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L’espansione del potere statale e la minaccia dell’Unione

L’espansione del potere statale e la minaccia dell’Unione

Carlo Lottieri

Lo Stato moderno è quell’istituzione che, al termine di un lungo cammino che ha avuto inizio in epoca medievale, si è imposta sulla società moderna quale soggetto in grado di monopolizzare l’uso della violenza, assorbire il diritto, farsi carico di tanti ambiti e attività tradizionalmente affidati a comunità, associazioni, imprese e individui. Dopo avere dominato gli ultimi cinque secoli della storia occidentale, però, lo Stato potrebbe essere avviato verso il proprio declino. È però vero che anche se le cose stessero in questi termini, ci si troverebbe in una fase “terminale” segnata da una serie di paradossi.
Da un lato, mai come ora lo Stato è stato forte e mai oggi il ceto politico è stato in grado di togliere risorse ai produttori, costruendo un enorme apparato parassitario. Oggi questo Moloch sta però distruggendo le economie, e non solo quelle del Sud dell’Europa: dato che tanti Stati sono sempre più indebitati e vanno trascinando nel gorgo l’intera economia. Eccezion fatta per qualche caso particolare (dalla Svizzera al Liechtenstein, a taluni paesi ex-comunisti), nel Vecchio Continente chi lavora è privato del 50% delle risorse, ricevendo in cambio una sanità di modesta qualità, un’istruzione sempre meno adeguata, una promessa di protezione previdenziale che non potrà essere mantenuta, e via dicendo. Ma di fronte a tale fallimento la risposta che viene individuata consiste nel trasferire il potere a un livello superiore: puntando utopicamente a costruire uno Stato globale e, quale tappa intermedia, un’Unione europea sempre più costosa e centralizzata. Questo significa che gli Stati stanno trionfando, ma al tempo stesso stanno progressivamente per essere spodestati da un iper-statalismo sovranazionale e da un processo che svuota antiche e consolidate autonomie nazionali. Ne consegue che Roma e Parigi, Londra e Berlino, ma anche i capoluoghi di regione e le grandi città, rischiano di essere sempre più i semplici punti d’appoggio di un potere parassitario e onnipresente, le cui pratiche predatorie tengono ormai a sganciarsi dagli Stati e adottano qualsivoglia strategia pur d’imporsi.
La formula, pur teoricamente infelice, della cosiddetta “cessione di sovranità” interpreta con efficacia lo svuotamento di istituzioni che un tempo si sono proclamate totali e definitive, gli Stati, e che hanno pure sviluppato una loro teologia secolare, costruendo quelle mitologie variamente nazionaliste o classiste che hanno innescato i grandi conflitti degli ultimi due secoli. Sotto vari punti di vista, il globalismo giuridico di quanti mirano a realizzare un qualche Stato mondiale e che puntano a edificare una statualità continentale – gli Stati Uniti d’Europa – è figlio diretto della linea teorica che ha costruito la modernità statuale (Bodin-Hobbes-Rousseau), essendo in sintonia con le ideologie che hanno dominato la filosofia politica negli ultimi secoli. La sovranità prima si è fatta assoluta, ma poi si è realizzata integralmente nel momento in cui ha incontrato la massa (nazionalismo, socialismo, democrazia illiberale) e ha quindi investito se stessa in un globalismo giuridico volto a far venir meno ogni vincolo, facendo coincidere la mistica della volontà generale e l’ideologia dei diritti umani.
Per certi aspetti, ci si trova su un piano inclinato. Le élite politiche e intellettuali europee, che nel ventesimo secolo hanno dato credito a ogni visione totalitaria, oggi considerano la prospettiva dell’unificazione come l’unica possibile e legittima. Nonostante i problemi correlati al processo di costruzione dell’Unione, ogni difficoltà viene addebitata all’ancora imperfetta federazione realizzata negli anni scorsi. È un’idea largamente condivisa che una democrazia europea compiuta con capitale a Bruxelles sarebbe in condizione di assicurare pace, civiltà e prosperità a tutti.
Non tutto sta però favorendo gli artefici di questo Potere tendenzialmente illimitato. Il quadro economico e sociale, in particolare, va deteriorandosi. Le logiche deresponsabilizzanti che sono state al cuore dello Stato moderno (“la grande finzione grazie alla quale tutti si illudono di vivere alle spalle di tutti”, secondo l’aurea definizione di Frédéric Bastiat) sono esaltate dalle procedure di protezione, aiuto e garanzia che contraddistinguono l’interventismo dell’Unione e della Bce. La disfatta della civiltà europea non è casuale.
Il risultato è che il meccanismo redistributivo che vorrebbe costringere alcuni Stati a sostenerne altri rischia di erodere le chance di tenuta dei primi senza davvero aiutare i secondi. I bilanci dei Paesi più virtuosi sarebbero messi a rischio e con essi la solidità della moneta comune, mentre nel caso dei Pigs il “salvataggio” di taglio assistenziale rinvierebbe decisioni che invece vanno assunte senza indugio. Ritardare l’agonia non significa evitare la catastrofe. Dilatati nella loro capacità d’intervento dallo sviluppo del welfare, gli Stati moderni hanno progressivamente innalzato la pressione fiscale, hanno poi aumentato la massa monetaria (generando inflazione) e, infine, hanno fatto ricorso al debito.
Il progetto ideologico è lanciatissimo e non ha rivali, ma la realtà offre resistenza. Sul piano del dibattito delle idee, purtroppo gli unici (o quasi) che s’oppongono al globalismo giuridico-politico e all’europeismo unificatore sono gli sciovinisti difensori delle patrie ottocentesche. I fautori della coercizione sembrano insomma non dover competere con progetti alternativi e non incontrare ostacoli. Anche se il treno va velocissimo, all’orizzonte è però già visibile il precipizio. L’interventismo statale è stato distruttivo e l’iper-interventismo dello Stato massimo lo è ancor di più. Come cantava Jim Morrison, “this is the end”, perché alla fine gli errori si pagano. Per questo è urgente dare fiducia a quanti credono nella proprietà privata, nel mercato, nella facoltà di autodeterminarsi, nell’autonomia negoziale, nella possibilità di generare nuove istituzioni (veramente liberali) e nell’obiezione di coscienza.
Grazie alla libertà devono insomma poter crescere mille fiori: così da disorientare i fanatici del Potere e da far dissolvere i loro progetti illiberali.
False promesse

