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Le condizioni per lo sviluppo della Sanità Digitale: scenari Italia-UE a confronto

Le condizioni per lo sviluppo della Sanità Digitale: scenari Italia-UE a confronto

Nella prospettiva della Strategia Europa 2020 il processo di digitalizzazione della sanità italiana appare ancora in ritardo rispetto alla maggioranza dei Paesi UE sulla base degli indicatori disponibili. Le performance insufficienti rispecchiano il basso livello di spesa eHealth dell’Italia, pari nel 2015 all’1,2% della spesa sanitaria pubblica, rispetto alla media UE compresa fra il 2 e il 3%, con punte vicine al 4%.

Per inquadrare nel medio periodo le prospettive della Sanità Digitale italiana in termini di fabbisogno finanziario, lo studio esamina tre scenari al 2020 della spesa. Il primo scenario di tipo più conservativo ipotizza il raggiungimento a fine periodo di un target del 2% di spesa eHealth su spesa sanitaria pubblica. Il secondo scenario ipotizza un target intermedio pari al 3%. Il terzo scenario prende in esame un target più espansivo del 4%, come indicazione di un deciso salto di qualità dell’impegno pubblico nel settore.

I risultati dell’analisi mostrano che il Servizio Sanitario Nazionale debba realizzare nei prossimi anni un deciso cambio di passo nelle risorse finanziarie da investire in Sanità Digitale, per stare al passo con i Paesi europei più avanzati in questo settore. I tre scenari considerati indicano che l’accelerazione dell’impegno finanziario al 2020 richieda risorse aggiuntive per la Sanità Digitale comprese in un range fra 2 e 7,8 miliardi di Euro, rispetto al fabbisogno tendenziale di 7,5 miliardi, per arrivare ad un impegno complessivo stimato fra 9,5 e 15,2 miliardi di Euro.

Senza questo cambio di policy, il Servizio Sanitario Nazionale non potrà valersi pienamente dei benefici attesi dai servizi e dagli strumenti di Sanità Digitale, che – attraverso una più evoluta condivisione delle informazioni e una più avanzata interazione fra pazienti, medici, operatori e strutture sanitarie – consentono un guadagno di efficienza, un’ottimizzazione nell’erogazione dei servizi, una riduzione dell’errore medico, un incremento della sicurezza del paziente, un miglioramento della gestione delle patologie croniche.

Peraltro la questione degli investimenti è un fattore necessario ma non sufficiente per lo sviluppo della Sanità Digitale e per il conseguimento dei benefici connessi. Occorre affrontare contestualmente il tema del ridisegno complessivo del sistema salute, quello del digital divide, quello della costruzione di una governance nazionale dell’innovazione e di una strategia architetturale complessiva, quello della definizione di una chiara politica della sicurezza e della privacy. Mentre resta ancora aperta a livello internazionale la questione di una corretta misurazione e valutazione dei benefici e dei ritorni dell’investimento in Sanità Digitale.

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Indice della Libertà Fiscale 2016: in vendita su Amazon

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indice_web_copNel 2015 il Centro studi ImpresaLavoro, avvalendosi della collaborazione di ricercatori e studiosi di dieci diversi Paesi europei, ha elaborato il primo Indice della Libertà Fiscale. Un lavoro, questo, che si proponeva di monitorare la “questione fiscale” in Europa muovendo dall’assunto che la crisi che sta conoscendo il Vecchio Continente è difficilmente comprensibile senza una riflessione seria sul peso che lo Stato ha assunto nella vita dei cittadini e su quanto il prelievo pubblico sulla ricchezza prodotta rischi di essere il vero tratto che distingue la Vecchia Europa da blocchi di paesi decisamente più dinamici e competitivi del nostro. Nella versione 2016 dell’Indice della Libertà Fiscale, si è scelto di allargare il numero dei paesi esaminati, passando dai dieci ritenuti rappresentativi del 2015 ai 29 di quest’anno. L’analisi di un numero così ampio di economie permette, rispetto a quanto fatto nel 2015, di allargare lo sguardo e di monitorare efficacemente la questione fiscale in pressoché tutti i paesi che compongono il continente geografico europeo. Non solo: emergono in questo modo anche le differenze tra chi sta dentro il sistema dell’Unione Europea e chi sta fuori, tra i paesi che hanno adottato l’Euro e quelli che, invece, hanno scelto di mantenere la propria autonomia monetaria.

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Verso la Legge di Bilancio

Verso la Legge di Bilancio

di Giuseppe Pennisi – Formiche

Quest’anno la Legge di stabilità, che ha sostituito la quella finanziaria ma ha avuto vita relativamente breve, sparisce e viene assorbita dalle Leggi di bilancio. Un ottimo fascicolo tecnico predisposto dai servizi di bilancio della Camera e del Senato illustra gli aspetti tecnico-contabili del cambiamento. Da un lato, il cambiamento amplia la flessibilità del bilancio in fase sia di formazione sia di esecuzione dello stesso. In particolare, introducendo la tassonomia delle spese rimodulabili e non rimodulabili, prevede per le prime la possibilità di variazione degli stanziamenti, nell’ambito di limiti relativi alla natura economica della spesa e all’invarianza complessiva dei saldi. Dall’altro, rende più rigorosa l’applicazione di serie coperture delle spese proposte nel documento.

