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Dipendenti pubblici: non sono troppi, ma male distribuiti

Dipendenti pubblici: non sono troppi, ma male distribuiti

Il numero di dipendenti pubblici in Italia è inferiore a quello delle altri grandi economie europee, ma la sua distribuzione sul territorio nazionale non è affatto omogenea, né in rapporto al numero dei residenti, né rispetto agli occupati. È questo il dato più significativo che emerge da una ricerca del centro studi ImpresaLavoro su elaborazione dei dati di Ragioneria Generale dello Stato, Istat ed Eurostat.

A fronte di una media italiana del 5,30%, sono le Regioni a Statuto speciale quelle con la maggior concentrazione di dipendenti pubblici rispetto alla popolazione residente. A guidare la classifica è infatti la Valle d’Aosta con 12.118 dipendenti, pari al 9,50% dei residenti (bambini e anziani inclusi), davanti al Trentino Alto Adige (81.072 pari al 7,68% dei residenti) e al Friuli Venezia Giulia (85.583 dipendenti, pari al 6,96% dei residenti). Segue il Lazio, che sconta l’elevato numero di sedi istituzionali presenti a Roma (403.650 dipendenti pari al 6,85% dei residenti) e un’altra regione a Statuto speciale come la Sardegna (111.791 dipendenti, pari 6,72% dei residenti).

Distanti, invece, le regioni più popolate ed economicamente più sviluppate, che presentano un tasso di dipendenti pubblici nettamente più basso: 4,11% in Lombardia, 4,63% in Veneto, 4,76% in Emilia Romagna e 4,98% in Piemonte. Al di sotto della media nazionale anche la Campania e la Puglia, che si fermano rispettivamente al 5,01% e al 5,05%.

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La classifica cambia piuttosto nettamente se si prende in esame il rapporto tra il numero dei dipendenti pubblici e quello degli occupati. La Valle d’Aosta resta in prima posizione, con il 22,11% (più di 1 su 5). Subito dietro si colloca la Calabria, con il 21,58% degli occupati che vengono retribuiti con denaro pubblico. In cima a questa classifica compaiono tutte le regioni del Mezzogiorno, con un’incidenza dell’impiego pubblico di gran lunga superiore alla media nazionale (14,47%): Sicilia (21,38%), Sardegna (20,40%), Campania (18,83%), Basilicata (18,82%), Molise (18,78%) e Puglia (18,07%). In coda alla classifica: Lombardia (9,70%), Veneto (11,06%) ed Emilia Romagna (11,07%).

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Contrariamente a quello che si potrebbe pensare, in rapporto al numero dei residenti solo la Valle d’Aosta ha una percentuale di dipendenti pubblici superiore a quella di Francia (8,50%) e Regno Unito (8,20%). Mentre la media italiana (5,30%) è più bassa di quella di Spagna (6,30%) e Germania (5,60%), con 11 Regioni italiane che vantano un tasso di presenza dei dipendenti pubblici inferiore alla media tedesca.

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Le cose cambiano, ma solo marginalmente, prendendo in esame il numero di dipendenti pubblici in rapporto al numero degli occupati. In questo caso, le percentuali di Valle d’Aosta, Calabria, Sicilia e Sardegna sono superiori a quella della Francia (20,00%), ma non a quelle di Regno Unito (17,00%) e Spagna (16,00%). Mentre la percentuale di dipendenti pubblici in Italia (14,47%) è superiore soltanto a quella della Germania (11,00%).

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Il necessario cambio di passo della sanità digitale

Il necessario cambio di passo della sanità digitale

di Carla Colicelli* – Sole 24 Ore**

Una recente indagine Censis del 2015 sul tema della digitalizzazione della Pubblica amministrazione ha mostrato che tra coloro che usano internet il 39% si dichiara poco o per nulla in grado di utilizzare i servizi online della Pa, quota che sale al 49% tra gli ultrasettantacinquenni; mentre i servizi online più usati sono quelli legati alla comunicazione e all’informazione, e tra gli utilizzatori dei servizi online circa il 66% ha utilizzato la posta elettronica, il 39,8% ha letto giornali online, oltre il 36% frequenta social network. Quote più basse hanno svolto attività transattive, quali lo svolgimento di operazioni bancarie (24%), l’acquisto di beni e servizi (15,6%, comprese prenotazioni di visite mediche), la gestione di pratiche con gli uffici pubblici (12,7%, comprese richieste di servizi).