False promesse

Massimo Blasoni – Metro

Sappiamo bene come la politica viva di immagini e simboli in grado di far breccia nell’opinione pubblica. Chi governa tende però spesso a esagerare, contrabbandando come successi quelle che purtroppo restano soltanto promesse. Prendiamo il caso del pagamento dei debiti arretrati che la pubblica amministrazione ha con migliaia di imprese private: Renzi e Padoan sostengono di aver onorato la loro promessa di estinguerli ma i fatti purtroppo si incaricano di smentirli. I debiti di cui parlano sono quelli maturati entro il 31 dicembre 2013: solo per questi, infatti, è stato possibile per le imprese chiedere la certificazione e la relativa liquidazione di quanto dovuto. E solo a questi debiti ci si riferisce anche quando si monitorano i risultati al 31 ottobre delle altre iniziative del governo sul tema (garanzia pubblica sulla cessione del credito, deroghe al patto di stabilità, compensazione con alcuni debiti fiscali). “ImpresaLavoro”, incrociando il dato della spesa per beni e servizi così come certificata da Eurostat e quello dei tempi medi di pagamento così come monitorati da Intrum Justitia, ha stimato uno stock di debiti per il 2013 pari a 74 miliardi di euro. Alle stesse conclusioni è giunto anche l’Ufficio Studi di Bankitalia. Siccome fino ad oggi i debiti rimborsati sono stati solo 34 miliardi (su uno stanziamento complessivo di 40), possiamo affermare che la promessa del governo, a rigor di matematica, non è stata mantenuta.
Nel frattempo si è accumulato nuovo debito e chiunque può comprendere come il suo stock si possa ridurre soltanto se i nuovi debiti risultano inferiori a quelli oggetto di liquidazione. Una condizione che non potrà crearsi fino a quando il livello di spesa pubblica e i suoi tempi medi di pagamento non subiranno una drastica diminuzione. I dati Eurostat ci dicono invece che dall’inizio del 2014 a oggi siano già stati consegnati alla Pa italiana beni e servizi per un valore di circa 113,5 miliardi di euro. Contemporaneamente, l’analisi dei flussi di cassa delle amministrazioni tracciabile attraverso il SIOPE non segnala alcuna diminuzione dei tempi medi di pagamento, che restano con ogni probabilità di circa 170 giorni (altro che i 30 giorni imposti sulla carta dall’Europa!). Risultato? Lo stock di debito è rimasto invariato – cioè pari a 73,5 miliardi di euro – e i ritardi di pagamento determinano un costo del capitale a carico delle imprese italiane per oltre 6 miliardi di euro all’anno. Sulla singola fornitura, la loro incidenza è pari al 4,2%, circa 4 volte ciò che costa a un’impresa francese e a circa 7 volte ciò che costa a un’impresa tedesca.
Guerra aperta agli immobili: 20 miliardi di tasse in 4 anni – Il Giornale

