tra i tratti più caratteristici dello statalismo nazionale. Non soltanto l’Italia è il Paese che per anni e anni ha avuto il partito comunista più forte dell’Occidente, ma qui si è anche elaborato un interventismo “di relazione” che è basato sul favore e sul’appartenenza. La contrada, la loggia, la sede di partito, la parrocchia o qualsiasi altra cosa sia in grado di creare un legame faccia-a-faccia è in grado di permettere il raggiungimento di obiettivi altrimenti fuori portata.
Se l’ideologia ha voluto fornire una giustificazione “alta” a ogni forma di intervento pubblico, la relazione para-familiare ha gestito nei fatti il giorno dopo giorno di questo progressivo ampliamento del numero delle prebende e dei privilegi. A Siena ci si rivolgeva a questo o a quello per andare a lavorare in Mps, e quasi ogni altro ambito cittadino rispondeva a questo tipo di logiche. La banca faceva comunque da cassa un poco per tutti, dalle associazioni alle imprese, offrendo lavoro e finanziamenti con grande generosità e al di fuori di logiche di mercato.
Siena muore per la politica: a causa della politica. È una città in cui relazioni interpersonali anche di grande efficacia e tutt’altro che da demonizzare (si pensi al fenomeno formidabile delle contrade: una realtà che tutto il mondo ammira) sono state “imbastardite” da una progressiva pubblicizzazione di ogni ambito: con la conseguenza che quasi ogni comportamento ha finito per configurarsi come un favore a questo o quello.
Siena potrà rialzarsi se penserà che la propria tradizione bancaria è essenzialmente una tradizione di mercato, e che quanto è avvenuto negli ultimi decenni può diventare solo una (triste) parentesi. Siena può salvarsi se saprà riscoprire e valorizzare, con spirito competitivo, quanto ha di eccellente: in università e non solo (si pensi, ad esempio, a un’istituzione musicale ammirevole come l’Accademia Chigiana). La città uscirà da questo psicodramma che ormai dura da anni solo se tornerà a essere una città di imprenditori: nel turismo e in altri settori. Ma parlare di Siena vuol dire parlare dell’Italia. Il microcosmo toscano è in qualche eccessivo nel raffigurare tutto il bene e tutto il male della Penisola. Siamo tutti un poco senesi, in questo senso, e tutti dobbiamo allora riscoprire il meglio del nostro passato per poter presto dimenticare questo presente che ci offre davvero ben poco.
L’aggiornamento del Def e le privatizzazioni

L’aggiornamento del Def e le privatizzazioni

Giuseppe Pennisi, presidente del board scientifico di ImpresaLavoro, è stato docente di Economia al Bologna Center della John Hopkins University e alla Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione. È Consigliere del Cnel e insegna all’Università Europea di Roma.

Il Documento di Economia e Finanza (modificato in seguito a scambi di veduti con le autorità europee) è all’esame delle Camere. C’è stata, sulla stampa e nel dibattito pubblico, molta attenzione sugli aspetti macro-economici e una certa disattenzione su liberalizzazioni e privatizzazioni. In effetti da anni il programma che le prevede sembra bloccato. Il Governo Monti non riuscì a privatizzare neanche il Touring Club, pur avendoci provato: le Camere vennero sciolte e si andò al voto prima che l’iter parlamentare venisse espletato.
Un programma a breve termine (12-18 mesi) per l’Italia è stato delineato nel discorso dell’allora presidente del Consiglio Letta alle Camere, nel quale si precisava che nel 2014 la cessione di quote societarie avrebbe dovuto far entrare nelle Casse dello Stato una cifra complessiva tra i 10 e i 12 miliardi di euro. Le prime dismissioni avrebbero riguardato una partecipazione di controllo di Poste Italiane e Enav (deliberata il 24 gennaio 2014 dal Consiglio dei Ministri) a cui avrebbero fatto seguito quelle di Sace e Grandi Stazioni (partecipata al 59,99% dalle Ferrovie dello Stato Italiane) nonché di quote non di maggioranza di Stm, Fincantieri, Cdp Reti ed Eni. A queste indicazioni, occorre aggiungere la privatizzazione per almeno 500 milioni l’anno di patrimonio immobiliare. Secondo un’analisi effettuata dall’Università Bocconi), l’ipotesi di ricavi dalla cessione di quote societarie dello Stato può potenzialmente raggiungere i 90 miliardi di euro (ovviamente su un arco pluriennale); ciò non tiene conto di circa 6000 Spa, Srl, Fondazioni ed altro partecipato da un numero analogo di enti locali.