Come tutti i cambiamenti, anche questo comporta l’approfondimento e l’apprendimento di nuove procedure. Se – come ogni anno – il negoziato tra le parti politiche (e con le forze sociali) sui contenuti del bilancio inizia in giugno, entra nel vivo in luglio e, dopo una pausa in agosto, diventa frenetico in settembre, quest’anno, nella premessa della trattativa, c’è il risultato delle elezioni amministrative e, nella prospettiva a breve termine, c’è il referendum sulla riforma istituzionale, in cui il presidente del Consiglio è impegnato in prima persona. Lasciamo da parte l’esito delle elezioni amministrative (già commentato ampiamente) e soffermiamoci sulle date essenziali. Il disegno di legge di bilancio deve essere varato dal Consiglio dei ministri entro il 30 settembre e presentato alle Camere. In occasione delle celebrazioni dei settant’anni dalla nascita della Repubblica, il presidente del Consiglio Matteo Renzi ha anticipato che il referendum si terrà il 2 ottobre, san Francesco Patrono d’Italia.

L’accavallarsi (quasi) di disegno di Legge di bilancio e di una riforma istituzionale su cui il governo ha impegnato il proprio futuro ha implicazioni che meritano delle riflessioni. Da un canto, il disegno di Legge di bilancio è l’occasione – forse la sola – per il governo di accontentare aspettative, anche le più legittime, di un elettorato sempre più anziano e di far prospettare che ciò avverrà tramite emendamenti – supportati dall’esecutivo – durante l’iter parlamentare. Da un altro, il maggior rigore nella copertura delle spese (e la situazione di finanza pubblica e del debito pubblico del Paese) rendono tutto ciò più difficile che nel passato. Inoltre, in un contesto in cui la crescita economica non prende vigore e la disoccupazione non flette, scontentare le attese che l’elettorato ritiene legittime può avere effetti molto significativi quando gli stessi elettori andranno a votare a un referendum che ha comunque assunto colori plebiscitari. Non è un caso che in giugno siano state riprese trattative sul riassetto delle pensioni e si è ventilato un programma di rilancio delle infrastrutture tale da includere pure il ponte sullo stretto di Messina. Due temi a cui parti differenti – e anche divergenti – dell’elettorato sono molto sensibili.

L’anno scorso la Legge di stabilità è stata presentata all’insegna di una forte richiesta di flessibilità alle autorità europee. Questo sarà molto più difficile. Tra l’altro, lo spiega bene il lavoro di Paul De Grauwe e Yuemei Ji Flexibility versus stability: a difficult trade-off in the eurozone (Ceps working paper No 422, 2016), non solo per quanto detto a maggio dalla Commissione europea, ma perché la flessibilità di un Paese altamente indebitato rischia di mettere a repentaglio l’intera costruzione dell’area dell’euro. Parimenti, in una fase in cui pare si scivoli in recessione, un rilancio degli investimenti pubblici è senza dubbio necessario, purché vengano scrutate con attenzione le priorità relative, come ribadito nel recente documento della Banca mondiale (No 7674) Priorítizing infrastructure investment. A framework for government decision making.

Taci, il capo ti ascolta. Sorvegliati speciali in ufficio

Taci, il capo ti ascolta. Sorvegliati speciali in ufficio

di Matteo Basile – Il Giornale

Taci, il capo ti ascolta. O almeno potrebbe. E potrebbe fare pure di peggio. Spiare, controllare, intromettersi. Tenerti sotto controllo. Avere un accesso diretto alla tua casella di posta elettronica, al tuo smartphone ma anche monitorare la tua produttività e addirittura avere un quadro preciso del tuo stile di vita e delle tue abitudini. Potrebbe, almeno in teoria e, chissà, forse in un futuro prossimo potrà farlo davvero. Perché la tecnologia unita alla volontà delle aziende di aumentare la produttività in periodo di crisi economica potrebbe portare a questo e altro.

Negli ultimi anni in tema di spioni aziendali è successo un po’ di tutto, per nostra fortuna soprattutto all’estero. Emblematico il caso di una segretaria negli Stati Uniti, licenziata perché in una mail indirizzata ad un’amica aveva scritto «Il mio capo è un idiota». E lui, il capo, che controllava la corrispondenza, non l’ha presa bene. Ma se in America le leggi possono consentire episodi di questo tipo, anche in Europa, dove la legislazione è più stringente in tema di spionaggio aziendale, episodi analoghi non sono del tutto assenti. A Londra, pochi mesi fa, i giornalisti del Daily Telegraph hanno trovato sotto le loro scrivanie una scatoletta con scritto «OccupEye». È bastata una ricerca sul web per scoprire che quelle scatolette misteriose contenevano sensori di movimento e temperatura capaci di rivelare ai datori di lavoro se una scrivania era occupata o meno. Niente altro che una spia in grado di monitorare quanto e come i dipendenti stavano alla loro postazione. Sollevazione generale inevitabile, proteste durissime, scuse dell’azienda e provvedimento ritirato. Ma la convinzione che sì, un giorno, l’eccezione potrebbe anche diventare norma. E potrebbe pure essere peggiore. Succede già oggi infatti che molti minatori e camionisti australiani indossino il cappellino «SmartCap» che, attraverso sensori simili a quelli necessari per effettuare un elettroencefalogramma, verifica che i lavoratori siano svegli e reattivi. Tornando al Regno Unito, i magazzinieri dei supermercati della catena «Tesco» indossano un braccialetto che traccia i loro spostamenti e la percentuale di lavoro svolto: benefit se si finisce in anticipo il proprio compito, penalità se si va in pausa senza preavviso. Ma il top si è raggiunto in Messico dove la «InterMex» ha obbligato i dipendenti a scaricare un’applicazione che tramite gps comunica in tempo reale ai vertici dell’azienda tutti gli spostamenti e i movimenti dei dipendenti. Una sorta di braccialetto elettronico come quelli installati ai carcerati in regime di semilibertà, tanto che un’impiegata ha denunciato l’azienda. E ha pure vinto. Troppo, senz’altro. Ma sarà questo il futuro che ci aspetta sul posto di lavoro?

