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Debiti PA tutti pagati entro il 21 settembre? Una promessa a metà

Debiti PA tutti pagati entro il 21 settembre? Una promessa a metà

Eugenio Fatigante – Avvenire

I crediti “certificati” delle imprese con le amministrazioni dello Stato «possono essere saldati subito». L’ha detto a più riprese Matteo Renzi l’altra sera in tv, a Porta a porta, nel minuetto inscenato con Bruno Vespa sull’escursione a piedi sul monte Senario, sopra Firenze, oggetto della “scommessa di San Matteo”: entro il 21 settembre, aveva promesso a marzo il capo del governo sempre in tv, il governo avrebbe sbloccato tutti i debiti maturati entro line 2013, pena appunto l’insolita passeggiata del premier (in caso di promessa non mantenuta) o del conduttore.

Renzi l’ha “messa facile”, insistendo molto sulla procedura, capace – a suo dire – di consentire agli imprenditori interessati di presentarsi l’indomani in una banca per ottenere (finalmente) il dovuto, attraverso la “cessione del credito” che comporta però un costo pari all’1,6% fino a 50mila euro e all’1.9% al di sopra. Le cose sono davvero così semplici? Il premier ha dato a intendere che la promessa sarà onorata. A oggi, tuttavia, il “contatore” presente sul sito del Tesoro è malinconicamente fermo a 26,1 miliardi rimborsati ai creditori, alla data del 21 luglio (cifra aggiornata in tv l’altra sera a 31 miliardi a fine agosto); in ogni caso, stiamo ben al di sotto di quell’importo quantificato come minimo (una stima definitiva su quanti siano questi crediti non c’è mai stata) in 45-50 miliardi dall’ex ministro (nel governo Letta) Saccomanni, contro la cifra-monstre di 90 miliardi ipotizzata in un primo tempo da Bankitalia.

Una premessa è doverosa, e viene riconosciuta anche da un po’ tutte le associazioni d`impresa: la normativa messa in campo da Renzi è sicuramente un passo in avanti rispetto a quelle, più “balbettanti”, dei governi Monti (il primo a muoversi per affrontare questo problema, col decreto 35 d’inizio 2013) e Letta. Quest’ultimo, per dire, aveva disposto che entro settembre 2013 tutte le amministrazioni dovessero fornire l’elenco dei propri debiti. Nessuno l’ha fatto. Per questo Renzi «ha invertito il processo, e questo è il suo pregio», ricorda Mario Pagani, capo del dipartimento politiche industriali della Cna: «Ora sono le imprese che dichiarano quanto spetta loro». Quel che Renzi ha omesso di dire è che c’è un passaggio-chiave, fra l’autocertificazione sull’apposito sito e il pagamento: bisogna comunque aspettare 30 giorni perché l’amministrazione coinvolta ha questo margine di tempo per rispondere, attestando che quel credito esiste e, pertanto, è “esigibile”. Se lo fa, in effetti l’imprenditore può – subito dopo aver ricevuto questo attestato – andare in banca per farsi anticipare da questa i soldi spettanti, con la garanzia pubblica della Cdp. Ma – attenzione – non vale il “silenzio-assenso”: se non arriva nessuna risposta, l’impresa ha 10 giomi per segnalare l’inconveniente sulla piattaforma on-line, dopodiché viene nominato un commissario ad acta che ha altri 50 giorni per accertare la “verità” su questo credito. Insomma, in aggiunta ai 30 giorni iniziali, rischiano di passare altri 2 mesi. Peraltro, stando al report sul sito del Tesoro, ai primi di agosto c`è stata una “fiammata” nella consegna delle istanze di certificazione; e in questi giomi, quindi, che stanno arrivando le risposte.

A oggi, le imprese registrate sono 15.613, per un numero di istanze di 56.189 e un controvalore di oltre 6 miliardi (non è chiaro se aggiuntivi o no rispetto ai 31 detti in tv), ma la scadenza è stata da poco prorogata al 31 ottobre. Resta un «mistero», sottolinea ancora Pagani, capire perché il governo abbia escluso la via della compensazione fra crediti e debiti fiscali, «singolarmente concessa invece a chi ha ricevuto una cartella esattoriale», insomma alle imprese “meno oneste” nei rapporti col Fisco. Fra 10 giorni, al di là di Renzi o Vespa ”marciatore”, si farà il punto finale.

Per estendere il bonus e ridurre l’Irap servirebbero oltre 6 miliardi di fondi

Per estendere il bonus e ridurre l’Irap servirebbero oltre 6 miliardi di fondi

Enrico Marro – Corriere della Sera

Allargare la platea dei beneficiari del bonus da 80 euro al mese agli «incapienti» costerebbe quasi 4 miliardi. Gli incapienti, cioè coloro che hanno un reddito annuo inferiore a 8 mila euro e che ora sono esclusi dal bonus, sono infatti 4 milioni. Dare a tutti costoro (dipendenti, autonomi, pensionati) 960 euro l’anno significherebbe sborsare, appunto, 3 miliardi e 840 milioni. Aumentare il taglio dell’Irap a favore delle imprese, già ridotta quest’anno del 10%, costerebbe circa 2 miliardi e mezzo per ogni ulteriori 10 punti di riduzione del prelievo. Numeri importanti che giustificano la cautela del presidente del Consiglio, Matteo Renzi, che ha spiegato ieri in tv, a Porta a Porta, che spera di allargare la platea, ma ancora non è in grado di garantirlo. Del resto, il primo impegno, ribadito anche ieri sera, è quello di confermare il bonus per chi già ce l’ha, cioè i lavoratori dipendenti con un reddito tra 8 mila e 26 mila euro l’anno, circa 10 milioni di contribuenti. E solo per questo ci vogliono 10 miliardi di euro.

