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Imprese, stangata di fine anno: arriva una tassa ogni due giorni

Imprese, stangata di fine anno: arriva una tassa ogni due giorni

Gian Maria De Francesco – Il Giornale

In 61 giorni lo Stato si farà un’abbuffata di tasse e balzelli da 91 miliardi di euro a spese di famiglie e imprese. È quanto ha rilevato la Cgia di Mestre. A novembre e dicembre i contribuenti saranno impegnati in un vero e proprio tour de force per assolvere a una serie di obblighi fiscali che prosciugheranno le casse del sistema-Italia. Giusto per fare qualche esempio, si tratta del versamento delle ritenute Irpef dei dipendenti, delle ritenute per i lavoratori autonomi e dell’Iva. A queste si aggiungeranno gli acconti Irpef, Ires e Irap, il versamento dell’ultima rata dell’Imu e della Tasi per un totale di 25 scadenze fiscali che, escludendo sabati e domeniche, significano una tassa da pagare ogni due giorni.

«Una pioggia di scadenze che potrebbe mettere in seria difficoltà moltissime piccole imprese a causa della cronica mancanza di liquidità», osserva il segretario della Cgia di Mestre, Giuseppe Bortolussi, ricordando che «la fine dell’anno è un periodo molto delicato per le aziende perché, oltre all’impegno con il fisco, devono corrispondere anche le tredicesime ai dipendenti». Visto il perdurare della crisi, «questo impegno economico costituirà un vero e proprio stress test», aggiunge. L’unico politico a raccogliere l’appello di Bortolussi è stato Lorenzo Cesa, segretario dell’Udc. L’eccesso di tasse «rischia di mettere definitivamente in ginocchio il Paese», ha commentato formulando «l’auspicio è che il governo intervenga a stretto giro per alleggerire il carico fiscale, apportando anche dei miglioramenti alla bozza della legge di Stabilità». La priorità, ha concluso, è «salvare le nostre Pmi o la crescita resterà un miraggio».

La confederazione degli artigiani mestrini si è poi peritata nel determinare il numero complessivo delle gabelle e, tra queste, nell’individuare le più astruse. Il risultato è parzialmente sorprendente. «Tra addizionali, bolli, canoni, cedolare, concessioni, contributi, diritti, imposte, maggiorazioni, ritenute, sovraimposte, tasse e tributi, gli italiani ne pagano un centinaio», annota l’Ufficio studi della Cgia. Nella piccola galleria degli orrori fiscali, invece, si possono annoverare: l’addizionale regionale all’accisa sul gas naturale (una tassa sulla tassa) e l’imposta provinciale di trascrizione (una particolarità italiana che consiste nel versare un tributo alle Province per l’acquisto di un’auto nuova). Nell’elenco si trovano anche astrusità come l’imposta sulle riserve matematiche, cioè la tassazione dei fondi che le compagnie di assicurazione devono accantonare per garantire le polizze. Nell’epoca del commercio globale, poi, esistono ancora i dazi doganali che si chiamano «sovraimposta di confine» e si applicano al gas, agli spiriti, ai fiammiferi, ai sacchetti di plastica non biodegradabili, alla birra e agli oli minerali.

Quando, invece, si passa ad analizzare il gettito il catalogo si riduce di molto. Le prime dieci imposte (Irpef, Iva, Ires, Irap, imposta sugli oli minerali, Imu, imposta sui tabacchi, addizionale Irpef regionale, ritenute sugli interessi e altri redditi da capitale e imposta sul lotto) hanno garantito l’anno scorso oltre l’83 per cento del gettito tributario per complessivi 405,6 miliardi su un totale di 485,3. Secondo la Cgia, nel 2014 tra imposte e tributi lo Stato e le autonomie locali incasseranno 487,5 miliardi, con un lieve incremento rispetto al 2013. Ma se si computano anche i contributi sociali, di poco superiori ai 216 miliardi, quest’anno il gettito fiscale complessivo sfiorerà i 704 miliardi di euro. Una cifra da capogiro che mette in evidenza come il costo della macchina statale non sia più sostenibile se, per finanziarlo, gli italiani vengono tosati come pecore.

Col Tfr in busta pensioni giù fino al 22%

Col Tfr in busta pensioni giù fino al 22%

Fosca Bincher – Libero

Cedere alla proposta di Matteo Renzi e aderire alla proposta sul “Tfr nello stipendio” potrebbe mettere a rischio e non di poco quella pensione integrativa che faticosamente si è tentato di fare mettere da parte in questi anni. La certezza di vedere diminuire l’assegno c’è per tutti: alla fine dei conteggi mancheranno quei versamenti a cui si rinuncia ora per incassare subito (facendosi per altro tassare di più quella somma). Ma il taglio sarà tanto maggiore quanto più vicini alla pensione si è ora. A segnalarlo, una simulazione ancora una volta assai preziosa fatta dalla Fondazione studi dei Consulenti del Lavoro: farsi ingolosire dalla sirena di Renzi potrebbe costare fra l’8 e il 22% dell’assegno mensile di previdenza integrativa che si percepirà quando si potrà andare in pensione.