Forse, ma non ora. Perché in Italia la legislazione parla chiaro e non consente nulla di simile. Anche se il Jobs Act ha leggermente allargato le maglie dei controlli sui lavoratori da parte dei propri capi. «Si è modificata le norma del 1970, quando esistevano solo telecamere e registratori ma non c’erano computer, posta elettronica e smartphone», spiega l’avvocato Aldo Bottini, presidente dell’Associazione nazionale avvocati giuslavoristi e tra i massimi esperti del settore. Alcune cose si possono fare ma con limiti e confini ben precisi. «Con le nuove norme si mantiene il principio per cui non si possono installare strumenti tecnologici di monitoraggio con l’unica finalità del controllo dell’attività lavorativa – spiega il legale -. Per installare strumenti tipo telecamere serve ancora un accordo sindacale o l’autorizzazione amministrativa. La novità è che il principio non si applica agli strumenti di lavoro come pc e smartphone che non sono assoggettati all’autorizzazione. Di fatto attraverso questi strumenti si può legittimamente controllare l’attività del lavoratore a patto che lo stesso venga informato della possibilità in maniera chiara e completa. È lo stesso principio che vige in tutta Europa. L’unica novità è che le aziende dovranno dotarsi di un’adeguata policy per l’utilizzo il controllo, il funzionamento e le eventuali conseguenze nell’abuso di tutti questi strumenti».

Il problema dunque, alla fine rischia di ricadere sulle aziende, costrette a districarsi tra norme e cavilli burocratici che complicano non poco la vita. «La legislazione italiana è un incubo, il numero di norme è elevatissimo e spesso in aperta contraddizione», attacca Massimo Blasoni, imprenditore e presidente del centro studi «ImpresaLavoro». «Accanto alle sacrosante norme per la tutela della privacy ne servirebbero anche altre a tutela della produttività e di chi fa impresa». Un altro problema per le aziende sono i furbetti del certificato medico, quelli che cioè tendono a darsi malati con eccessiva leggerezza se non con cadenza regolare. «Ci sono pessime abitudine da parte di alcuni medici un po’ troppo benevoli nel fornire certificati – spiega Blasoni -. Le verifiche sono assolutamente labili e chiedere un intervento è pressoché inutile. Questo finisce per essere un ulteriore gravame per chi deve districarsi quotidianamente tra tasse, cavilli e burocrazia. Spesso si è arrivati a contese con dipendenti indifendibili che grazie all’intervento dei sindacati e a sentenze sconcertanti sono riusciti ad essere reintegrati».

Già, i sindacati. Organo a tutela del lavoratore sfruttato o maltrattato oppure ultima spiaggia per chi fa il furbo ma sa che in un modo o nell’altro, alla fine, avrà le spalle coperte? «Non scherziamo, chi commette una truffa non solo è indifendibile ma da attaccare – racconta Guglielmo Loi, della segreteria nazionale della Uil -. L’importante è agire sempre nell’ambito delle regole, dall’ultimo impiegato fino al massimo dirigente. Deve essere chiaro quali sono i limiti e quali i doveri. Un lavoratore deve essere informato con precisione quando entra in possesso di un’apparecchiatura aziendale». Anche perché il controllo sul dipendente, alla fine, può rivelarsi un’arma a doppio taglio. «Capita spesso che il telefono aziendale resti acceso ed operativo per motivi di servizio ben oltre l’orario di lavoro. In caso di controllo eccessivo un dipendente potrebbe decidere di rendersi irreperibile finito il suo orario e, a quel punto, nessuno potrebbe lamentarsi».

Alla fine, come spesso accade, a far la differenza è il buonsenso. Ma nel dubbio è sempre meglio comportarsi secondo le regole. Perché il Grande Fratello è tra noi e, forse, guarda proprio noi. Anche sul posto di lavoro.

Tasse: tagliare sì. Ma quali?

