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Blasoni: “Ma senza vera ripresa non riparte l’occupazione”

Blasoni: “Ma senza vera ripresa non riparte l’occupazione”

di Massimo Blasoni*

Alla luce dello studio di ImpresaLavoro appena pubblicato, l’analisi dell’andamento degli occupati in Italia segnala come non vi sia stato un incremento sensibile dei nuovi posti di lavoro e come la decontribuzione abbia favorito l’attivazione di nuovi contratti a tempo indeterminato perché molto vantaggiosi e la trasformazione di rapporti di lavoro a termine o atipici. Un obbiettivo perseguito dal governo con l’impiego di risorse consistenti.

I numeri dell’occupazione, però,  confermano come sia complesso slegare l’andamento del mercato del lavoro da quello dell’economia più in generale: con una crescita economica così debole, anche in presenza di incentivi molto vantaggiosi, si avranno riflessi occupazionali limitati.

*Presidente del centro studi ImpresaLavoro

Sacconi: “Ora interventi strutturali su regole e oneri indiretti”

Sacconi: “Ora interventi strutturali su regole e oneri indiretti”

di Maurizio Sacconi*

Il centro studi ImpresaLavoro ha prodotto questa interessante elaborazione sui nessi tra l’azzeramento dei contributi previdenziali e i rapporti di lavoro a tempo indeterminato che si sono generati nel 2015. Come è noto questo incentivo è stato ridotto nell’anno in corso fino a dissolversi nel prossimo. Mentre è aperta la riflessione sul grado di efficacia di così tanta convenienza a convertire i rapporti di lavoro a termine o ad accendere nuovi lavori permanenti, ritorna il ricordo di una espressione ricorrente di Marco Biagi: “Non esistono incentivi finanziari sufficienti a compensare i disincentivi regolatori”.

È ben vero che il jobs act ha coniugato con l’azzeramento dei contributi una disciplina più flessibile dei licenziamenti ed una rigida separazione tra autonomia e subordinazione nei rapporti di lavoro disincentivando in particolare il ricorso alle collaborazioni coordinate e continuative e quasi cancellando, con poche eccezioni, quelle a progetto. Ma la riforma non è stata completa perché ha mantenuto in vita, seppure per fattispecie più circoscritte, la sanzione della reintegrazione con la conseguente incertezza sugli esiti del contenzioso che si produce nel caso di licenziamento ove ne venga contestata la illegittimità.

Solo una clausola di opting out in favore della soluzione risarcitoria avrebbe offerto al datore di lavoro la certezza di poter risolvere il rapporto di lavoro nel caso di rottura del fondamentale nesso fiduciariario che lo sostiene. Permane quindi una unicità tutta e solo italiana in Europa a questo proposito con la conseguenza che non si è fino in fondo prodotto quell’essenziale incentivo regolatorio che avrebbe potuto incoraggiare la propensione ad assumere con contratti permanenti. È quindi legittimo supporre che il vantaggio relativo agli oneri previdenziali abbia utilmente ridotto i costi per le imprese che occupano – anche se con una significativa spesa pubblica di parte corrente – ma non abbia determinato, se non in misura contenuta, la scelta del contratto permanente, cui il datore di lavoro avrebbe comunque fatto ricorso perché coerente con le esigenze dell’impresa.

Dobbiamo quindi ora riprendere un percorso di interventi strutturali sia dal lato delle regole che da quello degli oneri indiretti sul lavoro se vogliamo sostenere una crescita con occupazione. Le buone politiche del lavoro non sono infatti solo distributive ma esse stesse concorrono a generare sviluppo perché incoraggiano gli investimenti e la produttività. Non si tratta di riaprire il cantiere delle riforme già troppo a lungo sovrappostesi con incertezze per gli operatori, ma di dotare le parti collettive e individuali degli accordi di lavoro della capacità di adattare le modalità di svolgimento delle prestazioni lavorative, tanto dipendenti quanto indipendenti, agli straordinari cambiamenti che in ciascuna impresa, asimmetricamente, sta producendo la quarta rivoluzione industriale.

Le nuove tecnologie digitali modificano ogni giorno l’organizzazione della produzione e del lavoro con velocità e imprevedibilità che non hanno precedenti. In particolare, si avvera la profezia di Biagi che proponeva uno Statuto dei Lavori, di tutti i lavori, perché individuava una crescente confusione tra lavoro subordinato e lavoro autonomo (altro che rigido formalismo giuridico!) derivante dalla smaterializzazione della postazione fissa, dal superamento dell’orario rigido, dalla fine della totale predeterminazione del salario.

Ogni tentativo di fissare il cambiamento deducendone nuove regole rigide sarebbe immediatamente superato dalla realtà. Non più riforme delle tipologie contrattuali quindi ma una evoluzione dell’art.8 del DL 138/11 in modo da consentire ai contratti collettivi aziendali o territoriali e ai contratti individuali certificati di regolare in modo originale, al di la’ di ciò che dispongono leggi e contratti nazionali, gli inquadramenti e le mansioni, i modi di apprendimento permanente con relativa certificazione periodica delle abilità, l’orario e i luoghi di lavoro, le conseguenti modalità specifiche di tutela sostanziale della sicurezza, la definizione a risultato della retribuzione strutturalmente detassata.

In questo modo le parti possono dare pieno valore alle nuove tecnologie e ai vantaggi che inducono tanto sull’impresa quanto sui lavoratori. Altrimenti si generano solo gli effetti negativi della sostituzione dei lavori routinari che nel caso italiano, caratterizzato da una grande dimensione di produzioni manifatturiere seriali, possono essere rilevanti. E a questo riguardo appare necessario anche un Piano nazionale di alfabetizzazione digitale in modo da garantire a tutti i lavoratori il diritto di accedere a fondamentali conoscenze e competenze.

