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Meloni (Pd): “Ridurre le tasse sul lavoro per uscire dalla crisi”

Meloni (Pd): “Ridurre le tasse sul lavoro per uscire dalla crisi”

Marco Meloni*

I dati INPS sono chiari: la logica degli incentivi temporanei non funziona. È necessario aprire una riflessione pubblica fondata sui dati effettivi. C’è una sola via per aumentare produttività e lavoro: ridurre drasticamente le tasse sul lavoro a tempo indeterminato.

A febbraio c’è stato un forte rallentamento di assunzioni e trasformazioni a tempo indeterminato, pur nella versione delle “tutele crescenti” introdotta dal Jobs Act. Siamo tornati ai livelli di inizio 2014 (anzi, leggermente sotto), nonostante una congiuntura decisamente migliore: allora si stava appena uscendo dalla crisi e non c’erano incentivi alle assunzioni a tempo indeterminato così generosi (al momento intorno a circa 3000 euro ad assunzione, seppur dimezzati rispetto al 2015).

Quello di gennaio, quindi, non sembra essere un rallentamento “tecnico”, dovuto ad assunzioni anticipate a dicembre, ma un possibile effetto “strutturale” del dimezzamento degli incentivi. È necessario essere prudenti, è ovvio, ma pare assodato che i dati positivi del 2015 siano stati dovuti quasi interamente agli incentivi.

A questo punto, credo sia il caso di aprire una riflessione pubblica ampia, trasparente, fondata sui dati effettivi, e aggiustare il tiro. Le misure una tantum – dalle varie mance di 80 o 500 euro agli incentivi temporanei – hanno il respiro corto, e non affrontano il nodo strutturale per rilanciare produttività e occupazione: la riduzione drastica e stabile della tassazione sul lavoro a tempo indeterminato, al momento tra le più alte tra i Paesi industrializzati (e addirittura in crescita, secondo gli ultimi dati OCSE).

Al finanziamento di una riduzione fiscale così rilevante è necessario destinare tutte le risorse possibili, abolendo altre misure costosissime e dalla utilità quasi nulla, e adottando le troppo attese misure di riduzione della spesa pubblica. Mi auguro che, come Partito democratico e maggioranza parlamentare, con l’impulso decisivo del governo, si sia capaci di affrontare la questione con il necessario pragmatismo. Per creare lavoro stabile e migliorare la competitività del nostro sistema sistema produttivo occorre cambiare decisamente rotta.

*Deputato del Partito democratico, membro della Commissione Affari costituzionali

Sangalli (Confcommercio): “Tagliare le tasse strada obbligata, serve coraggio”

Sangalli (Confcommercio): “Tagliare le tasse strada obbligata, serve coraggio”

Carlo Sangalli*

“Bisogna certamente tagliare le tasse, è la condicio sine qua non: la strada è obbligata ed è quella di ridurre con più coraggio e determinazione la spesa pubblica improduttiva, di recuperare evasione ed elusione per avere così delle risorse importanti per arrivare ad una riduzione generalizzata delle aliquote Irpef”.

“Mettere più soldi in tasca alle famiglie significa rilanciare i consumi e con questo si esce definitamente da questa situazione di incertezza che ancora ci preoccupa”.

* Presidente di Confcommercio

Indice della Libertà Fiscale 2016

Indice della Libertà Fiscale 2016

indicebIntroduzione

Nel 2015 ImpresaLavoro, avvalendosi della collaborazione di ricercatori e studiosi di dieci diversi Paesi europei, ha elaborato il primo Indice della Libertà Fiscale. Un lavoro, questo, che si proponeva di monitorare la “questione fiscale” in Europa muovendo dall’assunto che la crisi che sta conoscendo il Vecchio Continente è difficilmente comprensibile senza una riflessione seria sul peso che lo Stato ha assunto nella vita dei cittadini e su quanto il prelievo pubblico sulla ricchezza prodotta rischi di essere il vero tratto che distingue la Vecchia Europa da blocchi di paesi decisamente più dinamici e competitivi del nostro.

