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Libertà fiscale, la Svizzera primeggia

Libertà fiscale, la Svizzera primeggia

Corriere del Ticino

Il fattore fiscale sta diventando una componente sempre più fondamentale della competitività di un Paese, importantissimo per attirare investimenti e per promuovere la crescita economica. Su questo tema il Centro Studi ImpresaLavoro di Udine ha pubblicato uno studio nel quale, con la collaborazione di ricercatori di dieci Paesi europei (fra cui il Liberales Institut di Zurigo), ha calcolato un Indice della libertà fiscale 2016, che tiene conto di sette diversi indicatori per valutare il «peso», non solo finanziario, della fiscalità nei 28 Paesi dell’UE e in Svizzera. Lo studio è stato ripreso dal sito Internet italiano ilgiornale.it.

Il risultato è lusinghiero per il nostro Paese: la Svizzera figura in prima posizione, con un indice di libertà fiscale pari a 75 punti, mentre in ultima posizione c’è l’Italia, con un indice di 39 punti. La classifica si basa come detto su fattori che cercano di tenere conto di tutti i costi generati dal sistema fiscale, e non solo di quelli diretti. Il Paese migliore in un determinato indicatore riceve il punteggio massimo attribuito a quel settore.

I primi due indicatori, relativi al numero di procedure e al numero di ore necessarie a pagare le tasse, si riferiscono al carico burocratico che le imprese devono sostenere per essere in regola con il fisco. Notiamo che in Svizzera il fisco occupa un’impresa per 63 ore l’anno, contro le 269 ore dell’Italia. Il terzo indicatore analizza il tasso di imposizione sugli utili cui sono sottoposte le imprese. In Svizzera è del 28,8%, mentre in Italia è più del doppio, ossia il 64,8% (tasso più alto in Europa). Il quarto indicatore stima quanto una media impresa debba spendere in procedure burocratiche per essere in regola con il fisco: si tratta di una sorta di tassa sulle tasse.

In questo ambito la Svizzera è abbastanza cara, visto il costo del lavoro, con 2.602 euro (metà classifica). In Italia occorrono 7.559 euro. Il quinto fattore, ossia la pressione fiscale sul PIL, vede la Svizzera col tasso minore in Europa, ossia il 27,1%, contro il 43,6% dell’Italia. Infine c’è l’indicatore sulla variazione della pressione fiscale dal 2000 al 2014 (Svizzera -0,4%, Italia +3,6%), e la pressione fiscale sui redditi delle famiglie (Svizzera 13,47%, Italia 28,28%). Il contributo del Liberales Institut di Zurigo mostra che grazie al meccanismo del freno all’indebitamento (approvato nel 2001) la Svizzera è stata una delle poche nazioni che ha potuto mantenere o migliorare la sua posizione finanziaria anche durante la crisi finanziaria del 2008, con un debito pubblico complessivo di 36,4% sul PIL.

Svizzera: prima in Europa perché meno tassata

Svizzera: prima in Europa perché meno tassata

Carlo Lottieri – Corriere del Ticino

Da sempre il destino delle comunità è legato a quello dell’imposizione fiscale. Come mostrò alcuni anni fa Charles Adams in un formidabile saggio dal titolo “For Good and Evil. L’influsso della tassazione nella storia dell’umanità” (la versione italiana è stata pubblicata da Liberilibri), esperienze che erano state di grandi successo per secoli e secoli sono  crollate, nel passato, proprio a seguito di imposizioni tributarie eccessive. Oltre a ciò, hanno spesso avuto una matrice fiscale anche le rivoluzioni moderne: in Inghilterra come in America, come in Francia.