Contemporaneamente, sarà necessario ridurre il costo indiretto del lavoro in modo non più congiunturale ma certo e irreversibile, agendo su quelle contribuzioni che sono sovradimensionate rispetto alle prestazioni come quelle relative agli infortuni, alla malattia, agli ammortizzatori sociali. Si potrebbe perfino ipotizzare una riduzione dei contributi previdenziali obbligatori per cui si incrementerebbe la busta paga del lavoratore, che avrebbe la possibilità di destinare la maggiore entrata alla pensione complementare e di negoziare versamenti aggiuntivi da parte del datore di lavoro.

In questo modo, definito uno zoccolo obbligatorio per tutti i lavoratori, da un lato si determinerebbe un incentivo ad assumere senza oneri per lo Stato e, dall’altro, sarebbero le buone condizioni d’impresa a consentire un accantonamento previdenziale anche più elevato rispetto al regime vigente. Nel caso dei professionisti non ordinistici che effettuano versamenti alla cosiddetta gestione speciale dell’Inps, si tratta di consentire loro la costituzione di una Cassa previdenziale autonoma alimentata dalla stessa contribuzione obbligatoria ma ragionevolmente in grado di offrire prestazioni pensionistiche ben più consistenti e forme di welfare integrativo.

Sono questi i contenuti dei due disegni di legge all’esame del Senato e dei quali sono relatore. Auguriamoci che anche i grandi attori della rappresentanza di interessi, così immobili nel presente e nel recente passato, avvertano il dovere di concorrere a governare questo tornante della storia abbandonando opportunismi, pigrizie, ideologie datate. E, soprattutto, auguriamoci che nelle aziende e nei territori, là ove lavoratori e imprenditori si guardano negli occhi e gli echi romani sono lontani, si esprima la voglia di costruire pragmaticamente il futuro. Alle istituzioni il compito fondamentale di garantire loro un contesto favorevole.

*Presidente Commissione Lavoro del Senato

Diseguaglianza economica: un’apologia

Diseguaglianza economica: un’apologia

di Andrea Mancia e Simone Bressan

Qualcuno lo chiama il “Re filosofo della Silicon Valley”. Per qualcun altro è semplicemente l’ennesimo capitalista diventato ricco alle spalle dei meno fortunati. Comunque la si pensi, però, è davvero difficile restare indifferenti nei confronti di Paul Graham, della sua storia e delle sue idee. Lui – nella biografia del proprio sito personale (un classico esempio di Internet 1.0: molta sostanza e grafica iper-vintage) – si definisce programmatore, scrittore e investitore. E in effetti la cronologia della sua vita professionale si sviluppa proprio in quest’ordine. Graham nasce come “coder” esperto in Common Lisp: una derivazione moderna del linguaggio di programmazione inventato alla fine degli Anni Cinquanta da John McCarthy (uno dei padri dell’Intelligenza Artificiale) al Massachusetts Institute of Technology (MIT). E proprio alle tecniche di programmazione sono dedicati i suoi primi libri, scritti nei primi Anni Novanta.

Laureato in “computer science” ad Harvard (prima di studiare pittura all’Accademia delle Belle Arti di Firenze), Graham affianca quasi subito, alla passione per i linguaggi di programmazione, l’arte e la scrittura, anche uno spiccato senso imprenditoriale. Nel 1995, insieme a Robert Morris, fonda Viaweb, una delle prime compagnie che prova ad immaginare il software come un servizio, piuttosto che un prodotto da vendere sugli scaffali di un negozio specializzato. Con Viaweb, qualsiasi utente – anche con scarse conoscenze informatiche – può creare e gestire, direttamente sul web, un proprio sito di e-commerce. Nel 1998 Viaweb viene acquistata da Yahoo (dove diventerà Yahoo Store) per la cifra di 50 milioni di dollari. E Graham decide di investire la propria neonata fortuna investendo nelle start-up più promettenti della Silicon Valley. La cosa funziona: nel 2005, insieme a Robert Morris, Jessica Livingston e Trevor Blackwell, fonda “Y Combinator”, un incubatore di start-up che in dieci anni ha già finanziato più di 800 aziende nate da zero, tra cui Dropbox, Airbnb, Stripe e Reddit.

La figura di Graham, finora conosciuta soprattutto tra gli addetti ai lavori della Silicon Valley, è improvvisamente diventata di dominio pubblico all’inizio di quest’anno. Tutta “colpa” di un lungo saggio pubblicato su www.paulgraham.com, dal titolo apparentemente innocuo (“Economic Inequality”: diseguaglianza economica), che ha scatenato una vera e propria bufera digitale negli Stati Uniti, con migliaia di tweet e interventi sui social media che si sono rincorsi per giorni. La tesi del fondatore di “Y Combinator”, nonostante la reazione indignata dei social justice warriors di professione, è piuttosto semplice (tanto che, per evitare ulteriori fraintendimenti, Graham ne ha pubblicato anche una versione ridotta all’osso).

La diseguaglianza economica – sostiene Graham – non è un male in sé, perché le sue radici sono multiple: alcune buone e alcune cattive. Può essere causata dall’evasione fiscale o dal razzismo. E questo è male. Ma può anche essere causata dalla moltiplicazione delle start-up di successo. E questo è bene.