Ma vediamo perché costerebbe così tanto allargare la platea e perché, probabilmente, non ci sarà un’estensione meccanica degli 80 euro, bensì quel «segnale di attenzione» di cui aveva già parlato il governo in occasione del decreto sul bonus, lo scorso aprile. Allora, il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, spiegò al Corriere che intervenire anche a favore degli incapienti sarebbe costato «almeno un miliardo in più». Ma l’ipotesi sulla quale si era ragionato prevedeva di dare qualcosa, ma non certo 80 euro, considerando, per esempio, che una parte di coloro che non arrivano a 8mila euro di redditi sono i poveri assistiti con la social card. Per questi ora il governo sta lavorando a un potenziamento del sussidio utilizzando i fondi europei. Delrio, che ha la delega in materia, insieme con Poletti sta studiando la messa a regime e il rafforzamento del Sia, il sostegno all’inclusione attiva avviato dal predecessore di Poletti, Enrico Giovannini, che prevede percorsi personalizzati di inserimento sociale e lavorativo su misura per le famiglie povere e un assegno che può arrivare fino a 400 euro. Sui poveri quindi il governo potrebbe intervenire potenziando questi strumenti.

Non a caso, parlando di un’eventuale estensione del bonus, Renzi si è riferito piuttosto ai pensionati e alle partite Iva. Ma anche qui i numeri sono importanti. I pensionati con un reddito previdenziale tra mille e duemila euro al mese, cioè che grossomodo potrebbero rientrare in una ipotetica estensione del bonus, sono circa 6 milioni e mezzo. Le partite Iva individuali sono 3 milioni e mezzo, con un reddito medio di circa 15 mila euro lordi, secondo una ricerca della Cgil. Anche in questo caso dare 80 euro al mese costerebbe troppo. Ecco perché l’ipotesi di allargamento del bonus che finora è sembrata più realistica è quella, allo studio dei tecnici del governo, che prevede un aumento delle soglie di reddito per le famiglie numerose con un solo stipendio. La soglia per ottenere gli 80 euro potrebbe salire da 26 mila a 31 mila euro con due figli a carico, a 40 mila con tre, a 50 mila con quattro. Una mini-estensione del bonus che costerebbe alle casse pubbliche non più di 200-300 milioni di euro l’anno. Fattibile. Così come appare possibile un nuovo sconto sull’Irap o comunque un taglio del carico fiscale per le imprese rimaste deluse dal mini taglio Irap di aprile.

Andare oltre diventa molto più difficile perché, come ha ammesso Renzi, quest’anno il prodotto interno lordo resterà intorno a zero. E per rispettare il tetto del deficit del 3% bisognerà fare i salti mortali, nonostante la rivalutazione dello stesso Pil che l’Istat ha in corso. Senza contare che il premier, ieri sera, ha aperto alla possibilità di rimuovere il blocco degli stipendi pubblici. Anche qui, però, più che a un rinnovo pieno dei contratti per 3 milioni e mezzo di dipendenti pubblici, che costerebbe 2,1 miliardi solo nel 2015, bisogna pensare a misure limitate (sblocco dei premi, incentivi alla produttività).

Attrattività, l’Italia resta in coda

Attrattività, l’Italia resta in coda

Enrico Netti – Il Sole 24 Ore

Regno Unito, Germania e Francia saldamente sul podio dei Paesi che riescono ad attirare il maggio numero di investitori esteri. L’Italia resta nella parte bassa della classifica, preceduta da Spagna e Olanda. Il nostro Paese, la seconda potenza manifatturiera del continente, soffre di un deficit di attrattività e non regge il confronto con quanto offrono altre nazioni altrettanto provate dalla crisi come quelle della penisola iberica, ma che hanno già imboccato la via delle riforme. In Italia, dal luglio 2009 al luglio 2014, gli investitori esteri hanno avviato 583 progetti greenfield, che hanno portato alla creazione di poco più di 4.700 posti di lavoro. Il tutto ha richiesto finanziamenti per 7 miliardi di dollari. È quanto emerge dal report «fDi Markets» sui trend degli investimenti esteri. Sono stati analizzati oltre 15mila progetti effettuati in 21 nazioni: una partita da 146,2 miliardi di dollari di investimenti, che hanno portato alla creazione di quasi 288mila nuovi posti di lavoro.