Nella versione 2016 dell’Indice della Libertà Fiscale, si è scelto di allargare il numero dei paesi esaminati, passando dai dieci ritenuti rappresentativi del 2015 ai 29 di quest’anno. L’analisi di un numero così ampio di economie permette, rispetto a quanto fatto nel 2015, di allargare lo sguardo e di monitorare efficacemente la questione fiscale in pressoché tutti i paesi che compongono il continente geografico europeo. Non solo: emergono in questo modo anche le differenze tra chi sta dentro il sistema dell’Unione Europea e chi sta fuori, tra i paesi che hanno adottato l’Euro e quelli che, invece, hanno scelto di mantenere la propria autonomia monetaria.

Metodologia

L’Indice della Libertà Fiscale è stato realizzato muovendo da sette diversi indicatori, ognuno dei quali analizza e monitora un aspetto specifico della questione fiscale. Il Paese migliore in un determinato indicatore riceve il punteggio massimo attribuito a quel settore. Alle altre economie viene attribuito un punteggio secondo il meccanismo della proporzionalità inversa: più un Paese si allontana dal migliore, meno punti riceve. Si tratta di una scelta che punta a privilegiare le buone esperienze, anzi: le migliori esperienze, presenti in Europa. Questo perché disegnare a tavolino valori di riferimento e su questi analizzare gli scostamenti da un teorico “sistema fiscale perfetto” portava con sé il rischio di traguardarsi costantemente ad un mondo che non c’è. Si è preferito, invece, partire dai livelli di libertà fiscale già raggiunti e definire quelli come benchmark: se in sette economie europee è possibile contenere la tassazione sulle imprese sotto il 30% degli utili prodotti, allora significa che si può ragionevolmente fare anche negli altri paesi.

La somma dei singoli indicatori restituisce, per ogni economia esaminata, il tasso di libertà fiscale elaborato su base 100. Più alto è il valore ottenuto da uno Stato (più vicino a 100) , più i suoi cittadini sono liberi dal punto di vista fiscale. Il ranking che ne deriva divide i paesi in quattro macro aree: paesi fiscalmente molto liberi (oltre 70 punti su 100), paesi fiscalmente liberi (tra 60 e 69 punti), paesi fiscalmente non del tutto liberi (tra 50 e 59 punti), paesi fiscalmente oppressi (sotto i 50 punti).

Gli indicatori

I primi due indicatori, numero di procedure e numero di ore necessarie a pagare le tasse, si riferiscono al carico burocratico che le imprese devono sostenere per essere in regola con il Fisco del loro paese. Questi indicatori attribuiscono al paese migliore 10 punti.

Il terzo indicatore analizza il Total Tax Rate cui sono sottoposte le imprese dei paesi esaminati. Con questo indicatore si identifica la quota di profitti che una media azienda paga ogni anno allo stato sotto forma di tasse e contributi sociali. Al paese con il Tax Rate più basso sono attribuiti 20 punti.

Il quarto indicatore, Costo per pagare le tasse, stima quanto una media impresa debba spendere in procedure burocratiche per essere in regola con il Fisco. Il tempo che le aziende occupano per sbrigare pratiche burocratiche si traduce in un costo diretto, in questo caso di personale, che incide negativamente sulla competitività di un sistema. Si tratta di una sorta di tassa sulle tasse: il peso dello Stato nelle attività imprenditoriali, infatti, va ben oltre il solo valore nominale del prelievo fiscale. Anche il tempo perso è monetizzabile e rende il sistema fiscale di riferimento più o meno libero. Al paese migliore in questo indicatore sono attribuiti 10 punti.

Il quinto indicatore, la Pressione Fiscale in percentuale del Prodotto Interno Lordo, assegna al miglior paese ben 30 punti. Si tratta dell’indicatore più importante, sia in termini di punteggio che sostanziale, perché misura le dimensioni della tassazione complessiva sulla ricchezza prodotta da un paese.

Il sesto indicatore è sempre riferito alla Pressione Fiscale in percentuale al Pil, vista qui in termini dinamici e non statici, e misura quanto il prelievo complessivo è cresciuto dal 2000 ad oggi. E’ un indicatore particolarmente rilevante perché traccia gli sforzi che un paese sta compiendo (o non sta compiendo) per ridurre il peso dell’oppressione tributaria sui propri cittadini. Per capire l’importanza di questo tipo di indicatore basti riflettere sul fatto che un paese come la Svezia, considerato da tutti come la patria di tasse elevate in cambio di migliori servizi, dal 2000 ad oggi ha tagliato la sua pressione fiscale di quasi 6 punti percentuali di Pil. Al miglior paese in questo indicatore vengono attribuiti 10 punti.