Sotto tanti punti di vista è difficile capire qualcosa della stessa crisi che l’Europa sta conoscendo se non si considera che mai come oggi gli apparati pubblici del Vecchio Continente hanno colpito in maniera tanto massiccia i redditi di lavoratori, imprese e famiglie. Ed è quindi motivo di soddisfazione rilevare, secondo quanto afferma una recente ricerca del centro studi Impresa Lavoro di Udine, che entro il quadro europeo la Svizzera si trova al primo posto in quanto a “libertà fiscale”.

L’indice considera i ventotto Paesi dell’Unione più la Svizzera e prende in esame cinque aspetti: il numero delle procedure necessarie a pagare le imposte; il tempo da destinare a ciò; il tax rate sulle imprese; il miglioramento del livello tributario complessivo nel periodo 2000-2014; e soprattutto (ed è questo il dato che pesa di più, ovviamente) la percentuale complessiva dei tributi in rapporto all’economia. Soprattutto grazie a quest’ultimo dato, la Svizzera si rileva meno oppressiva di ogni altro Paese, superando – anche se non di molto – l’Irlanda.

Va aggiunto che la Svizzera primeggia in questa classifica nonostante due voci che la penalizzano: il numero delle procedure (relativamente alto, com’è inevitabile in un Paese a struttura federale) e il cambiamento rispetto al 2000. In un quindicennio la Svezia ha ridotto del 5,9% la pressione fiscale, ma in Svizzera questo exploit non è stato possibile, considerando l’alta tassazione da cui si partiva.

Tutto bene? Non proprio. Il quadro generale – come si è detto – è quello di un’Europa schiacciata da debiti e alta tassazione al tempo stesso: e in questo quadro è difficile pensare che la piccola Svizzera non paghi conseguenze negative. Quando i tuoi clienti, i tuoi fornitori, i tuoi partner, i tuoi risparmiatori ecc. conoscono difficoltà, anche tu difficilmente avrai prospettive esaltanti.

In questo contesto è importante essere ancora più virtuosi ed evitare la tendenza, che pure è fortissima, a considerarsi tanto bravi solo perché si fa meglio di altri. Essere i primi in una classe di somari non significa necessariamente essere ottimi studenti. Fuor di metafora, è cruciale che si risvegli lo spirito di resistenza che lungo i secoli ha portato le popolazioni elvetiche a resistere di fronte alle pretese di quanto inventano nuove imposte e moltiplicano i tributi. Se si vogliono finanziare spese e progetti, è sempre bene esplorare la strada di tagli di bilancio: riducendo le uscite invece che aumentando le entrate.

Si tratta di avere una visione complessiva in grado di assicurare un futuro di prosperità: evitando ogni “normalizzazione” e scongiurando il rischio di una Svizzera sempre più simile alla Francia o alla Germania. Ma oltre a ciò, quando si assume come proprio principio ispiratore una sana diffidenza di fronte a ogni imposta, si sceglie di essere fedeli all’istituto cardine di ogni società civile: la proprietà.

Rispettare quanto più è possibile la proprietà significa, in poche parole, rispettare l’altro: il suo lavoro, il suo risparmio, quello dei suoi genitori. In questo come in altri casi (si pensi ai contratti), la difesa di solidi principi di giustizia comporta rilevanti conseguenze economiche. Una società che cerca di essere giusta e quindi non consegna una quota crescente delle ricchezze nelle mani dell’apparato politico e burocratico, alla fine è anche una società di successo.

Almeno in parte, questo è quanto la Svizzera ha saputo fare nel corso dei secoli: ha contenuto tassazione e regolazione, ha protetto la proprietà, ha tutelato i contratti, ha limitato (anche grazie alla concorrenza istituzionale e quindi al federalismo) il potere dei governanti, e tutto questo l’ha premiata.

È bene allora che non venga meno questa vigilanza di fronte alle buone ragioni del diritto, che si esprime anche in una resistenza di fronte a imposte eccessive e ingiustificate. E non solo per mantenere quel primo posto in classifica che pure tanti benefici assicura (basti pensare alla limitata disoccupazione) alla popolazione svizzera.