La lunga crisi ha ridotto lo stock di investitori che guardano all’Europa occidentale e dopo i picchi del 2011 il trend ha imboccato la parabola discendente. «Negli ultimi anni l`Europa vede un calo degli Fdi – commenta Courtney Fingar, editor-in-chief di “fDi Magazine” e responsabile dei contenuti di fDi Intelligence, divisione del Financial Times -. L’Italia ha diverse criticità con gli investitori esteri, esasperati dai problemi economici, da una certa confusione nella strategia di promozione e dalla mancanza di coordinamento tra i diversi enti pubblici che affermano di avere un mandato per la promozione del Paese». Per l’Italia il bilancio poteva essere ben diverso con la realizzazione di un solo progetto in più: quello del rigassificatore di Brindisi, grande infrastruttura che avrebbe portato alla creazione di un migliaio di posti di lavoro e oltre un miliardo di dollari di investimenti. Dopo undici anni di “difficoltà” e una spesa di oltre 250 milioni British Gasnel 2012 ha gettato la spugna.

Chi decide di investire in Italia punta ai servizi per le imprese con l’obiettivo di presidiare il mercato. Tra i settori spicca quello delle tlc, su cui si sono riversati oltre 2 miliardi di dollari di investimenti, mentre il comparto trasporti e logistica ha creato il maggior numero di nuovi posti (650) e precede le tlc (300) e l’elettronica. La top ten delle multinazionali che hanno varato progetti vede nomi come Fed Ex, Vodafone, Ceva, Amazon, oltre al gruppo filippino Itkc e colossi dell’energia come Rwe ed Électricité de France. «Segnano il passo i grandi progetti greenfield nell’energia e nelle infrastrutture, ovvero quelli di cui il Paese ha assoluto bisogno, mentre vanno meglio gli investimenti in acquisizioni – osserva Donato Iacovone, a.d. di EY Italia -. Servono riforme, e più che le idee ciò che è veramente mancato è stato il coraggio di attuarle. Lo stesso coraggio che oggi l’Europa si aspetta per riconoscere credibilità al decreto “sblocca Italia”». Aggiunge Fingar: «Il governo Renzi ha annunciato alcuni cambiamenti, ma le implicazioni restano per il momento poco chiare».

Non c’è solo un deticit di attrattività, ma anche di competitività. A dirlo è la classifica del World economic forum (Wef) che per il secondo anno consecutivo mette l’Italia al 49° posto. Ci precedono Spagna, Portogallo, le repubbliche del Baltico e Malta. Come fermare il declino? Una possibile cura la suggerisce Francesco Saviozzi, direttore del Master in Imprenditorialità e strategia aziendale della Sda Bocconi, che insieme a Paola Dubini ha curato la parte italiana della ricerca del Wef. «Si dovrebbe trarre ispirazione dal pacchetto di semplificazioni e agevolazioni varato per le startup che dimostra che si possono creare condizioni attrattive per fare impresa – spiega Saviozzi -. Si deve soprattutto fare in fretta per dimostrare all’estero che si riesce a supportare veramente le imprese». I settori da valorizzare sono quelli delle scienze della vita, il biotech e il digitale con pacchetti di norme ad hoc e creando i presupposti per far ritornare i talenti fuggiti all’estero.

«È necessaria anche una vera e seria strategia per attirare gli investitori, con un modello proattivo e coordinato – conclude Fingar -. Sono molti i punti di attrattività offerti dall’Italia, dalle scienze alle tecnologie, senza dimenticare le Pmi con i loro elevati livelli di competenze. Ma questi plus non vengono ottimizzati e comunicati al meglio ai mercati internazionali».

Lavoro manuale o fuga all’estero, gli under 30 davanti al bivio

Lavoro manuale o fuga all’estero, gli under 30 davanti al bivio

La Stampa

Loro cercano di mettercela tutta, rendendosi disponibili anche al lavoro manuale, ma la fiducia nel futuro è davvero scarsa, tanto da portarli a guardare all’estero come ultima spiaggia. Effetto mediatico e percezioni distorte? No, è un campanello d`allarme che forse non vogliamo sentire: solo il 10% delle ragazze e il 15% dei ragazzi italiani ritiene di avere in patria adeguate occasioni di impiego e cerca di reagire con pragmatismo e adattabilità a un avvenire ritenuto cupo.

Sono questi i risultati che si possono leggere nel Rapporto Giovani, curato dall’Istituto Toniolo in collaborazione con Ipsos e il sostegno di Fondazione Cariplo e di Intesa Sanpaolo, che da tempo esplora la galassia dei «millennials››. L’indagine è stata condotta su un campione di 1727 giovani di eta tra i 19 e i 30 anni. Oltre l’80% degli intervistati si dichiara pronto a svolgere un lavoro di tipo manuale, tre su quattro ambirebbero a un’attività in cui poter esprimere la propria creatività, senza badare troppo alla coerenza con i titoli di studio. L’85% dei maschi e il 90% delle femmine ritengono che l’Italia non offra possibilità di trovare lavoro ad un giovane con la preparazione posseduta e pensano di andare all’estero.

Di chi è la colpa? La crisi c’entra, ma non è l’unico motivo. Per il 30% il problema sono i limiti strutturali del mercato che dà poche occasioni, bassa qualità e contratti brevi e precari. In secondo luogo viene la situazione economica complessiva, al terzo posto la «preferenza data ai raccomandati», al quarto la «minore esperienza» (15,4%). Solo un intervistato su cento ritiene che i giovani rifiutino alcuni lavori. Per questo i giovani guardano anche al lavoro manuale, ma ad alcune condizioni: stipendio adeguato, lavoro creativo e flessibilità dell’orario. E nella classifica dei lavori preferiti compaiono quelli per le giovani generazioni oggi più facili da trovare, ma che sono di bassa qualità. Pochissimi consiglierebbero ad un amico di fare il telefonista di call center (35%), l’operatore di fast food (42%), o il distributore di volantini (15%).