Settimo e ultimo indicatore è quello relativo alla pressione fiscale sulle famiglie, intesa come la percentuale di tasse sul reddito familiare lordo che paga un nucleo tipo (due genitori che lavorano con due figli a carico). Al paese più “family friendly” sono attribuiti 10 punti.

Per realizzare questo indice sono stati utilizzati i database Eurostat e Doing Business (Banca Mondiale).

classifica

Indice delle Libertà Fiscali 2016. Numero di procedure necessarie per pagare le tasseIndice02

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Pensioni, c’è un effetto livella

Pensioni, c’è un effetto livella

Paolo Ermano – Italia Oggi*

Sembra quasi un risultato inaspettato, ma il sistema pensionistico disegnato dalle recenti riforme, in particolare quelle dell’ultimo governo Berlusconi e della Legge Fornero, hanno di fatto reso le pensioni, più o meno volutamente, uno strumento di riduzione delle diseguaglianze. Contrariamente a quanto altri hanno evidenziato, e un po’ al senso comune, le recenti modifiche normative hanno infatti reso la popolazione dei pensionati più omogenea dal punto di vista del reddito. Sia ben chiaro: una popolazione che si trova in una situazione di maggior equità non è necessariamente una popolazione che vede il proprio benessere aumentare. Di fatto, però, il recente aumento dell’assegno medio per le pensioni di anzianità e vecchiaia, unito alla diminuzione dell’Indice di Gini, descrive una situazione di maggior benessere sia per il singolo pensionato, sia per la popolazione dei pensionati.

Il Centro studi ImpresaLavoro ha analizzato il database della Banca d’Italia sulle indagini sui bilanci delle famiglie italiane dal 1977 al 2014. Grazie a questa serie di dati, è possibile indagare per ogni anno il confronto fra l’Indice di Gini relativo al reddito disponibile netto e il reddito da pensione (vecchiaia, anzianità e reversibilità), dividendo il campione anche per sesso e ripartizione geografica. Il valore dell’Indice di Gini misurato sul reddito delle due popolazioni, lavoratori e pensionati, evidenzia un percorso che dal 1977 al 2014 vede la popolazione dei pensionati ridurre il grado di diseguaglianza interna, passando da un valore di 0,40 a 0,30, contrariamente a quanto accade all’altra popolazione, quella dei lavoratori, per i quali l’indice cresce lievemente da 0,34 a 0,37. Il passaggio dal sistema retributivo a quello contributivo, iniziato con la riforma Dini del 1995, non sembra aver modificato sigificativamente la distribuzione dei redditi dei pensionati: dal 1995 a oggi l’Indice di Gini non segnala particolari movimenti, se non dopo 2010. Stando ai dati sulla spesa pensionistica forniti dall’Istat, dal 2010 l’importo medio annuo degli assegni di vecchiaia è cresciuto (2011-2013: +3%) per effetto dell’innalzamento dell’età pensionabile, riducendo così le differenze fra le pensioni più modeste e quelle più elevate. 

Questa progressione dell’importo versato ai pensionati può essere un indizio per giustificare una riduzione dell’ineguaglianza in questa popolazione. Se questo andamento continuerà, l’effetto redistributivo del passaggio dall’essere lavoratore all’essere pensionato sarà maggiore. Inoltre, da questo punto di vista, il passaggio dal contributivo al retributivo non sembra aver influenzato particolarmente la distribuzione del reddito fra i pensionati. Nel dettaglio dell’indice suddiviso per sesso troviamo una sostanziale parità di genere. L’Indice di Gini, invariante per trasformazioni omogenee, non permette di evidenziare la differenza di importo fra uomo e donna: per quanto l’indice di diseguaglianza abbia valori molto simili fra i due sessi è il caso di ricordare che nel 2013 l’assegno di vecchiaia per le donne era pari in media al 60% dell’assegno per gli uomini, segnalando un’evidente disparità nei redditi percepiti.