Guerra aperta agli immobili: 20 miliardi di tasse in 4 anni – Il Giornale

Gian Maria De Francesco – Il Giornale

L’aggressione sulla casa ha due volti, entrambi mostruosi. Quello più noto è rappresentato dai 20 miliardi di tasse in più che gli italiani sono stati costretti a pagare negli ultimi quattro anni a causa dell’accanimento dei governi Monti, Letta e Renzi sulla proprietà immobiliare. A colpi di Imu, Tasi e Ici si è passati dai 9 miliardi di prelievo del 2010 ai 28 miliardi stimati da Confedilizia per quest’anno.

Il volto nascosto di questo raptus autopunitivo lo svela il Centro Studi ImpresaLavoro: il mercato italiano delle costruzioni sta segnando performance che collocano l’Italia agli ultimi posti in Europa. È chiaro che, in questo modo, si frustrano molte possibilità di agganciare la ripresa ove mai si presentasse. Ecco perché il presidente di Forza Italia, Silvio Berlusconi, ancora ieri è ritornato sull’argomento. «La casa è colpita da tasse che tre governi non eletti dai cittadini hanno moltiplicato per tre», ha detto nel corso dell’intervento a La telefonata su Canale 5. «La casa per Forza Italia è sempre stata qualcosa di sacro: è un pilastro su cui ogni famiglia ha il diritto di costruire la sicurezza del suo futuro», ha aggiunto ricordando che «tagliare le tasse sulla casa non solo è possibile, ma è doveroso». Un segnale di battaglia in vista del No Tax Day azzurro del prossimo fine settimana che sarà incentrato su questo tema.

L’analisi del Centro Studi ImpresaLavoro, però, offre uno spaccato della propensione «suicida» del nostro Paese nei confronti dei competitor europei. L’aumento della tassazione, infatti, ha bloccato il settore e, dal 2011 a oggi, si è perso il 30% del valore della produzione. In Europa solo Cipro, Portogallo e Grecia hanno registrato andamenti peggiori di quello italiano e non è un caso che si tratti di Paesi profondamente segnati dalla crisi del debito sovrano. Se si guarda alle aree più sviluppate del Vecchio Continente, si osserva come la Francia, nello stesso periodo, abbia registrato un arretramento del 5,1%, il Regno Unito del 3,2%, mentre la Germania ha visto un lieve incremento (+0,6%). La performance della Spagna è la migliore tra le grandi economie europee: +18,9 per cento. L’Italia è ampiamente al di sotto della media dei 27 Paesi dell’Unione Europea poiché il -29,3% cumulato si confronta con una media del -5 per cento. Insomma, non solo si sono massacrati i contribuenti, ma si è resa l’intera nazione più debole.

Crollano, di conseguenza, anche le ore lavorate, l’indicatore che misura con maggior precisione l’andamento dell’occupazione di questo settore. In Italia nel 2014 si sono lavorate nel settore costruzioni un terzo delle ore in meno rispetto al 2011 (-28,9%). La Francia ha perso solo il 4,2%, mentre gli incrementi hanno interessato Regno Unito (+3,7%), Spagna (+1,4%) e Germania (+0,9%). Un effetto della perdita dei due terzi di permessi di costruzione (-63% nel triennio) a causa della recessione autoindotta nel comparto. Dunque, non bisogna con evidenti ripercussioni sull’occupazione e il numero di lavoratori lasciati a casa dalle aziende in crisi. «I governi Monti, Letta e Renzi hanno trasformato la casa da “bene rifugio” in “bene incubo”», commenta il presidente di ImpresaLavoro, Massimo Blasoni. I numeri non fanno che confermarlo.