Questi ed altri dati certificano un sostanziale gap tra Italia ed altri paesi europei nella diffusione della utilizzazione dei servizi informatici che riguardano la pubblica amministrazione e i suoi servizi, e ciò nonostante la evidente ampia propensione degli italiani ad accogliere di buon favore le innovazioni tecnologiche e le loro applicazioni in altri ambiti. Ugualmente ampi sono, al tempo stesso, i benefici attesi a seguito della diffusione della digitalizzazione della pubblica amministrazione, anche e soprattutto in area sanitaria, in termini di efficienza e qualità. Le motivazioni che stanno alla base delle attese in tema di processo di digitalizzazione in sanità sono sia di natura sociale che di natura economica. Dal punto di vista sociale il valore sta principalmente nella opzione di rendere il cittadino fulcro dei processi di cura, offrendogli strumenti perché riesca ad assumere un ruolo maggiormente attivo nella gestione della propria salute. In questa prospettiva, i cittadini vengono considerati non tanto utenti finali dei servizi digitali quanto veri e propri co-protagonisti della digitalizzazione del sistema. A questo proposito fondamentali sono gli obiettivi della condivisione delle informazioni, della interazione fra pazienti, operatori e strutture, della riduzione dell’errore medico e della gestione delle patologie croniche. Non mancano al tempo stesso, dal punto di vista sociale, importanti criticità legate ad alcune implicazioni sociali e culturali, quali la partecipazione degli utenti al processo, la facilitazione della acquisizione di una avanzata cultura digitale dei servizi ed il contrasto delle forme di divide culturale esistenti e future, che rischiano ed ancora più rischieranno di rendere vani gli sforzi. Da questo punto di vista è evidente che per transitare verso una sanità moderna ed efficiente, alla quale la digitalizzazione può dare un contributo primario, occorre agire sulle carenze informative, sulle lacune tecnologiche ed in particolare informatiche, sulla scarsa considerazione del ruolo che spetta al fattore umano nella relazione terapeutica, e sulla effettiva fruibilità dei canali tecnologici.

Dal punto di vista economico, invece, va innanzitutto sottolineato che ancora troppo poco si è indagato sui risparmi possibili grazie alla utilizzazione della strumentazione informatica in chiave prospettica, per la scelta delle terapie più appropriate, per la personalizzazione delle cure, per l’integrazione dei servizi e per il superamento delle lungaggini burocratiche. E troppo poco si è riflettuto sulla necessità di consolidare gli investimenti rendendoli quanto più possibile fruttuosi.

Proprio per inquadrare nel medio periodo le prospettive della sanità digitale italiana in termini di fabbisogno finanziario e strategico, lo studio prodotto da Censis e Impresalavoro, e presentato al pubblico presso il Censis martedì 5 luglio (Le condizioni per lo sviluppo della Sanità Digitale: scenari Italia-UE a confronto), esamina lo stato dell’arte e gli scenari al 2020, prospettando la necessità di una accelerazione dell’impegno, sia in termini di investimento che in termini di architettura e governance del sistema. In particolare Giuseppe Pennisi, presidente del Board scientifico di Impresalavoro, ha analizzato i dati relativi alla spesa per sanità digitale in Italia ed Europa, gli scenari evolutivi prevedibili ed auspicabili e le implicazioni di policy. La conclusione cui si arriva è che ci sia bisogno di un cambio di passo e di risorse aggiuntive considerevoli, se vorremo contrastare l’allargamento della distanza tra noi ed il resto d’Europa che si è verificato negli ultimi anni. Ma al tempo stesso bisogna essere consapevoli del fatto che l’investimento finanziario non basta, e che bisogna mettere mano anche alla architettura del sistema di offerta e di gestione dei servizi sulla base di un nuovo approccio, che tenga conto dei modelli di valutazione del rischio e della compatibilità strategica generale.

*Advisor scientifico della Fondazione Censis
**Dal Sole 24 Ore del 12 luglio 2016

Olimpiadi 2024 a Roma: serve una (seria) analisi costi-benefici

Olimpiadi 2024 a Roma: serve una (seria) analisi costi-benefici

di Giuseppe Pennisi

Non sta certo a me esprimere un’opinione sul dibattito relativo alle possibili Olimpiadi del 2024 a Roma. Da economista, però, ritengo di avere il dovere etico di ricordare che da decenni si fanno analisi economiche sulla base di solidi numeri per quantizzare costi e ricavi, delineare strategie vincenti, mettere in guardia da tattiche perdenti.

