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Quelle riforme troppo lente

Quelle riforme troppo lente

Massimo Blasoni – Metro

Il cammino verso le riforme a cui il nostro Paese si è avviato è troppo lento e poco incisivo. Anche se alcuni provvedimenti vanno nella giusta direzione, la loro lenta attuazione rischia di vanificarne gli effetti. I tempi dell’economia sono più rapidi di quelli della politica. Renzi governa da un anno, prima di lui Letta era stato premier per un periodo di poco inferiore, ma ad oggi pressoché nessuna riforma strutturale è pienamente compiuta, compreso il Jobs Act che necessita dei regolamenti attuativi. Sul piano economico – al di là dell’incremento del debito e della riduzione del Pil reale – è interessante mettere a confronto gli indicatori che con riferimento al medesimo periodo emergono dal report annuale di Banca Mondiale/Doing Business e da quello sulla competitività elaborato dal World Economic Forum.
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La Grecia ha il diritto di fallire. Fallisca

La Grecia ha il diritto di fallire. Fallisca

Carlo Lottieri

C’è qualcosa di incomprensibile, assurdo, davvero irrazionale, in questa crescente tensione che oppone Atene e Bruxelles, il governo greco e il resto dell’Unione europea. In sostanza, da anni la Grecia è vittima di politiche socialiste – per iniziativa della destra e della sinistra, senza rilevanti differenza tra l’una e l’altra – che hanno moltiplicato il parassitismo, i privilegi, gli sprechi. Sotto certi punti di vista, quel Paese è una sorta di Sud privo di un Nord, o meglio un Mezzogiorno che ha preteso di assegnare all’Europa il ruolo di ”ufficiale pagatore”. Per decenni la situazione ha in qualche modo retto, ma ora i nodi sono venuti al pettine.

La Grecia si ritrova quindi con una pletora di dipendenti pubblici e con una spesa fuori controllo, mentre il settore privato è davvero troppo debole e quasi impossibilitato a crescere. Per giunta, i greci hanno abbandonato la dracma per l’euro e hanno quindi accettato – almeno in linea teorica – di adottare comportamenti virtuosi a tutela della moneta comune.

Di fronte al disastro dell’economia greca, l’Europa ha reagito nel peggiore dei modi: dando soldi e imponendo una sorta di commissariamento”. L’arrivo ad Atene della troika ha favorito il successo, alle ultime elezioni, dell’estrema sinistra di Syriza, che ora vorrebbe continuare a incassare gli aiuti europei senza però adottare alcuna misura di austerità. Anzi, il programma elettorale che ha permesso a Tsipras di vincere è proprio agli antipodi di ogni politica che punti a ridurre le spese, smantellare il welfare, creare spazi per la concorrenza e il mercato. L’euro è molto di più di una moneta unica: purtroppo essa è stata concepita come un passaggio cruciale verso quella creazione di un’Europa unita che le élite del continente considerano necessaria e inevitabile. Questo è uno dei motivi per cui è tanto difficile proporre quello che invece dovrebbe essere obbligatorio fare: l’espulsione della Grecia dall’eurozona.

I greci hanno diritto di sbagliare. Hanno votato un demagogo e ora è opportuno che ne paghino le conseguenze. Non è pensabile che la burocrazia di Bruxelles o il governo tedesco possano dettare un programma alternativo a quello uscito dalle urne. È bene che non siano aiutati finanziariamente, tornino alla dracma, scontino le conseguenze del loro sganciamento dall’Europa (alti tassi sul debito), ma che abbiano la possibilità di sperimentare l’efficacia – se mai esiste – dei loro sogni anticapitalisti.

La libertà non si impone: né con l’esercito, né con il commissariamento dei regimi politici. È facile immaginare che una Grecia fuori dall’euro si troverà in pessime acque, non tanto perché l’euro sia chissà che cosa, ma perché senza vincoli esterni e senza la garanzia dei capitali altrui la Grecia è destinata a trovarsi in una condizione assai complicata. Non ci sono però alternative e certo non si creda che i postmarxisti di Syriza possano essere manipolati e fatti ragionare. La Grecia avrà problemi quando sarà fuori dall’euro, ma ne avrà perfino di peggiori se continuerà a essere sovvenzionata e resterà sotto una sorta di tutela straniera. Togliamo ogni alibi agli sfascisti al governo di Atene e lasciamo che quel popolo paghi le conseguenze dei propri errori di decenni.