La diseguaglianza economica, insomma, non è affatto un sinonimo di problemi reali come la povertà o l’assenza di mobilità sociale, ma casomai una delle conseguenze di questi problemi. Ma se è la diseguaglianza in sé a diventare il nemico da abbattere, nessuno ci assicura che grazie alla sua scomparsa riusciremo a risolvere i problemi reali che ci stanno a cuore. «Proviamo a combattere la povertà – scrive Graham – e se necessario non esitiamo a danneggiare la ricchezza. È molto meno sensato, invece, combattere la ricchezza sperando in qualche modo di risolvere il problema della povertà».

L’errore logico centrale dei fautori della “giustizia sociale ad ogni costo” è rappresentato, secondo Graham, da quella che lui definisce “pie fallacy” (si potrebbe tradurre in qualcosa di simile a “l’errata credenza della torta”). Si tratta della convinzione che l’unico modo per arricchirsi sia quello di sottrarre risorse a chi ne ha di meno, che l’unico modo per mangiare più fette di torta sia quello di sottrarre fette di torta a qualcun altro.

«Il problema – scrive Graham – è che siamo cresciuti in un mondo in cui la pie fallacy è effettivamente reale. In famiglia, da bambini, la ricchezza è davvero una torta dalle dimensioni fisse: quando qualcuno ottiene qualcosa in più è sempre a spese di qualcun altro. Serve uno sforzo mentale non indifferente per ricordare a se stessi che il mondo reale non funziona in queso modo. Nel mondo reale si può creare ricchezza in molti modi, non solo togliendola ad altri. Un falegname crea ricchezza: ci costruisce una sedia e noi gli diamo volontariamente soldi in cambio della sua creazione. Al contrario, un high-frequency trader non crea ricchezza, visto che guadagna un dollaro solo quando qualcuno, dall’altra parte dello scambio, perde un dollaro. Se le persone, in una società, diventano ricche togliendo solo denaro ai poveri, allora abbiamo un caso di diseguaglianza economica degenerata, in cui le cause della povertà sono le stesse cause della ricchezza. Ma se un falegname costruisce cinque sedie e un altro falegname ne costruisce una sola, il secondo sarà meno ricco del primo, ma non certo perché il primo gli abbia sottratto alcunché».

La ricchezza di una società, insomma, non è un gioco a somma zero. E in un mercato libero, molti diventano ricchi senza togliere niente a nessun altro. Anzi, diventano ricchi creando ricchezza. E il progresso tecnologico degli ultimi decenni ha moltiplicato e accelerato questa dinamica.

«Negli anni Sessanta, quando la diseguaglianza economica era più bassa – spiega Graham – quello che oggi sarebbe un potenziale creatore di una start-up aveva solo due strade davanti a sé: farsi assumere da una grande azienda o insegnare in un’università. Prima di lanciare Facebook, Mark Zuckerberg era convinto che sarebbe finito a lavorare per Microsoft. La vera ragione per cui lui, insieme ad altri fondatori di start-up, è finito per diventare molto più ricco di quanto non sarebbe potuto esserlo verso la metà dello scorso secolo, non è per qualche oscura macchinazione organizzata durante l’Amministrazione Reagan, ma perché il progresso della tecnologia ha reso molto più semplice creare nuove aziende in grado di crescere rapidamente».

O si vieta del tutto la possibilità alle persone di inseguire il sogno della ricchezza, insomma, oppure bisogna rassegnarsi a fare i conti con una diseguaglianza economica crescente,

«Io credo – conclude Graham – che la crescente diseguaglianza economica sia il destino inevitabile di nazioni che hanno scelto di non diventare qualcosa di nettamente peggiore. E quanto ascolto le persone parlare di quanto la disuguaglianza economica sia un fatto negativo e di come si dovrebbe cercare di ridurla, mi sento come un animale selvatico che sta origliando una conversazione tra cacciatori. (…) Ma su questo punto bisogna essere perfettamente chiari. Eliminare le grandi variazioni di ricchezza significa eliminare del tutto la possibilità che nascano nuove start-up. Siete sicuri, cacciatori, di voler davvero sparare a questo strano animale? Tra l’altro, potreste soltanto limitarvi ad eliminare le start-up nel vostro paese. Le persone sono già abituate a spostarsi in giro per il mondo allo scopo di migliorare la propria vita professionale. E qualsiasi start-up può ormai operare in qualsiasi parte del pianeta. Così, anche se riusciste a rendere impossibile la creazione di ricchezza nel vostro paese, l’unico risultato sarebbe quello di costringere le persone ambiziose ad andarsene per inseguire i propri sogni altrove. Il che vi garantirebbe senz’altro un Coefficiente di Gini più basso, ma anche una lezione sulla necessità di essere estremamente cauti quando si desidera qualcosa».

Diseguaglianza economica: una critica

Diseguaglianza economica: una critica

di Paolo Ermano

Di getto, appena letto l’articolo di Bressan e Mancia, mi sono chiesto come mai un soggetto descritto come il “Re filosofo della Silicon Valley” parlasse di diseguaglianza in un modo così naïf. Maliziosamente ho pensato che per uno come Graham sostenere che la diseguaglianza è un bene equivale a rigettare ogni progetto di politiche di redistribuzione, una presa di posizione contro ogni disegno di aumento delle tasse per chi, come lui, non può certo definirsi povero. Peraltro l’appellativo di “Re” non fa ben sperare sulle sue buone intenzioni iniziali rispetto al tema.

Tuttavia, volendo dar credito alla visione di Graham, e leggendo per intero il contributo presente sul suo sito, si scopre come questo guru, dietro il discorso sulla diseguaglianza, cela una visione semplificata delle relazioni economiche: chi ha meritato di guadagnare soldi perché ha prodotto, inventato, creato beni o servizi di successo è giusto che sia più ricco di chi non ha realizzato nulla.