La Pac è fallita, ma l’Europa fa finta di nulla

La Pac è fallita, ma l’Europa fa finta di nulla

Carlo Lottieri

Nelle scorse settimane è toccato al ministro italiano delle Politiche agricole, Maurizio Martina, scendere in campo a difesa della Politica agricola comune (Pac), che forse subirà qualche limitato taglio. Eppure l’economia ha le sue leggi: lineari, ma al tempo stesso capaci di rivelarsi spietate se vengono continuamente ignorate. E questo spiega perché l’interventismo in agricoltura abbia prodotto, negli scorsi decenni, soltanto disastri.
Meccanismi assistenziali a favore del mondo agricolo sono presenti in molti Paesi, per una ragione assai semplice. Ancora un secolo fa, la maggioranza degli europei lavorava nei campi, mentre oggi solo una piccola frazione degli occupati (in quasi tutti i Paesi europei è inferiore al 10%) si colloca in tale settore. Di fronte a un tale esodo la classe politica è intervenuta. Nel Vecchio Continente, in particolare, fino al 1992 sono stati introdotti montanti compensativi associati alle produzioni e successivamente si è provveduto a scoraggiare ogni iniziativa con altri strumenti. Al fine di limitare i costi di questo sistema di sovvenzioni a favore dei “poveri contadini” (tra i primi beneficiari ci sono però le case reali: dai Windsor ai Grimaldi) si sono destinate ingenti risorse anche a chi accettava di non coltivare i propri terreni. Il risultato è che abbiamo visto farmacisti o notai acquistare terreni per fare un investimento, talora proprio contando sulle sovvenzioni destinate a quanti tengono inattivi i terreni. In più sono state introdotti limiti alla produzione.
Com’era prevedile, il meccanismo ha moltiplicato imbrogli ed abusi, come nel caso dello scandalo delle quote latte. E se la situazione europea non è troppo diversa da quella statunitense, è pure vero che le alternative esistono e, quando applicate, producono risultati notevoli: come nel caso della Nuova Zelanda. Un convinto sostenitore dell’esperienza liberista neozelandese (stop degli aiuti pubblici e libertà di produrre) è Giorgio Fidenato, un agronomo friulano che da tempo va conducendo una strenua battaglia contro la Pac – quale segretario dell’associazione Agricoltori Federati – e che egualmente è assertore della necessità di aprire la strada all’innovazione in ambito agricolo: a partire dall’utilizzo degli Ogm. La tesi di Fidenato è difficilmente contestabile: “avere finanziato le aziende agricole europee ha rallentato quei processi di ammodernamento che, specie in Italia, passano dalla fine di un’agricoltura fatta di appezzamenti troppo piccoli. Perché sia possibile uno sfruttamento migliore delle risorse i protagonisti del settore vanno indotti a fare scelte imprenditoriali. Ma il sistema degli aiuti e le logiche dettate dagli ecologisti (a partire da quanti hanno promosso il biologico) hanno impedito tutto ciò. Oggi il mercato ci chiederebbe di aumentare le produzioni, ma in realtà la Pac ci blocca”.
Il bilancio sulla Pac, insomma, è solo negativo: dato il gran numero di vittime che ha prodotto.
In primo luogo hanno subito gravi conseguenze di tale politica i contribuenti, tassati per sostenere tale politica di sprechi. Ma ugualmente danneggiati sono stati i consumatori, dato che la Pac ha tenuto artificiosamente alti taluni prezzi. E per lo stesso motivo sono stati penalizzati gli agricoltori del Terzo Mondo (dove ancora si muove di fame, anche a causa della nostra chiusura commercial), che non possono vendere da noi i loro beni. Per questo se in passato la lotta contro il protezionismo era combattuta per lo più da pochi liberisti, oggi vi sono organizzazioni umanitarie di varia tendenza che avvertono l’urgenza di offrire a quanti vivono nelle aree più povere la possibilità di guadagnarsi onestamente da vivere e di esportare da noi i loro prodotti. D’altra parte, una quota dell’immigrazione clandestina è anche da addebitarsi alla Pac, che impedendo a quanti stanno in Africa di costruirsi un futuro li induce a venire qui. Essi non vogliono vivere alle nostre spalle: ci chiedono solamente di poter venderci quei prodotti che, poiché gravati da dazi altissimi (140% sul burro, 150% sullo zucchero e così via), non possono arrivare nei nostri mercati.
In apparenza, gli agricoltori sono i grandi beneficiari della politica agricola europea: e in qualche caso è così. Però nell’insieme – dopo un periodo di tempo ormai abbastanza lungo – possiamo dire che anche il mondo agricolo ha finito per pagare un prezzo altissimo. In cambio dei finanziamenti gli agricoltori hanno dovuto accettare una crescente limitazione delle produzioni e più in genere un freno al loro sviluppo. Per questo motivo, oggi il settore appare in larga mostra arretrato.
Un vantaggio netto dalla Pac, invece, hanno ricavato i professionisti del sindacalismo agricolo e le burocrazie comunitarie. Come rileva Fidenato, “c’è una tragica alleanza tra le comprensibili paure di tanti agricoltori (consapevoli dei guasti della Pac, ma timorosi di fronte al libero mercato) e gli interessi di chi gestisce il sistema. È questo intreccio che va sciolto, mostrando come gli aiuti ostacolino la libertà d’impresa e quindi finiscano per distruggere il settore”. Il guaio è che una voce come quella di Fidenato, capace di formulare analisi razionali e a lungo termine, sia sommersa dal rivendicazionismo demagogico di chi non vuole
Tra cataclismi e scontri sociali