Una Grecia che rimanga in tal modo all’interno della zona euro, per giunta, sarebbe un pessimo segnale per tutti: per la Spagna, la Francia e soprattutto l’Italia. Bisogna che tutti capiscano, e alla svelta, che non vi sono tedeschi o danesi disposti a pagare i buchi altrui. Il messaggio deve arrivare subito e in maniera molto chiara: ad Atene come altrove.

Imprese e fisco, così proprio non va

Imprese e fisco, così proprio non va

Massimo Blasoni – Metro

Dopo il QE (Quantitative Easing) un nuovo acronimo si aggira per l’Europa: TTR, ovvero Total Tax Rate. Si tratta in soldoni (letteralmente) della percentuale sul fatturato che ciascuna impresa devolve ogni anno allo Stato sotto forma di tasse. Non illudetevi: che in questo settore l’Italia resti purtroppo la matrigna d’Europa lo dimostrano le recenti elaborazioni che abbiamo svolto sui dati riferiti al 2014 contenuti nel rapporto “Doing Business 2015” della Banca Mondiale.
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I profitti, la morale e il ruolo sociale delle imprese

I profitti, la morale e il ruolo sociale delle imprese

Carlo Lottieri

Da qualche anno domina una retorica che pretende di alterare il normale operare delle imprese in nome della morale e di valori più elevati. Per molti, in effetti, le imprese dovrebbero abbandonare la logica del profitto e dirigersi verso altri e maggiormente nobili obiettivi: la protezione della natura, la solidarietà, la riduzione delle diseguglianze tra Nord e Sud del mondo, e via dicendo. È questo ad esempio il tema della cosiddetta “banca etica”, che investe adottando criteri morali ben precisi e, di conseguenza, rigettando tutta una serie di settori. C’è però da chiedersi se sia davvero tutto oro quello che luccica, dato che questa “corporate social responsibility” può condurre in varie direzioni e può essere letta entro prospettive assai differenti.
Non c’è dubbio che per molte aziende la melassa buonista a base di richiami all’etica è solo parte di una ben precisa strategia di marketing. Il politicamente corretto serve essenzialmente a costruire nicchie di mercato che sfruttano la pubblicità costantemente garantita dai gruppi militanti di carattere umanitario, ambientalista, solidale, legalista e via dicendo. Qui si assiste a un abile utilizzo di alcune parole associate all’etica, anche se in senso assai strumentale. A questo riguardo il caso più classico è il riferimento alla natura, alla retorica anti-industriale e al biologico in un numero crescente di prodotti del settore alimentare. In questo caso, è chiaro che le aziende continuano a perseguire la logica di sempre – l’aumento dei profitti – con altri mezzi.
Non è certo la cosa peggiore che possa accadere. Quando infatti la ricerca dell’utile è proprio rigettata, è lecito domandarsi se questo sia corretto nei riguardi degli azionisti.Proviamo infatti a ipotizzare che, nel nome di un buonismo volto a soccorrere i deboli, un’azienda decida di rifornirsi da produttori in difficoltà che vendono beni di scarsa qualità e alto prezzo, invece che ricorrere ad alternative vantaggiose. Fare beneficienza a danno di chi ha investito nell’impresa non è un comportamento facile da giustificare, anche perché in questa maniera non si persegue quella corretta gestione su cui si basa il rapporto di fiducia tra gli azionisti e il management. Oltre a ciò, l’adozione di queste regole redistributive impedisce al mercato di premiare i migliori fornitori a scapito di quelli di minore qualità.
Di conseguenza, le cattive imprese potrebbero anche sopravanzare le buone, a danno dei consumatori e dell’economia nel suo insieme. Con questo non si vuole negare l’importanza della solidarietà, della filantropia e della beneficienza. Non siamo isole e siamo chiamati a farci carico di chi ha bisogno. Per giunta, una società libera non può reggere se non sa sviluppare una fitta rete di associazioni, fondazioni, attività non profit e via dicendo, in grado di soccorrere i più deboli.
La retorica della “corporate social responsibility” è però tutt’altro. Se un azionista vuole aiutare qualcuno lo può sempre fare, liberamente, utilizzando i propri profitti personali: senza dover scoprire nelle pieghe di un bilancio consuntivo che i suoi soldi sono stati usati per perseguire “nobili” obiettivi. Per giunta, com’è facile comprendere, quando si ammette che una gestione aziendale possa perseguire obiettivi “etici” e non più solo “economici” si finisce per consegnare agli amministratori un’ampia libertà d’azione, che essi possono utilizzare per realizzare i loro più disparati obiettivi.
È chiaro che un amministratore è in primo luogo un uomo, e quindi ha criteri morali da rispettare: non può essere disonesto, investire in aziende criminali, imbrogliare dipendenti o clienti, minacciare, e via dicendo. Ma questi criteri etici sono molto più definiti e ristretti rispetto a quelli suggeriti da chi vorrebbe estendere alle aziende i principi morali che devono guidare i singoli nella loro ricerca di una vita “retta”. Identificando questi ultimi principi, per giunta, con alcune parole d’ordine del politically correct.
Ultimo punto. Non di radio queste imprese “etiche” – quale che sia il loro settore – sono assai impegnate a ottenere norme di favore, che attribuiscano loro una posizione di privilegio. Tanta retorica su etica e morale finisce spesso per convertirsi in azioni di lobbying che danneggiano i concorrenti e/o i consumatori. Un esito davvero paradossale.
Ma da solo il QE non può bastare