Questa tesi però non dice nulla sulla diseguaglianza: non ne indaga le ragioni intrinseche; non indaga i motivi per cui possa essere accettabile un certo livello di diseguaglianza; non discute o problematizza gli effetti della diseguaglianza sulla società; infine lascia poco margine nel comprendere le cause del successo di una persona, quanto dipendano dal merito e quanto dalle circostanze.

Per quanto riguarda le ragioni intrinseche, è il caso di ricordare che la diseguaglianza economica (una delle diverse forme di diseguaglianza presenti nelle nostre società) è un concetto che tocca sia la dimensione quantitativa che la dimensione temporale: Graham discute della prima dimensione, confondendo peraltro le dinamiche macro e microeconomiche, dimenticando la dimensione temporale. Infatti, nel parlare della diseguaglianza confonde la dimensione macro con la dimensione micro. Alla prima che permette di comprendere e discutere come alcuni accumulino risorse a scapito di altri grazie, ad esempio, alla presenza di rendite di monopolio, elusione fiscale, o pressioni corporative, Graham vi contrappone la visione microeconomica che si limita a dire che chi produce di più di altri diventa più ricco. Ma se è vero che secondo una visione microeconomico si può giungere a quella che Graham chiama pie fallacy, cioé il fatto che la torta da spartire cresce con la crescita economica, quindi il mio consumo può essere indipendente dal tuo, è da un punto di vista macroeconomica la tesi di Graham non porta in alcun modo a comprendere l’altra faccia del problema: il meccanismo di trickle down ovvero le modalità attraverso cui l’aumento della dimensione della torta porta un beneficio all’intera comunità. Perché se la torta aumenta ma è sempre uno e uno solo a prendersi la parte in più, siamo punto e a capo.

E per comprendere come dalla visione micro si passi alla visione macro serve il tempo, ovvero la dinamica. Un bravo artigiano ha successo, guadagna molto e quindi assume uno o più disoccupati, riducendo così attraverso meccanismi di mercato la diseguaglianza, e partecipa a programmi più o meno sofisticati di redistribuzione delle risorse attraverso gli obblighi fiscali. Dimenticare questa dinamica, fatta di Stato e mercato, non permette a Graham di sostenere adeguatamente la pie fallacy.

Poi c’è la questione di quanta diseguaglianza sia accettabile. Al di là dei problemi filosofici brillantemente discussi nel secolo scorso da J. Rawls prima e da A. Sen poi, oramai la letteratura scientifica sui problemi conseguenti ad un eccesso di diseguaglianza è ampia e consolidata: dai problemi di rigidità sociale, alle patologie sociali e sanitarie, al basso tasso di crescita economica, sono molti gli effetti e i meccanismi attraverso cui la diseguaglianza impatta negativamente su una comunità. Semplificando, possiamo dire che un livello basso di diseguaglianza offre gli stimoli per eccellere; un livello eccessivo di diseguaglianza, invece, può sigillare la società perché chi è ricco non vorrà creare le condizioni per mettere in discussione la sua ricchezza, il suo status. E nell’America che si appresta al voto, i probabili candidati saranno un miliardario figlio di un miliardario e la moglie dell’ex-presidente degli USA: non proprio un’immagine di mobilità sociale dopo quella strepitosa icona che è Obama.

Ho già accennato, senza approfondirli, all’esistenza di diversi motivi per cui un’eccessiva diseguaglianza è dannosa. Ripeto, la letteratura è già ricca: la si può prendere sul serio o ignorarla come fa Graham. Ma sulla falsariga delle argomentazioni di Graham c’è un altro molto più sottile che già Stuart Mill metteva in luce: un eccesso di diseguaglianza limita la libertà delle persone poiché non permette a chi vuole investire il proprio tempo e il proprio talento in attività poco remunerate di dedicarvisi. Partiamo dall’esempio offerto da Graham quando parla di Zuckerberg: ricorda il “Re filosofo della Silicon Valley” che il fondatore di Facebook pensava sarebbe finito a lavorare presso la Microsoft. Zuckerberg, figlio di un dentista e di una psichiatra, iscritto a Harvard, se fosse finito a lavorare alla Microsoft, stipendio medio a Seattle $110.000, forse non sarebbe stato così famoso, ma certamente non avrebbe patito la fame: seguiva un percorso di programmatore informatico negli anni 2000, competenze che da almeno un paio di decadi erano al centro del mercato del lavoro. La scelta di formarsi e specializzarsi in un settore in ascesa ha dato a Zuckerberg più opportunità di avere successo. Se si fosse innamorato di archeologia maliana o di fauna marina del Mediterraneo, per esempio, forse avrebbe avuto le sue difficoltà a trovare lavoro. Stuart Mill, allo stesso modo, rivendicava l’importanza di avere una società che nel difendere la libertà dell’individuo ne difendesse anche le sue inclinazioni, qualunque esse fossero nel rispetto degli altri. La concentrazione della ricchezza in poche soggetti operanti in specifici settori limita l’apertura verso un insieme più ampio di possibilità che potrebbero rivelarsi altrettanto importanti rispetto all’invenzione di un social-network. Infatti, se è necessario competere continuamente per il successo economico, è molto più utile concentrarsi nei settori più remunerativi, quelli che da anni forniscono la lista dei più ricchi: fra tutti, finanza e informatica. Ma siamo sicuri che questo sia il modo migliore per far crescere una società ricca e libera?