Proprio la percentuale più alta chiarisce bene un punto chiave: quella possibilità di ottenere il Tfr in busta paga non è un dono fatto dal governo ai contribuenti italiani, ma la proposta di un prestito dietro cessione di un quinto dello stipendio e con grande lucro da parte dello Stato, che incassa un bell’interesse sull’operazione attraverso la maggiore imposizione fiscale. Per il contribuente italiano è più svantaggioso però di un normale prestito ottenuto da qualsiasi banca o finanziaria: perché in quel caso la cessione del quinto dello stipendio sarà limitata al raggiungimento della somma chiesta in anticipo più i relativi interessi. Nel caso proposto da Renzi sul Tfr la cessione del quinto (o del decimo nei casi più lievi) della pensione integrativa futura varrà tutta la vita, e quasi sempre supererà ampiamente il vantaggio economico che ora si percepisce.

Sono tre le simulazioni fatte dalla Fondazione studi dei consulenti del lavoro: quella di un giovane di 33 anni entrato nel mondo del lavoro nel 2007, aderendo fin dal primo giorno al sistema di previdenza integrativa con accantonamento del proprio Tfr. Il secondo caso è invece quello di un lavoratore di 43 anni assunto nel 1997 che versa il proprio Tfr alla pensione integrativa dal 2007. Terzo caso, quello di un lavoratore sessantenne, più vicino all’età della pensione: assunto la prima volta nel 1980, versa anche lui il Tfr alla pensione integrativa dal 2007. Aderendo alla proposta Renzi tutti e tre avranno tagliato per i mancati versamenti fra il 2015 e il 2018 la propria pensione integrativa.

Sarà un escalation: quel lavoratore assunto nel 2007 perderà il giorno in cui andrà in pensione l’8% del proprio assegno di pensione integrativa. E lo perderà dal giorno in cui lo percepirà fino al giorno in cui chiederà gli occhi. Quindi per 20-30 anni a seconda della lunghezza della propria vita. In valore assoluto ovviamente l’erosione dell’assegno futuro dipenderà dalla retribuzione oggi percepita: il danno va da 481,12 euro su 17 mila lordi di stipendio a 2.886,73 euro circa su 100 mila euro di stipendio.

Secondo caso: età 43 anni e ingresso nel mondo del lavoro datato 1997. Aderendo oggi alla proposta Renzi sul Tfr, l’assegno di pensione integrativa verrà tagliato dell’11% per tutta la vita. Anche in questo caso sono state ipotizzate tre fasce di reddito attuale, e in valore assoluto la diminuzione della pensione integrativa andrà da 386,95 a 2.321,69 euro l’anno (con fasce di reddito fra 17 e 100 mila euro lordi annui).

Terzo caso, quello del sessantenne che ha iniziato a lavorare nel 1980. Per lui scegliendo proprio alla vigilia della pensione il Tfr in busta paga, la perdita percentuale sull’assegno di pensione integrativa sarà la più alta: -22% dell’importo. In valore assoluto si oscilla sugli stessi redditi ipotizzati per gli altri fra 242 e 1.452 euro (in valore assoluto più si è anziani più si abbassa l’importo di pensione integrativa a cui si ha diritto, perché i versamenti sono iniziati solo a fine carriera, nel 2007).

I danni sono dunque rilevanti, ed è giusto che la scelta venga fatta con tutti i calcoli su vantaggi e svantaggi. Anche se è chiaro fin da ora che chiunque aderisca alla proposta Renzi perderà comunque soldi. Ne perderanno rispetto ad ora ovviamente anche le gestioni dei fondi pensione (che però recupereranno in futuro i danni sul vitalizio del lavoratore), mentre il solo ad avere vantaggi economici sarà lo Stato, che con questa proposta incasserà più tasse di prima. E non poche. Il solo vantaggio del lavoratore è avere a disposizione un po’ di liquidità in più che pagherà molto cara. Se proprio c’è bisogno di quei soldi, forse è più conveniente un prestito tradizionale in banca.

Ecco perché il Tfr in busta paga conviene solo a redditi fino a 15mila euro

Ecco perché il Tfr in busta paga conviene solo a redditi fino a 15mila euro

Davide Colombo – Il Sole 24 Ore

Il passaggio dalle slides del dopo-consiglio dei ministri alla bozza del testo del Ddl di Stabilità ieri in circolazione (47 articoli per 123 pagine) reca diverse novità sull’operazione Tfr in busta paga. La prima, quella che ha suscitato le maggiori reazioni, riguarda il profilo fiscale. Sulla retribuzione integrativa di chi opta per avere la liquidazione nel mensile scatterà la tassazione Irpef. Una scelta che, se confermata nel testo ufficiale che verrà trasmesso al Parlamento, farebbe crollare l’appeal della misura per i lavoratori con un reddito superiore ai 15mila euro. L’aliquota media attualmente applicata al Tfr è infatti compresa tra il 23 e il 26%, mentre l’Irpef sull’imponibile che supera i 15mila euro parte dal 27% e cresce con gli scaglioni di reddito sulla nota curva delle aliquote fino al 43%. Ne segue che più elevato è il reddito da lavoro meno è incentivata (fiscalmente) l’opzione del Tfr in busta. A controbilanciare quest’aggravio ne arriva un altro di segno opposto: l’imposta sostitutiva sui redditi derivanti dalle rivalutazioni dei fondi per il trattamento di fine rapporto (ovvero sul maturato) passerà dall’11 al 17%. A chiudere il quadro fiscale una clausola di salvaguardia che esclude il reddito aggiuntivo dal computo del tetto complessivo che garantisce il bonus Irpef da 80 euro, in vigore dal maggio scorso. Insomma, chi opterà per il Tfr in busta non perderà quel bonus.

