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Il “bazooka” di Draghi e la saggezza della piccola Svizzera

Il “bazooka” di Draghi e la saggezza della piccola Svizzera

Carlo Lottieri

Negli scorsi giorni due avvenimenti, peraltro strettamente collegati, hanno dominato la cronaca economica europea.
Il primo riguarda la Svizzera, dato che la Banca centrale elvetica ha deciso di non difendere più il cambio 1,20 tra euro e franco, con la conseguenza che la seconda valuta si è notevolmente apprezzata fino a raggiungere la parità con la moneta comune europea. La mossa è avvenuta un po’ a sorpresa, ma è pur vero che dal 2012 a oggi erano stati in molti a sostenere che un cambio tanto inadeguato prima o poi si sarebbe dovuto abbandonare. In un mondo caratterizzato da una forte domanda di franchi svizzeri, la difesa di quel livello avrebbe finito per rappresentare un costo troppo elevato per Berna.
Cosa però ha indotto gli svizzeri a cambiare strada? È chiaro che essi avrebbero difeso ancora per un po’ quel cambio del tutto artificioso, cedendo alle pressioni lobbistiche di operatori turistici ed esportatori, se non vi fosse stato l’annuncio di una massiccia azione espansiva da parte della Bce. Dinanzi al cosiddetto “bazooka” di Mario Draghi, che si apprestava a immettere – nel corso del tempo – più di mille miliardi di euro, la Bns ha preso atto della realtà e ha lasciato che il mercato dei cambi facesse il suo corso.
Sull’azione di Draghi si è registrato un (quasi) unanime consenso. Si è detto che – finalmente! – le autorità monetarie prendevano iniziative anti-recessione, che questo denaro fresco avrebbe potuto aiutare gli investimenti e le imprese, che in tal modo gli interessi sul debito pubblico potevano diminuire, con grande beneficio per i conti degli Stati gravati da debiti. E poi si è detto che c’era bisogno di contrastare la deflazione con una “buona” inflazione intorno al 2%. Credo che sia opportuno, invece, essere scettici.
Una buona moneta è una moneta stabile, che facilita gli scambi, permette un’efficace contabilità e viene accumulata in vista di investimenti futuri. Queste sono le funzioni essenziali della moneta, ma nessuna di queste è davvero preservata quando chi la gestisce pretende di manipolarla a piacere. Se nel corso della storia passata il processo evolutivo gestito dagli operatori di mercato ha selezionato l’oro, questo è avvenuto proprio perché si trattava di una moneta non facilmente moltiplicabile con una decisione arbitraria come quella assunta qualche giorno fa da Draghi.
Oltre a ciò, Draghi ha agito – come qualche commentatore tedesco ha evidenziato – a vantaggio dei Paesi meno virtuosi e più indebitati (Italia e Francia, in particolare) e a danno di quelli più virtuosi. Questo “premiare” chi fa debiti non soltanto è ingiusto, ma rappresenta un incentivo ad agire in maniera sconsiderata. Per giunta ora si entra in una fase inflazionistica che, dopo la fiammata iniziale, ci obbligherà a fare i conti con tutte le difficoltà che sono caratteristiche di un’economia con una moneta debole.
L’Europa si può in qualche modo permettere di fare questo, illudendosi che non vi sia un prezzo assai salato da pagare, perché è una grande realtà, che unisce centinaia di milioni di persone. Questo processo sarà distruttivo, ma i nodi verranno al pettine negli anni a venire. Al contrario, la dirigenza della banca centrale elvetica – che pure a lungo non si è mostrata più saggia delle dirigenze delle altre banche centrali (americana, europea, giapponese ecc.) – è stata costretta a invertire la propria direzione dalle limitate dimensioni dell’economia del Paese, che in definitiva conta solo otto milioni di abitanti.
Ancora una volta, la Svizzera ha tratto vantaggio dalla propria “piccolezza”. Se alla fine il buon senso ha prevalso e se ora – di conseguenza – gli svizzeri possono contare su un cambio più affidabile (che può orientare gli attori economici a reimpostare su basi maggiormente solide la loro struttura produttiva) è solo grazie al fatto che non hanno potuto diluire la responsabilità dei propri errori e non hanno potuto proseguire in quella politica monetaria dispendiosa e redistributrice che prima li portava ad acquisire euro.
È questa una buona lezione che, in qualche modo, dovrebbe anche indurci a riflettere maggiormente su cosa sta diventando l’Unione europea e sulle conseguenze negative derivanti dall’espansione del suo potere.
Cosa serve alle imprese