Infine c’è un altro punto da discutere: restando all’esempio di Graham, il benessere di Zuckerberg era già scritto nella sua origine, nella scuola che frequentava. Il successo, forse, è stato casuale. Certamente il giovane informatico aveva le competenze per creare Facebook, ma sarebbe bastato poco per non trovarsi nel posto giusto al momento giusto: ora staremo a parlare di un’altra persona, non di Zuckerberg. Ma certamente, e questo è un punto essenziale, Zuckerberg non sarebbe finito povero.

Si stima che il luogo di nascita spieghi il 60% della variabilità dei redditi a livello globale. Se al luogo di nascita inseriamo una variabile che definisca lo status dei genitori, quella percentuale sale all’80%. Dov’è il merito, nel restante 20%? Neanche lì, per certi versi: infatti, se nell’analisi dei redditi inseriamo genere, età e colore della pelle, infatti, riduciamo ancora l’incidenza del merito. Parafrasando un famoso proverbio: chi ben nasce è ben oltre la metà dell’opera. Ad esempio, nell’America della retorica del self-made-man se sei bianco, maschio e figlio di benestanti è più facile impegnarsi e ottenere risultati rispetto ad una femmina, nera e vieni dai sobborghi di una metropoli. Facciamoci caso: la maggior parte delle storie di successo delle Silicon Valley è fatta di bianchi, maschi, provenienti da famiglie benestanti. È questa la diseguaglianza motore del mondo che celebra il bianco, maschio e benestante Graham?

Senza credito niente impresa

Senza credito niente impresa

Massimo Blasoni – Metro

L’erogazione del credito in Italia resta modesta. Il Quantitative Easing varato dalla Bce ha calmierato lo spread del debito sovrano ma non è riuscito a incrementare il trasferimento di risorse alle famiglie e soprattutto alle imprese. La stretta creditizia è confermata da Bankitalia, che ha registrato a fine 2015 una variazione percentuale negativa su base annua dello 0,3%. Scomponendo il dato si scopre che a dicembre i prestiti alle famiglie erano cresciuti dello 0,8% su base annua: un aumento impercettibile. Ben diversa la situazione per le società non finanziarie. Come succede ormai da più di un quinquennio, il 2015 si è infatti si è concluso con un -0,7% che fa riflettere su quanto sia difficile per le nostre imprese ottenere credito. I dati Bce ci dicono che nello stesso anno la situazione è invece migliorata sia in Francia (+1,6%) sia in Germania (+3,3%).

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Quanto sono vulnerabili le imprese italiane?

Quanto sono vulnerabili le imprese italiane?

di Giuseppe Pennisi*

Un lavoro (appena messo on line)  dell’ufficio studi della Banca d’Italia modellizza le fragilità delle imprese italiane. Ne sono autori Antonio De Socio e Valentina Michelangeli, ambedue del servizio studi di Via Nazionale (Modelling Italian Firms – Financial Vulnerability. Bank of Italy Occasional Paper No. 293).

Nel lavoro viene elaborato un modello per valutare l’evoluzione della vulnerabilià finanziaria delle imprese utilizzando dati micro-economici (e micro-finanziari) al fine di tenere conto della differenza dei settori e dei comparti, nonché di quella che può essere chiamata la loro “demografia” (da quanto tempo sono sul mercato). La analisi micro – è questo uno degli aspetti significativi del lavoro – viene integrata con considerazioni e stime macro economiche al fine di stimare l’andamento dell’EBITDA (Earnings Before Interest, Taxes, Depreciation and Amortization, acronimo  inglese che in italiano viene comunemente tradotto Margine Operativo Lordo, o MOL) le spese per interessi, ed il debito finanziario per ciascuna impresa individuale in un orizzonte di due anni.

In questo modo, si ottiene una previsione delle percentuale della aziende italiane che possono essere considerate “vulnerabili” dal punto di vista finanziario; ad esempio quelle il cui EBITDA, o MOL, è negativo o quelle le cui spese per interessi sono pari al 50% dell’ EBITDA, o MOL od ancore quelle il cui indebitamento tende ad aumentare.

Applicando il modello ai dati del 2013 per 660.000 imprese (dati disponibili nel 2015), lo studio stima un aumento delle imprese “vulnerabili” nel 2014 ma una loro contrazione nel 2015 (quando si sono avvertiti i flebili segnali di una ripresa dell’economia reale e c’è stata una riduzione significativa dei tassi d’interesse). Il modello viene anche impiegato per tratteggiare scenari di stress finanziario (sulle imprese del campione).

Lo strumento è senza dubbio di grande utilità. Tuttavia, una pubblicazione più tempestiva delle previsioni (sempre che i dati siano disponibili) potrebbe essere più significativa, specialmente in una fase (come l’attuale) in cui i segnali di ripresa si stanno affievolendo e ci sono avvisaglie di una deflazione. Potrebbe essere utile non solo ai fini delle decisioni della Banca centrale europea (quali quelle che il Consiglio dell’Istituto con sede a Francoforte dovrà prendere il 10  marzo) ma anche e soprattutto come input nelle politica tributarie nazionali. Imprese vulnerabili  vogliono dire Italia vulnerabile.

* Presidente del board scientifico del Centro Studi “ImpresaLavoro”

Privatizzare, prima di tutto. Due chiacchiere con Massimo Blasoni

Privatizzare, prima di tutto. Due chiacchiere con Massimo Blasoni

Antonluca Cuoco – Strade

Proviamo per un attimo a immaginare di vivere in un’altra Italia, dove i cittadini possono decidere cosa fare dei soldi delle proprie pensioni senza essere obbligati a consegnarli agli sprechi dell’Inps, dove i diritti dei lavoratori pubblici e privati sono uguali, tutte le Tv sono private, in competizione e senza canone obbligatorio e dove non esistono partecipazioni pubbliche in società inutili (clamorosi sono i casi di quelle con più consiglieri d’amministrazione che dipendenti).