 

Quanto ci sono costate le banche

Quanto ci sono costate le banche

Nicola Porro – Il Giornale

La crisi delle banche italiane è costata la bellezza di 210 miliardi di euro. Avete letto bene. I calcoli li ha fatti il centro studi ImpresaLavoro, ma i numeri, pur essendo sotto gli occhi di tutti, sono invisibili, mentre il peso si fa sentire chiaramente nei portafogli di molti italiani.

Vediamo di mettere in fila i dati e tirare qualche somma. In un solo fine settimana di novembre dell’anno scorso con un intervento di Banca d’Italia e governo sono stati fucilati i risparmi di coloro che avevano investito nelle quattro etrurie, le banche locali commissariate. Il conto è presto fatto: si tratta di 3,1 miliardi in azioni e circa 800 milioni in obbligazioni subordinate. Molte di queste ultime erano state vendute con contratti che non prevedevano la loro cancellazione in caso di fallimento. Ma questo è un altro discorso: al dunque la somma totale fa 3,9 miliardi.

Ci spostiamo in Veneto e di qualche mese e scoppia il clamoroso flop di Veneto Banca e Popolare di Vicenza. In questo caso il rosso è più che doppio: si parla di 8,2 miliardi di euro. Il calcolo è fatto prendendo il valore delle azioni che era stato stabilito dagli istituti creditizi in perfetta autonomia (le azioni vicentine non erano infatti quotate); forse si esagera, ma molti dei soci avevano in effetti comprato azioni PopVicenza a 62,5 euro, contro i dieci centesimi, che molto formalmente varrebbero oggi.

Sia chiaro, fino a questo punto stiamo parlando di perdite effettive subite dai risparmiatori. Non ragioniamo minimamente sulle devastanti conseguenze che si verificheranno nel tessuto economico e produttivo legato al sistema delle banche, di fatto, saltate. Arriviamo, fino a questo punto, ad un rosso di circa 13 miliardi di euro. Una manovra finanziaria da lacrime e sangue, ma ancora lontana dai 210 miliardi annunciati.

Gli analisti di ImpresaLavoro però non sbagliano nell’andare a vedere cosa è invece successo nelle 17 banche quotate in Borsa: i nomi più importanti. In cui ci sono migliaia di piccoli risparmiatori italiani, sia direttamente, sia attraverso fondi di investimento. E qui i numeri sono da brivido. Dal 2007 (anno dell’inizio della crisi finanziaria) ad oggi le loro capitalizzazioni di Borsa (che si possono leggere tutti i giorni sui terminali) sono scese di circa 150 miliardi. Ma non basta. Le stesse banche nell’ultimo decennio hanno chiesto al mercato, cioè ai risparmiatori di credere in loro, e di fornire nuovi mezzi attraverso aumenti di capitale: si tratta di ulteriori 50 miliardi.

Ricapitolando, le sole 17 banche quotate a Piazza Affari, tra perdite di valore in Borsa ed aumenti di capitale, hanno bruciato circa 200 miliardi di euro. Parallelamente lo hanno fatto i loro investitori privati. Non sono tutti piccoli azionisti, ma una gran parte sì. Si deve sempre credere che il prezzo di un’azione possa risalire. Non è escluso, ma oggi vista la situazione, non sembra così probabile.

La foto scattata oggi resta, dunque, devastante: in un decennio si sono volatilizzati 210 miliardi di valore del settore bancario. È come se per due lustri i risparmiatori italiani (quelli che in qualche modo avevano titoli del comparto) hanno subito una seconda finanziaria. Quella del governo che gli aumentava le tasse e quella dei banchieri che gli bruciava i risparmi.

È vero, e lo abbiamo scritto tante volte, che chi compra un titolo azionario si assume dei rischi e ne deve essere consapevole. Ma è cosa buona e giusta anche sapere che la classe dirigente del settore, come quella politica, non ha saputo reggere l’impatto della crisi finanziaria. E che non può sfuggire alle responsabilità di un flop così clamoroso.