Cosa serve alle imprese

Massimo Blasoni – Metro

Il nostro Paese decresce dello 0,4% nel 2014, andando peggio di quanto il Governo avesse stimato a inizio anno. Nel frattempo negli Usa la crescita è pari al 5%, un abisso legato sia alle politiche espansive americane che a un problema specifico della nostra economia. L’Italia è l’unico tra i principali Paesi europei ad avere un Pil reale che si è ridotto di dieci punti dall’inizio della crisi. La via d’uscita per il rilancio dell’economia sono le attività imprenditoriali, ma è difficile fare impresa in Italia. Lo studio annuale della Banca Mondiale ci pone agli ultimi posti tra i Paesi in cui è più facile fare affari e il peso complessivo delle imposte sulle imprese sfiora il 65%. Burocrazia, tempi della giustizia, cuneo fiscale: tutto concorre a frenare il rilancio. Concentriamoci su appena due delle tante critiche che si potrebbero muovere al Governo Renzi sul tema aziende.
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Il taglio dell’Irap è inutile per lo sviluppo

Il taglio dell’Irap è inutile per lo sviluppo

Massimo Blasoni – Panorama

In Italia non mancano le imprese virtuose, che ottengono ottimi risultati e incrementano l’occupazione. Quello che manca sono semmai il sostegno della politica e la fiducia nella loro capacità di far ripartire il Paese. Per rendersene conto è sufficiente analizzare uno dei principali provvedimenti contenuti nella Legge di Stabilità: il taglio dell’Irap. Una misura sostanzialmente lineare che si applica a tutte le imprese con dipendenti a tempo indeterminato: certamente utile per le aziende «labor intensive» ma che sconta l’errore di non finalizzare l’intervento a beneficio di chi ha il coraggio di fare investimenti.
Per capire quanto questa misura rischi di essere debole basta analizzare il suo impatto concreto sulle nostre imprese. Il beneficio fiscale sarà nell’ordine di 400 euro annui a lavoratore. Larga parte delle imprese italiane occupano oggi fino a tre dipendenti (fonte Istat): ciò significa una minore pressione fiscale annua di 1200 euro ad azienda, circa 100 euro al mese. È evidente che si tratta di una cifra né in grado di stimolare investimenti né di salvare aziende in difficoltà.
Da imprenditore rimango convinto che una vera spinta alla crescita si otterrebbe soltanto rendendo beneficiari della misura unicamente coloro che effettivamente investono in innovazione, ristrutturazioni e ampliamento delle aziende. Certo si ridurrebbe la platea dei beneficiari ma si otterrebbero effetti reali sulla crescita. L’intervento pubblico (anche se in forma di riduzione delle imposte) va indirizzato con certezza allo sviluppo, altrimenti si rivela soltanto un inutile dispendio di risorse: gli effetti degli 80 euro, al di là di ogni teoria economica, sono lì a dimostrare proprio questo.
C’è un ultimo aspetto: lo sgravio Irap produrrà effetti sul bilancio delle aziende solo nel 2015, dunque sulle imposte pagate a giugno e novembre 2016. Gli interventi in economia hanno un senso soltanto se immediati e invece da qui al 2016 potrebbe ricambiare tutto: anche le regole del gioco. Non sarebbe purtroppo la prima volta. L’attuale abbattimento Irap assorbe e cancella la riduzione del 10% già prevista dal cosiddetto “DL Irpef” di Aprile 2014. Un provvedimento, quest’ultimo, che come molti altri è stato solo un annuncio: prima approvato e poi eliminato senza che nessuno avesse la possibilità di beneficiarne.
Troppi ostacoli per chi fa impresa