Per valutare eventuali differenze territoriali è stato possibile computare l’Indice di Gini per tre specifiche aree, seguendo la divisione usuale per l`Italia come previsto nel database originale: Nord, Centro e Sud+Isole. Per quanto l’evoluzione dell’indice nelle tre aree sia simile, come ci si aspetterebbe da un sistema pubblico che cerca di smorzare le differenze fra diverse aree economiche, appare chiaro che delle differenze esistono. Stranamente, il Sud e il Nord sembrano muoversi in parallelo fino a metà anni ’90, quando il Nord ottiene un grado di equità fra i pensionati più elevato, come confermano anche diversi studi che analizzano l’intera popolazione nazionale.

Molto più erratico sembra il comportamento dei pensionati residenti in centro Italia, che sembra muoversi in senso opposto rispetto alle altre aree del Paese. Entrando nel dettaglio degli ultimi 20 anni, osserviamo come fosse il Nord l’area con il minor grado di diseguaglianza. Non sembra esserci alcun congruenza fra l’andamento dell’Indice di Gini per aree geografiche fino al 2010, quando tutte e tre le aree vedono sia una discesa dell’indice, segno di maggior eguaglianza, sia una convergenza verso un medesimo valore, 0,30. E sembra proprio questo, dal punto di vista dell’equità, la cifra più importante delle riforme del sistema pensionistico nell’ultimo anno.

*Docente di Economia internazionale al’Università di Udine e ricercatore del Centro studi ImpresaLavoro

Leggi l’articolo di Italia Oggi in formato pdf

Pensioni, Furlan (Cisl): “Dopo 41 anni di lavoro si deve poter andare in pensione”

Pensioni, Furlan (Cisl): “Dopo 41 anni di lavoro si deve poter andare in pensione”

Annamaria Furlan*

“Dopo 41 anni di lavoro si deve poter scegliere di andare in pensione. Bisogna creare queste condizioni. Questa è la nostra proposta. Quella del sottosegretario Nannicini è stata l’ennesima proposta autorevole che abbiamo letto sui giornali: ce ne sono state anche altre in questi mesi. Ma quello che manca è una proposta ufficiale del Governo che tenga conto di un aspetto importante: non si può lavorare in alcuni settori oltre i 65-67 anni. Il tema della flessibilità in uscita è un tema delicato e molto sensibile per le persone. Proprio oggi si celebra la giornata mondiale sulla salute e sulla sicurezza nei luoghi di lavoro. Bisogna tenere conto che la mortalità e gli infortuni avvengono spesso nei settori come l’edilizia dove lavorare a 65-67 anni è davvero rischioso”.

“In Italia aumenta purtroppo l’area della povertà e questo ha prodotto il fenomeno grave che le persone si curano di meno. Ecco perché bisogna affrontare anche il tema della sanità con grande determinazione. In Italia abbiamo indubbiamente un sistema sanitario di alta qualità ma la nostra è una sanità a due velocità. Nel Sud c’è una mortalità infantile più alta che arriva secondo alcuni dati al 39% rispetto al Nord. Un dato allarmante che deve farci riflettere. Il compito delle istituzioni deve essere quello di garantire il diritto alla salute per tutti. Purtroppo nella sanità ci sono troppi sprechi e anche corruzione. Le risorse per fare la flessibilità in uscita sulle pensioni le potremo trovare nel combattere fino in fondo tutto questo, investendo in una migliore qualità del lavoro e soprattutto dei servizi”.

 

*Segretario generale della Cisl
Pensioni, Barbagallo (Uil): “Intervenire sulla flessibilità”

Pensioni, Barbagallo (Uil): “Intervenire sulla flessibilità”

Carmelo Barbagallo*

“Una delle cause degli incidenti sul lavoro è l’avanzare dell’età: questa è un’altra delle ragioni per cui occorre rendere flessibile l’accesso alla pensione. Gli effetti della legge Fornero, peraltro, incidono negativamente anche sui lavori usuranti ed ecco perché, su questo aspetto, occorre intervenire con urgenza”.

“Qualcuno dice che quel provvedimento ha salvato l’Italia: sarà, ma di certo non ha salvato gli italiani e in particolare i lavoratori, i giovani e i pensionati. Hanno fatto cassa sulle loro spalle. Noi pensavamo che avessero sottratto a pensionati e pensionandi 80 miliardi sino al 2020, ma dalle dichiarazioni della Corte dei Conti ricaviamo che si tratta, addirittura, di 30 miliardi l’anno. Ora, dicono che per introdurre la flessibilità in uscita servirebbero dai 5 ai 7 miliardi: ne resterebbero ancora dai 23 ai 25. E comunque, che fine hanno fatto tutti questi soldi se, nel frattempo, spesa pubblica e debito pubblico aumentano?”