Ad esempio, l’Università di Amburgo ha esaminato (in uno studio pubblicato su Hamburg Contemporary Economic Discussions) 48 candidature nell’arco di tempo tra il 1992 e il 2012 e costruito un modello che tiene conto della logistica, della situazione climatica, e del tasso di disoccupazione. Una conclusione importante è che il parco infrastrutturale, i trasporti pubblici e la nettezza urbana devono essere eccellenti. Questo non il caso di Roma.

Le Olimpiadi, comunque, non sono affatto “un affare” in termini di ricavi finanziari (giustapposti ai costi finanziari) per la città, o le città, che le ospitano. Tre economisti greci hanno condotto una valutazione ex-post delle Olimpiadi di Atene del 2004 (è pubblicata sulla rivista Applied Financial Economics, Vo. 18 n. 19 del 2008); finanziariamente, hanno guadagnato solo gli sponsor, le azioni delle cui imprese hanno avuto una rapida ma breve impennata quando la capitale greca è stata scelta – quindi, un effetto annuncio. Di recente, economisti greci hanno individuato nelle Olimpiadi del 2004 una delle determinanti dell’impennata del debito pubblico greco.

Interessante una dettagliata valutazione dei giochi invernali: i costi superano i benefici, anche senza contabilizzare le spese per le infrastrutture (perché permanenti e non connesse solo all’evento) e quantizzando “l’orgoglio della città e della Provincia” di ospitare le gare. In effetti, stime analitiche dei probabili flussi turistici sono modeste (ed i costi associati al turismo olimpico superano i ricavi) come peraltro già rilevato in occasione di altre Olimpiadi, ad esempio quelle tenute nel 1996 ad Atlanta in Georgia).

Uno dei lavori sugli esiti economici non brillanti delle Olimpiadi di Atlanta è intitolato: “Perché gareggiare per essere sede di Giochi?”. La risposta viene data da due saggi relativi uno alle Olimpiadi di Pechino del 2008 (pubblicato nello Sports Lawyer Journal) e l’altro alla Coppa del Mondo giocata in Germania nel 2006 (CESifo Working Paper No. 2582). I costi per la collettività vengono in questi casi superati, anche di molto, dai benefici per la collettività perché l’evento riguarda l’intera Nazione e contribuisce al “Nation Building”.

Si potrebbe dire che le Olimpiadi di Roma del 1960 contrassegnarono la ripresa dopo una lunga fase di guerre. Dimentichiamo che allora il Pil dell’Italia cresceva del 5-6% l’anno, il debito pubblico era un terzo del debito nazionale e il tasso di disoccupazione si avvicinava al 3% toccato nel 1963. Si dovrebbe anche ricordare che Ferenc Janossy (uno dei maggiori economisti, in un lavoro del 1971 (tradotto in tedesco) giudicò le Olimpiadi del 1960 (e le spese improduttive ad esse connesse) come un segno della fine del miracolo economico.

Ho la mente aperta: la proposta di tenere olimpiadi a Roma nel 2024 dovrebbe essere corredata da un’analisi costi-benefici dinamica secondo il metodo Dixit-Pindyck, insegnato per anni alla Scuola Nazionale d’Amministrazione e di cui tanto il Ministero dell’Economia e Finanza quanto il Ministero dello Sviluppo Economico hanno dimestichezza, al fine di uscire da monologhi alterni e di valutare con un metodo solido che impone analisi anche esse solide.

Università davvero all’italiana

Università davvero all’italiana

di Massimo Blasoni – Metro

Come fanno le Università a finanziare la ricerca se spendono in stipendi quasi tutti i loro fondi? Semplice, non lo fanno. Non stupisce così che i nostri atenei stentino a brillare nelle graduatorie internazionali. Nel Qs World Universities Ranking 2014-2015 l’Università italiana al primo posto è Bologna, piazzata al 182esimo (nel 2010 era la 176esima), seguita dalla Sapienza di Roma al 202esimo posto e dal Politecnico di Milano al 229esimo. Ai primi tre posti troviamo il Mit di Boston, Cambridge in Inghilterra e Harvard sempre negli Stati Uniti. La classifica tiene conto della capacità di produrre cervelli, della didattica, dei costi per gli studenti, delle pubblicazioni accademiche, del livello occupazionale degli studenti, della capacità di internazionalizzazione delle università. Tutti settori in cui non eccelliamo.