Tra cataclismi e scontri sociali

Stefano Biasioli – Segretario Generale Confedir

“Piove, governo ladro”.
Da 2 mesi a questa parte, non piove ma diluvia. Esondano fiumi e fiumiciattoli; la terra smotta e distrugge case e persone. Bombe d’acqua su bombe d’acqua. Acquazzoni mai visti, per durata ed intensità. Lo sappiamo. Da decenni a questa parte, governi su governi, amministrazioni regionali e locali hanno fatto strage del territorio: in montagna, in collina, in pianura. Non solo non hanno programmato ed attuato la doverosa manutenzione dei corsi d’acqua (fiumi, torrenti, rii, lagune, laghi) ma hanno consentito di costruire in zone a rischio di alluvione. Hanno permesso la costruzione di case sul greto dei torrenti (Genova e dintorni) e sopra risorgive (Caldogno-Vi; Ospedale di San Bonifacio-Vr). Poche citazioni, per tutte. Il discorso è identico per l’intero Paese: Nord, Centro e Sud.
Pur di costruire, pur di muovere soldi (bianchi e neri) le amministrazioni pubbliche hanno concesso di tutto, fino a pochi anni fa. Ma ora è tardi. Il cambiamento del clima e le piogge “equatoriali” di questi mesi hanno fatto il resto. Il Po era stranamente alto in Agosto; immaginatevi ora, con i suoi affluenti di destra e di sinistra strapieni. Dora Riparia, Dora Baltea, Ticino, Adda, Oglio, Mincio……A memoria, ce li facevano imparare. Ora le cronache televisive ce li mostrano “arrabbiati, tumultuosi, pieni di materiale vario…..che arriva da Nord”. Conosciamo la litania: “Non ci sono soldi per pulire i corsi dei fiumi…”. Abbiamo sprecato tanto, nei tempi del consociativismo catto-comunista, del craxismo, del berlusconismo, del prodismo. Abbiamo sprecato e violentato la natura.
Ora ne vediamo le conseguenze. Il mio povero nonno Angelo (famoso ispettore forestale veronese, quello che ha rimboscato l’alta Val d’Illasi) ripeteva a me bambino (tenendomi sulle ginocchia):”Stefanino, ricordati che la natura va rispettata. Se non lo fai, si vendica…per rimettere in ordine le cose…”. Non ci si difende dalle esondazioni con i soli muraglioni, ma soprattutto pulendo i corsi d’acqua. Non si evita l’acqua alta con il faraonico Mose (80 maxi-paratie meccaniche) ma pulendo, ciclicamente i canali di Venezia. E cosi’ via. Una sola cosa avrebbe dovuto fare il governo Renzi, invece di impigliarsi sull’articolo 18. Avrebbe dovuto finanziare un “Piano Fanfani” (i piu’ vecchi se lo ricordano!) non per l’INA-casa ma per la sistemazione del dissesto idrogeologico in un paese, il nostro, che dovrebbe vivere di turismo e di cultura. Non l’ha fatto, Matteo. E la natura gli si ritorce contro, con una continuità mai vista prima. E siamo solo in autunno. Cosa succederà, se nevica in modo altrettanto pesante ? “Matteo, il boy-scout, porta sfiga”. Dopo la cacciata di Mazzarri, questo motto si sta diffondendo.
Ritorna il sessantotto.