Tasse: tagliare sì. Ma quali?

di Massimo Blasoni – Metro

Che in Italia vada ridotto il carico fiscale son tutti d’accordo. Il problema è capire quali tasse tagliare e in che misura. L’ultima legge di Stabilità prevede ad esempio che l’aliquota dell’imposta sul reddito delle società (Ires) passi l’anno prossimo dal 27,5% al 24,5%. A leggere alcune dichiarazioni del governo tale norma potrebbe però essere modificata. Insomma, l’aliquota attuale non si toccherebbe per agire sull’Irpef o contribuire a scongiurare l’aumento dell’IVA previsto dalle clausole di salvaguardia. Anche questi sono obbiettivi sacrosanti ma sarebbe un errore non continuare l’azione a favore delle imprese che è stata avviata con la riduzione dell’Irap sul lavoro.

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Banda larga: neostatalismo largo e uso largo di denaro pubblico?

Banda larga: neostatalismo largo e uso largo di denaro pubblico?

7 luglio 2016 – ore 10/13  Camera dei Deputati – Sala del Mappamondo
(ingresso da Piazza del Parlamento 24)

Introducono e coordinano i parlamentari:
Massimo Corsaro e Daniele Capezzone

Intervengono:
– Raffaele Barberio, direttore Key4biz
– Lorenzo Castellani, direttore scientifico Fondazione Einaudi
– Franco Debenedetti, presidente Istituto Bruno Leoni
– Luigi Gabriele, associazione consumatori Codici
– Pietro Paganini, direttore generale Fondazione Einaudi
– Giuseppe Pennisi, economista, presidente Board scientifico ImpresaLavoro
– Massimiliano Trovato, Istituto Bruno Leoni
– Francesco Vatalaro, Università di Roma Tor Vergata, docente di telecomunicazioni

Per partecipare è necessario accreditarsi scrivendo a d.capezzone@gmail.com

Sanità digitale: presentazione dello studio Censis-ImpresaLavoro

Sanità digitale: presentazione dello studio Censis-ImpresaLavoro

LE CONDIZIONI PER LO SVILUPPO DELLA SANITÀ DIGITALE: SCENARI ITALIA-UE A CONFRONTO

Martedì 5 luglio – ore 10.30 Censis – Piazza di Novella, 2 – Roma

Apertura e introduzione:
Giorgio De Rita – Segretario Generale Censis
Massimo Blasoni – Presidente Centro Studi ImpresaLavoro

Presentazione dello studio Censis-ImpresaLavoro:
Carla Collicelli – Advisor Scientifico Censis
Giuseppe Pennisi – Presidente Board Scientifico ImpresaLavoro

Tavola rotonda
Introduce e modera Giuseppe Greco – Segretario Generale Isimm Ricerche

Intervengono:
Tonino Aceti – Coordinatore Tribunale per i Diritti del Malato
Luigi Boggio – Presidente Assobiomedica
Massimo Casciello – Direttore Generale Digitalizzazione Ministero della Salute
Giacomo Milillo – Segretario Generale Fimmg

Conclusioni:
Federico Gelli – Commissione Affari Sociali Camera dei Deputati

I benefici attesi dalla sanità digitale in termini di efficienza e qualità sono evidenti, dalla condivisione delle informazioni, alla interazione fra pazienti, operatori e strutture, alla riduzione dell’errore medico, alla gestione delle patologie croniche. Per inquadrare nel medio periodo le prospettive della sanità digitale italiana in termini di fabbisogno finanziario, lo studio esamina lo stato dell’arte e gli scenari futuri al 2020, prospettando la necessità di una accelerazione dell’impegno, sia in termini di investimento che in termini di architettura e governance del sistema.

Si diventa più liberi nella scuola pubblica o in quella privata?

Si diventa più liberi nella scuola pubblica o in quella privata?

E’ una domanda fondamentale raramente posta in Italia dove, per motivi storici, le scuole private sono state per decenni essenzialmente scuole cattoliche e quelle pubbliche, invece, scuole laiche che avrebbero dovuto iniettare negli studenti i valori prima del Regno e poi della Repubblica. Sempre per ragioni storiche, la libertà non era tra i valori che avessero grande priorità né nelle scuole private né in quelle pubbliche.

Interessante vedere come alla domanda rispondono M. Danish Shakeel e Corey A. De Angeliis nel EDRE Working Paper No. 2016-9. Insegnano e conducono ricerche alla University of Arkansas, dove diversi decenni orsono ha preso avvio il movimento dei diritti civili di cui la libertà è valore essenziale. Il saggio è intitolato Who is more free? A Comparison of the Decision Making of Private and Public School Principals (Chi è più libero un confronto del metodo decisionale dei presidi delle scuole pubbliche e private).

La letteratura economica e pedagogica sulla scuola pone l’accento sui risultati degli studenti in termini di apprendimento specialmente nelle discipline matematiche e scientifiche (quelle che meglio si adattano ai confronti internazionali, come quelli pubblicati periodicamente dall’Ocse). Il metodo utilizzato è differente poiché l’accento è sui valori,segnatamente sulla libertà.