Passando agli altri profili, l’operazione si conferma di carattere sperimentale, visto che sarà valida per le paghe comprese tra il marzo del 2015 e il giugno del 2018, e volontaria. Sarà inoltre esclusivamente rivolta ai dipendenti privati (ma non i lavoratori domestici e agricoli) e nel caso di scelta della liquidazione in busta mese dopo mese non si potrà più cambiare idea fino a fine giugno 2018. Esclusi dall’iniziativa anche i dipendenti di aziende in crisi o con una procedura concorsuale aperta, mentre potranno optare per il Tfr in busta nei prossimi tre anni anche coloro che hanno già aderito a un fondo di previdenza integrativa.

Sulle modalità di pagamento del Tfr in busta paga si prevede per le imprese una doppia strada: versare direttamente l’ammontare del Tfr maturando ottenendo in cambio gli stessi benefici oggi previsti per i datori che versano il Tfr alle forme di previdenza complementare oppure optare per lo schema di accesso al credito bancario che verrà definito con un Dpcm (da adottare entro 30 giorni dal varo della legge di Stabilità) e con la convenzione Abi-Mef-Ministero del Lavoro. Per seguire questa seconda via il datore deve chiedere all’Inps la certificazione del Tfr maturato dei singoli lavoratori dopodiché potrà chiedere il previsto finanziamento bancario. Al momento del rimborso alla banca degli anticipi dovrà essere riconosciuto solo il tasso di rivalutazione della quota Tfr (ovvero l’1,5% più lo 0,75% annuo dell’indice di inflazione).

Per le piccole imprese (meno di 50 addetti) l’operazione sarà sostenuta da un Fondo di garanzia Inps che parte con una dote di 100 milioni e che verrà finanziato con un contributo datoriale dello 0,2%. In caso di insolvenza le banche si rivolgeranno a questo fondo a sua volta assistito dalla «garanzia di ultima istanza» dello Stato. Tutta l’attuazione del meccanismo è rinviata, come detto, a un decreto del presidente del Consiglio dei ministri. Mentre l’Inps dovrà svolgere il ruolo di «certificazione dei Tfr» a budget invariato e senza contare su nuove risorse umane o strumentali.

Sanità e dipendenti, tutti i tagli possibili per le Regioni sprecone

Sanità e dipendenti, tutti i tagli possibili per le Regioni sprecone

Gian Maria De Francesco – Il Giornale

«Discuto con tutti, ma le Regioni facciano la loro parte perché hanno qualcosa da farsi perdonare». Il premier Matteo Renzi non vuole toccare l’impostazione della Legge di Stabilità, ma dovrà fare i conti con un mostro a venti teste (21 se includiamo il superautonomo Alto Adige). Quei 4 miliardi di tagli previsti sono stati proprio maldigeriti, anche se, a conti fatti, si tratterebbe di solo di risparmiare 2 miliardi in quanto le dotazioni per il Fondo sanitario nazionale che viene ripartito tra gli enti locali è stato aumentato di 2 miliardi per l’anno prossimo.

Ed è proprio da quei 110 miliardi che l’anno prossimo saliranno a 112 che si potrebbe partire per tagliare qualche spreco. Non foss’altro perché tale maxistanziamento finisce sempre per rivelarsi insufficiente, tant’è vero che alla fine del quarto trimestre 2013 – sia che fossero sotto piano di rientro sia che non lo fossero – le Regioni hanno accumulato altro deficit sanitario per circa un miliardo, un terzo dei -3 miliardi del 2012. Tra il 2002 e il 2013 la spesa sanitaria è cresciuta in media del 3% annuo a fronte di un incremento medio annuale del Pil dell’1,7 per cento. Non c’è stata, perciò, proporzionalità tra le due variabili. Anche se è in lenta discesa il costo del personale sanitario ammonta ancora a 36 miliardi, mentre l’acquisto di beni e servizi (ivi inclusa la farmaceutica) è in costante aumento e l’anno scorso ha toccato quota 29,2 miliardi. Se una sanitaria perugina (lo hanno testimoniato Le Iene mercoledì scorso) vende un plantare per bambini a 69 euro a un privato e a 172 euro alla Asl? Ci sarà un motivo se una colonscopia costa circa 103 euro in tutta Italia e ben 175 in Val d’Aosta? La risposta sarebbero i famosi costi standard, ovvero l’allineamento ai criteri di economicità dei servizi, ma chissà perché in ambito sanitario hanno fatto quasi tutti orecchie da mercante.