Le cronache di questi giorni sono piene di notizie su cortei e scontri. Allo sciopero sociale organizzato dalla CGIL e dai Cobas si sono sovrapposti, in tutta Italia (in almeno 50 città) scontri con la polizia, da parte di esponenti della cosiddetta frangia antagonista: no-global, centri sociali, studenti. “Scontri sociali” li hanno definiti. Decine di feriti, soprattutto tra le forze dell’ordine. Non spetta a Noi fare la cronaca dettagliata dei fatti e dei fattacci. Ci sia permessa una riflessione veneta, da estendere pero’ al paese. 44 anni fa, a Padova, tutto incomincio’ dalle parti della Facoltà di Lettere e di Scienze politiche. Dal regno di Toni Negri e dintorni. Il 14 novembre 2014 l’episodio più grave è avvenuto a due passi dalla Facoltà di Lettere. Il passato ritorna. La novità, caso mai, è racchiusa da un particolare: gli scontri sono avvenuti perché gli autonomi volevano occupare la sede del PD.
Ovvie le dichiarazioni ufficiali. “Solidarietà alle forze dell’ordine….Non ci faremo intimidire…” (Massimo Berrin, Segretario Provinciale PD)…”Nella confusione fratricida della sinistra, ci rimettono la polizia e la città…”(Maurizio Sala, assessore di Bitonci)….”Hanno vinto loro, i professionisti del disordine” (Gessica Stellato, M5S). E’ già nato un leader: Zeno Rocca, 23 anni, veronese, attivista del centro sociale Pedro, iscritto a Legge. Un cambio generazionale, forse. Quello che si è visto a Padova, Milano, Roma, Napoli, Pisa, Palermo è forse qualcosa di nuovo. Qualcosa che rimanda, per alcuni aspetti, al sessantotto. In strada c’erano le sigle degli studenti, medi ed universitari; c’erano gli antagonisti (centri sociali ed anti TAV ), c’era l’Adl Cobas e Cobas scuola: il sindacato forte nei centri della logistica e delle spedizioni, nelle cooperative sociali e nei servizi. Quelli che il pubblico ha regalato al privato. In altre parole: c’erano gli antagonisti; c’erano i precari; c’era il precariato spinto. I nomi degli antagonisti? Pedro, Bios, Collettivo di Scienze Politiche, Gramigna, Rivolta, Sale Docks, Bocciodromo, Arcadia, Django, Casa dei Beni comuni. Uno o piu’ di uno, per ogni provincia veneta.
“Una giornata di sciopero sociale”, ha detto uno che se ne intende: Beppe Caccia, protagonista nei movimenti sociali di 20-30 anni fa. “L’assenza di prospettive e di speranza ha riunito i disperati nelle piazze”. “Padova,città aperta”, ha detto uno di loro. Padova come laboratorio per riunire le varie forme di lotta e di rivendicazione sociale.  Ecco, ci siamo. La prolungata crisi economica, il precariato spinto, la disoccupazione hanno – alla fine- portato alla coagulazione di forze eterogenee. Che non si accontenteranno delle sceneggiate televisive del premier fiorentino ma chiederanno, chiedono già da ora, risposte certe, diritti, lavoro, reddito. “Botte: governo ladro!”. Chi non ha lavoro ha perso la pazienza. Non siamo convinti che Renzi capisca. Non siamo convinti che questo Governo, questa politica, questi sindacati siano in grado di dare una seria prospettiva al Paese.
Alcune baggianate sulla legge Madia