Ma da solo il QE non può bastare

Massimo Blasoni – Metro

Molte imprese non trovano credito perché spesso le banche non le ritengono in grado di restituire gli eventuali prestiti accordati. Un atteggiamento in parte comprensibile ma che tra il 2001 e il 2014 ha però comportato una riduzione del credito pari a circa 70 miliardi di euro. Il Quantitative Easing (QE) deciso dalla BCE potrà cambiare radicalmente questo stato di cose? Difficile.
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L’Europa è tornata a Keynes. Aspettiamoci il peggio

L’Europa è tornata a Keynes. Aspettiamoci il peggio

Carlo Lottieri

I tamburi hanno rullato a lungo, annunciando una radicale inversione di tendenza. A seguito della grave finanziaria che dagli Usa (legata ai suprime e alle politiche monetarie) si è presto trasferita in Europa (dove è in relazione piuttosto con gli alti debiti pubblici), hanno finito per avere la meglio quanti hanno voluto rilanciare il ruolo dello Stato nell’economia e moltiplicarne la capacità d’intervento. Non è difficile capire il perché di tutto ciò. C’erano in gioco interessi, certamente, ma anche fattori culturali. Pure in quella remota provincia dell’Impero che è l’Italia, lontana dai centri nevralgici, moltissimi economisti si sono costruiti sulla macroeconomia keynesiana e per anni hanno sofferto in silenzio. Negli anni passati, infatti, ben pochi si erano rivolti a loro per avere indicazioni sul da farsi.
Ora siamo tornati a Keynes e le prospettive politiche dell’Europa – dalla Grecia di Syriza alla Spagna di Podemos – sembrano proprio legate al caratteristico illusionismo di chi pensa che si possa – al tempo stesso – spendere denaro pubblico e costruire un futuro di crescita. Avvisaglie ce n’erano già state e molte, ben prima che la sinistra radicale conquistasse la scena. Negli scorsi anni nel Regno Unito, di fronte alle difficoltà di un settore finanziario nella bufera, il governo londinese non aveva trovato niente di meglio da fare che nazionalizzare (si pensi alla Northern Rock) e anche negli Stati Uniti si sono seguite queste logiche. I maxi-salvataggi sono stati moltissimi e insieme alla volontà di tenere artificiosamente bassi i tassi di interesse – sulla scia di un Giappone che peraltro è in una crisi di cui non si vede la fine – hanno finito per radicalizzare difficoltà che, altrimenti, si sarebbero già superate.
In questi anni, insomma, si sono accantonati tutti i capisaldi dell’economia liberale: iniettando soldi pubblici nei mercati ed evitando il fallimento delle società malgestite. Oltre a ciò, si è pensato di deresponsabilizzare le varie economie, creando meccanismi di stabilizzazione monetaria che nei fatti scaricano sui virtuosi le cattive scelte di chi, invece, dovrebbe pagare il prezzo dei propri errori. Ora ad Atene si annuncia il blocco delle privatizzazioni e si innalza il salario minimo. Una demagogia antiliberale che in questi anni è stata spesso utilizzata anche dalla destra, si pensi a Sarkozy, ora è gestita con maestria dalle forse dell’altermondialismo entrate nella stanza dei bottoni. Non ne verrà nulla di buono.