Banche in crisi, un conto salato

Banche in crisi, un conto salato

Massimo Blasoni – Metro

A quanto ammonta il conto che la crisi del nostro sistema bancario ha presentato ai risparmiatori e agli investitori? Tenetevi forte: oltre 209 miliardi di euro. Il conto è presto fatto. Tre miliardi e 900 milioni è il controvalore complessivo di titoli azionari e obbligazionari subordinati di Banca Marche, Banca Etruria, Cassa di Risparmio di Ferrara e Carichieti, andati interamente in fumo nel weekend del 21-22 novembre 2015, in seguito ai provvedimenti di risoluzione emanati dal Governo e da Bankitalia per salvare la parte ‘buona’ di queste quattro banche da anni in stato di crisi. I loro soci si sono così visti letteralmente azzerare il valore dei propri investimenti e senza alcuna chance di recupero poiché sulle nuove banche (che hanno raccolto la parte buona dei vecchi istituti) non possiedono alcun diritto, né patrimoniale né di voto. Gli azionisti di Popolare di Vicenza e Veneto Banca, poi, in forza del processo di riorganizzazione in atto hanno subìto (o stanno subendo) perdite per complessivi 8,2 miliardi di euro.

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Sacconi (Ap): “Banche, ripensare relazioni di lavoro per migliorare competenze e tutele”

Sacconi (Ap): “Banche, ripensare relazioni di lavoro per migliorare competenze e tutele”

Maurizio Sacconi*

“Nel momento in cui risulta sempre più difficile guadagnare facendo credito, le banche sono impegnate ad utilizzare appieno le nuove tecnologie e ad asciugare gli alti costi operativi che le caratterizzano. Si impone quindi la necessità di una forte politica di gestione del cambiamento attraverso importanti investimenti nelle competenze e nuovi modelli di salvaguardia dei lavoratori anziani in esubero. Da un lato sarà presto necessario ripensare il contratto nazionale e, dall’altro, utilizzare quanto più gli accordi aziendali e individuali per introdurre il lavoro agile a risultato, cambiare la struttura della retribuzione, garantire formazione continua e tutela delle professionalità. Gli stessi fondi di accompagnamento alla pensione potranno essere ripensati quali fondi complementari facendo entrare le aziende di credito nel sistema degli ammortizzatori sociali pubblici”. Lo ha dichiarato il Presidente della Commissione lavoro del Senato Maurizio Sacconi intervenendo all’Abi Forum HR 2016 “Banche e risorse umane”.

*Presidente della Commissione Lavoro e Previdenza Sociale del Senato

Zaia (Lega): “Sulla banche la Regione Veneto è a disposizione, si faccia chiarezza”

Zaia (Lega): “Sulla banche la Regione Veneto è a disposizione, si faccia chiarezza”

“Sto guardando con attenzione e preoccupazione tutto quello che accade nel sistema del credito del Veneto. Io sono un piccolissimo azionista sia di Veneto Banca che di Popolare di Vicenza. Auguro buon lavoro ad entrambi i vertici ricordando che la Regione è assolutamente a disposizione”. Così Luca Zaia, presidente della Regione Veneto, oggi a Venezia, in merito alla situazione delle banche popolari in Regione. “Noi – ha continuato Zaia – ci aspettiamo da un lato un bel piano industriale che possa riportare queste banche sul mercato con solidità ed inoltre che si recuperi credibilità. Spero, ed io mi batterò per questo, affinché restino il nostro istituto di riferimento veneto e quindi banche del territorio”.