Nell’Italia dove invece viviamo per davvero, la pressione fiscale riconducibile alle amministrazioni locali è al massimo storico, come evidenziato dai dati della ricerca “La legge di stabilità 2016 e le prospettive della tassazione locale in Italia”, realizzata dal Cer in collaborazione con Confcommercio. 
Negli ultimi venti anni (1995-2015) le tasse locali sono passate da 30 a 103 miliardi di euro (+248%), mentre nello stesso periodo di tempo le tasse centrali sono cresciute del 72% da 228 miliardi a 393 miliardi. Di più: se nel 1998 meno del 9% dell’imposizione diretta era riconducibile alle Amministrazioni locali a fine 2014 tale quota è salita al 15%.

I dati evidenziano inoltre una marcata dicotomia tra nord e sud d’Italia sul fronte della tassazione. Focalizzando l’analisi sul Mezzogiorno, è amaro sottolineare quanto il Sud sia tra i maggiori pagatori a causa delle inefficienze del sistema. C’è uno scarto di 3-4 punti percentuali, una differenza analoga a quella che vediamo tra il nostro paese e la Germania. A Sud ci sono meno servizi e più imposte, e ancora più che nel resto d’Italia è evidente come le aliquote siano del tutto scollegate dai servizi resi in cambio. Immaginiamo un contribuente tipo con un imponibile Irap o un imponibile Irpef di 50 mila euro. A Roma la pressione Irap più Irpef arriva al 38% seguita da Campobasso e Napoli con il 37,4 e il 37,2%. Seguono Catanzaro, Palermo e L’Aquila con 36,8%. Le città più convenienti dal punto di vista fiscale sono Cagliari (34,8%), Bolzano (34%) e Trento (33,5%).

E’ necessario condurre una riflessione approfondita sulla presenza della mano pubblica nell’economia e nella società. Urge intraprendere un drastico processo di privatizzazione dei beni, immobili e mobili, e di liberalizzazione dei servizi pubblici. Bisogna privatizzare e contemporaneamente, laddove sussiste una situazione di monopolio od oligopolio protetto da barriere all’entrata, liberalizzare. Se da un lato privatizzando è possibile ridurre spesa e debito pubblico, e favorire lo sviluppo di un’economia più efficiente e meno gravata di imposte, dall’altro va ricordato che l’obiettivo fondamentale delle privatizzazioni deve essere quello di allargare gli spazi di libertà.

Di quest’altra Italia necessaria, più snella, aperta e competitiva, parliamo con chi in questo paese vive e fa impresa da oltre 20 anni; è Il presidente del Centro Studi Impresa Lavoro, Massimo Blasoni, che offre ottimi spunti di riflessione nel suo libro “Privatizziamo!

Volendo sintetizzare in un tweet gli argomenti svolti potremmo dire: meno Stato e più privato, così l’Italia riparte?

Sì, senza dubbio. Speso gli italiani restano perplessi di fronte a ipotesi di radicale contrazione degli spazi di intervento dello Stato nelle nostre vite. È comprensibile, perché a lungo si è dato per scontato che alcune funzioni pubbliche dovessero essere garantite, erogate e controllate da esso. E che quasi ogni atto dovessero soggiacere a una autorizzazione pubblica, concessa paternalisticamente o autoritariamente. Allo stesso modo ci si è abituati al fatto che lo Stato dovesse intervenire nei campi più disparati, occupandosi non solo di regolare, ma anche di produrre e vendere beni e servizi finanziati da tariffe o imposte. Ma è possibile ipotizzare in una società organizzata diversamente, con meno Stato e più ampi spazi per le attività private di imprese e famiglie. È un’ipotesi che pone l’accento su aspetti di libertà e, a ben pensarci, anche di giustizia sociale.

Per costruire il futuro, bisogna anzitutto studiare il passato: cioè la prima ondata italiana di privatizzazioni, tra il 1993 e il 2005. Come non ripetere gli errori?

Nel nostro Paese si è privatizzato poco e, soprattutto, male. Il fine non è stato migliorare la competitività di quelle imprese, ma piuttosto quello di cedere una parte delle azioni, per fare cassa, ben attenti a mantenere il controllo e il potere direttivo. Così è stato per Enel, Fincantieri, Finmeccanica e via dicendo. Il resto è storia recente. Consideriamo la privatizzazione delle Poste. L’azienda verrà venduta senza separare il servizio postale tradizionale dal Banco Posta, cosicché i profitti del secondo continueranno a sostenere il servizio core e in modo certo non trasparente. Esattamente l’opposto di ciò che ha fatto Google quando ha creato Alphabet. E la privatizzazione delle Poste non è certo sostanziale, visto che il Tesoro manterrà il 60% delle azioni e imporrà, per il residuo, un tetto del 5% al possesso azionario. Malgrado tutto ciò, grazie alle privatizzazioni lo Stato ha comunque incassato 127 miliardi di euro, anche se non ne ha approfittato per riconvertire e modernizzare l’economia italiana, o ridurre il debito pubblico. Resta moltissimo da fare, ma bisogna partire dal convincimento che lo Stato non deve gestire le imprese. Non ci sono poi solo le società del Tesoro, ma anche le migliaia di partecipate di comuni, province e regioni. Talvolta sono inutili o sono nate per dare una veste solo formalmente privata – vantaggiosa per maneggi politici – e andrebbero semplicemente chiuse. Negli altri casi è d’uopo privatizzarle: sono costate alla collettività 26 miliardi (relazione Corte dei Conti) nel 2014, pur rendendo servizi spesso inefficienti. Privatizzare correttamente non vuol dire creare nuovi monopoli, ancorché privati. Privatizzazioni e liberalizzazioni debbono procedere di pari passo. La concorrenza è altrettanto fondamentale per raggiungere i risultati che vorremmo in tema di qualità dei servizi e minor costo per i cittadini.

