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Quanto ci costa pagare le tasse

Quanto ci costa pagare le tasse

Massimo Blasoni – Metro

Piove sul bagnato dell’eccessiva tassazione dei cittadini e delle imprese. L’Italia è infatti un paese nel quale costa parecchio anche essere in regola con il fisco. Secondo i dati elaborati dal nostro Centro studi, un’azienda media deve infatti spendere ogni anno 7.559 euro per disbrigare adempimenti burocratici relativi al pagamento delle imposte: una cifra che non ha eguali in Europa e che rappresenta una vera e propria tassa ulteriore e mascherata che le nostre imprese sono costrette a sostenere.
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Dopo l’eclisse dei verdi, l’ecologia deve rinascere liberale

Dopo l’eclisse dei verdi, l’ecologia deve rinascere liberale

Carlo Lottieri

Se per alcuni anni sono sembrati rappresentare anche in Italia una novità di successo e un movimento con il veto in poppa, da tempo gli ecologisti sono in crisi di prospettive e visibilità. In sostanza, quel che resta del movimento verde fa ormai da stampella alla sinistra di Niki Vendola, ma in una posizione sostanzialmente subordinata.
L’eclisse dei verdi come partito, però, non sembra essere accompagnata da un accantonamento della loro ideologia, che anzi è stata abbracciata un po’ da tutti: a destra come a sinistra. Il guaio è che lo statalismo ecologista non rappresenta una risposta adeguata dinanzi alle difficoltà su cui richiama l’attenzione e anzi, in molti casi – anche al di là delle intenzioni – esso finisce perfino per aggravare i problemi.
Si tratta allora di immaginare un altro ambientalismo; ed è interessante rilevare come nel corso degli ultimi quindici anni l’editoria italiana abbia iniziato a dare spazio a quell’ecologia di mercato che affronta quei temi senza sacrificare la libertà individuale e il progresso economico sull’altare di una presunta sacralità della natura.
La prima cosa che uscì fu una piccola antologia, curata da Guglielmo Piombini e dal sottoscritto (Privatizziamo il chiaro di luna!, pubblicata nel 2001 da Leonardo Facco Editore), ma in seguito questa biblioteca controcorrente si è allargata sempre più. Un volume di straordinario interesse che da alcuni anni è pure disponibile in italiano è quello scritto dagli americani Terry L. Anderson e Donald R. Leal: L’ecologia di mercato. Una via liberale alla tutela dell’ambiente (edito nel 2008 da Lindau). Impegnati nell’applicazione di soluzioni innovative ai problemi ambientali, gli autori si focalizzano sulla necessità di definire e proteggere titoli di proprietà commerciabili. La tesi di Anderson e Leal è che se l’ambiente è di tutti (e quindi di nessuno), mancheranno gli incentivi a prendersene cura. I due studiosi non si limitano allora a mostrare i fallimenti dell’ecologismo, ma al tempo stesso sottolineano l’esigenza di responsabilizzare sempre più i comportamenti dei singoli, usando la proprietà per proteggere la natura stessa. La ricerca illustra molti casi concreti all’interno dei quali si è adottata una logica imprenditoriale ed è proprio dall’esame di queste esperienze che l’ecologia di mercato si rivela uno strumento fondamentale.
Per un lungo periodo, però, anni, la letteratura liberale sull’ambiente si è mossa soprattutto sulla difensiva: cercando di limitare le  conseguenze più nefaste di una propaganda basata su nozioni equivoche come “sviluppo sostenibile”, “diritti delle generazioni future” e “principio di precauzione”. Lo stesso volume del danese Bjørn Lomborg (L’ambientalista scettico, pubblicato da Mondadori nel 2010) ha rappresentato più una dura requisitoria verso ogni allarmismo ingiustificato che non una proposta alternativa.
Lo studio di Anderson e Leal ci dice invece che oggi è possibile essere propositivi anche in questioni che fino a poco fa erano veri e propri tabù. La situazione sta insomma iniziando a mutare, a riprova che si più imbrogliare molta gente per un breve periodo di tempo, e anche un piccolo gruppo di persone per molto tempo, ma è difficile che una serie di sciocchezze vengano accettate da un gran numero di persone e per molti anni.
In questo senso va segnalato anche il volume di Henry I. Miller e Gregory Conko, Il cibo di Frankenstein. La rivoluzione biotecnologica tra politica e protesta (edito sempre da Lindau e pubblicato nel 2008), in cui i due studiosi dissolvono i pregiudizi che ostacolano l’utilizzo delle biotecnologie in ambito agricolo, impedendoci di trarre beneficio dall’innovazione. Gli autori mostrano quale intreccio di interessi sia schierato a difesa di una demonizzazione (specialmente europea) che frena la ricerca, mantiene alti i prezzi e obbliga a utilizzare ampie estensioni. Quest’ultimo punto è interessante perché rileva come in questo caso – come già nella vicenda della mucca pazza, del bioetanolo, del Ddt e in altri casi simili – siano state proprio le tesi ecologiste a causare problemi rilevanti alla salute e allo stesso rapporto tra uomo e natura.
Anche sulle questioni energetiche sono ormai le prospettive liberali a rivelarsi meglio in grado di affrontare il futuro. Evidenziando che non saranno il solare o l’eolico a risolvere i nostri problemi, un esperto di questioni energetiche quale Carlo Stagnaro – direttore del dipartimento Energia e ambiente dell’Istituto Bruno Leoni – nel 2005 aveva curato un volume (Più energia per tutti. Perché la concorrenza funziona, edito da Leonardo Facco) nel quale aveva mostrato come più competizione in tale settore significhi una maggiore efficienza per l’economia nel suo insieme: e come per questo sia necessario non già moltiplicare i vincoli, ma invece rimuovere le barriere all’ingresso, alleggerire la regolamentazione, evitare una tassazione discriminatoria delle fonti.
Qualche anno dopo Stagnaro – che da qualche mese è consulente del ministro Guidi – è tornato su tale problema con una corposa ricerca, nella quale ha coinvolto un gran numero di esperti. Intitolato Sicurezza energetica. Petrolio e gas tra mercato, ambiente e geopolitica (edito da Rubbettino) lo studio ha analizzato i problemi dell’energia attraverso tre principali fattori: le politiche economiche, le politiche ambientali e la politica internazionale. Ne è derivata una proposta che è un mix di fiducia nella razionalità umana, difesa del mercato, riduzione dei conflitti internazionali (grazie a relazioni politiche improntate alla negoziazione e agli scambi).
“Pace e commercio” era la divisa dei liberali fin nell’Amsterdam secentesca, ma può essere uno slogan efficace ancora oggi per affrontare con realismo questioni su cui gli ecologisti verde-rossi hanno davvero ben poco da dire.
Realismo politico e teoria liberale