E che cosa ne sanno i giovani del provvedimento governativo a loro dedicato partito a maggio? Poco o niente e rivelano una bassa fiducia sull’impatto generale che la misura potrà avere. Sulla Garanzia giovani, infatti, il 45% dichiara di non saperne nulla e il 35% di averne sentito vagamente parlare. Meno di un giovane su cinque la conosce abbastanza bene (14%) o molto bene (5%). Anche tra i «Neet», i giovani che non studiano e non lavorano e che rappresentano il target principale del provvedimento, la percentuale di chi la conosce abbastanza o molto bene risulta molto bassa (attorno al 22%). Riguardo agli effetti solo il 37% pensa che migliorerà molto o abbastanza il rapporto dei giovani con il mercato del lavoro. Prevalgono gli scettici con un 54% che afferma che cambierà poco o nulla. I meno convinti sono proprio i «Neet», per i quali la sfiducia sale al 58%.

«I giovani – afferma Alessandro Rosina, uno dei curatori del Rapporto Giovani – sono stanchi di promesse e annunci: vogliono solo fatti. Senza risposte credibili e concrete il rischio è quello di alimentare sfiducia, frustrazione e fuga verso l’estero. Preoccupa che l’80% concordi con chi pensa che per migliorare davvero la propria condizione, più che sperare nella Garanzia giovani, la scelta migliore sia quella di andare all’estero».

Pagamenti PA a quota 30 miliardi

Pagamenti PA a quota 30 miliardi

Carmine Fotina – Il Sole 24 Ore

Due settimane esatte al giorno di San Matteo. Si avvicina la scadenza fissata da Matteo Renzi, il 21 settembre, per smaltire la totalità dei debiti della Pa, un impegno assunto dal premier come una “scommessa” personale sei mesi fa nel corso di una puntata di Porta a Porta. Conclusa la pausa estiva, si può ora fare un bilancio generale in vista dell’ambizioso obiettivo: sia lo stato dell’arte dei pagamenti sia quello delle norme applicative risultano ancora incompleti e occorrerebbe un formidabile sforzo da sprinter per chiudere in tempo tutte le partite aperte. Al ministero dell’Economia non si fanno drammi, però, anche perché, si sottolinea, tutti i meccanismi messi in campo sono ormai funzionanti e le richieste di certificazione avanzate dalle imprese per cedere i crediti alle banche si stanno mantenendo anche al di sotto delle disponibilità. Entro due settimane si farà di nuovo il punto con tutte le parti che hanno sottoscritto a luglio un protocollo di impegni – enti debitori, banche, imprese, Cdp – e in quella sede si conta di dare una sterzata decisiva per superare l’attuale risultato: siamo intorno ai 30 miliardi già pagati ai creditori.

Le risorse pagate
Dai 90 miliardi di debiti commerciali stimati da Banca d’Italia a fine 2012 si è passati ai 75 miliardi dell’ultima relazione di via Nazionale, cifra che tuttavia includerebbe anche debiti non ancora scaduti e un’ampia zona grigia costituita dai debiti fuori bilancio e da quelli oggetto di contenzioso. Più realisticamente, secondo le valutazioni del Tesoro, la cifra da “aggredire” si avvicina ai 60 miliardi. Sommando i tre decreti che hanno stanziato risorse per i pagamenti, complessivamente sono stati messi a disposizione 56,8 miliardi dei quali 6,5 destinati a rimborsi di imposta. In attesa del prossimo dato ufficiale, l’ammontare dei debiti pagati era, al 21 luglio scorso, pari a 26,1 miliardi a fronte di 30,1 miliardi già distribuiti alle Pa perché paghino i loro debiti. La maggioranza dei crediti incassati riguarda spese di parte corrente, 7,5 miliardi sono andati invece a coprire debiti di parte capitale (spese per investimenti) e 2,5 miliardi sono stati impiegati per i rimborsi di imposta. Nel frattempo, però, secondo prime valutazioni dei tecnici, gli enti debitori avrebbero girato quasi tutte le risorse e alle imprese dunque sarebbero già affluiti circa 30 miliardi.