I governatori non riescono inoltre a fare molta economia nemmeno sul personale dipendente. Secondo uno studio di Confartigianato, oltre 25mila dipendenti sono di troppo (la sola Sicilia ne conta 19mila, più di quelli del governo britannico), un surplus che costa 2,5 miliardi di euro. Ancor più severa è stata Confcommercio che non ha misurato solo i costi del sistema-Regioni, ma anche la loro produttività. Ebbene, prendendo come esempio la virtuosa Lombardia con 2.651 euro di spesa pro-capite (il livello più basso a fronte di buoni servizi e il 23% di personale in meno rispetto alla media italiana), si potrebbero risparmiare ben 82,3 miliardi di euro. Un quarto di questo sbilancio si concentra in Sicilia (13,8 miliardi) e in Calabria (6,4 miliardi), anche se la spesa pro capite più elevata è quella di Trentino (3.669 euro) e Valle d’Aosta (5.400 euro, oltre il doppio di Milano & C.). Sì, c’è molto da farsi perdonare se, ad esempio, la Regione Calabria ha buttato decine di milioni in assegnazione di incarichi dirigenziali e di contratti di consulenza a soggetti privi dei requisiti necessari.

E va ancora peggio se si considera la giungla delle oltre 400 partecipate regionali. Oltre 100 milioni di perdite, 1,5 miliardi erogati a vario titolo e una decina di miliardi di indebitamento a carico della collettività. Non fossero poco più che stipendifici avrebbero anche un senso, ma se si ricordano i fallimenti dei corsi di formazione e il proliferare di competenze, soprattutto in ambiti strategici come il turismo non se ne può uscire soddisfatti. Ecco, i governatori hanno tutti moltissimo da farsi perdonare. Nessuno, però, lo ammetterà mai: molto più facile aumentare le addizionali.

Tassa Rai, paga pure chi non ha la tv

Tassa Rai, paga pure chi non ha la tv

Paolo Bracalini – Il Giornale

Un «contributo», nemmeno più un «canone Rai», più basso per tutti ma dovuto da tutte le famiglie, anche da chi in casa non ha tv, né radio, né internet, e usa solo carta, penna e telefono. Le slide sono già pronte, con le simulazione di quel che entrerà alla Rai, e di quel che pagheranno gli italiani con il nuovo sistema di finanziamento del servizio pubblico messo a punto dal ministero dello Sviluppo economico (Mise), nella persona del sottosegretario Giacomelli. Si attende solo il via libera del premier Renzi (che potrà così annunciare: «Abbassiamo il canone Rai», ben consapevole che si tratta dell’imposta più odiata dagli italiani), e la decisione se farlo passare come decreto legge, sempre che il Quirinale ne riconosca il carattere di urgenza, quella cioè di vararlo entro dicembre, prima che partano i bollettini del «vecchio» canone 2015.

Cosa cambierà? Molto, se non tutto. Intanto le cifre. Il nuovo canone, che il ministero non chiama più così ma «contributo al servizio pubblico radio-tv», sarà molto più basso. Si pensa ad una forbice tra i 35 e gli 80 euro, a seconda delle capacità di spesa dei nuclei famigliari (calcolata sul reddito, ma anche sui consumi e altre variabili). Nessuna famiglia, dunque, nemmeno le più ricche, pagherà più di cento euro per finanziare il servizio pubblico radio-tv, e molte pagheranno parecchio di meno, fino ad un terzo rispetto agli attuali 113,50 euro del canone Rai (mentre si studia un’esenzione per le famiglie con soglie di reddito minime). Fin qui tutte notizie positive.

Ma l’altro aspetto difficilmente farà contenti molti contribuenti, quelli ad esempio che hanno fatto disdetta del canone Rai, quelli che non lo pagano perché non posseggono televisori né apparecchi «atti alla ricezione del servizio radio televisivo» (quasi tutti evasori secondo i calcoli governativi, visto che il 98% delle case, dicono le indagini, ha un tv in casa). Ebbene, anche loro, col nuovo sistema che potrebbe entrare in vigore già dal 2015, dovranno pagare il contributo alla Rai, pensato in verità come contributo generico al servizio pubblico, quindi in teoria e in misura parziale, se si riuscirà, anche alle tv locali.

Si rottama insomma il cardine della vecchia legge sul canone Rai, che vincola l’obbligo del pagamento al reale possesso (tutto da accertare, impresa impossibile di fatto, come lamenta a Mix24 il direttore dell’Agenzia delle entrate Rossella Orlandi) di un televisore in salotto, e trasforma l’obolo in un contributo strutturale delle famiglie al servizio pubblico, un servizio che lo Stato offre e che i contribuenti finanziano. La stessa legge, che si articola in una riforma radicale della Rai, prevede anche che le risorse affidate a Viale Mazzini siano effettivamente usate per svolgere il servizio pubblico, e su questo vigilerà un nuovo organo ad hoc. Scompaiono quindi anche i bollettini di pagamento della Rai, si vocifera che l’importo verrà pagato insieme alle tasse, forse con un F24, di certo Viale Mazzini non seguirà più direttamente la riscossione del tributo (a proposito, che fine faranno i dipendenti della direzione canone Rai?). Le simulazioni del Mise garantiscono un gettito di 1,8 miliardi di euro, quello che entra attualmente alla Rai dal canone, ma recuperando tutta l’attuale evasione, stimata nel 27%. In più si potrà giocare su un extragettito preso dalle lotterie, che però varrà qualche decina di milioni d’euro, non di più. Pagare meno, pagare tutti.