Realismo politico e teoria liberale

Carlo Lottieri

Esiste un legame molto stretto tra liberalismo e realismo politico. Gli autori liberali si sono sempre sforzati di guardare l’universo sociale e politico evitando di confondere i desideri e la realtà: Questo talvolta può avere spinto verso il pessimismo, ma certamente ha tenuto questa tradizione assai lontana da illusioni infondate.
Larga parte degli studi della Public Choice School, ad esempio, mostra che i comportamenti “interessati” e opportunistici di politici, imprenditori, sindacalisti e funzionari pubblici finiscono per convergere in una somma di piccole o meno piccole “cospirazioni”, le quali favoriscono una dilatazione del potere pubblico. I contadini difendono i sussidi europei, gli insegnanti il posto fisso, i farmacisti il sistema delle licenze, e il risultato è che l’insieme di questi egoismi danneggia tutti e ostacola la crescita della società.
Tutto questo fu analizzato con grande acume da Vilfredo Pareto, che mostrò – anche sulla scorta degli insegnamenti di Frédéric Bastiat – come in ogni iniziativa pubblica i benefici tendano a essere immediati (mentre i costi sono posticipati), visibili (mentre i costi sono invisibili) e concentrati (mentre i costi sono dispersi). In tal modo è facile prevedere che ogni progetto statalista avrà un’ampia probabilità di avere successo, vincendo l’opposizione di quanti, invece, vogliono in ogni modo contenere l’espansione del potere.
Tale realismo, a ogni modo, non deve toglierci la speranza. Una simile espansione dei poteri pubblici, in effetti, non può procedere in maniera illimitata, dato che le conseguenze sono sempre catastrofiche. Un ordine sociale basato sulla pianificazione, sulla redistribuzione, sull’ingegneria sociale e sulla redistribuzione egualitaria non è destinato a durare in maniera indefinita. Il suo esito naturale è l’estinzione: come è successo all’impero romano nella sua fase finale e come sta succedendo all’Europa contemporanea.
Questo significa che una società può essere facilmente condotta verso una crescente statizzazione da una serie di convergenze di interessi (e non solo da ciò, poiché l’imporsi di talune ideologie gioca la sua parte), ma alla fine è costretta a pagarne il prezzo. Anche il più resistente dei muri di Berlino alla fine crolla.
Questo succede per un motivo assai semplice. Una società basata sulla proprietà privata, sulla tolleranza, sul rispetto della libertà contrattuale e sul diritto di associazione è semplicemente in sintonia con la natura umana. E ogni sistema sociale che invece si oppone alle logiche di fondo della libertà costruisce un tale intrico di problemi che, in tempi anche relativamente rapidi, porta alla distruzione quell’ordine sociale.
Tutto ciò risulta assai chiaramente quando si considera, ad esempio, uno degli effetti principali dell’intervento pubblico: il parassitismo organizzato. Mentre in una società liberale ognuno trae di che vivere dai beni e dai servizi che mette a disposizione del prossimo, in una società statizzata è anche possibile avere redditi che superino il milione di euro accumulando incarichi alla guida di enti pubblici: com’è successo, appunto, in Italia.
In questo senso la strategia parassitaria è una strategia – sul piano individuale – assai vincente. Ma che succede al corpo sociale in tale situazione? Fatalmente esso declina. In natura come in società, il moltiplicarsi dei parassiti porta alla morte il soggetto parassitato: l’albero perde le foglie e i produttori smettono di lavorare. Quando ci si ribella alla natura e alle sue regole elementari, prima o poi il conto si paga ed è salato.
Questo deve indulgere a un qualche ottimismo. Può darsi che la ragionevolezza si manifesti solo quando tutto sarà distrutto e lo statalismo avrà trasformato l’Europa in una specie di deserto sociale ed economico. Oppure è possibile che – anche sulla scorta di qualche eccezione virtuosa – ci si renda conto che è bene tornare alle sane leggi del mercato. Una cosa però è chiara: la libertà può essere calpestata, ma non senza che questo produca conseguenze molto negative.
Per tale ragione chi crede nella responsabilità individuale, nella proprietà privata e nel contratto deve nutrire una qualche fiducia nel fatto che, prima o poi, questi valori saranno riconosciuti anche da quanti oggi li disprezzano. Prima o poi, il futuro sarà liberale. C’è un limite oltre il quale non si può andare: e questo perché lo statalismo finisce per dissolvere la società stessa e obbliga, quindi, a prendere atto delle leggi fondamentali che regolano l’interazione sociale.
Certo sarebbe auspicabile che si riuscisse a prendere consapevolezza di questo prima di avere toccato il fondo. Diversamente i costi per tornare a vivere in condizioni civili potrebbero essere anche molto elevati.
La lezione di Ferrero per Renzi