Troppi ostacoli per chi fa impresa

Massimo Blasoni – Il Giornale

Resta difficile fare impresa in Italia. Lo evidenziano tutti gli indicatori economici ma ancor più, lo dico da imprenditore, l’esperienza concreta. Lo studio annuale della Banca Mondiale ci pone agli ultimi posti tra i paesi in cui è più facile fare affari ed il peso complessivo delle imposte, la cosiddetta total tax rate, sulle imprese sfiora il 70%, ponendo il nostro sistema produttivo tra i più tassati del mondo. Burocrazia, tempi della giustizia, cuneo fiscale, tutto sembra concorrere a frenare il rilancio di un paese, il nostro, in cui il Pil reale di oggi è inferiore a quello di 15 anni fa: unico caso tra i principali paesi europei. Non sono poche le critiche che si potrebbero muovere al governo Renzi, assai meno rapido nelle decisioni di quanto voglia dirsi. Concentriamoci su tre aspetti.
Primo: il pagamento dei debiti della pubblica amministrazione verso le imprese. Si è lungamente dibattuto, con tanto di promesse del premier di raggiungere a piedi Monte Senario se i debiti non fossero stati onorati, sino all’happy end. Obiettivo raggiunto per il “debito patologico” del 2013. Pochi ricordano però che, rimasti inalterati i 170 giorni medi con cui lo stato paga i fornitori, il debito nel corso del 2014 si è obbiettivamente riformato.
Con il Centro Studi ImpresaLavoro, stimiamo in 74 miliardi lo stock complessivo che si è rigenerato, rendendo di fatto vano l’intervento del governo. Un vero problema per le imprese costrette ad anticipare quei crediti in banca, con costi stimabili in sei miliardi l’anno. Un esborso quattro volte superiore rispetto a quello delle imprese francesi e sette volte maggiore di quello dei colleghi tedeschi che si vedono pagati i crediti verso lo stato mediamente in 27 giorni.
Alto tema il Jobs Act. I decreti attuativi approvati dal Consiglio dei Ministri confermano una tendenza tipica del Governo Renzi: la montagna degli annunci ha partorito il topolino dei fatti. La narrazione renziana suggerisce l’idea di un’Italia piena di aziende, anche straniere, pronte ad assumere ed investire dopo aver letto i provvedimenti del governo. In realtà alla ben nota contrapposizione tra lavoratori garantiti e precari si aggiunge oggi quella tra nuovi e vecchi assunti, mentre viene ignorato il tema della produttività e dell’impossibilità di rendere maggiormente efficiente il pubblico impiego, anche attraverso una normale disciplina dei licenziamenti.
In una economia sempre più tecnologica e dei servizi e sempre meno del tradizionale manifatturiero i tempi del lavoro non sono dati dalla catena di montaggio: aver eluso con ipocrisia il tema della efficienza (il licenziamento per scarso rendimento) certo non aiuta. Siamo, peraltro, tra i paesi con bassi indici di produttività anche per la difficoltà di correlare merito e retribuzione, ed il problema resta.
Terzo: il debito pubblico continua imperiosamente a crescere. Più di 80 miliardi nel 2014 e questo malgrado l’aumento delle imposte, evidenti o mascherate: 20 miliardi in più solo quelle sulla casa nel periodo Monti-Letta-Renzi. E se è vero che la legge di stabilità presuppone la decontribuzione dell’Irap (vedremo) già incombe, per l’assenza di coperture, il rischio di un nuovo aumento dell’Iva.
Renzi continua ad annunciare molto e a produrre risultati modesti. Con gli annunci, anche se fatti in inglese, l’economia non riparte: servono riforme vere. Meglio se liberali.
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