I rumors da Viale Mazzini però non trasmettono grande euforia dai vertici Rai. Sia il dg Gubitosi che la presidente Tarantola in ogni occasione ribadiscono che il canone Rai è un’eccezione in Europa perché è il più basso di tutti. Abbassarlo, e di tanto, suscita perplessità. Anche perché nella legge di Stabilità è previsto un prelievo statale del 5% su quel gettito, un’idea partorita dal Tesoro indipendentemente dal Mise. E che sta già terremotando Viale Mazzini. L’assemblea dei giornalisti esprime «grave preoccupazione per il nuovo taglio al servizio pubblico» e prepara una diffida ai vertici Rai per costringerli ad adire le vie legali. Cosa che il consigliere Antonio Verro è già intenzionato a fare: «Nel prossimo Cda chiederò formalmente che i consiglieri si esprimano con un voto sull’opportunità di procedere in sede giudiziaria a tutela del patrimonio aziendale». E come non pensare ai 150 milioni di euro già chiesti dal governo alla Rai. Insomma, il fronte già aperto tra Renzi e la Rai rischia di diventare ancora più caldo. «Una riforma radicale del canone – dice il sottosegretario Giovannelli – che introduca equità e dia certezze e risorse, e che sia vissuta in modo meno negativo dai cittadini». Forse non da tutti.

Nuove tasse? Prima le Regioni taglino gli sprechi

Nuove tasse? Prima le Regioni taglino gli sprechi

Daniele Di Mario – Il Tempo

C’è chi le difende e chi le attacca. Chi ne sottolinea gli sforzi di risanamento e abbattimento delle spese e chi invece ne ricorda gli scandali. Lo scontro politico sulle Regione prosegue, così come il dibattito sulla legge di stabilità. I governatori restano in trincea, nonostante l’apertura di Debora Serracchiani, vicesegretario del Pd e governatrice del Friuli che invita a valutare la manovra «nel suo complesso», ma ammonisce: «Siamo tutti chiamati con responsabilità ad azioni di governo, anche in Friuli Venezia Giulia abbiamo messo mano a molte sacche di improduttività, constatando che la razionalizzazione della spesa ha margini di miglioramento».

Perché il nodo alla fine è sempre quello: tagliare. Non i servizi, non la sanità, ma gli sprechi. E le Regioni italiane ne abbondano, nonostante nell’ultimo biennio dopo i vari scandali che hanno interessato un po’ tutti i Consigli d’Italia, abbiano intrapreso un percorso di revisione di una spesa che complessivamente ammontava a 131 miliardi e che conteneva dentro di tutto, dagli studi per le trote ai consulenti per la neve, il salvataggio delle biblioteche in Mauritania e le auto blu. I Consigli regionali hanno fatto la loro parte, riducendo i compensi dei consiglieri, tagliando gruppi e commissioni, abolendo i vitalizi. Ma sarebbe disonesto negare che le Regioni potrebbero fare di più, mettendo mano ad esempio a società partecipate ed enti (comunità montane, enti parco, unioni di comuni, università agrarie), riducendo gli assessori esterni, razionalizzando le spese per una sanità spesso fuori controllo, tagliando dirigenti e ruoli apicali. Le Regioni spendono complessivamente molto più dei Comuni e del Parlamento e rappresentano circa un terzo della spesa pubblica italiana. Ma la questione afferisce al più generale e cronico problema del regionalismo italiano.

Il ministro per gli Affari Regionali Maria Carmela Lanzetta è netta: «Il periodo è molto complesso, dobbiamo tutti quanti rinunciare a qualcosa, riorganizzarci per favorire l’assunzione di giovani nelle aziende, che mi sembra una buona risposta alla crisi». Ma Stefano Fassina – che parla di «tagli drastici, orizzontali, insostenibili a servizi fondamentali» – contrattacca: «Capisco le posizioni dei presidenti delle Regioni, che non sono estremisti antirenziani: sono solo attenti ai servizi che devono tagliare o alle tasse che debbono aumentare». Il governatore del Piemonte e presidente della Conferenza delle Regioni Sergio Chiamparino apre ufficialmente la trattativa col governo: «Da Renzi andiamo con delle proposte concrete, che non toccano i quattro miliardi ma che li articolano in modo tale da consentire di reggerli. La polemica è inevitabile, ma è indispensabile un incontro per raggiungere l’obiettivo. Il premier ha ragione quando dice che ci sono tanti sprechi da eliminare, ci sono delle cose da migliorare come le società partecipate, ad esempio. E poi parliamoci chiaro, è anche vero che sugli sprechi, come diceva il Vangelo, chi è senza peccato…». E Paola De Micheli, vicepresidente vicario del gruppo Pd alla Camera difende i governatori: i tagli di 4 miliardi alla Regioni «sono un fattore di preoccupazione per le possibili ripercussioni su alcuni servizi ai cittadini».