Lo statalismo dei moderati (conservatori o laburisti) ha aperto la strada allo statalismo dei radicali: l’estrema sinistra in Spagna e Grecia, e forse l’estrema destra in Francia. E tutto questo mentre Mario Draghi ha deciso di abbandonare ogni politica di rigore monetario e punta di fatto a monetizzare progressivamente i debiti pubblici. Ma è ragionevole ritenere che un’iniezione di denaro pubblico emerso dal nulla possa aiutarci a uscire dal guado? Per nulla. Al contrario, bisogna ripartire dai fondamentali e ricreare quelle condizioni istituzionali che possono rimettere in sesto il mercato. E allora bisogna avere una moneta forte e stabile, una proprietà tutelata, una bassa tassazione, un ordine giuridico che tuteli i contratti e una burocrazia ridotta ai minimi termini. Ma non riusciremo a contenere l’espansione delle regole e dell’intrusione dei funzionari se non ridurremo la pressione fiscale. Poteri che sopravvivono sottraendo il 50% e più della ricchezza devono avere sotto controllo l’intera società. Non ci sarà “sburocratizzazione” dell’Europa senza la fine del fiscalismo selvaggio che oggi domina la scena.
Lasciare Keynes e tornare al mercato, per giunta, significherebbe rimettere in piedi un sistema sanzionatorio. In altre parole, è necessario che chi ha gestito malamente un’azienda fallisca. Ma è pure necessario che la Grecia si faccia carico dei propri errori, che gli italiani si guardino nello specchio. Perché solo se chi sbaglia ne risponde ed esce di scena, il sistema può risanarsi e indurre gli operatori a operare correttamente.
Il problema è che la risposta “più Stato” nasce da un’interpretazione erronea di quanto è successo nell’ultimo decennio. Come per la crisi del ’29, si ritiene di essere dinanzi ad una crollo del capitalismo, ignorando in tal modo il ruolo giocato dalla Fed e dalle politiche pubbliche.
Come hanno evidenziato i commenti successi al quantitative easing della Bce, pochi però sembrano consapevoli che se il costo del denaro non è definito dal mercato, ci sono da attendersi crisi a ripetizione. Qualcuno ricorda la bolla finanziaria, legata non all’immobiliare, ma alle dot-com informatiche? Anche allora si accusarono gli operatori finanziari (certo colpevoli di comportamenti imprevidenti), ma non si puntò il dito contro chi – la banca centrale americana – aveva tenuto una politica iper-espansiva e quindi aveva indotto a compiere quegli investimenti. Di qui all’Atlantico il guaio maggiore sta nel fatto che gli europei si sono innamorati del modello “renano” e del welfare State: dimenticando il micidiale differenziale della crescita che da decenni ci separa dall’America, e questo nonostante lo statalismo e gli errori di Kennedy e Nixon, di Bush e Obama.
L’Europa allora non è un modello, ma invece ha bisogno di ripensarsi alla svelta: ne va della possibilità di avere un futuro.
Senzafiltro: Il governo non mantiene la promessa alle imprese italiane

