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Banche esose con i prestiti

Banche esose con i prestiti

Massimo Blasoni – Metro

Dal sistema bancario arrivano frequenti dichiarazioni sull’incremento del credito reso disponibile a famiglie e aziende ma la rielaborazione dei dati Bankitalia realizzata dal nostro Centro studi sembra dimostrare il contrario. Da gennaio a ottobre di quest’anno il volume complessivo dei prestiti si è infatti addirittura ridotto di ulteriori 29 miliardi (-1,2%), passando da 2.309,6 a 2.280,8 miliardi di euro. Questa stretta ha colpito tanto le imprese – passando da 837,9 a 819,4 miliardi (-2,2%) – quanto le famiglie, passando da 601,8 a 596,8 miliardi (-0,8%). Rispetto al gennaio 2011, il volume complessivo dei prestiti risulta poi essersi complessivamente ridotto di 61 miliardi di euro, passando da 2.341,6 a 2.280,8 miliardi di euro (-2,6%). In questo arco di tempo le banche hanno ridotto il loro sostegno soprattutto alle imprese (-7,9%, pari a -70,7 miliardi di euro) e si sono dimostrate avare anche nei confronti delle famiglie (-0,2%, pari a -1,3 miliardi di euro). Al contrario si è registrato un sensibile aumento dei prestiti tra banche e altre istituzioni finanziarie (+ 2,1%, pari a +12,6 miliardi di euro).
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È necessario “meno Stato” per sconfiggere il malaffare

È necessario “meno Stato” per sconfiggere il malaffare

Carlo Lottieri

La scoperta dell’ennesimo e maleodorante incrocio tra politica e malaffare (quella che i giornali hanno ribattezzato come Mafia Capitale) ha spinto vari commentatori a indulgere in un melenso moralismo e, non si rado, perfino nell’esaltazione di quell’etica pubblica che glorificando il ruolo dello Stato potrebbe perfino aggravare i problemi. È del tutto evidente, infatti, che la corruzione è figlia in primo luogo di una presenza abnorme del potere nella vita economica e sociale e che, per questo motivo, la strada maestra per riportare correttezza e serietà nei comportamenti di tutti (a partire da politici, imprenditori e burocrati) consiste nel ridimensionare il ruolo del settore pubblico.
Contro i comportamenti spregiudicati di una parte non piccola del ceto politico sembra che la risposta sia una sola: mettiamo gli “onesti” al posto dei “corrotti”. Il problema è che non vi è alcun modo di sapere davvero, in anticipo, chi si comporterà bene e chi no, e per giunta quanti agitano la bandiera della moralità in politica il più delle volte sono talmente superficiali e giacobini nel formulare le loro condanne (spesso in assenza di prove) da non poterli considerare davvero quali persone integre. Non è immorale soltanto il comportamento di chi pretende una tangente, ma anche quello di chi distrugge l’immagine altrui sulla base di voci, accuse infondate, pregiudizi ideologici e antropologici.
Bisogna anche comprendere che l’Italia non è corrotta “per natura”, così come non sono naturalmente destinati a essere dominati dal racket i paesi africani o quelli comunisti. Tutte queste società sono però vittime dei latrocini semplicemente perché una parte spropositata delle risorse è costantemente mediata o controllata dalla politica. Se costituiamo centri di potere che possono o non possono concedere autorizzazioni, elargire finanziamenti e produrre norme ad hoc, gestire questo o quel settore on assoluto monopolio, non possiamo stupirci se attireranno i soggetti più spregiudicati e senza scrupoli.
Chi legge con attenzione le cronache della Tangentopoli romana avverte subito come tutto ruoti attorno al denaro dei contribuenti. Una massa troppo grande di risorse è gestita da politici e burocrati, e questo permette facili arricchimenti da parte di persone senza scrupoli. Ridurre la spesa pubblica porterebbe, ovviamente, a ridurre anche questa economia illegale e parassitaria.
Più dei corrotti (una quota di persone senza dignità vi è in ogni paese) siamo allora rovinati da quanti sono schierati a difesa di uno Stato onnipotente, che gestisce l’assistenza sociale e l’urbanistica, la sanità e l’energia, i trasporti e la cultura, e che in questo modo tiene costantemente sotto scacco anche quella quota di economia che permane privata. In tale situazione gli imprenditori peggiori possono fare soldi sottraendosi al mercato (dove si deve soddisfare la domanda del pubblico), ma grazie ai favori dell’amico che ha fatto carriera in un partito e del compare che si è incistato in questo o quel Palazzo.
Ci sono, allora, non soltanto serie ragioni economiche perché si operi una massiccia privatizzazione del parastato, con la quale si ridimensionerebbe il mostruoso debito pubblico che grava sul nostro futuro. Quella che è in gioco è la stessa possibilità di avere meno corruzione e una politica un po’ meno indecente.
Senza sorpresa