Ma la materia è delicata. Fabrizio Cicchitto (Ncd) chiede alle Regioni di darsi un taglio, mentre in FI non c’è univocità di giudizio. Giovanni Toti e Raffaele Fitto si trovano finalmente d’accordo su una cosa: la difesa degli enti locali. Mentre Maria Stella Gelmini dice nettamente che «il taglio di 4 miliardi ai trasferimenti non può diventare l’alibi per i presidenti delle Regioni di aumentare le tasse locali o i ticket nella sanità. È il tempo della responsabilità. Le Regioni devono trovare il grasso che cola dai loro apparati burocratici, e ne hanno ancora tanto, prima di pensare a mettere le mani nelle tasche dei cittadini». Già, ma loro, i governatori, restano sull’Aventino. Stefano Caldoro (Campania) usa Twitter per ricordare a Renzi i tagli effettuati e propone di sciogliere le Regioni per varare le macroaree. Roberto Maroni (Lombardia) attacca: «Non sarà l’esecutore testamentario, il killer, della Regione più virtuosa d’Italia. Renzi vuol riportare le Regioni a com’erano negli anni Settanta». «Da quale cattedra viene la lezione sugli sprechi delle Regioni? È irricevibile», sbotta Nichi Vendola (Puglia). Luca Zaia (Veneto) minaccia: «Il ricorso contro la legge di stabilità lo faremo».

Iva, maxi-aumento in arrivo dal 2016

Iva, maxi-aumento in arrivo dal 2016

Andrea Bassi – Il Messaggero

Stavolta è più di una mina da disinnescare. È una bomba ad orologeria con il timer fissato sulla data del primo gennaio del 2016. Tra quattordici mesi l’Iva e le accise aumenteranno. La novità è messa nero su bianco all’articolo 45 della bozza della legge di stabilità approvata dal consiglio dei ministri di mercoledì scorso. E questa volta non si tratta di una «clausola di salvaguardia», una misura di sicurezza destinata a scattare solo nel caso in cui altri strumenti, come la spending review, dovessero fallire. Le aliquote Iva del 10% e del 22%, spiega il testo, sono incrementate a decorrere dal primo gennaio del 2016. Anche le accise su benzina e gasolio avranno lo stesso destino. Quello che manca ancora, almeno nelle ultime bozze circolate, sono le cifre di questo aumento. Ma non saranno irrilevanti.

L’aumento dell’Iva e delle accise ingloba la vecchia clausola di salvaguardia dei conti pubblici inserita dal governo Letta nella manovra dello scorso anno. Una norma che prevedeva un taglio lineare di 3 miliardi nel 2015, 7 miliardi nel 2016 e 10 miliardi nel 2017, di tutte le agevolazioni fiscali nel caso in cui la spending review delegata al Commissario Carlo Cottarelli non avesse prodotto i risultati sperati. Il governo Renzi ha parzialmente disinnescato questa clausola. Il taglio da 3 miliardi per quest’anno è stato azzerato, mentre quello da 7 del prossimo è stato ridotto a 4 miliardi. Non è detto tuttavia, che l’incremento dell’Iva e delle accise del 2016 si limiti a questi 4 miliardi. Nella nota di aggiornamento del Def, il Documento di economia e finanza, il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, aveva già paventato l’ipotesi di un incremento decisamente più consistente dell’imposta sul valore aggiunto e delle accise, per rimettere i conti pubblici sul sentiero della riduzione del deficit strutturale e del debito prevista dai patti europei. Un incremento monstre da 51,6 miliardi di euro in un triennio: 12,4 miliardi di euro nel 2016, 17,8 miliardi di euro nel 2017, 21,4 miliardi di euro nel 2018. Ogni punto di Iva vale 4 miliardi di euro.

Le cifre in gioco
Se l’incremento fosse interamente concentrato sull’aliquota al 10 e quella al 22%, entrambe potrebbero salire di due punti percentuali già dal primo anno. Uno scenario da brividi, come ammesso dallo stesso documento del governo. Se la clausola dovesse scattare, secondo le stime del Def, comporterebbe alla fine del periodo una perdita di Prodotto interno lordo di 0,7 punti percentuali e una caduta dei consumi di 1,3 punti. Se l’aumento dell’Iva a partire dal gennaio del 2016 dovesse essere confermato nelle versioni definitive della legge di stabilità, è prevedibile che il prossimo anno il governo dovrà iniziare una lunga corsa contro il tempo per mettere a punto una manovra in grado di reperire risorse da altre fonti in grado di scongiurare il balzo delle imposte. Il primo allarme è arrivato da Assopetroli. «Le accise e l’Iva, se verranno realmente aumentate, altro non sono che aumento della pressione fiscale per cittadini e imprese», ha commentato ieri il presidente Franco Ferrari Aggradi. «Per questo», ha aggiunto, «ci auguriamo che il Parlamento, responsabilmente, trovi altre soluzioni che non prevedano aumenti dell’Iva e delle accise, per una manovra che altrimenti, così come è rischia di essere fortemente recessiva per i consumi». Sempre sul fronte dell’Iva, ma alla voce «lotta all’elusione», è stato inserito, come annunciato, nel testo della manovra il cosiddetto «reverse charge», l’inversione contabile, per cui a versare l’imposta non è il venditore ma il compratore. Il meccanismo sarà allargato per quattro anni ai settori delle pulizie, dell’edilizia (demolizioni e installazioni di impianti), al trasferimento di quote di emissioni di gas serra, al gas e all’energia elettrica. Se arriverà il via libera Ue, potrebbe essere coinvolta anche la pubblica amministrazione.