Senzafiltro: Il governo non mantiene la promessa alle imprese italiane

Massimo Blasoni – Senzafiltro

Sappiamo bene come la politica viva di immagini e simboli in grado di far breccia nell’opinione pubblica. Chi governa tende però spesso a esagerare, contrabbandando come successi quelle che purtroppo restano soltanto promesse. Prendiamo il caso del pagamento dei debiti arretrati che la pubblica amministrazione ha con migliaia di imprese private: il premier Matteo Renzi e il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan sostengono di aver onorato la loro promessa di estinguerli ma i fatti purtroppo si incaricano di smentirli. I debiti di cui parlano sono quelli maturati entro il 31 dicembre 2013: solo per questi, infatti, è stato possibile per le imprese chiedere la certificazione e la relativa liquidazione di quanto dovuto. E solo a questi debiti ci si riferisce anche quando si monitorano i risultati al 31 ottobre delle altre iniziative del governo sul tema (garanzia pubblica sulla cessione del credito, deroghe al patto di stabilità, compensazione con alcuni debiti fiscali).
Incrociando il dato della spesa per beni e servizi così come certificata da Eurostat e quello dei tempi medi di pagamento così come monitorati da Intrum Justitia, il Centro studi “ImpresaLavoro” ha stimato uno stock di debiti per il 2013 pari a 74 miliardi di euro. Alle stesse conclusioni è giunto anche l’Ufficio Studi di Bankitalia. Siccome fino ad oggi i debiti rimborsati sono stati solo 34 miliardi (su uno stanziamento complessivo di 40), possiamo affermare che la promessa del governo, a rigor di matematica, non è stata mantenuta.
Nel frattempo si è accumulato nuovo debito e chiunque può comprendere come il suo stock si possa ridurre soltanto se i nuovi debiti risultano inferiori a quelli oggetto di liquidazione. Una condizione che non potrà crearsi fino a quando il livello di spesa pubblica e i suoi tempi medi di pagamento non subiranno una drastica diminuzione. I dati Eurostat ci dicono invece che dall’inizio del 2014 a oggi siano già stati consegnati alla Pa italiana beni e servizi per un valore di circa 113,5 miliardi di euro. Contemporaneamente, l’analisi dei flussi di cassa delle amministrazioni tracciabile attraverso il SIOPE non segnala alcuna diminuzione dei tempi medi di pagamento, che restano con ogni probabilità di circa 170 giorni (altro che i 30 giorni imposti sulla carta dall’Europa!).
Risultato? Il nostro stock di debito è rimasto sostanzialmente invariato, restando così il maggiore a livello europeo sia in termini nominali che relativi. Già dal 2010, l’Italia ha infatti il peggior rapporto tra debiti commerciali e PIL, superando tanto la Spagna quanto la Grecia, le uniche in Europa (a parte l’Italia) a superare il 3% in questo rapporto. Per un’impresa italiana che lavora con la PA, l’incidenza di questi costi sulla singola fornitura risulta così pari al 4,2%: un dato circa 4 volte superiore a quello sostenuto da un’impresa francese (1,2%) e circa 7 volte superiore a quello sostenuto da un’impresa tedesca (0,6%). Le conseguenze di questa situazione sono pesantissime: il ritardo dei pagamenti ai fornitori della PA ha infatti finora determinato un costo del capitale a carico delle imprese italiane di oltre 6 miliardi di euro all’anno, pari a quasi 30 miliardi nel periodo 2009-2013.
L’onere complessivo a carico del sistema grava inoltre sul tessuto produttivo economico fino a coinvolgere imprese subfornitrici e dipendenti. In questi numeri non sono infatti ricompresi gli effetti legati ad altri aspetti comunque rilevanti quali i minori investimenti operati dalle imprese in conseguenza della minore disponibilità di capitale; la riduzione di dipendenti e quindi della distruzione di posti di lavoro; i costi del dissesto delle imprese che, per le conseguenze dei ritardi di pagamento della PA, si sono trovati in una situazione di insolvenza, fino ad arrivare (nei casi più gravi) al fallimento; i costi diretti ed indiretti a carico dei contribuenti. In merito a quest’ultimo aspetto va infatti ricordato che, a partire dal 1° gennaio 2013, il recepimento di una direttiva europea ha obbligato la Pubblica Amministrazione a versare gli interessi di mora sui ritardi, calcolati sulla base del tasso di riferimento BCE maggiorato di 8 punti percentuali su base annua. Tale misura non compensa del tutto il costo del capitale a carico delle imprese italiane ma grava comunque sui cittadini italiani per oltre 3 miliardi di euro all’anno.