“Banche – ha aggiunto il governatore – che hanno sempre aiutato i veneti ma è necessario fare chiarezza perché azioni che passano da 60 euro a 0,10 centesimi o da 40 euro a 1 euro o 50 centesimi, sono azioni che hanno avuto comunque un crollo verticale, non giustificabile dai mercati o da altri fattori”. “Questa – ha proseguito Zaia – è un’inquietudine che noi risparmiatori abbiamo in quanto questo valore era stato fissato passando per il vaglio di controllori, di società di revisione, di banca d’Italia e quindi è anche un fatto di credibilità e per questo motivo dobbiamo fare chiarezza. Niente giustizialismo, è importante fare chiarezza. Se c’è qualcuno che ha sbagliato ovviamente dovrà pagare. Resta comunque, da parte mia, la fiducia per le procure che comunque stanno indagando su questi fronti”. Per quanto riguarda la commissione d’inchiesta in Regione, il presidente veneto ha dichiarato: “Sono state fatte molte audizioni e si continuerà. Si aggiunge poi una volontà da parte mia, che ho presentato l’articolo di legge, di dare 300 mila euro come prima tranche per le spese legali e quindi modo a chi non ha possibilità di difendere i propri interessi, penso soprattutto ai piccoli risparmiatori o piccoli consumatori”.

Brunetta (Fi): “Con la Merkel, Renzi ha perso un’altra occasione”

Brunetta (Fi): “Con la Merkel, Renzi ha perso un’altra occasione”

Renato Brunetta (Fi)*

“I quotidiani sottolineano tutti una distensione nei rapporti tra Merkel e Renzi, ma su due punti è chiaro che la Germania non ci sente: gli eurobond per fermare l’immigrazione e le banche, con la evidente differenza di trattamento tra le regole imposte all’Italia e quelle agli istituti tedeschi”. Lo scrive su Facebook Renato Brunetta, capogruppo di Forza Italia alla Camera dei deputati.

“Renzi ha perso una eccellente occasione per levarsi di dosso, con la doverosa gentilezza dell’ospite, la livrea di vassallo sia pure lievemente dissidente e un po’ ribelle della Germania, ridando un po’ di orgoglio patriottico all’Italia. Una dichiarazione comune sull’impegno per la Libia, con una messa in riga di chi fa i suoi giochetti con le varie fazioni, sarebbe stata bene accetta. Oggi noi appaiamo insieme alla Germania gli alleati di Turchia-Tripoli-Fratelli Musulmani contro Francia e Russia che appoggiano l’Egitto-Tobruk. (America di Obama con molti piedi e molte scarpe)”, conclude Brunetta.

*Capogruppo di Forza Italia alla Camera dei deputati

Marino (Pd): “Decreto banche? C’è spazio per migliorare sui rimborsi”

Marino (Pd): “Decreto banche? C’è spazio per migliorare sui rimborsi”

Mauro Maria Marino (Pd)*

“C’è spazio di miglioramento sull’oggettività dei criteri” per i rimborsi per gli ex obbligazionisti subordinati di Banca Etruria, Banca Marche, CariFerrara e CariChieti. A sostenerlo è Mauro Maria Marino, relatore e presidente della commissione Finanze del Senato, dove è stato avviato l’iter dell’ultimo decreto Banche varato dal governo.

Non ci saranno nuove audizioni di rappresentanti del sistema bancario, già sentiti nell’ambito di un’indagine conoscitiva della stessa commissione, ma saranno ascoltati probabilmente sia i risparmiatori sui criteri legati agli indennizzi sia le imprese sulla parte del decreto legata al recupero dei crediti.

Marino ha precisato che la commissione Finanze avrà come obiettivo quello di “permettere alla Camera di avere un mese di tempo per esaminare il provvedimento. Ho invitato i colleghi ad agire per questo fine”. Se questo invito verrà accolto, ai primi di giugno dovrebbe esserci il via libera di Palazzo Madama e il passaggio del testo a Montecitorio.