Senza sorpresa

Davide Giacalone

Più del declassamento spaventa l’incoscienza della reazione. Il giudizio è ingiusto, ma fondato. Il nostro debito non è meno sostenibile di quello spagnolo, ma la nostra politica è assai meno lucida di quella ispanica. Se si continua a credere, e a cercare di far credere, che il debito si accudisce con gli avanzi primari, imposti a un corpo economico in recessione, allora si calca il terreno dell’inverosimile. Se si crede che la ripresa passi dallo sforamento del deficit e dall’aumento della spesa pubblica, allora siamo in piena sindrome da alcolista, che per star meglio beve un bicchiere in più.
Noi lo scrivemmo quando i giornaloni e i politicanti si compiacevano per il passaggio dell’outlook, della previsione, da peggiore a stabile. Ma che festeggiate? Un Paese in recessione non sta meglio ove si preveda che resti in quella condizione. Se fosse vero quel che hanno detto dal governo, e che a pappagallo è stato ripetuto da molti, ovvero che Standard & Poor’s ha comunque valutato positivamente le riforme (una, quella del lavoro) governative, allora il declassamento si sarebbe dovuto accompagnare a una prospettiva di miglioramento: siete meno affidabili, ma state facendo il necessario per guadagnare posizioni. Invece è stabile: perdete affidabilità e fate tante chiacchiere, per crederci dovremo vedere qualche cosa di reale e tangibile.
Ci declassano ancora perché il debito cresce, la ricchezza prodotta no, mentre la macchina Stato, a cominciare dalla giustizia, è impantanata e impantanante. Quale sarebbe l’obiezione? Che alle altre riforme stiamo provvedendo? È ridicolo, se solo si pensa che per la giustizia una delle cose previste è l’aumento dei tempi della prescrizione, il che vuole dire curare i processi lenti non accorciandone i tempi, ma allungando quelli dell’inquisizione. Il mondo legge e deduce. Il che crea un danno in parte ingiusto, perché dal punto di vista patrimoniale il nostro è fra i debiti più affidabili. Ma sapete cosa significa? Che o si mette la patrimoniale sui cittadini e le imprese o la si mette sullo Stato. Al momento si fa solo la prima cosa, aggravando la recessione, mentre si consente la straultraschifezza di RaiWay, patrimonio pubblico venduto per finanziare spesa corrente. È gravissimo, ma nessuno reagisce. I governanti addirittura si felicitano. Il mondo vede e deduce. Senza dimenticare che le agenzie di rating, in un trionfo di conflitto d’interessi e con regole finanziarie che ne sopravvalutano i responsi, distorcendo il mercato, quelle agenzie saranno pure severe, ma sempre meno degli italiani intervistati dal Censis, visto che il 60% è convinto di diventare più povero. Appunto: più si diventa poveri e meno il debito si sostiene.
Non è tanto il declassamento, quindi, a preoccupare, quanto il modo in cui si reagisce. Con il fastidio di chi non vuole essere distratto dalle proprie beghe cortilane. Ma dopo quel declassamento, ennesimo, figlio di una serie storica così lunga da essere essa stessa significativa in sé, c’è una sola cosa che divide il vascello Italia dall’onda devastante della speculazione: la diga della Banca centrale europea. Quella che noi abbiamo fatto di tutto per indebolire, facendole mancare gli argomenti per crescere di altezza, quindi per offrire maggiore protezione. Siamo qui a sofisticare sulle parole di Mario Draghi, non volendo ammettere che si tratta della sola azione fruttuosa di marca europea. Con l’aggravante, che si aggiunge all’unicità, di essere condotta da una sede che, per sua natura, è priva di legittimità democratica. Fosse solo il declassamento, non si dovrebbe far altro che stringere i denti e andare avanti. Ma viste le reazioni si vien presi dalla voglia di morderne gli svagati protagonisti.
Bene il Jobs Act, ma i soldi?

Bene il Jobs Act, ma i soldi?

Massimo Blasoni – Metro

Riformare il mercato del lavoro non significa soltanto affrontare il tabù dell’articolo 18 ma costruire un mercato del lavoro nuovo. Se guardiamo alla legge delega sul Jobs Act – che prevede anche l’armonizzazione dei sussidi di disoccupazione, la riorganizzazione delle politiche attive e la creazione di un salario minimo legale – scopriamo però che le buone intenzioni rischiano di essere sconfitte dalla cruda realtà dei fatti. Insomma, mancano i soldi o -peggio ancora – vengono spesi male perseguendo logiche superate e inefficienti. La stessa legge di Stabilità prevede solo 2 miliardi per l’attuazione della legge delega e d’altronde nel testo di quest’ultima approvato prima al Senato e poi alla Camera possiamo leggere che «dall’attuazione delle deleghe recate dalla presente legge non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica». È realistico promettere un sistema di flexicurity senza avere un chiaro piano per le finanze pubbliche? La risposta è ovviamente no.
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