*Segretario generale della Uil

Pensioni, Polverini (Fi): “Il governo non dà certezze”

Pensioni, Polverini (Fi): “Il governo non dà certezze”

Renata Polverini*

“L’incertezza sulle pensioni molto spesso è provocata dalle dichiarazioni estemporanee del presidente dell’Inps Boeri, che farebbe bene invece ad occuparsi del funzionamento del suo istituto. Veniamo da tre anni di grande difficoltà: non ci dimentichiamo degli esodati, dei quota 96 e della grande questione che riguarda le donne che avevano nella loro disponibilità una normativa che arrivava dal Governo Berlusconi, ma che a causa di questo esecutivo non hanno potuto accedere alla pensione”.

“In commissione lavoro alla Camera, opposizione e maggioranza, lavorano unite per tentare di dare una certezza rispetto all’uscita dal lavoro e l’accesso alla pensione. Sono state anche incardinate diverse proposte di legge tra cui quella di Damiano e su questo abbiamo qualche timida apertura da parte del governo. Sulle pensioni integrative già la riforma Maroni sottolineava che non era possibile vivere con la sola pensione pubblica ed infatti erano state messe in campo misure fiscali per incentivare le giovani generazioni. Ma il governo attuale ha fatto marcia indietro”

* Deputato di Forza Italia, Vicepresidente della Commissione Lavoro

Primarie Usa verso la conclusione: il probabile scontro e il mancato confronto

Primarie Usa verso la conclusione: il probabile scontro e il mancato confronto

di Pietro Masci*

Dopo il voto alle primarie negli stati di New York, Connecticut, Delaware, Maryland, Pennsylvania, Rhode Island, le posizioni dei candidati alla Presidenza degli Stati Uniti nei due campi repubblicano e democratico non sono cambiate sostanzialmente dalla metà di marzo (vedi articolo del 21 marzo:  http://impresalavoro.org/elezioni-usa-meta-primarie/).

La situazione dei delegati è la seguente:

Delegati Repubblicani (1.237 per ottenere la nomina)
Donald J. Trump, 996
Ted Cruz, 565
Marco Rubio, 171
John Kasich, 153
Delegati da assegnare: 571.

Delegati Democratici (2.383 per ottenere la nomina)
Hillary Clinton, 1.645
Bernie Sanders, 1.318
Super delegati: Clinton 520, Sanders 39
Delegati da assegnare: 1.243.

Le rimanenti primarie – nei prossimi mesi di maggio e giugno- per democratici e repubblicani includono gli stati del, Indiana, Guam, Nebraska, West Virginia, Kentucky, Oregon, Washington State, Virgin Island, Puerto Rico, California, Montana, New Jersey, New Mexico, North Dakota, South Dakota, District of Columbia.

Tra i repubblicani, ad eccezione di Donald Trump, nessun altro candidato ha una reale possibilità di assicurarsi i delegati necessari per vincere la nomina. Anche se dovesse vincere tutti i restanti delegati, è impossibile per Ted Cruz raggiungere 1.237 delegati. Trump è in una posizione di forza, anche se il raggiungimento dei delegati richiesti per ottenere la nomina al Congresso Repubblicano alla prima votazione non è ancora garantito. Per raggiungere 1.237 delegati, Trump dovrà mantenere nelle primarie a venire lo stesso livello di sostegno degli elettori finora ottenuto. La strategia del senatore Cruz e del governatore dell’Ohio, John Kasich, di operare insieme e guadagnare delegati, nelle prossime primarie, non sembra funzionare. Pertanto, l’obiettivo di arrivare al Congresso repubblicano, il 18-21 luglio, a Cleveland, senza che Trump abbia raggiunto la maggioranza necessaria per ottenere la nomina alla prima votazione non appare raggiungibile. Per inciso, secondo le regole, dopo la prima votazione, i delegati non sono più vincolati al candidato per il quale sono stati prescelti e possono votare un candidato diverso. Peraltro, non è ancora assolutamente da scartare la possibilità che Trump non riesca – anche per le pressioni del partito- a raggiungere la maggioranza dei delegati e la prospettiva di un Congresso, per la nomina, a Cleveland, diviso e in cui può accadere di tutto.