L’analisi si basa sulla School and Staffing Survey SASS (del 2011 e del 2012) e riguarda in particolare la capacità dei presidi ad incidere su decisioni importanti delle scuole a loro affidate. Sotto il profilo tecnico, tramite una serie di regressioni statistiche per studiare le differenze (su sette temi principali) in cui i presidi di scuole pubbliche e private prendono decisioni. Vengono utilizzati due modelli: uno che tiene conto del background e della caratteristiche dei presidi ed uno che invece non ne tiene conto. La conclusione è che i presidi delle scuole private hanno una maggiore sfera di azione nelle principali aree di attività. E quindi riescono meglio dei presidi delle scuole pubbliche ad inculcare principi di libertà negli allievi.

Porti, aeroporti, logistica: un mercato su cui scommettere

Porti, aeroporti, logistica: un mercato su cui scommettere

di Mino Giachino*

Il Paese dopo quasi cinque anni di riforme o pseudo riforme annunciate, approvate è ancora a metà del guado, cresce ancora troppo poco, la metà della media europea. Gli effetti della forte disoccupazione e del calo del business si son visti chiaramente nell’esito delle recenti elezioni amministrative. La domanda di trasporto ad esempio è ancora inferiore a quella del 2011.

Dopo il Brexit occorre cambiare la politica europea della Austerity che anche l’Italia aveva accettato chiamando MONTI. A cinque anni ci troviamo con una bassa crescita, con l’aumento della disoccupazione, con l’aumento del Debito pubblico di 300 miliardi e dopo aver perso tante aziende importanti e aver visto la chiusura di tantissime piccole e medie aziende, senza aver conquistato un etto di competitività in più. Occorre fare molto di più e meglio e occorre fare altro. Se è vera la previsione del prof. Prodi che in futuro sarà difficile attendersi di più dalle esportazioni occorre dedicarsi ai settori dove le potenzialità dell’Italia sono enormi come la logistica e i trasporti.

La logistica che per il nostro Paese vale più del 10% del PIL può dare molto di più sia dal punto di vista della crescita economica e occupazionale sia dal punto di vista della competitività e attrattività del nostro sistema produttivo. Potenziare i nostri porti e aeroporti e investire nella realizzazione delle reti ferroviarie europee rappresentano un interesse strategico e nazionale. L’Italia infatti è l’unico Paese europeo che perde traffici merci a Lei diretti. Quasi un milione di Containers diretti alla Pianura padana arrivano infatti ai porti del Nord Europa e lasciano là tasse portuali, Iva e lavoro logistico per circa 4 miliardi. Quasi la metà della merce spedita via aerea italiana parte da Francoforte. Nel nostro Paese la inefficienza logistica dovuta alla carenza di infrastrutture e ad una organizzazione logistica non competitiva incide sul costo di produzione dei nostri prodotti dal 10 al 20% in più. Eppure il nostro Paese gode di una posizione privilegiata sia per i traffici da e verso l’Africa, da e verso il Medio Oriente, da e verso l’Estremo Oriente. Eppure il nostro Paese dispone di gruppi logistici integrati mare-terra e di terminalisti di livello europeo. Il Ministro Delrio è nelle condizioni attraverso la attuazione del Piano dei porti e delle logistica di mettere in moto investimenti infrastrutturali decisivi come ad esempio la nuova diga foranea al porto di Genova e il collegamento ferroviario tra i nostri porti del Nord Tirreno e del Nord Adriatico con il mercato europeo.

Così come superare rapidamente il regime commissariale che tocca la maggioranza dei nostri porti è un’altra condizione a costo zero come la attuazione del regolamento delle concessioni per mettere in moto importanti investimenti privati pluriennali nei nostri terminal. La ripresa del mare bonus e del ferrobonus due esperienze importanti che gestimmo per primi al Governo sono una grande opportunità. Andrebbe ripresa la indicazione cui avevo lavorato della vendita franco destino perché purtroppo la domanda di trasporto complessiva nel nostro Paese è’ ancora inferiore al 2011. Così come andrebbero accelerate la riforma degli interporti e ampliati i collegamenti ferroviari tra i porti liguri, la Pianura Padana e il mercato europeo. Mi auguro che il Convegno dei Propeller a Napoli Venerdì prossimo dia un contributo positivo.

*ex Sottosegretario ai Trasporti, presidente di Saimare Spa

L’ignoranza politica e la Brexit

L’ignoranza politica e la Brexit

di Pietro Masci*

Il Regno Unito con il referendum del 23 giugno ha scelto di uscire dall’Unione Europea (UE). Una scelta democratica espressa dal 52% dei votanti con una partecipazione al voto pari al 72% degli aventi diritto al voto.
Il Regno Unito era entrato nell’Unione Europea nel 1972. Nel 1975, gli inglesi indissero un referendum popolare per l’entrata nell’UE, dove il 67% fu a favore con una partecipazione al voto pari al 65%. Dopo oltre 40 anni, gli elettori inglesi hanno cambiato idea. L’instabilità è una prerogativa democratica e merita grande rispetto.
Vale la pena sottolineare che il Regno Unito, dal momento in cui saranno concluse le procedure di ritiro sarà un paese terzo all’Unione Europea.

Cerchiamo di evidenziare gli aspetti principali di questa complessa vicenda: la tradizione inglese dei rapporti con l’Europa; la diffusione nel mondo dell’ignoranza politica, vale a dire la situazione di un pubblico disinformato che costituisce il tema conduttore di questo articolo; le implicazioni per il Regno Unito, e per gli Stati Uniti; quelle per l’Europa e per l’Italia.