Tfr: anticipo in busta paga fino al 2018, ma le tasse sono più pesanti

Tfr: anticipo in busta paga fino al 2018, ma le tasse sono più pesanti

Antonella Baccaro – Corriere della Sera

Un’operazione a costo zero per le imprese. Da appena 100 milioni per lo Stato. Ma molto costosa per i lavoratori. Il provvedimento sull’anticipo del Tfr (trattamento di fine rapporto) in busta-paga, vistato dalla Ragioneria, entra in extremis nella legge di Stabilità varata ieri sera dal consiglio dei Ministri. Verranno rispettate le due condizioni annunciate dal governo: volontarietà della scelta di incassare anzitempo il Tfr da parte del lavoratore e nessun deficit di liquidità per le imprese, soprattutto quelle medio-piccole. Ma chi sceglierà di avere il Tfr in busta paga subirà su queste somme la tassazione secondo l’aliquota marginale. È questa, secondo le indiscrezioni, l’ipotesi sulla quale è orientato il governo. L’operazione Tfr in busta paga, quindi, non sarebbe conveniente, soprattutto per i redditi medio-alti.

Il testo definitivo non è stato distribuito ieri in conferenza stampa. Il meccanismo prevede che le banche che anticiperanno alle imprese le risorse per pagare il Tfr in busta-paga avranno la stessa remunerazione che oggi viene garantita al Tfr in azienda (1,5% più lo 0,75% del tasso d’inflazione). Il provvedimento dovrebbe avere un arco temporale che terminerebbe nel 2018 (data che coincide con la scadenza delle Tltro, l’operazione di rifinanziamento mirata a lungo termine della Bce).

Il dipendente privato (per quello pubblico la norma non vale) potrà fare richiesta di ottenere il Tfr in busta-paga mensilmente anziché alla fine del periodo lavorativo.Visto che l’accantonamento del Tfr corrisponde a circa una mensilità all’anno, per un lavoratore che incassi 1.400 euro netti significa ottenere in busta-paga più di 100 euro al mese per 13 mensilità. L’impresa per cui lavora dovrà farsi certificare dall’Inps il diritto alla prestazione. Tale certificazione verrà trasmessa alla banca che deciderà se erogare il finanziamento. Al termine del periodo lavorativo del dipendente, sarà l’azienda a dover restituire i soldi alla banca finanziatrice. Se non lo farà, la banca per recuperare le spettanze dovrà rivolgersi al fondo di garanzia dell’Inps. La novità sta nella controgaranzia dello Stato, pari a 100 milioni per il 2015. Tale controgaranzia consente alle banche di non trovarsi in difficoltà con le regole di Basilea perché evita loro di farsi carico di un fardello patrimoniale per i finanziamenti legati al Tfr in busta paga. Il provvedimento, previo decreto attuativo e successivo protocollo tra ministeri competenti e Abi, dovrebbe essere operativo a metà 2015 con effetto retroattivo dall’inizio dell’anno.

Ci sono due aspetti ancora da chiarire. Il primo attiene appunto alla cifra che lo Stato potrebbe incassare per la tassazione della parte del Tfr che entra in busta-paga e che una stima quantifica minimo in un miliardo e mezzo e massimo in 4 miliardi. L’altro aspetto riguarda il fondo Inps che raccoglie i versamenti effettuati dalle imprese sopra i 50 dipendenti, importi che con la nuova normativa potrebbe perdere. La manovra conterrebbe anche un altro aumento secco del prelievo, quello dell’aliquota sui rendimenti dei fondi pensione dall’11,5% al 20%.

Irap, la piccola impresa risparmierà oltre 10mila euro in un anno

Irap, la piccola impresa risparmierà oltre 10mila euro in un anno

Fabio Savelli – Corriere della Sera

Il risparmio per il conto economico sarebbe di circa 720 euro per dipendente. Ipotizzando che l’azienda ne abbia quindici (la gran parte delle piccole imprese italiane è al di sotto della fatidica soglia fissata dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori), questo significa un minor peso fiscale di 10.762,50 euro all’anno, presumendo che si tratti di una realtà da 1,3 milioni di euro di fatturato e con un costo di produzione di poco inferiore, di circa 1,1 milioni di euro.

La simulazione – condotta dal gruppo di studio torinese Eutekne, che analizza quotidianamente i cambiamenti normativi in materia di fisco – parte dal presupposto della deducibilità integrale ai fini Irap del costo dei lavoratori dipendenti, misura inserita dal governo nel disegno di legge di Stabilità. Allo stato attuale – senza cioè l’intervento sulla componente costo del lavoro dell’imposta regionale per le attività produttive – l’azienda campione paga all’erario oltre 16mila euro all’anno, presumendo che l’ammontare complessivo del costo del lavoro (stipendi, contributi, tasse) sia stimabile attorno ai 600 mila euro all’anno (di cui 180 mila di contributi previdenziali e assistenziali e 420 mila di pura retribuzione). La somma interamente deducibile sarebbe pari a 292 mila euro, immaginando un’aliquota fissata al 3,5% (aliquota disciplinata dalle regioni in maniera non uniforme e in una forbice che può arrivare fino al 4,9%).