Glocus e l’Istituto Bruno Leoni hanno tracciato un percorso possibile per attuare un programma di denazionalizzazioni più ambizioso di quello sino ad ora annunciato dal Governo. Dopo tre anni di virtuale stasi nel programma di privatizzazioni si stava creando il clima e ponendo le basi per un rilancio della nazionalizzazione del patrimonio pubblico – quanto meno di quello ‘statale’ – sia delle partecipazioni societarie sia delle proprietà immobiliari. La caduta del Governo Letta ha provocato una frenata se non un vero e proprio arresto del programma.
Nel Def si prevede la cessione delle quote di minoranza in Poste Italiane, Enav e l’intera cessione della quota di SHT, holding di controllo della società operativa STMicroelectronics. Gli advisors sono al lavoro. È presto per effettuare stime. In una prima versione, si sarebbero dovute cedere anche quote di Enel e di Eni – come dichiarato dal Ministro dell’Economia e delle Finanze – ma lo stesso presidente del Consiglio ha precisato in un’intervista al ‘Corriere della Sera’ che, per il momento, non se parla: Enel ed Eni apportano utili considerevoli alla pubblica amministrazione e i mercati sono tali che si potrebbe pensare ad una ‘svendita’. A mio avviso, anche il modesto programma delineato prende l’avvia da un’ottica ristretta ove non errata: fare cassa per ridurre lo stock di debito pubblico. Un obiettivo lodevole ma occorrerebbe uno schema molto più vasto (almeno 3-400 miliardi) di quanto preconizzato. Inoltre, lo scopo primario dovrebbe essere quello di ridurre la sfera pubblica e i lacci che comporta per l’economia italiana.
È uscito in questi giorni un saggio di un giovane professore aggregato della Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Roma III. Si chiama Cosimo Magazzino e si è dato un compito difficile: studiare – non a chiacchiere, ma sulla base di dati quantitativi – il nesso tra le dimensioni della macchina pubblica e la crescita dell’economia italiana dalla nascita del Regno d’Italia alla vigilia della crisi più recente. Il lavoro, “Government Size and Economic Growth in Italy: an Empirical Analysis Based on new Data (1861-2008)”, è apparso sull’ultimo fascicolo dell’International Journal of Empirical Finance (pp.38-54) e ha suscitato notevole interesse presso la Commissione Europea, la Banca centrale europea, l’Ocse ed il Fondo monetario; ossia coloro che, per dovere più che per diletto, studiano le nostre politiche ed i nostri conti. La conclusione è che in Italia non c’è una relazione lineare tra la dimensione del settore pubblico (misurata in termini di spesa pubblica in percentuale del Pil) e la crescita economica. In generale, negli ultimi vent’anni dell’analisi il nesso è una “curva a U invertita”: ciò vuol dire, in parole povere, che “riduzioni delle spese possono sveltire la dinamica del Pil”. Dallo studio si evince anche che negli anni del Regno Sabaudo, il “pareggio di bilancio” raggiunto per breve periodo ha rallentato l’aumento del prodotto nazionale.