La lezione di Ferrero per Renzi

Simone Bressan – Formiche

L’episodio è gustoso come un vasetto di Nutella. Lo riferirono i presenti ma da allora – passato di bocca in bocca – è possibile che sia stato confezionato con qualche variante, pur mantenendo intatti i suoi ingredienti principali. Alba, novembre 1994. Il neo presidente del Consiglio Silvio Berlusconi si reca in elicottero per valutare i danni della tremenda alluvione che ha sconvolto tutto il Piemonte. Appena atterrato scorge tra gli spalatori di fango il cavalier Michele Ferrero, da molti anni uno dei principali inserzionisti delle sue televisioni commerciali. Gli si avvicina sorridente per stringergli la mano, ma questi lo guarda dritto negli occhi e replica secco: «Un presidente del Consiglio prima si reca in visita al Sindaco. Poi, se vuole, va a salutare gli amici». Una piccola storia che però molto rivela tanto del carattere di Berlusconi quanto di quello del grande industriale che da poco ci ha lasciati.
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Ranking della Libertà Fiscale in Europa

Ranking della Libertà Fiscale in Europa

INDICE DELLA LIBERTÀ FISCALE IN EUROPA

Indicatori analizzati
1. La struttura e il peso della tassazione in termini percentuali rispetto al PIL, inclusi i contributi sociali (punteggio massimo attribuito: 30 punti)
2. La struttura della tassazione intesa come Implicit Tax Rate (ITR) in percentuale del reddito imponibile su lavoro, capitale e consumo (punteggio massimo attribuito: 30 punti)
3. La complessità amministrativa del sistema fiscale in termini di procedure burocratiche e impegno di risorse umane (punteggio massimo attribuito: 30 punti)
4. Livello di decentramento fiscale, l’autonomia fiscale ed impositiva dei governi locali rispetto al governo centrale, il grado di responsabilizzazione dei livelli di governo (punteggio massimo attribuito: 10 punti)
RANKING GENERALE

ranking tabella 1

DETTAGLIO INDICATORI

pressione fiscale

itr

complessità sistema fiscale

 

livello decentramento fiscale

Indice della Libertà Fiscale 2015 – GLI AUTORI

Indice della Libertà Fiscale 2015 – GLI AUTORI

Pierre BESSARD (Svizzera) dirige l’Institut Constant de Rebecque di Losanna e il Liberales Institut di Zurigo.
Alexander FINK (Germania) insegna economia all’università di Lipsia.
Petar GANEV (Bulgaria) è senior researcher dell’Institute for Market Economics di Sofia.
Pierre GARELLO (Francia) insegna economia all’università di Aix-Marseille e direttore delle ricerche dell’Institut for Research in Economic and Fiscal issues (IREF).
Dan JOHANSSON (Svezia) insegna economia alla Örebro University ed è ricercatore per l’HUI di Stoccolma.
Kaetana LEONTJEVA (Lituania) è un’analista del Lithuanian Free-Market Institute (LFMI) di Vilnius.
Arvid MALM (Svezia) è un dottorando in economia del Royal Institute of Technology (KTH) di Stoccolma.
Pavol MINARIK (Repubblica Ceca) insegna al CEVRO Institute di Praga.
Pietro MONSURRÒ (Italia) è ricercatore all’università Sapienza di Roma e fellow dell’Istituto Bruno Leoni (IBL) di Torino.
Radu NECHITA (Romania) insegna economia all’università di Cluj-Napoca.
Mikael STENKULA (Svezia) è un ricercatore dell’Institute of Industrial Economics (IFN) di Stoccolma.
Alex WILD (Regno Unito) è direttore delle ricerche della TaxPayers’ Alliance di Londra.