Rilevano i commercialisti Giancarlo Allione e Luca Fornero, autori del dossier, che la misura dell’esecutivo sanerebbe l’attuale squilibrio tra un’azienda che produce in Italia e un’altra che ha delocalizzato all’estero, dove non esiste l’Irap. Ecco perché gli esperti di Eutekne definiscono l’imposta un «mostro giuridico», perché finora ha incentivato le aziende a portare lavoro oltre-confine e perché l’assegno recapitato all’erario è proporzionale al numero di dipendenti e di collaboratori.

In filigrana si può affermare che la deducibilità integrale Irap per i lavoratori avvantaggerà le grandi imprese, perché sono quelle che hanno un maggior numero di dipendenti. Di più: il calcolo va tarato su base regionale anche perché – oltre alla differente aliquota applicata – è diverso anche il peso delle deduzioni. Perché nelle regioni meridionali il risparmio d’imposta sarà minore per la fiscalità di vantaggio delle aree più svantaggiate. Da quest’anno la deduzione forfettaria per chi lavora a tempo indeterminato in Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia, Sardegna e Sicilia risulta già pari a 15 mila euro (dai 9.200 del 2013), mentre nelle altre regioni è esattamente la metà: 7.500 euro. Così la misura finirà per avvantaggiare soprattutto le imprese del Nord che potranno usufruire di un maggiore sconto fiscale. Al netto di una minore deducibilità del tributo regionale ai fini Ires e Irpef. Restano comunque le altre due voci dell’Irap: quelle sui profitti e sugli interessi passivi. Altri due balzelli difficilmente comprensibili per chi produce all’estero e vuole venire da noi.

Evasione, la Ue dice addio al segreto bancario

Evasione, la Ue dice addio al segreto bancario

Andrea Bonanni – La Repubblica

Dopo decenni di battaglie, i governi hanno decretato ieri la fine del segreto bancario in Europa. I ventotto ministri delle Finanze dell’Unione, sotto la presidenza dell’italiano Pier Carlo Padoan, hanno finalmente trovato un accordo nella loro riunione a Lussemburgo per aderire ad un meccanismo di scambio automatico di informazioni tra le amministrazioni che prevede tra l’altro anche quelle relative ai dati bancari oltre che ai redditi da lavoro, alle pensioni, ai redditi patrimoniali e immobiliari. In pratica qualsiasi amministrazione fiscale potrà ottenere in modo automatico dalla controparte di un altro stato membro tutte le informazioni patrimoniali relative ad un proprio contribuente che abbia redditi, depositi o immobili in quel Paese.

L’accordo che, come ha spiegato Padoan, «costituisce una pietra miliare nella lotta contro l’evasione fiscale», è stato possibile grazie al fatto che Austria e Lussemburgo hanno rinunciato ad opporre il veto che avevano mantenuto per anni contro qualsiasi decisione in materia. La svolta è maturata dopo che in seno all’Ocse e al G-20 si era formato un consenso generale tra i governi interessati per generalizzare lo scambio di informazioni in modo da mettere un freno all’evasione fiscale.

La direttiva, che era stata proposta più di un anno fa dalla Commissione europea, entrerà in vigore al primo gennaio dell’anno prossimo. Ma il meccanismo di scambio automatico, che richiede l’adozione di uno speciale software da parte delle amministrazioni fiscali degli stati membri, diventerà operativo solo entro il 2017. L’Austria, che ieri ha dato il proprio accordo politico all’intesa, ha chiesto e ottenuto una proroga dì un anno per adeguarsi alle nuove norme, e dunque entrerà a far parte del sistema solo a partire dal 2018. Il Lussemburgo, invece, ha fatto sapere che si adeguerà al sistema di scambio automatico entro i tempi previsti.

L’accordo, naturalmente, aumenta enormemente la pressione sugli altri paradisi bancari del Continente. La Commissione europea ha ricevuto mandato dal Consiglio di chiudere i negoziati per cooptare nel meccanismo di informazioni la Svizzera, San Marino, il Liechtenstein, il principato di Monaco e Andorra. I governi di questi cinque Paesi hanno già, in linea di principio, accettato di adeguarsi alla nuova normativa europea e all’accordo delineato in sede Ocse, anche se c’è da aspettarsi che alcuni cercheranno di guadagnar tempo. Forse un po’ ottimisticamente, la Commissione ha comunicato che conta di chiudere il negoziato con questi Paesi entro la fine dell’anno. Ieri tra l’altro, il Consiglio sotto presidenza italiana ha anche concluso con la Svizzera un accordo che pone fine al contenzioso tra la Ue e la Confederazione sulla tassazione delle imprese, e che riguardava un regime fiscale particolarmente favorevole che la Svizzera applicava alle società che trasferivano la propria sede sul suo territorio. Un regime che molti governi europei consideravano come una forma di «concorrenza fiscale» sleale.