Occorre tenerne conto ed aprire un dibattito, non passarlo sotto silenzio come si è fatto con l’Appello Politico agli Italiani dell’Osservatorio Internazionale Cardinal Van Thuan sulla Dottrina Sociale della Chiesa, pubblicato alcuni mesi fa dall’Editore Cantagallo. Pochi conoscono questo Osservatorio, intitolato all’expresidente del Pontificio Consiglio Justitia et Pax. Un’alta personalità ecclesiastica vietnamita che non lasciò i suoi fedeli alla caduta di Saigon e venne imprigionato in isolamento per diversi anni (nella sua cella un altoparlante suonava musica marziale 24 ore su 24). San Giovanni XXIII lo volle al suo fianco quando venne finalmente liberato perché contribuisse alla pace ed alla giustizia nelle aree più lontane del mondo. Il dicastero da lui diretto produsse, tra l’altro, il Catechismo sulla Dottrina Sociale della Chiesa. L’Osservatorio, composto da personalità di alto livello, ha redatto l’Appello perché vede nell’Italia un Paese smarrito, con un popolo alla ricerca di speranza. Le sue proposte sono articolate. Il volume (86 pagine) inizia con la visione di un popolo che ritorna a credere in sé stesso e delinea un nuovo patto costituzionale sostanziale. Contiene naturalmente proposte puntuali di politica istituzionale ed economica: da una legge elettorale per evitare un eccessivo premio di maggioranza a una riforma della giustizia che dia certezze a libertà di educazione, da un nuovo patto di solidarietà e di produzione a una politica di privatizzazioni che prenda l’avvio con quella della Rai.
Privatizzare la Rai vuol dire dare azioni Rai a tutti gli italiani. Seguendo quale metodo? Quello dell’età anagrafica: quanto più si è anziani tanto più si è pagato il canone (e ci si è sorbiti Santoro, Baudo, Carrà e quant’altro), avendo dunque titolo a un risarcimento con azioni da impiegare per la tarda età. Le azioni sarebbero vincolate per un lasso di tempo – ad esempio, cinque anni – a non essere poste sul mercato ma a essere destinate a un fondo pensione aperto (e ad ampia portabilità) a scelta dell’interessato, il quale però manterrebbe tutti i diritti (elezione degli organi di governo, vigilanza sul loro operato, definizione dei loro emolumenti) di un azionista (in base alle azioni di cui è titolare sin dal primo giorno). Gli azionisti deciderebbero se scorporare le reti. Unica regola: il pareggio di bilancio. Il management dell’intera Rai (o di una rete) che non ci riesce sarebbe passibile di azione di responsabilità e, ai sensi della normativa societaria in vigore, se l’indebitamento superasse certi parametri la liquidazione diventerebbe obbligatoria. E il “servizio pubblico”? Nell’età della rete delle reti, ci bada Internet: già adesso tutti i dicasteri, le Regioni, i Comuni, le Comunità Montane dispongono di siti interattivi. I siti di informazione e contro-informazione pullulano, tanto generalisti quanto specializzati.
Non siamo più ai tempi dell’Eiar, anche se il “Partito Rai” vorrebbe tornare a tempi leninisti, come la protagonista del film “Goodbye, Lenin” di una ventina d’anni fa. E la cultura? In primo luogo, pensiamo che gli italiani siano meno imbecilli di chi compila gli attuali palinsesti: una Rai che risponde al popolo azionista proporrà più cultura dell’attuale (come dimostrano gli abbonamenti a canali culturali digitali). In alternativa, si potrebbero prevedere agevolazioni tributarie per gli sponsor, quale che sia la rete (denazionalizzata o privata) che scelgono. Oppure ancora si potrebbero adottare forme di “tax credit” per chi produce prodotti televisivi culturali, come già avviene con successo nel settore del cinema.
Quella della Rai è ‘la madre di tutte le privatizzazioni’ per il ruolo che ha l’informazione nel mercato dei beni e dei servizi. Se un tempo la statalizzazione della Rai poteva essere giustificata come monopolio tecnico da forze politiche non democratiche, il passaggio dall’analogico al digitale terrestre ha reso questo argomento risibile. Lo ha ribadito lo stesso Romano Prodi in un convegno a Bologna nel corso del quale ha ricordato i tentativi fatti nel 1997, falliti a ragione dell’opposizione del “Partito Rai”. In nessun Paese, neanche nelle dittature dell’Asia centrale, esiste una radio-tv di Stato con 15 canali; la stessa BBC (che ha governance ben differente da quella della Rai ed un pubblico mondiale dato che opera in inglese) ha soltanto cinque canali e pochissima pubblicità.