Siamo abituati a pensare che sia ovvio e normale che uffici pubblici, scuola, sanità, pensioni, acqua, siano attività gestite direttamente dallo stato. In che modo “Privatizziamo!” dimostra che un diverso modello è possibile e migliora la vita di famiglie e imprese?

Il peso dello Stato frena tutta l’economia. Il governo di David Cameron ha ridotto tra il 2010 e il 2013 la spesa di una quantità che, tradotta in termini italiani, equivale a 16 miliardi di euro l’anno. In un triennio sono quasi 50 miliardi di spese minori. E oggi l’economia britannica, nonostante sia stata colpita da una crisi finanziaria più grave di quella che ha investito l’Italia, cresce tra il 2 e il 3% annuo. Da noi la spending review è rimasta nel cassetto. Se solo fossimo riusciti ad un andamento della spesa primaria pari a quello della media della zona euro dal 2010 a oggi, il risparmio sarebbe quest’anno di una trentina di miliardi. Ma perché in Italia è tanto difficile ridurre la spesa? Il vero motivo risiede nel grande spazio che Stato, regioni e comuni, in una parola la politica, occupano nell’economia nazionale. Fintanto che quello spazio non verrà drasticamente ridotto, la spesa potrà essere contenuta, ma non scenderà abbastanza da consentire un taglio significativo delle tasse. Lo Stato che spende non brilla affatto per oculatezza e se la spesa è improduttiva non genera effetti moltiplicatori. Quegli stessi denari in mano a famiglie e imprese, di norma, sarebbero invece un volano per l’economia perché spesi meglio e più rapidamente.

Se avessimo la stessa la pressione fiscale spagnola, noi italiani pagheremmo 145 miliardi di euro in meno; anche questo è spread e penalizza pesantemente tutto il ceto produttivo della penisola: sbaglio o è un miracolo se siamo ancora in piedi?

Le tasse in Italia sono passate dal 25% del pil nel 1975 al 50% di oggi perché lo Stato e i suoi apparati sono enormemente cresciuti, e questo frena tutto il Paese. Ma per chi si ostina a fare impresa la situazione è ancora più drammatica. Il nostro costo del lavoro è alto: è noto. Ma il problema più rilevante è che una parte eccessiva di quei denari non finisce in tasca ai lavoratori, ma in tasse. Esattamente il 48,2% nel 2014, contro una media Ocse del 36%. Una percentuale molto più alta che in Giappone o Usa, entrambi intorno al 30%, o in Spagna (41%) e Olanda (38%). Quanto alla total tax rate, cioè al carico fiscale complessivo di ogni tributo compreso che grava sui profitti delle imprese, vale la pena di citare qualche dato. In Italia è il 65,4% (fonte Doing Business 2015), in Germania è il 48,8%, nel Regno Unito il 33,7%, in Irlanda il 25,9%. Un peso obiettivamente eccessivo, che disincentiva l’intrapresa in Italia e gli investimenti esteri.

Se lavori vieni pagato, se lavori molto bene vieni pagato di più, se non lavori vieni licenziato: cosa deve accadere perché questo sogno meritocratico diventi realtà?

Sindacato, magistratura e università rappresentano ruoli e funzioni imprescindibili nella società. La tutela dei lavoratori, la garanzia di una giustizia basata sulla terzietà di chi l’amministra e la conoscenza aperta a larghi strati della popolazione sono conquiste relativamente recenti, sicuramente irrinunciabili. Ciò malgrado, oggi in Italia percepiamo, non del tutto a torto, questi ambiti anche come centri di potere, qualche volta autoreferenziali e certo poco inclini a vedere riformato il proprio ruolo in considerazione del mutare dei tempi. Per crescere le nostre aziende hanno bisogno di un mercato del lavoro flessibile, di elasticità contrattuale e di un sindacato non necessariamente antagonista. Possiamo girarci in tondo ed edulcorare il concetto, ma vi sono situazioni in cui è necessario licenziare, premiare il merito (sempre) o lavorare di più (talvolta). La lentezza della giustizia, soprattutto civile, ci fa perdere un punto percentuale di pil all’anno e ci posiziona al 147esimo posto su 183 Paesi in quanto a tempi ed efficacia nella risoluzione dei contratti civili. E se dei tempi della giustizia soffrono tutti i cittadini, per le imprese è forse ancora peggio. Infine, che senso ha un sapere accademico che rischia di essere solo preservazione del passato se non diventa opportunità di lavoro e risorsa per il mondo produttivo?

Privatizziamo! non sembra voler essere un pamphlet contro la politica. Non è pensabile una società senza regole e senza democrazia ma i tempi che viviamo ci pongono sfide nuove e complicate: come attrezzarsi e con quali strumenti vincerle?