Sotto il profilo storico, la partecipazione inglese al progetto europeo, pur promovendo liberismo economico e riduzione del ruolo dello Stato, è stata sempre abbastanza ambigua con numerose eccezioni che hanno indebolito la coesione europea.
Un pilastro della politica estera inglese nel corso dei secoli è stato sempre quello di interessarsi principalmente delle colonie e del commercio internazionale e disinteressarsi delle vicende europee. L’attenzione inglese si è rivolta all’Europa continentale quando nel continente si è manifestata la minaccia di una potenza egemone – Spagna nel XVI secolo, la Francia di Napoleone, la Germania di Hitler- che potesse compromettere gli interessi commerciali globali del Regno Unito. Queste considerazioni storiche riecheggiano nelle affermazioni dei promotori dell’uscita dall’Unione Europea – Farage e Johnson – che sostengono che il Regno Unito ha riconquistato la propria indipendenza e il paese potrà ora esercitare il ruolo mondiale che le compete.

Per quanto riguarda il tema dell’ignoranza politica, recentemente, negli Stati Uniti, è uscito un libro – Democracy and Political Ignorance: Why Smaller Government Is Smarter – che puntualizza il tema dell’ignoranza politica (e direi non solo) negli Stati Uniti e che si applica analogamente ad altri paesi. L’autore – Ilya Somin – studia il collegamento tra l’ignoranza politica e l’influenza sproporzionata dei gruppi di potere, e rivela un grave pericolo per la democrazia.
A proposito di questo libro, nella sua seconda edizione (la prima edizione è stata pubblicata anche in italiano), vi sono molte considerazioni che vanno anche al di là di questo articolo. Tali considerazioni riguardano l’emergere – a livello mondiale – di una classe politica impreparata e senza etica, ideali e scrupoli, ostaggio di grandi interessi economici e finanziari che attraverso le moderne tecniche di propaganda riescono a promuovere i propri interessi. D’altra parte, l’elettorato – sopratutto quello meno sofisticato – si sente trascurato, vede minacce economiche, di sicurezza, terrorismo, immigrazione dai quali non si sente protetto da politici e non ha fiducia nei c.d. esperti visti come un’estensione dei politici spregiudicati. In tali circostanze, altri politici riescono ad interpretare le insoddisfazioni e lavorano per dar loro espressione politica, spesso con scelte politiche radicali. Trump negli Stati Uniti ne è il perfetto esempio. L’ignoranza politica nella quale prosperano politici ugualmente ignoranti e senza scrupoli andrebbe analizzata assieme ad un altro aspetto che sembra consolidarsi – quello della democrazia autoritaria,- fenomeno non limitato esclusivamente ai paesi meno avanzati.
Nel caso del referendum nel Regno Unito, l’ignoranza politica ha giocato un ruolo rilevante, considerato che i dati mostrano che le persone meno istruite hanno votato per lasciare l’Unione Europea. Nè va trascurata la circostanza che la stragrande maggioranza – il 75% – dei giovani tra i 18 e i 24 anni hanno votato a favore di rimanere nell’Unione Europea.
L’ignoranza politica ha battuto la razionalità: i vari sondaggi sul voto e le aspettative dei mercati finanziari che davano al 25% le probabilità che vincesse l’opzione dell’uscita (il giorno prima del referendum le borse erano salite di oltre l’1%). L’uccisione della parlamentare Cox da parte di un esaltato nazionalista non sembra aver avuto alcun impatto sul voto a favore dell’Unione Europea. Quanto ai principali esponenti politici coinvolti nel voto inglese, non mi sembra intravedere un elevato livello di preparazione civica, etica e politica, ma diffusa mediocrità dei personaggi politici protagonisti. Da una parte, Cameron ha fatto errori di calcolo giganteschi. Non solo -come peraltro prevedibile- ha posto in secondo piano gli interessi europei a quelli del suo partito, ma sopratutto non ha compreso l’atteggiamento preoccupato dell’elettorato inglese più fragile, delle paure della classe media che hanno reso possibile la vittoria dell’uscita dall’Unione Europea. Inoltre, Cameron ha invitato il Presidente Obama a parlare a favore del voto per rimanere in Europa e il risultato – come non era tanto difficile prevedere- è stato quello di accentuare l’opposizione del pubblico verso l’Unione Europea. Il leader laburista Corbyn – che in un’alleanza spuria con Cameron avrebbe dovuto presentare un caso cogente per rimanere in Europa ed era ragionevole attendersi che avrebbe portato passione ed entusiasmo – ha brillato per la sua assenza, come se il tema non fosse rilevante per lui e per il suo partito. Il parlamentare Chuka Umunna ha criticato la leadership del signor Corbyn durante la campagna referendaria, dicendo che: “Il nostro attaccante principale, spesso non era in campo, e quando c’era, non è riuscito a mettere la palla in rete.” Una campagna a favore dell’Unione Europea surreale.
Dall’altra parte, Farage e Johnson – i vincitori – hanno basato la campagna su generalizzazioni e imprecisioni, ancorchè presentate sotto il profilo – corretto – della mancanza di partecipazione democratica nel sistema dell’Unione Europea