Tra i democratici, negli Stati che hanno finora votato, Hillary Clinton ha vinto più della metà dei voti. La mancanza di stati che nelle prossime primarie attribuiscono tutti i delegati al vincitore, rende più difficile per Bernie Sanders eliminare la differenza di delegati che esiste con Clinton.  Inoltre, Sanders è in svantaggio in modo significativo rispetto a Clinton per quanto riguarda i c.d. super-delegati, circa 700 funzionari del Partito Democratico che sono orientati verso Clinton (vedi sopra). Sanders avrebbe bisogno di una serie di grandi vittorie nelle prossime primarie aumentando la sua quota di voto oltre il 60 per cento, in media ed appare poco probabile che riesca ad ottenere la nomina al Congresso di Filadelfia del 25-28 luglio.

Pertanto, lo scenario più probabile rimane quello che Clinton e Trump, rispettivamente per i democratici e i repubblicani, ottengano la nomina e che l’elezione generale sarà uno scontro tra questi due candidati.

I due probabili candidati alla Presidenza, Trump e Clinton, presentano una caratteristica comune estremamente interessante. Sono certamente i due candidati che hanno raccolto il maggior numero di consensi (e Trump sta portando a votare elettori prima disinteressati), ma sono anche i due candidati che attraggono, nello stesso tempo, una forte negatività – vale a dire elettori che esprimono giudizi negativi su Clinton o Trump come Presidente degli Stati Uniti.

Vari recenti sondaggi a livello nazionale misurano il gradimento dei due candidati Trump e Clinton. Secondo un sondaggio NBC-Wall Street Journal (condotto il 6-10 aprile tra i votanti registrati), i giudizi negativi verso Trump superano i giudizi positivi di 41 punti. Un sondaggio di ABC News /Washington Post – condotto il 6-10 di aprile tra i votanti registrati- indica che Donald Trump è il più impopolare candidato alla presidenza degli Stati Uniti degli ultimi 30 anni: il 67% degli americani ha un’opinione sfavorevole di Trump, secondo solo al leader del Ku Klux Klan David Duke, candidato presidenziale nel 1984. Per inciso, Sanders ha un netto positivo di 9 punti – anche se occorre sottolineare che una delle ragioni di ciò è che Sanders ha ricevuto molto meno attacchi e critiche da repubblicani o anche democratici.

Secondo un sondaggio di CBS – condotto l’8-12 di aprile – il 54% dell’elettorato registrato a votare ha un’opinione negativa di Clinton. Lo stesso recente sondaggio NBC-Wall Street Journal, indica che i giudizi negativi verso Clinton sono aumentati e ora superano i giudizi positivi di 24 punti. L’immagine di Clinton tra i principali gruppi demografici è pari o vicina a minimi storici. Tra gli uomini, è a meno 40; tra le donne, è a meno 9; tra i bianchi, è a meno 39; tra le donne bianche, è a meno 25; tra gli uomini bianchi, è a meno 72. Gli elettori che provengono da minoranze costituiscono il perno della strategia di Clinton per raggiungere la nomina e sono stati fondamentali per il successo a New York.

Tra gli afro-americani, il sondaggio NBC – Wall Street Journal mostra per Clinton un netto positivo di 51 punti. Ma questo dato è sceso di 13 punti rispetto a quello del primo trimestre di quest’anno e sta al livello più basso di sempre. Tra i “latini”, il netto positivo per Clinton è di soli 2 punti, in calo da oltre 21 punti durante il primo trimestre.  La percezione degli elettori per quanto riguarda la conoscenza e l’esperienza di Clinton per essere Presidente rimane fortemente positiva e immutata rispetto allo scorso autunno. Su altri aspetti, ad esempio, se “è in grado di portare un reale cambiamento nel paese”, o “è onesto e diretto”, Clinton ha visto la sua posizione erosa dallo scorso autunno.  “Clinton è un candidato che gli elettori hanno squalificato ad essere Presidente“, dice Bill McInturff, uno stratega Repubblicano che ha condotto il sondaggio per NBC-Wall Street Journal assieme al Democratico Peter Hart. McInturff ha anche aggiunto: “I numeri negativi di Clinton sono terribili e non sono emersi chiaramente perché c’è un candidato che ha numeri negativi peggiori. Donald Trump ha attratto così tanto l’attenzione che Clinton è scivolata sotto il radar per quello che dovrebbe costituire una circostanza di grande rilievo e che fa notizia: i numeri negativi di Clinton sono passati da terribili a storici e squalificanti“.