Che dire poi della proliferazione – quasi sempre ingiustificata – di mini Facoltà, sedi distaccate e micro corsi, nati talora dall’esigenza politica di accontentare un territorio in cambio di rinnovate alleanze, talora per giustificare questa o quella cattedra spesso ottenuta attraverso la procedura, tutta italica, dell’«idoneità multipla»? Tra il 2000 e il 2006 le Università hanno bandito 13.232 posti per professori. Ne sono usciti 26.004 idonei. Più professori, più corsi, più fondi, più potere. A tutto discapito della qualità dell’offerta. In Italia ci sono decine di corsi di laurea che non arrivano nemmeno a 15 iscritti (qualcuno con un solo studente) e comportano costi elevatissimi e una quantità d’offerta inversamente proporzionale al suo pregio. In Italia esistono più di 20 Facoltà di agraria, in Olanda una sola. Facile pensare che lì sia concentrata l’eccellenza.

L’abolizione del valore legale del titolo di studio, vecchia battaglia di Luigi Einaudi, avrebbe costretto le Università a competere facendo emergere le eccellenze esistenti tanto dei corsi di laurea che della ricerca. Oggi invece una laurea conseguita in una nota Università vale tanto quanto quella ottenuta dall’unico studente iscritto a Camerino. Così i migliori tendono ad andare all’estero, le aziende non assumono chi non ha le abilità richieste e ai laureati tocca adattarsi a lavori che non c’entrano nulla con la loro preparazione.

Economia, lavoro, tv e giornali: Massimo Blasoni e Nicola Porro a Udine

Economia, lavoro, tv e giornali: Massimo Blasoni e Nicola Porro a Udine

Domani, giovedì 7 luglio, a Udine, incontro a Palazzo Kechler per un dibattito tra il Presidente del centro studi ImpresaLavoro, Massimo Blasoni, e il vicedirettore de “Il Giornale”, Nicola Porro. Vittorio Pezzuto intervista gli ospiti su “economia, lavoro, tv e giornali”. Introduce il direttore di ImpresaLavoro, Simone Bressan.

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La sanità digitale cura meglio, ma l’Italia è fanalino di coda

La sanità digitale cura meglio, ma l’Italia è fanalino di coda

di Paolo Viana – Avvenire

Prenotazione delle visite via web, informazione online sulle cure disponibili, trasmissione telematica delle ricette da medico a farmacista. Il digital divide non è un muro invalicabile solo per chi ha una certa età, ma rappresenta un problema per tutta la Sanità italiana: lo attesta il rapporto del Censis e di Impresa Lavoro sulla sanità digitale che e stato presentato ieri a Roma e che ci offre una poco rassicurante immagine della solita Italietta aggrappata alle scartoffie. Certo, tra non  molto, si ridurrà la distanza che ci separa dai Paesi dell’Ue che investono di più in questo campo ma solo perché il Regno Unito, con il suo 4% (contro il nostro 1,2%) uscirà dalle statistiche comunitarie. Al contrario, investire nell’eHealth significa «rendere il cittadino fulcro dei processi di cura, offrendogli strumenti perché riesca a  sumere un ruolo maggiormente attivo nella gestione della propria salute»: non siamo ancora alla centralità della persona che soffre, ma siamo già oltre l’approccio ragionieristico che usa falcidiare – indiscriminatamente – sprechi e diritti.

Siamo, però, ancora e solo ai buoni propositi: la realtà è invece quella che viene radiografata da questo rapporto, che vede la sanità italiana «ben al di sotto della media Ue» sia nella ricerca di informazioni online sui temi della salute da parte di cittadini (27° su 28 Paesi Ue + Islanda e Norvegia), sia nella prenotazione di visite mediche via web (12°, con il 10% contro il 36% della Spagna), sia nella percentuale di medici di famiglia che inviano attraverso la rete le prescrizioni ai farmacisti (17° con il 9% contro il 100% della Danimarca e il 99% della Croazia), sia, infine, nella condivisione delle informazioni tra medici e altri professionisti sanitari (su questo fronte siamo 14°). Se continueremo così, nel 2020 l’eHealth assorbirà solo l’1,36% del budget sanitario: si può raggiungere il 2% – limite più basso della media dei Paesi europei – solo investendo duemila milioni più di oggi, mentre per staccare il gruppo di coda l’investimento aggiuntivo dovrebbe superare i cinquemila; solo portandolo a 7.767 milioni, quindi con una spesa destinata alla sanità digitale di 15.243 milioni contro i 1.385 di oggi il ritardo sarebbe davvero colmato.