La cessione dei crediti
Con il recente Dl 66/2014 sono state varate misure per facilitare la cessione dei crediti certificati (solo di parte corrente) mediante la garanzia dello Stato. La Cdp, che può intervenire in ultima istanza rilevando a sua volta i crediti dalle banche, ha messo a disposizione un plafond di 10 miliardi e, al 4 settembre, con un trend in rallentamento negli ultimi 10 giorni, sono state presentate 55.684 istanze di certificazione da parte delle imprese per circa 6 miliardi. Per trasmettere la domanda di certificazione, le imprese che non lo hanno ancora fatto hanno tempo fino al 31 ottobre 2014, dunque in ogni caso oltre la scadenza del 21 settembre. E ad ogni modo, l’invio delle istanze non esaurisce l’iter in quanto le Pa debitrici hanno a loro volta ulteriori 30 giorni di tempo per certificare o fornire, in alternativa, un rifiuto accompagnato da «puntuale motivazione». Secondo prime indicazioni raccolte sul campo, non sarebbero pochi i casi di amministrazioni che stanno opponendo un diniego, più o meno ben motivato, alle imprese richiedenti. Resta intanto irrisolta la questione delle spese in conto capitale. Il pagamento di spese per investimenti (ulteriore rispetto ai 7,5 miliardi già liquidati) è infatti frenato dall’impatto che determinerebbe sul deficit e molto probabilmente bisognerà aspettare la legge di stabilità per verificare possibili coperture.

L’attuazione
Fin qui i freddi numeri. Passando all’attuazione normativa, in base alla tabella pubblicata sul sito del ministero, al momento è stato concluso l’iter di 8 provvedimenti su 14 previsti dal Dl 66. Il fondamentale decreto con le modalità per far scattare la garanzia statale sui crediti ceduti risulta «in registrazione alla Corte dei Conti». Nel frattempo, al Mef si studiano nuovi meccanismi di controllo dei tempi medi dei nuovi pagamenti, per evitare che – smaltiti gli arretrati storici – se ne formino di nuovi: in arrivo sanzioni severe per gli enti ritardatari.  

Entrate ancora il flessione ma l’Iva cresce (+4,1%)

Entrate ancora il flessione ma l’Iva cresce (+4,1%)

Davide Colombo – Il Sole 24 Ore

Un mese fa le stime di Confcommercio sui consumi interni di giugno che parlavano di «effetto invisibile» per il bonus Irpef di 80 euro gelarono gli entusiasmi del Governo. Eppure, in giugno, l’Iva cresceva del 4%, aiutando la tenuta complessiva del gettito tributario del primo semestre.

Ora il dato si ripete con il mese di luglio: +3,1% (+1.695 milioni di euro) la variazione complessiva con una progressione dell’Iva sugli scambi interni ancora in aumento del 4,1% (+1.961 milioni di euro). E il sostegno è confermato sull’aggregato complessivo delle entrate tributarie erariali dei primi sette mesi, ora pari a 232.613 milioni di euro, «sostanzialmente stabili rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente (-0,6%, pari a -1.302 milioni di euro)» come annota il ministero dell’Economia.

Nel bilancio complessivo il lato debole del gettito tributario continua ad essere quello delle imposte dirette, il cui gettito complessivo si ferma a 128.182 milioni di euro, con una diminuzione del 3,7% (-4.870 milioni di euro) rispetto ai primi sette mesi dello scorso anno. A partire dall’Irpef, che cala ancora dello 0,6% (-564 milioni di euro) riflettendo gli andamenti delle ritenute sui redditi dei dipendenti del settore privato (-0,9%), delle ritenute sui redditi dei dipendenti del settore pubblico (-0,4%) e dei lavoratori autonomi (-2,7%), andamenti parzialmente compensati dall’aumento dei versamenti in autoliquidazione (+2,2%). Ma molto peggio continua ad andare per l’Ires, in calo del 20,8% (-3.597 milioni di euro), un dato «essenzialmente riconducibile ai minori versamenti a saldo 2013 e in acconto 2014, effettuati da banche e assicurazioni a seguito dell’incremento della misura dell’acconto 2013 fissato, per questi contribuenti, al 130% dal dl 133 del 2013». L’incremento dell’acconto versato nel 2013 infatti si riflette negativamente sui versamenti effettuati a saldo nel 2014 relativi all’anno d’imposta 2013. E quest’ultimo dato, a sua volta è una delle componenti per la base di calcolo dell’acconto per l’anno di imposta 2014.

Tornando alle imposte indirette (gettito a 104.431 milioni di euro, +3,5% nei sette mesi), dopo aver detto del continuo progresso dell’Iva il Mef sottolinea in particolare la riduzione del differenziale negativo della componente dell’Iva sulle importazioni da Paesi extraUe rispetto ai primi sette mesi del 2013 -3,4% (risultava pari a -4,6% nel periodo gennaio-giugno) per effetto della crescita del gettito nel mese di luglio (+3,2%, pari a +39 milioni di euro), per il terzo mese consecutivo. Non è andata altrettanto bene per l’imposta di bollo, in arretramento del 4,0% (-249 milioni di euro), per effetto della variazione negativa di 692 milioni di euro dell’imposta speciale sulle attività finanziarie scudate dovuta al passaggio dell’aliquota di imposta dal 13,5 per mille per il 2013 al 4 per mille a decorrere dal 2014 (art. 19, comma 6, del dl 201/2011). «Considerando esclusivamente le altre componenti dell’imposta di bollo, si evidenzia invece una crescita dell’8,4% (+448 milioni di euro)» si legge nella nota dell’Economia.

L’altro segnale significativo riguarda, infine, la lotta all’evasione. Tra gennaio e luglio le entrate derivanti dall’attività di accertamento e controllo, comunica il Mef, continua il suo andamento favorevole, in crescita del 12,4% (+528 milioni di euro), mentre le entrate derivanti dall’attività dei giochi sono cresciute dello 0,1% (+8 milioni di euro).