Alcune baggianate sulla legge Madia

Stefano Biasoli – Segretario Generale Confedir

Siamo costretti oggi a ricordare nuovamente gli effetti deleteri prodotti dall’art. 6 della Legge MADIA (114/2014), il cui titolo pare chiarissimo:”Divieto di incarichi dirigenziali a soggetti in quiescenza”. Il titolo di questo articolo conferma, anzi esplicita, la volontà della Madia di rottamare i pensionati pubblici e privati , negando loro la possibilità di svolgere incarichi professionali e dirigenziali per la P.A., con 2 sole eccezioni: componenti di giunte degli enti territoriali o simili, incarichi e collaborazioni della durata di un anno, gratuite e non rinnovabili. Tutto chiaro? Tutto legittimo? No, certamente no. Ma procediamo con ordine.
Premessa legislativa. Dalla legge 135/2012 alla legge 114 /2014.
Con  la legge 135/2012 (art.5, c.9) era stato introdotto il divieto, per le amministrazioni pubbliche, di attribuire incarichi di STUDIO e CONSULENZA a soggetti, già appartenenti ai ruoli delle stesse amministrazioni e collocati in quiescenza, che avessero svolto, nel corso dell’ultimo anno di servizio, funzioni e attività corrispondenti a quelle oggetto dello stesso incarico di studio e di consulenza. La disposizione allargava, di fatto, il fronte dell’intervento, meno restrittivo, proposto in passato con una disposizione della legge n. 724/1994 (Legge Finanziaria) che si limitava ad indicare che i destinatari erano solamente i dipendenti cessati per pensionamento di anzianità e non di vecchiaia.
La norma del 2012 estendeva, invece, il divieto a tutti i dipendenti collocati in quiescenza, senza alcuna distinzione. Nella relazione tecnica del Senato era infatti chiaramente scritto che “la disposizione è intesa ad introdurre una forma specifica di incompatibilità nell’affidamento delle consulenze da parte delle amministrazioni di cui all’art. 1, comma 2, del D.Lgs. n. 165/01…”. La legge n. 114/2014 (come risulta dal testo coordinato in G.U. 190/2014, Supp.Ordinario n°70) ha aggravato le regole di incompatibilità per i pensionati, come risulta dalla premessa del presente articolo.
Per chiarire meglio il tutto, riportiamo innanzitutto integralmente il testo dell’art.5 della legge 135/2012: … (“ E’ fatto divieto alle pubbliche amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo n. 165 del 2001, nonché alle pubbliche amministrazioni inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, come individuate dall’Istituto nazionale di statistica (ISTAT) ai sensi dell’articolo 1, comma 2, della legge 31 dicembre 2009, n. 196 nonché alle autorità indipendenti ivi inclusa la Commissione nazionale per le società e la borsa (Consob) di attribuire incarichi di studio e di consulenza *a soggetti, già appartenenti ai ruoli delle stesse e collocati in quiescenza, che abbiano svolto, nel corso dell’ultimo anno di servizio, funzioni e attività corrispondenti a quelle oggetto dello stesso incarico di studio e di consulenza *”.)
Ecco invece la formulazione nel nuovo disposto dell’articolo 6 della legge 114/2014 che prevede che all’ “ articolo 5, comma 9, della legge 135/2012 convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 135, le parole da “a soggetti, già appartenenti ai ruoli delle stesse”  fino alla fine del comma sono sostituite dalle seguenti: * – “a soggetti già lavoratori privati o pubblici collocati in quiescenza.- Alle suddette amministrazioni è, altresì, fatto divieto di conferire ai medesimi soggetti incarichi dirigenziali o direttivi o cariche in organi di governo delle amministrazioni di cui al primo periodo e degli enti e società da esse controllati, ad eccezione dei componenti delle giunte degli enti territoriali e dei componenti o titolari degli organi elettivi degli enti di cui all’articolo 2, comma 2-bis, del decreto-legge 31 agosto 2013, n. 101, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 ottobre 2013, n. 125. Incarichi e collaborazioni sono consentiti, esclusivamente a titolo gratuito e per una durata non superiore a un anno, non prorogabile né rinnovabile, presso ciascuna amministrazione. Devono essere rendicontati eventuali rimborsi di spese, corrisposti nei limiti fissati dall’organo competente dell’amministrazione interessata. Gli organi costituzionali si adeguano alle disposizioni del presente comma nell’ambito della propria autonomia”. “c.2. Le disposizioni dell’art.5,c.9 della legge 135/2012, come modificato dal c.1, si applicano agli incarichi conferiti a decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto”, ossia dal 18/08/14.
Dalla cronistoria alle sue conseguenze
Se sappiamo leggere e capire norme contorte e bizantine, sovrapposte le une alle altre, la nuova disposizione porta questi, pesanti, effetti.
1) L’incompatibilità si allarga dai pensionati pubblici a quelli privati;
2) L’incompatibilità diviene assoluta.