* Presidente della commissione Finanze del Senato

Crisi delle banche, un conto da 209 miliardi di euro

Crisi delle banche, un conto da 209 miliardi di euro

Duecentonove miliardi: a tanto ammonta il conto che la crisi del nostro sistema bancario ha presentato ai risparmiatori e agli investitori.

Tre miliardi e 900 milioni è il controvalore complessivo di titoli azionari e obbligazionari subordinati di Banca Marche, Banca Etruria, Cassa di Risparmio di Ferrara e Carichieti, andati interamente in fumo nel weekend del 21-22 novembre 2015, in seguito ai provvedimenti di risoluzione emanati dal Governo e da Banca d’Italia per salvare la parte buona delle quattro banche dell’Italia centrale da anni in stato di crisi.

Il computo fornito da ImpresaLavoro è stato realizzato sulla base dei dati contenuti negli ultimi bilanci pubblicati dalle banche cadute in liquidazione, nonché degli ultimi aumenti di capitale e dei dati Reuters sui titoli obbligazionari colpiti. I soci delle quattro banche, oltre agli obbligazionisti subordinati, si sono visti infatti letteralmente azzerare il valore dei propri investimenti, senza per loro alcuna chance di recupero poiché sulle nuove banche (che hanno raccolto la parte buona dei vecchi istituti) non possiedono alcun diritto, né patrimoniale né di voto.

Le quattro banche oggetto del “salvataggio” hanno bruciato circa 3,1 miliardi di valore in capitale azionario (di cui oltre 500 milioni raccolti – quasi tutti da piccoli risparmiatori – solamente tra il 2011 e il 2013), mentre a quasi 800 milioni corrisponde la perdita per le obbligazioni “junior”, ovvero subordinate rispetto alle più comuni ordinarie, anch’esse collocate per gran parte a piccoli risparmiatori.

Gli azionisti di Popolare di Vicenza e Veneto Banca, poi, in forza del processo di riorganizzazione in atto (aumenti di capitale e IPO), hanno subito (o stanno subendo) perdite per complessivi 8,2 miliardi di euro. Tali valori sono stati stimati prendendo come riferimento i valori a cui sono state acquistate dagli investitori/risparmiatori le azioni di queste banche e confrontati con gli attuali valori, prossimi allo zero. Va ricordato, infatti, che Banca Popolare di Vicenza valeva al suo massimo €62,50 euro per azione mentre Veneto Banca toccò qualche anno fa quota €39,50 euro per azione posseduta.

Molto più trasparente, ma anche molto più grave, il conto per le più grandi banche italiane quotate in Borsa. Il mercato azionario ha punito i loro investitori sin dai primi inizi della crisi finanziaria, ovvero dal 2007. Secondo i dati di Borsa Italiana elaborati da ImpresaLavoro il settore delle banche italiane risulta aver bruciato – rispetto al 2007 – 197,6 miliardi divisi tra diminuzione del valore di capitalizzazione (148,7 miliardi) e aumenti di capitale effettuati (e bruciati) dal 2008 ad oggi (48,9miliardi). Le 17 banche quotate capitalizzavano in Borsa nel 2007 circa 230-240 miliardi di euro mentre oggi i valori di capitalizzazione si aggirano attorno agli 85 miliardi.

Ma la vera spada di Damocle che incombe sulle nostre banche, sostanzialmente comune a tutto il sistema, è ancora quella dell’elevato volume dei crediti deteriorati, problema ad oggi irrisolto, che corrisponde, secondo le recenti stime della European Banking Authority, addirittura a oltre 17 punti del nostro Pil.  Nella sostanziale impossibilità di un aiuto pubblico in soccorso dei dissesti bancari, rimarcata dalle nuove regole del bail-in, una cosa è certa: i piccoli risparmiatori dovranno necessariamente aumentare il proprio grado di consapevolezza, e ricordarsi che in base alle nuove norme gli unici strumenti davvero tutelati saranno i conti correnti e depositi (e solo entro i 100mila euro per istituto), mentre gli altri titoli bancari come azioni e obbligazioni (ancor di più se non quotati), già oggi possono presentare un grado di rischio più alto di quanto inizialmente prospettato.