Gli stipendi degli statali valgono il 10,5% del Pil ma la media Ue è più alta

Gli stipendi degli statali valgono il 10,5% del Pil ma la media Ue è più alta

Paolo Baroni – La Stampa

Senza il blocco dei contratti, il giro di vite sul turnover e norme più severe per premi individuali, come ha certificato poco tempo fa la Corte dei Conti, l’Italia non sarebbe certo riuscita a mettere sotto controllo il monte salari dei dipendenti pubblici. E invece da qualche anno a questa parte il peso sul bilancio dello Stato pian piano sta scendendo al punto che l’Italia è entrata a far parte del club dei Paesi più virtuosi, collocandosi ben sotto la media europea: nel 2016 scenderemo infatti sotto la soglia del 10% del Pil. Oggi siamo ancora al 10,5%, contro il 19% della Danimarca, il 14,4 della Svezia, il 13,4% della Francia e l’11,5 della Gran Bretagna. Tra i grandi Paesi solo la Germania, con l’8%, riesce a fare meglio.

Comunque sia, anche se gli stipendi medi non sono altissimi (34.576 euro di media nel 2012), si tratta pur sempre di un mucchio di soldi: parliamo di ben 164 miliardi di euro di spese complessive nel 2013, 8 in meno rispetto al 2010 (-4,6%) quando il blocco dei salari ha toccato tutti i settori e tutti i comparti della Pa. Stando all’ultima versione del Def 2014 non solo la discesa non sarebbe terminata, ma anzi si prevede un’ulteriore riduzione dello 0,7%. Solo dal 2018, per effetto della ripresa del turnover e del pagamento dell’indennità di vacanza contrattuale 2015-2017, è prevista una inversione di tendenza con un aumento dello 0,3 per cento della spesa.

Ovviamente parliamo di medie, se si scende nel dettaglio, in un mondo dove i dirigenti sono tra i più pagati in assoluto di tutta l’area Ocse e dove la «truppa» è invece agli ultimi posti delle graduatorie, si vede che a patire di più i tagli sono stati i dipendenti degli enti locali che hanno dovuto sopportare «per intero» la diminuzione della spesa, mentre il settore statale si è mantenuto su livelli stabili (+0,2%) ed i dipendenti degli enti previdenziali hanno messo a segno un lieve aumento (+1%).

Ma se è vero che la spesa dello Stato ha beneficiato di queste norme sempre più rigide sul pubblico impiego, è anche vero – lo ammette la stessa Corte dei conti – che si è trattato di «misure severe ed eccezionali, non replicabili all’infinito e non aventi natura di riforma strutturale». Dopo cinque anni e più sostengono i magistrati contabili, il blocco della contrattazione va superato. Perché ha di fatto «impedito» la piena attuazione della riforma del 2009 quando vennero «privatizzati» i contratti del pubblico impiego con l’obiettivo di aumentare la flessibilità e riforma il meccanismo di calcolo degli stipendi.

Se il governo, come ha più volte detto, vuole procedere con la riforma del salario accessorio, spingere l’acceleratore sul recupero dell’efficienza e la valorizzare del merito individuale è obbligato a riprendere l’attività negoziale. È una questione «fisiologica», sottolinea la Corte dei Conti. E certamente, dopo sette anni di blocco, non è immaginabile una contrattazione che riguardi solo le regole e non i salari. Il problema è che riaprire il «file» contratti ha un costo non indifferente. È lo stesso governo, nei documenti di bilancio, ad indicare in base agli aumenti medi concessi nelle tornate precedenti un costo che a regime arriverà a quota 6,5 miliardi di euro. Ecco spiegato l’impasse di questi giorni. Al quale difficilmente si potrà sopperire con ulteriori tagli del numero dei dipendenti, già scesi di 200 mila unità nel giro di 4 anni. Perché andrebbe utilizzata di nuovo la leva del turnover e questo farebbe ulteriormente aumentare l’età media dei nostri travet, che in larga parte (50%) già oggi hanno più di 50 anni contro una media europea del 30% e dove la quota di laureati (34%) sfigura se rapportata ad esempio a quella inglese (54%). Con tutto ciò che ne conseguenze in termini di competenza, efficienza e produttività.

Cinque corpi per cinque ministeri, lo spreco dei fondi per la sicurezza

Cinque corpi per cinque ministeri, lo spreco dei fondi per la sicurezza

Alessandro Barbera – La Stampa

A parte qualche raro caso – sono quelli che fanno storia – i politici tentano sempre di rinviare le soluzioni dolorose. Prendiamo il caso della pubblica sicurezza. In Italia è garantita da poco più di trecentomila agenti divisi in cinque corpi: Carabinieri, Polizia, Guardia di finanza, Polizia penitenziaria e Corpo forestale. Il caso vuole che ciascuno di essi dipenda funzionalmente da un ministero diverso: Difesa, Interni, Tesoro, Giustizia e Agricoltura. Il blocco delle assunzioni in vigore da anni sta assottigliando gli organici: Polizia e Carabinieri ne hanno persi quindicimila a testa. I tagli lineari hanno funzionato: se nel 1990 la voce ordine pubblico valeva l’8,9 per cento dei consumi pubblici, vent’anni dopo, nel 2009, quel valore era sceso di un punto percentuale. D’altra parte, secondo i dati di Eurostat del 2012, l’Italia è uno dei Paesi europei e mediterranei con il più alto numero di unità di polizia ogni centomila abitanti: 466 contro i 312 della Francia e i 298 della Germania. Fra i grandi Paesi ci superano solo Turchia (552 unità) e Spagna (533).