Quanto alle implicazioni dell’uscita, per il Regno Unito, sotto il profilo economico, perlomeno nel breve termine, gli inglesi dovranno fare i conti con instabilità e incertezza politica (non si sa chi potrebbe essere il leader del Partito Conservatore; se si dovrà andare a nuove elezioni; mentre il Partito Laburista ha di fatto perso il referendum e dubita sulle capacità del suo capo Corbyn) ed economica. Non è da escludere che l’elettorato inglese si renderà conto che il voto non costituisce la ricetta magica che cambia la situazione dalla notte al mattino. Esistono, e sono state presentate al pubblico inglese prima del voto per l’uscita dall’Europa, varie stime di declino del Prodotto Interno Lordo, aumento dei costi per ricorsi a prestiti e possibili misure di austerità. È recentissima la dichiarazione di Standards and Poors che dopo il voto per l’uscita dall’Unione Europea, il Regno Unito perderà il rating AAA; e quella dell’agenzia Moody che ha abbassato il rating obbligazionario del governo inglese da stabile a negativo alla luce dell’incertezza che esiste in merito agli accordi commerciali che determineranno lo status del Regno Unito dopo l’uscita dall’Unione Europea.

Viene da domandarsi come potrà la parte più debole dell’elettorato inglese che ha votato per l’uscita -vale a dire persone più anziane, pensionati, lavoratori colletti blu che soffrono la globalizzazione e anche l’immigrazione – far fronte ad una caduta dell’attività economica. C’è da sperare che i fautori dell’uscita abbiano un progetto e un piano al riguardo che non sia solo quello di utilizzare i contributi inglesi al bilancio comunitario, vale a dire 8 miliardi di sterline al netto dello sconto che viene praticato al Regno Unito e degli acquisti dell’Unione Europea nel Regno Unito (Carl Emmerson, Paul Johnson, Ian Mitchell, David Phillips. Brexit and the UK’s Public Finances. IFS Report 116, May 2016). Rimane poi il dubbio che il gruppo maggioritario che ha portato alla vittoria l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea costituisca una solida e dinamica forza sociale capace di gestire una transizione che rischia di essere costosa e anche lunga.
Sotto il profilo politico–internazionale, le possibili implicazioni a breve, medio termine e lungo termine, per il Regno Unito, comprendono:
• Come e quando il Regno Unito avrà un trattato di libero scambio con l’Unione Europea, o quantomeno una posizione per l’accesso al mercato commune dell’Unione Europea?;Questo punto appare il più importante, considerati gli interessi commerciali inglesi. Al momento si possono intravedere tre possibilità:
– Che il Regno Unito ottenga una posizione speciale analoga a quella della Norvegia- un paese non membro dell’Unione Europea- che ha accesso al mercato comune sottoponendosi alle regolamentazioni dell’Unione Europea e al pagamento di contributi, vale a dire proprio i punti sul quale si è giocato il referendum per l’uscita.
– Che il Regno Unito ottenga un trattamento di accesso al mercato unico limitato, del tipo di quello del Canada.Questo costituirebbe una soluzione possibile, ma da negoziare.
– Che il Regno Unito venga trattato alla stregua dei paesi terzi (ad esempio Russia, Cina, Brasile) e per l’accesso al mercato valgano le regole del World Trade Organization (WTO).
• Come e quando il Regno Unito avrà un trattato di libero scambio con gli Stati Uniti?;
• Londra rimarrà un centro finanziario mondiale?
• Altre parti del Regno Unito che hanno votato per restare in Europa- la Scozia e l’Irlanda del Nord- – accetteranno di rimanere parte del Regno Unito, o chiederanno l’indipendenza?
• Quanto a lungo il Regno Unito riuscirà a mantenere il rango di quinta potenza economica mondiale?;
• Chi sosterrà ancora la logica che il Regno Unito sia membro del Consiglio di Sicurezza dell’ONU?.
Nè va sottovaluta la circostanza che anche la “Nuova Argentina” di Macri possa continuare a rivendicare le Malvine in un contesto internazionale più favorevole e con un Regno Unito più debole date le incertezze della guida politica.
Inoltre, la Spagna, potrebbe intraprendere con maggiore determinazione l’azione “para retomar el penon de Gibraltar”.
Peraltro, non è da escludere che le azioni contro la “perfida Albione” trovino simpatia e sostegno.

L’esito del referendum lascia il Regno Unito profondamente diviso, senza guida politica, con grandi rischi economici e finanziari, e addirittura ripensamenti (si stanno raccogliendo le firme per un secondo referendum). Insomma, una situazione complessiva d’incertezza che l’ignoranza politica di elettori e politici ha generato.