Censis e ImpresaLavoro sottolineano che un cambio di policy garantirebbe tra l’altro la riduzione delle prescrizioni e delle prestazioni non necessarie, una razionalizzazione delle spese e un miglioramento della stessa attività diagnostico-terapeutica: il Fascicolo Sanitario Elettronico e la Telemedicina permetterebbero di ottimizzare l’erogazione dei servizi e anche gli errori medici sarebbero meno frequenti. Si prevede anche un miglioramento nella gestione delle patologie croniche. Peraltro questo cambio di passo non può essere solo finanziario o infrastrutturale: secondo il rapporto, il vero “nodo” che strangola il sistema sanitario italiano è organizzativo e di governance – «la Sanità Digitale ha bisogno di svilupparsi ad un passo che la burocrazia non regge», scrivono Censis e ImpresaLavoro, spingendo implicitamente verso una rinazionalizzazione del sistema della salute – oltre che culturale, poiché non vi è investimento, si ammette, che non sia a rischio se non si riuscirà a garantire una vera partecipazione degli utenti al processo. E si torna al “solito” digital divide.

Dopo la Brexit e verso la Legge di Bilancio: quale Spending Review?

Dopo la Brexit e verso la Legge di Bilancio: quale Spending Review?

L’Associazione BuonaCultura e il Centro Studi ImpresaLavoro invitano al Convegno

DOPO LA BREXIT E VERSO LA LEGGE DI BILANCIO: QUALE SPENDING REVIEW?

Sulle linee del libro di Giuseppe Pennisi e Stefano Maiolo
La Buona spesa – Dalle opere pubbliche alla spending review

Giovedì 14 luglio 2016 – ore 18:00
CHORUS CAFE’ – Auditorium Conciliazione
Via della Conciliazione, 4 – ROMA

Introducono
Valerio Toniolo, Presidente Associazione Buonacultura
Simone Bressan, Direttore Centro Studi ImpresaLavoro

Intervengono
Giuseppe De Rita, Presidente Fondazione Censis
Michel Del Buono, Banca Mondiale, Nazioni Unite
Vincenzo Russo, Università di Roma La Sapienza
Salvatore Zecchini, Presidente Comitato Ocse Pmi

Concludono
Giuseppe Pennisi, Cnel, ImpresaLavoro
Stefano Maiolo, Nucleo di Valutazione Regione Lazio

R.S.V.P.
info.buonacultura@gmail.com
info@impresalavoro.org

“La politica italiana per l’innovazione”: il libro di Salvatore Zecchini edito da ImpresaLavoro

“La politica italiana per l’innovazione”: il libro di Salvatore Zecchini edito da ImpresaLavoro

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IL LIBRO

Malgrado i numerosi sostegni introdotti, negli ultimi anni, dai Governi italiani per accrescere ricerca ed innovazione, il nostro Paese non è riuscito a ridurre il divario che lo separa dalle economie più innovative dell’Unione Europea. Al tempo stesso, l’attività di innovazione, particolarmente tra le piccole e medie imprese, non è riuscita a svolgere quella funzione di motore dello sviluppo economico che si auspicava sia negli anni della recessione economica, sia negli anni pre-crisi.  Nasce da queste considerazioni lo spunto che ha spinto Salvatore Zecchini – già Direttore del Servizio Studi della Banca d’Italia, Executive Director del Fondo Monetario Internazionale e Vice Segretario Generale dell’Ocse – a esaminare l’insieme degli interventi messi in atto dai Governi italiani, confrontandoli, da un lato con la realtà del fare innovazione in Italia, e dall’altro lato con le politiche e strategie disegnate ed attuate dai Paesi di maggior successo nella ricerca ed innovazione.

“La politica italiana per l’innovazione. Criticità e confronti”, disponibile su Amazon in versione cartacea e digitale e arricchito da un Poscritto di Giuseppe Pennisi (Presidente del board scientifico di ImpresaLavoro) sulla strategia di politica industriale in Italia e nei maggiori Paesi europei, è stato pubblicato nella collana “Biblioteca di ImpresaLavoro” curata dal centro studi presieduto da Massimo Blasoni e diretto da Simone Bressan. Si tratta di un lavoro essenziale per individuare le pecche nel sistema italiano provare a correggerle, traendo indicazioni da misure attuate all’estero e riadattabili al nostro caso.