credito

 

Guerra di sigle e di generazioni

Guerra di sigle e di generazioni

di Giuseppe Pennisi*

Una nuova sigla entrata da qualche giorno nella galassia degli acronimi giornalistici e nel dibattito di politica previdenziale (e, quindi, di finanza pubblica): APE, ossia Anticipo Pensione. Pochi si sono accorti che nella galassia esiste già un APE, Attestato di Prestazione Energetica, come sanno tutti coloro che vogliono vendere od acquistare un immobile. Prima o poi, la “guerra” delle APE troverà una soluzione, anche in quanto la flessibilità in uscita, con pensionamento anticipato, pare ancora lontana, quanto meno per coloro che non hanno fatto lavori “usuranti” per diversi anni o che non hanno cominciato a lavorare quando erano molto giovani (nel gergo INPS “i precoci”).

Ma è, poi, realmente in atto una guerra tra vecchi e giovani, ammesso che ci sia piena sostituibilità tra lavoratori più o meno anziani sul posto di lavoro? Non sembra che ci sia. Una quindicina di anni fa, su istanza di associazioni di senior citizen, la Corte Suprema americana ha sentenziato che stabilire un’età legale di pensionamento (allora in numerose aziende USA era a 67 anni) è un’incostituzionale discriminazione contro gli anziani; da allora frotte di americani restano al lavoro quanto vogliono e quanto possono.

Non sono i soli. In questa rubrica abbiamo già ricordato come analisi internazionali dimostrino che andare troppo presto in pensione causa disturbi mentali che spesso accorciano la vita. Un team di economisti delle Università di Londra e di Amburgo (Gabriel H. Ahfelt, Wolfang Maenning, e Malte Steenbeck) ha appena pubblicato un lavoro (Après Nous Le Déluge? Direct Democracy and Intergenerational Conflict in Aeging Societies CESiffo Working Paper Series No. 5779) in cui con un’analisi quantitative in base a procedure quali quelle promosse nel volume del Centro Studi Impresa Lavoro La Buona Spesa – Dalle Opere Pubbliche alla Spending Review – Una Guida Operativa analizza un caso specifico: il maggior progetto infrastrutturale di oggi, i cui costi gravano su questa generazione di tedeschi a benefico delle future. La conclusione è che i conflitti intergenerazionali derivanti dall’invecchiamento della popolazione sono limitati ad un limitato numero di casi in cui il valore attuale netto varia molto significativamente tra classi di età. La proposta è quella di utilizzare in questi casi non lo strumento referendario ma l’analisi costi-benefici economica.

Tornando alle pensioni, di grande interesse di lavoro di Riccardo Calcagno, Flavia Coda Moscarola, Elsa Fornero pubblicato il 27 aprile come Cerp Working Paper 161/16. Eloquente il titolo “Too busy to stay at work. How willing are Italian workers “to pay” to anticipate their retirement?” (‘Troppo occupati per restare al lavoro: quanti italiani sono disposti a ‘pagare’ per anticipare la loro pensione?’). È un’analisi statistica su un campione di lavoratori italiani di almeno 55 anni e la loro ‘disponibilità a pagare’ per anticipare di un anno il pensionamento. La preferenza per una pensione anticipata (ovviamente ridotta) è marcata per le donne e per i lavoratori immediatamente colpiti dalla riforma del 2011 (quali i così detti ‘esodati’). Le donne che curano figli e nipoti, o genitori anziani, sono pronte a pagare anche un prezzo elevato per andare prima in pensione. Ciò indica che il sistema previdenziale può causare “effetti collaterali” se non accompagnato da altre misure di politica sociale, quali quelle per la cura dei congiunti.

*Presidente del board scientifico di ImpresaLavoro