Per quanto riguarda le implicazioni per gli Stati Uniti, è presumibile che il Regno Unito punterà a rafforzare ulteriormente i legami oltre-Oceano. Sotto il profilo economico, specialmente nel breve periodo, l’impatto dell’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea non dovrebbe essere significativo per gli Stati Uniti, salvo comportare un apprezzamento del dollaro con effetti non desiderati sulla caduta delle esportazioni ed aumento delle importazioni americane, turbulenze sui mercati finanziari; ritardo dell’aumento dei tassi d’interesse da parte della Federal Reserve. Per il momento non si ritiene che l’uscita del Regno Unito possa determinare una nuova recessione economica. Si ritiene, tuttavia, che l’impatto dell’uscita del Regno Unito sarà distribuito nel tempo. Sotto il profilo politico, negli Stati Uniti prevale l’impostazione che la relazione speciale tra Stati Uniti e Regno Unito continuerà; che la NATO e l’Europa costituiscono alleati indispensabili. C’è da domandarsi come il Regno Unito – fuori dell’Unione Europea – possa costituire un alleato effettivo sul quale gli Stati Uniti possono fare leva nei riguardi degli Europei continentali (si pensi al tema dei rapporti con la Russia). Pertanto, non è da escludere che una relazione più diretta tra Stati Uniti e Unione Europea – e sopratutto la Germania- venga consolidata. Quanto ai candidati presidenziali americani, Trump celebra il voto degli inglesi per uscire dall’Unione Europea e fa il parallelo con la ribellione contro il sistema che si sta registrando negli Stati Uniti. Clinton, più cautamente, è preoccupata per il clima d’incertezza e critica aspramente l’irresponsabilità di Trump.

Quanto agli scenari per l’Unione Europea, dopo il bagno di sangue finanziario dei prossimi giorni derivante dall’incertezza, ritengo che le prospettive nell’Unione Europea potranno migliorare perchè rimangono nell’Unione coloro che ci credono e desiderano restare. Non sono troppo convinto della fuga di catalani, polacchi, francesi, austriaci e vari altri, perchè i danni – compresa la diffusa incertezza- che il Regno Unito dovrà sostenere saranno significativi e visibili e faranno riflettere seriamente coloro che desiderano uscire dall’Unione Europea, L’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea farà perdere una spinta significativa verso una maggiore iniziativa individuale e il ruolo dei mercati. Tuttavia, faciliterà la coesione tra i paesi membri – come ad esempio nel campo del coordinamento delle politiche fiscali che il Regno Unito ha sempre osteggiato.
Il referendum inglese ha ricordato le carenze del progetto europeo, soprattutto la limitata democrazia e l’eccesivo intervento dello Stato. Questo è un momento fondamentale per i politici. Appare cruciale che i politici autentici – non quelli che guardano a vantaggi di breve termine- e i leali servitori dello Stato (come il nostro Draghi che sembra destinato a doversi occupare di problemi di colossali dimensioni) – sappiano afferrare le opportunità che l’uscita del Regno Unito presenta; siano in grado di riformare l’Unione Europea in senso più democratico e meno burocratico con una classe dirigenziale e amministrativa e dei c.d. esperti indipendente; siano in grado di ritrovare lo spirito dei Trattati di Roma del 1957, e rigenerare l’Unione Europea mantenendo le diversità che il Vecchio Continente presenta.
I leaders europei che possono far riprendere il cammino dell’Unione Europea sono vari, ma un ruolo primario lo dovrà svolgere la signora Angela Merkel – che peraltro ha già dichiarato che l’uscita del Regno Unito non significa disgregazione e che l’Unione Europea saprà trovare le risposte giuste. D’altro canto, i Presidenti del Consiglio, Commissione e Parlamento europeo – Donald Tusk, Jean-Claude Juncker e Martin Schulz, rispettivamente – e Mark Rutte, il primo ministro dei Paesi Bassi, che detiene la presidenza di turno dell’Unione europea, hanno dichiarato che qualsiasi ritardo per l’uscita della Gran Bretagna equivale a “inutilmente prolungare incertezza”.
Mi pare fondamentale che i paesi dell’Unione Europea dimostrino coesione nel come procedere nei negoziati per l’uscita del Regno Unito ed i suoi tempi per ridurre l’incertezza; e nel determinare l’essenziale aspetto dello status futuro del Regno Unito. Chiarezza e determinazione appaiono fondamentali per eliminare le fragilità che possono derivare dal voto inglese ed i tentativi d’imitazione e sconfiggere le predizioni di un effetto domino. Infatti, al di là delle divisioni all’interno del paese, le tradizioni storiche del Regno Unito non possono non suscitare l’idea che l’obiettivo inglese rimane quello di eliminare l’Unione Europea e tornare agli stati-nazione in modo tale da non pagare nessuna conseguenza, sopratutto sotto il profilo economico, finanziario, commerciale e politico dell’uscita dall’Unione Europea.

Per l’Italia – purtroppo in una situazione di fragilità e incertezza – si apre una grande opportunità – di essere – a fianco di Germania e Francia – uno dei pilastri di una “rigenerata Europa”. È sperabile che i politici italiani non riescano nella difficile impresa di essere emarginati e comprendano la lezione che la risposta al referendum inglese è: più democrazia, meno Stato, più politici preparati, responsabili e con valori etici e più indipendenza della classe dirigente. Questa sembra la ricetta per combattere l’ignoranza politica e costruire uno stabile e duraturo sistema democratico europeo.

 

*Esperto di politiche pubbliche, residente negli Stati Uniti; docente Istituto Studi Europei, Roma