Naturalmente i diversi sondaggi hanno margini di errore e sono variabili nel tempo. Tuttavia, con l’elevato livello di elementi negativi che i sondaggi evidenziano per Clinton e Trump risulta molto complicato compattare il paese. In un momento tanto delicato per gli Stati Uniti e per il mondo, non emerge un candidato capace di unire e guidare il paese più importante del pianeta.

Se esaminiamo con maggiore attenzione la campagna presidenziale, ci si rende conto che i vari candidati – non solo Clinton e Trump – non riescono a rispondere alle richieste degli elettori e alle esigenze della gente.

Da parte repubblicana, Trump si esprime sempre in termini generali e attraverso slogans; non presenta un’impostazione articolata sulle misure che intende prendere se diventerà Presidente. Trump sembra quasi esclusivamente puntare sulla sua capacità di negoziare e fare affari con chiunque applicando alla politica la formula del suo successo come imprenditore. Lo slogan che attrae molti consensi è quello di fare l’America di nuovo grande.  Non emergono i principi ispiratori delle politiche di Trump. Pur con molti distinguo, Trump rischia d’incarnare la versione statunitense dell’autoritarismo democratico che si sta diffondendo in molti paesi.

Il principale avversario di Trump nel campo repubblicano, in questo momento, Ted Cruz, si rivolge all’elettorato conservatore: ha sposato le rivendicazioni dei gruppi religiosi; osteggia le iniziative in politica interna (la riforma sanitaria) e in politica estera (l’accordo con l’Iran e l’apertura verso Cuba) del Presidente Obama; dimostra intolleranza verso musulmani ed emigranti in genere (anche se continuamente ripete la storia del padre fuggito da Cuba negli Stati Uniti negli anni ‘50); nel 2013 è stato in prima linea a favore della chiusura, per la mancata approvazione del bilancio, degli uffici e servizi governativi.

Analogamente, candidati che si sono ormai ritirati – come Bush e Rubio- hanno ripetuto gli slogans contro Obama, ma senza articolare proposte alternative che stimolino gli elettori.

A proposito dell’incapacità di entrare in sintonia con l’elettorato, un aspetto significativo è la circostanza del dibattito del 9 marzo tra Clinton e Sanders trasmesso dalla rete “latina” Univision in collaborazione con la CNN. Nessuno dei due candidati democratici parla spagnolo e il dibattito si è svolto in inglese. L’aspetto sconcertante di questo avvenimento è che i repubblicani, che hanno due candidati “latini” (Cruz e Rubio sono di origini cubane) e Jeb Bush un candidato praticamente bi-lingue, non sono stati in grado di allestire un analogo dibattito che sarebbe stato accattivante per la platea “latina”. Questo per due ragioni: le offensive dichiarazioni di Trump nei confronti dei messicani; la circostanza che Cruz e Rubio non hanno un seguito significativo nella comunità “latina” dalla quale provengono.

I repubblicani, quindi, hanno candidati che avrebbero potuto aspirare a mobilitare il voto “latino” – avendo la relativa comunità una propensione maggiore di altre verso valori conservatori piuttosto che liberali – su temi a loro cari come la famiglia, la religione, ma non sono riusciti a cogliere quest’opportunità.