Finché hanno potuto far finta di nulla, la politica e le alte burocrazie hanno ignorato il problema. Ma come testimoniano i numeri, lo hanno solo aggravato. Poco prima di lasciare Palazzo Chigi, a marzo dell’anno scorso, Piero Giarda ha lasciato in eredità trecento pagine di «analisi di alcuni settori di spesa pubblica». Più della metà sono dedicate alla dinamica dei costi di Polizia, Carabinieri, Questure, Prefetture. Giarda spiega che «le spese per abitante delle forze di polizia (alle quali sono associati vigili del fuoco e capitanerie di porto) sono significativamente più elevate, a parità di condizioni, nelle province o nelle regioni con meno abitanti». Ad esempio: le spese pro capite più alte per i servizi di prefettura sono in Molise e Basilicata. Ancora: la spesa pro capite per il funzionamento della Polizia ad Aosta e in Liguria supera i 140 euro l’anno; in Veneto e Lombardia, le più basse, il costo per contribuente è inferiore ai 60 euro. Numeri non troppo diversi da quelli dei Carabinieri: in Molise e Sardegna costano mediamente più di 160 euro a testa, in Piemonte, Lombardia e Veneto meno della metà.

Il costo complessivo del comparto sicurezza – lo ha calcolato di recente il commissario alla spesa Carlo Cottarelli – è attorno ai 20 miliardi di euro l’anno. Non è moltissimo: un quarantesimo del bilancio dello Stato, un quarto di quel che spendiamo in interessi sul debito. Eppure ci permettiamo di sprecare 1,7 miliardi l’anno (questa la stima di Giarda) per tenere in vita cinque corpi male organizzati. Una cifra che potrebbe essere ben utilizzata, ad esempio, per gli aumenti contrattuali. A giugno, in una delle bozze della riforma della pubblica amministrazione, era apparsa una norma che disponeva il passaggio di forestali e agenti di polizia penitenziaria sotto il controllo dei corpi più grandi. L’ipotesi è tramontata nel giro di poche ore. Pare che i ministri vigilanti non gradissero. Ieri, nel piano di risparmi per il 2015 presentato dal ministro della Giustizia non c’era traccia della proposta. A Ferragosto il ministro dell’Interno Alfano aveva già spiegato il perché: «Non ci sono forze generaliste, ognuna ha compiti specifici. Razionalizzare le spese è logico è giusto, ma se si deve tagliare con la mannaia non aderisco». La Polizia ha di recente varato un piano per il taglio di 300 fra uffici e commissariati: garantiranno risparmi per 60 milioni. Di accorpamenti se ne riparlerà. Un giorno, chissà.

Conti pubblici, entrate in affanno

Conti pubblici, entrate in affanno

Luca Cifoni – Il Messaggero

Il segno è negativo: di poco, ma comunque negativo. Più esattamente, nei primi sette mesi di quest’anno le entrate tributarie si sono ridotte di 1,3 miliardi owero dello 0,6 per cento rispetto allo stesso periodo del 2013. Il modesto incremento del solo mese di luglio (247 milioni in più, pari ad un +0,7 per cento) non è bastato ad invertire una tendenza non brillante che deriva da un lato dalla mancata crescita (e dallo stesso basso livello di inflazione) dall’altra dalla scelta del precedente governo di maggiorare gli acconti dovuti alla fine dell`anno scorso, penalizzando inevitabilmente gli incassi del 2014.

Di questo andamento non potrà non prendere atto la nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza (Def), attesa per l’inizio di ottobre. Nel Def dello scorso aprile, in un contesto di previsioni economiche ben più ottimistiche, il Tesoro aveva stimato per quest’anno un incremento nominale delle entrate tributarie (a livello di conto delle amministrazioni pubbliche) intorno al 3 per cento. Un ritmo che ora appare irrealistico, anche se naturalmente è possibile che ci siano dei miglioramenti nei mesi successivi.

In realtà ci sono grandi preoccupazioni per quanto riguarda il 2014: si ritiene che le minori entrate saranno compensate da altre voci positive come la minore spesa per interessi indotta dal forte calo dei rendimenti di mercato. Ma la flessione del gettito si farà sentire anche negli anni successivi, a partire dal prossimo, nel quale andranno trovate le risorse per finanziare una serie di sgravi fiscali a partire da quello sull’Irpef. Più dettaglio, da gennaio a luglio si è ridotto il gettito delle imposte dirette, che si è fermato a 128,2 miliardi (quasi 4,9 in meno con una flessione del 3,7 per cento). La variazione negativa è dello 0,6 per cento per l’Irpef, anche se c’è stato un miglioramento dei versamenti in auto-liquidazione; molto più marcato il calo dell’Ires pagata dalle società, che riflette essenzialmente i minori saldi versati in particolare da banche e assicurazioni che si erano viste portare al 130 per cento la percentuale dell’acconto. Ha invece fruttato 1,7 miliardi l’imposta sostitutiva sulla rivalutazione delle quote di Bankitalia, una voce una tantum collegata alla decisione di rivedere gli assetti proprietari della banca centrale.