3) Infatti si estende dal divieto di “incarichi di studio e consulenze” ex legge 135/2012 agli
4) Incarichi dirigenziali o direttivi o cariche in organi di governo delle amministrazioni, con l’eccezione dei componenti delle giunte degli enti territoriali e dei componenti titolari degli organi elettivi degli enti ex art.2,c.2 bis, della legge 125/2013. Comunque sia,
5) Incarichi e collaborazioni sono consentiti solo per un anno e gratuitamente;
6) L’incompatibilità vale anche anche per gli organi costituzionali, che “devono adeguarsi nell’ambito della propria autonomia” (?).
7) L’incompatibilità crea situazioni di discriminazione assoluta nei confronti di molti professionisti pensionati, che stavano intrattenendo rapporti con le amministrazioni pubbliche.
Dal danno teorico al danno reale. Alcuni esempi.
A) Ex dipendente pubblico o privato, con pensione maturata entro il 31/12/12 (40 anni contributivi, con le regole Fornero, soggetto oggi con eta’ inferiore a 65 anni), attualmente possessore di P.IVA e con molteplici rapporti con la P.A. Si può trattare di Segretari comunali e provinciali, di Avvocati, di Ingegneri, di Amministrativisti, di Medici, di Professionisti laureati – già pensionati- che attualmente hanno in corso contratti pluriennali con la P.A.: come professionisti esterni, come consulenti ma anche – nel SSN- come direttori generali, direttori sanitari, direttori amministrativi e direttori del sociale. Ne conosciamo molti, in Veneto e non solo. Ebbene, tutti costoro se ne andranno a casa. Chiediamo: perché? Per far posto a giovani privi dei titoli necessari per compiti simili? Pensate che nessuno di costoro reagirà?
B) Pensionato con Cassa Professionale Autonoma (es. ENPAM, ENPAF, ENPAP etc), con più di 65 anni, con P.IVA: e con attività di consulenza di vario tipo per varie strutture pubbliche. Si pensi ai medici INAIL, ai controllori dell’INPS etc. Si pensi ai medici ed ai professionisti della della protezione civile….
C) Pensionato di ogni genere e grado, con carica di consigliere comunale, provinciale, regionale; con presenza in Enti pubblici: IPAB, consorzi vari, partecipate. Presenza, quindi, come consigliere e non come membro di giunte, ossia di esecutivi. Adesso, non lo potrà piu’ fare, se non per un anno e gratuitamente.
Considerazioni logiche
Il furore rottamatorio di Renzi e della Madia si è spinto oltre il lecito. Per cercare di dare lavoro ai giovani (proposito encomiabile, ma da declinare correttamente) si è deciso di varare una legislazione antidemocratica, indegna anche della Russia di Lenin e di Stalin. Qui ci si dimentica che siamo nella U.E., che impone la libera circolazione di professionalità e di professionisti, pensionati o no che siano. Non succederà che pensionati francesi od ucraini prendano il posto di quelli italiani, nei rapporti con la P.A.?
Ancora. Mentre si amplia lo spoil system nella P.A. fino al 30% degli organici (articolo 11 della legge 114/2014), ossia mentre si impone l’invasione delle scelte discrezionali della politica nelle nomine dei dirigenti pubblici, nel contempo si cacciano a casa i consulenti, i dirigenti ed i direttivi (pensionati con P.IVA) che possono, senza problemi, testimoniare e documentare le scorrettezze e le illegalità spesso connesse a tali “nomine politiche”.
Ancora. C’è da chiedersi se le norme valgano per tutti o se, ancora una volta, ci saranno figli e figliastri. Siamo in Italia, le leggi valgono per tutti, tranne che per i “soliti noti”. E che non ci venga a dire che siamo prevenuti. Infatti, in 2 soli mesi, il Governo ha (illegittimamente) fatto due eccezioni. Ha nominato il 75enne pluripensionato Tiziano Treu a Commissario dell’INPS, con una prebenda superiore ai 200.000 euro. Non contento, lo stesso Governo ha concesso a Giovanni Valentini, giornalista pensionato, la responsabilità di un ente pubblico (un’Agenzia o giu’ di li’) e non certamente senza un compenso. Due atti governativi illegittimi, che qualcuno – nei dintorni di palazzo Chigi – ha giustificato sostenendo che l’articolo 6 della legge Madia non vale per le nomine governative. Cosi’ hanno riportato alcune cronache giornalistiche. Stranamente né Report né Striscia la notizia hanno indagato su questo. Perché?
Ancora. È ricominciata la corsa al Quirinale. Girano i nomi di tanti papabili, il 90% di loro è pensionato. Insomma. Il nuovo Presidente della Repubblica non avrà prebende personali, per colpa della Madia? O, ancora una volta, Qualcuno eccepirà? Intanto, dal 19/08/14 i “pensionati normali” sono già stati esclusi dagli incarichi dirigenziali pubblici.
Per questo e per molto altro, ancora una volta, saremo costretti – noi pensionati lesi – a ricorrere alla magistratura, italiana ed europea. Caro Renzi, Ella è all’interno di una favola di Esopo. Quella della tartaruga e della lepre. Noi, professionisti pensionati, siamo la tartaruga. Siamo lenti, ma pensanti e tanto, tanto, testardi.