Da parte democratica, Clinton punta molto sulla circostanza che sarebbe la prima donna Presidente degli Stati Uniti. Durante la sua vita politica, Clinton si è schierata in molte circostanze, a fianco delle minoranze di colore e a favore delle donne. Però Clinton si è spesso disinteressata dei lavoratori che hanno perso il posto con gli accordi di libero scambio e sui quali – grazie alla spinta di Sanders – ora si mostra molto più cauta. Quando era senatrice, Clinton ha votato a favore della guerra in Iraq – posizione per la quale si è scusata. Quando è stata Ministro degli Esteri – durante la prima Presidenza Obama – ha favorito l’intervento in Libia. Inoltre, l’utilizzo di un sistema di posta elettronica personale mentre era Ministro degli esteri – e per il quale è in corso un’inchiesta dell’FBI- non depone a favore della trasparenza e della capacità di giudizio. Anche in questo caso, Clinton si è dovuta scusare. Infine, gli elevatissimi contributi alla sua campagna elettorale – oltre che alla Fondazione Bill Clinton – da parte di grandi corporazioni che rappresentano potenti interessi finanziari e industriali, accentuano il clima di sfiducia che circonda Clinton.

Sanders, una persona semplice e coerente, che nella sua vita politica non ha ottenuto grandi risultati, emerge come un candidato serio, solido, credibile. Si basa, forse in modo eccessivo, sulle insoddisfazioni della classe media e sulle aspirazioni dei giovani; lascia dei dubbi su come potrà realizzare le sue politiche progressiste e la sua “rivoluzione”.

Il probabile scontro Clinton-Trump emerge come una scelta tra il consumato politico e il non-politico che rompe gli schemi esistenti e attrae consensi per un cambio di direzione. Lo spettacolo è assicurato e gli esiti incerti (anche se molti sondaggi indicano Clinton favorita). In tale contesto, viene spontaneo immaginare i potenziali candidati repubblicani e democratici che avrebbero potuto partecipare alla selezione per diventare Presidente degli Stati Uniti, ma che probabilmente hanno perso l’occasione.

Paul Ryan, repubblicano, Presidente del Congresso degli Stati Uniti succeduto a Boehner nell’ottobre 2015, candidato a vice Presidente con Romney nel 2012 che s’ispira all’autorevole Jack Kemp – un repubblicano dell’epoca di Reagan favorevole alla riduzione delle tasse, all’economia di mercato e con un’attenzione particolare verso i ceti meno favoriti e l’immigrazione– è il personaggio di statura che, malgrado le smentite, potrebbe emergere come il candidato presidenziale repubblicano in caso si verifichi, a luglio, un Congresso diviso.

Paul Ryan sarebbe in grado di unire il partito repubblicano con un programma diretto al risanamento economico e finanziario e ispirato a principi libertari e di libero mercato. Tuttavia, egli non ha compreso che questo poteva essere il suo momento e che si sarebbe dovuto presentare come candidato fin dall’inizio delle primarie, evitando al partito la situazione difficile nella quale si sta mettendo.

Elizabeth Warren, senatrice democratica del Massachusetts, già professoressa di Diritto Fallimentare nella prestigiosa Scuola di Giurisprudenza di Harvard  – un solido personaggio ugualmente carismatico e di prestigio – avrebbe potuto essere un candidato ideale per il partito democratico e sarebbe stata probabilmente in grado di abbracciare l’appello alle nuove generazioni di Sanders, l’essere donna e le posizioni contro interessi precostituiti, come testimoniano le battaglie in Congresso contro le lobbies – soprattutto quella finanziaria – e per la protezione del consumatore. Anche in questo caso, Elizabeth Warren non ha avuto l’intuizione e il coraggio di candidarsi alla Presidenza.

Un confronto Ryan-Warren sarebbe stato molto ricco di contenuti; avrebbe focalizzato in modo profondo sui temi principali con i quali gli Stati Uniti debbono confrontarsi: il restringimento della classe media; le diseguaglianze; la concentrazione della ricchezza; e come immigrazione e crisi mondiali interagiscono con le problematiche interne. In definitiva, Ryan e Warren avrebbero affrontato il tema di fondo di come rivitalizzare il c.d. “sogno americano” dell’uguaglianza delle opportunità che porta al raggiungimento delle più elevate aspirazioni individuali. Sarebbe stato interessante confrontare la risposta che repubblicani e democratici intendono fornire a questi temi di grandissima valenza. C’è da auspicare che, oltre all’inevitabile spettacolo, lo scontro che si preannuncia tra Clinton e Trump affronti con serietà temi fondamentali per il futuro degli Stati Uniti e del mondo.

*Esperto di politiche pubbliche, residente negli Stati Uniti; docente Istituto Studi Europei, Roma