È invece positiva la tendenza delle imposte indirette, che arrivano a 104,4 miliardi con un incremento del 3,5 per cento (3,6 miliardi in più). Va abbastanza bene l’Iva (+3,1 per cento) ed in particolare quella sugli scambi interni che cresce del 4,1, mentre resta negativa quella sulle importazioni da Paesi extra-Ue che pure ha avuto un segno positivo nel solo mese di luglio.

Sul buon risultato dell’imposta sul valore aggiunto incide naturalmente anche l’aumento di un punto, dal 21 al 22 per cento, dell’aliquota ordinaria. Il ministero dell’Economia segnala infine un incremento del gettito derivante dalle attività di accertamento e controllo che hanno portato 528 milioni in più.

La soluzione impossibile: unire le forze dell’ordine

La soluzione impossibile: unire le forze dell’ordine

Stefano Zurlo – Il Giornale

Sono cinque come le dita di una mano ma ciascuna va per suo conto. In Italia tutte le forze di polizia fanno di tutto e si sovrappongono in un caos inestricabile. Si potrebbe risparmiare tanto, molto e portare a casa risultati importanti, ma per ora parole magiche come razionalizzazione e coordinamento restano lettera morta. Prendiamo il mitico numero unico per le emergenze: dal 1981, più di trenta anni fa, c’è la possibilità di creare le centrali operative unificate, ma finora si è fatto poco o nulla. Più nulla che poco. C’è qualche centrale unica virtuale, all’italiana insomma, con tanto di monitor per uno scambio di saluti interforze, e poi ognuno fa il suo. In compenso l’italia paga per l’inadempienza inammissibile sul punto una sanzione alla Ue di 178mila euro al giorno. E ogni città ha le sue cinque, sei, sette centrali perché in realtà alle cinque forze statali – polizia, carabinieri, guardia di finanza, forestale e penitenziaria – occorre somare la municipale e la provinciale. Con relativo problema del riassorbimento: ora che spariranno le province dove finiranno i relativi agenti? A quanto pare ingrosseranno la Forestale.

Insomma, storia e geografia hanno creato un vero ginepraio. Un labirinto con una duplicazione spaventosa di costi. «Sette forze di polizia – spiega Gianni Tonelli, segretario generale del Sap, uno dei sindacati più rappresentativi della polizia – vuol dire sette caserme, sette uffici per la gestione degli automezzi, sette segreterie, sette caserme e via elencando. Dovremmo procedere con una parziale unificazione che non vuol dire ridurre tutto ad un corpo solo. Questo per la democrazia potrebbe essere un passo indietro, Ma la verità è che si potrebbero abbattere le spese in modo clamoroso e invece ci teniamo una divisione artificiosa che risale all’Ottocento quando nacquero i carabinieri, come polizia militare, e la polizia per l’ordine pubblico». Tonelli dà un paio di dati, sconvolgenti: «Non è vero che i nostri agenti siano pochi; no, sono tanti se non troppi, ne abbiamo uno ogni 190 abitanti, ben più degli altri Paesi europei. In Francia e Germania ce n’è uno ogni 280 abitanti, in Inghilterra addirittura uno ogni 390 abitanti. Eppure omini e risorse si sprecano e si nascondono negli uffici. La riorganizzazione dei servizi non è gradita ai vertici, agli alti papaveri, ai capi che occupano le poltrone più ambite e non vogliono cedere potere e prestigio». Le cifre sono impietose: i carabinieri sono 104mila (ma dovrebbero essere 118mila), i poliziotti 97mila, i finanzieri 68mila, le guardie penitenziarie 45mila. Fanalino di coda le guardie forestali, 7.600.

È una vecchia, vecchissima storia italiana. In Francia la polizia sta nelle città, la Gendarmeria nei villaggi. Da noi regna Arlecchino: tutti stanno dappertutto e spesso si fanno concorrenza. E poi ci sono le Fiamme gialle che fanno di tutto un po’: polizia di frontiera, polizia tributaria, polizia giudiziaria, ordine pubblico e tanto altro. Per esempio la notte della tragedia della Concordia il primo video venne girato dai militari delle Fiamme gialle. Dai tempi di Mani pulite, e dal dilagare degli arresti per corruzione delle divise infedeli, si parla di ridisegnare il corpo. Che andrebbe snellito e trasformato in un’agenzia d’élite, formata da laureati ben pagati e superspecializzati. La realtà, a tratti borbonica, è che anche su questo fronte si è perso tempo. Così il governo Renzi, che all’inizio aveva fatto sperare in qualche riforma incisiva, oggi pare ripiegare sul classico, intramontabile blocco degli stipendi. E il cambio di passo resta lontano. «Potremmo tenere due forze nazionali e una locale – conclude Tonelli – e riflettere poi sul futuro della Guardia di finanza, ma mi pare che siamo al palo». E allo sciopero dei servitori dello Stato.