Il lavoro condensa in una visione d’insieme una miriade di misure e strumenti che sono stati impiegati da diversi ministeri ed autorità sul territorio italiano, e disseminati in innumerevoli provvedimenti ad iniziare dagli ultimi anni del primo decennio. Nelle conclusioni, infine, si formula un insieme di proposte per il miglioramento della politica italiana sul tema, auspicando un maggiore coordinamento  tra le diverse componenti del Governo nella programmazione di obiettivi e strumenti, in congiunzione con l’incremento della quota di PIL destinata a R&I. L’aumento delle risorse non sarebbe però sufficiente  senza un profondo cambiamento della cultura sociale in tutte le sue articolazioni per renderla ben disposta al cambiamento, all’innovazione e alla competizione.

L’AUTORE

Salvatore Zecchini. Completati gli studi di economia presso le università Columbia University (MBA) e Wharton School of Finance, Department of Economics (PhD program), ha lavorato come economista presso il Servizio studi della Banca d’Italia, fino a divenirne uno dei Direttori. Ha partecipato ai lavori del Comitato Monetario e del Comitato di Politica Economica della CEE, collaborando in particolare alla costruzione tecnica del Sistema Monetario Europeo. Nominato Executive Director del Fondo Monetario Internazionale, si è occupato della crisi debitoria internazionale e della riforma della sorveglianza multilaterale. È stato successivamente all’OCSE, divenendo direttore del programma di assistenza di politica economica ai paesi post-comunisti e Vice Segretario Generale. Quindi Consigliere economico del Ministro del Tesoro-Bilancio, consulente del Ministro delle Attività Produttive e del Ministro dello Sviluppo Economico, presidente del GME e dell’Istituto per la Politica Industriale. Presidente del OECD Working Party on SME and Entrepreneurship e del suo Steering Group on SME finance. Docente all’Università di Roma Tor Vergata ed autore di saggi, libri ed editoriali nella stampa.

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Per ulteriori informazioni è possibile contattare la Sede di Roma del Centro Studi ImpresaLavoro:
Via dei Prefetti, 30 – tel. 06 62280527 – info@impresalavoro.org

Donne, management e mercato del lavoro

Donne, management e mercato del lavoro

di Giuseppe Pennisi

Nonostante la loro elevata qualità, i paper del Dipartimento del Tesoro (Direzione Generale Analisi Economica) del Ministero dell’Economia e delle Finanze sono relativamente poco conosciuti, rispetto, ad esempio, il vero e proprio fiume in piena dei lavori del servizio studi della Banca d’Italia. Sono utili anche in quanto rappresentano un input alla politica economica. Per riceverli, basta iscriversi al mail dt.research@tesoro.it  da dove vengono inviati con cadenza mensile.

Non trattano solo di argomenti di finanza pubblica e simili, ma anche temi di più vario rilievo di politica economica. Ne abbiamo scelti due che riguardano il tema di donne in posizioni manageriali in Italia oggi – materia sempre incandescente e dove analisi asettiche sono particolarmente utili.

Uno dei due riguarda la discriminazione vera od apparente di donne manager. Il titolo è eloquente: “Are women in supervisory positions more discriminated against? A multinomial approach”. Ne sono autori Marco Biagetti e Sergio Scicchitano, i quali utilizzano un approccio a due stadi. In un primo stadio esaminano se differenze di genere incidono su stipendi e carriere di lavoratrici in posizioni non dirigenziali. In un secolo quello di donne a vari livelli di management. È un’analisi statistica empirica tramite una procedura statistica raffinata. Le conclusioni possono sorprendere: ai livelli non dirigenziali le differenze salariali e i segni visibili di discriminazioni aumentano con il passare degli anni (se non sono promosse a gradi direzionali). Diminuiscono invece se riescono a diventare dirigenti. Tuttavia, c’è un processo di “selezione negativa” che rende molto difficile salire il gradino.

L’altro lavoro, sempre di Sergio Scicchitano (“Exploring the gender wage gap in the managerial labour market: a counterfactual decomposition analysis”), evidenzia invece, sulla base di una ricca documentazione statistica, come il divario di genere, persista ai livelli manageriali, principalmente in termini di retribuzioni, ed abbia la forma di una U, ossia solo poche donne, una volta entrate nei gradi manageriali, riescono a raggiungere le vette retributive. La gran parte resta nella palude.