Giustizia sociale, democrazia, libertà e diritto sono più facilmente garantiti in una società che cresce e produce ricchezza. Non perché l’economia sia l’antecedente della politica, come credono, ad esempio, i marxisti, e tutto si risolva nell’ambito delle relazioni economiche tra gli uomini. Ma perché il lavoro, un’equa retribuzione o sistemi pensionistici e sanitari, universali ed efficienti, non sono garantiti per decreto, ma sono il prodotto di un’economia libera e di produttori messi nella condizione di creare ricchezza. Occorre creare le condizioni perché ciò avvenga, non dirigisticamente o con spese e investimenti pubblici enormi, semmai agevolando le condizioni dello sviluppo. Non un’Italia senza Stato, insomma, ma con uno Stato che legifera e vigila, non che produce e pervasivamente di tutto si occupa.

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“Lo Stato riduca al minimo il suo raggio d’azione”

“Lo Stato riduca al minimo il suo raggio d’azione”

Intervista di Antonio Signorini (Il Giornale) a Massimo Blasoni

blasoniintLo Stato deve ridurre al minimo il perimetro della sua azione e lasciare al privato quei servizi che il mercato è in grado di rendere più efficienti. Compresa la gestione della pubblica amministrazione. Massimo Blasoni è un imprenditore di prima generazione, ha dato vita al centro studi ImpresaLavoro e ora con il libro “Privatizziamo!” (Rubbettino, 184 pagine, 12 euro) avanza una proposta di riforma radicale.

C’è ancora spazio per idee come la sua?

«Privatizzare è l’unica via per ridurre l’assurdo carico fiscale. Negli anni Settanta la pressione fiscale in Italia era il 22 per cento del Pil, oggi supera il 42,6 per cento e questo è il risultato di un continuo ampliamento del perimetro dello Stato».

A cosa è servito l’aumento della spesa pubblica?

«A creare una burocrazia sempre più invadente che rende difficile il lavoro degli imprenditori. Per fare degli esempi, in Italia per una concessione edilizia bisogna aspettare 227 giorni contro i 96 della Germania ei 105 del Regno Unito. Se fossero privatizzati gli uffici tecnici del Comune e fosse un gruppo di professionisti associati a gestire le concessioni, con remunerazioni legate alla celerità delle risposte, i tempi sarebbero altri. Forse nessun cittadino e imprenditore si sentirebbe rispondere dietro lo sportello, che il funzionario non c’è, che bisogna ripassare dopo le ferie. Secondo me nessuno si scandalizzerebbe nemmeno se fosse esternalizzata l’anagrafe».

Lei propone di privatizzare funzioni della pubblica amministrazione. È un’idea radicale…

«Il libro si chiama Prívitizziamo! Ma non propone solo privatizzazioni di aziende pubbliche. Bisogna essere coscienti che l’organizzazione sociale che conosciamo non è l’unica possibile, siamo solo abituati a pensarlo. Il fatto che uffici pubblici, scuola, sanità, pensioni e acqua siano attività gestite direttamente dallo Stato non è il frutto di un ordine necessario».

L’obiezione che i servizi pubblici perché devono restare a disposizione di tutti…

«A questa obiezione rispondo con i dati delle tariffe telefoniche. Dopo la privatizzazione, in 10 anni, solo calate dell’11,5%, mentre quelle dell’acqua, che è ancora pubblica, sono aumentate del 78,6%. Nel pubblico ci sono costi che il privato non deve sostenere. Poca efficienza, intermediazione politica. Oggi un sindaco fa fatica a decidere. Nel Comune privatizzato, fatti salvi i compiti istituzionali e politici, un primo cittadino potrebbe comportarsi come un imprenditore che premia il merito, assume e licenzia. Tutto questo a beneficio del cittadino».

Ci sono servizi che devono essere comunque garantiti?

«Ci sono funzioni che deve svolgere direttamente lo Stato. La difesa interna ed esterna, la magistratura. Poi ci sono servizi che devono essere completamente liberalizzati con conseguente riduzione delle tasse a carico del cittadino. Sono quelli pubblici, ma che riceviamo in proporzione a quanto paghiamo. È il caso delle pensioni. L’Inps ha avuto uno sbilancio di oltre 12 miliardi l’anno scorso. Perché non lasciare ai cittadini il miglior gestore possibile dei propri denari?».

E i servizi garantiti?

«Sono quelli per i quali riteniamo non ci debba essere proporzionalità tra quanto diamo e quanto riceviamo. La sanità ad esempio. Deve restare pubblica e finanziata dai contribuenti. Un modello solidale che non significa gestione pubblica. Chiariamoci, non immagino una sanità all’americana, con cittadini più abbienti privilegiati perché possono permettersi un’assicurazione migliore. Nel libro si propone che lo Stato acquisti sul mercato, quindi in regime di concorrenza, beni e servizi da offrire ai contribuenti. La differenza è che quei servizi sarebbero gestiti molto meglio».

Il centrodestra è ancora sensibile a proposte liberali come la sua?

«Occorre una politica con più competenze, ma meno professionale e questo non può che realizzarlo il centrodestra, riprendendo in mano le tesi di una vera rivoluzione liberale. I segnali che arrivano dal governo Renzi non sono certo di una riduzione del peso dello Stato. Il mondo intorno a noi è ben più competitivo che solidale, dunque per rilanciare il nostro Paese servono misure radicali: i posti di lavoro non si creano per decreto, ma favorendo un’economia che funziona. Con meno Stato e più privato».

Caro Renzi, i conti non sono un’opinione

Caro Renzi, i conti non sono un’opinione

Massimo Blasoni – Metro

È proprio vero che la matematica è un’opinione. Almeno per il presidente del Consiglio Matteo Renzi, che l’altro giorno ha esultato per il +0,8% di crescita del Pil italiano nel 2015. Intendiamoci, si tratta pur sempre di un dato positivo perché segna finalmente un’inversione di tendenza rispetto alla decrescita registrata negli ultimi anni: -2,8% del 2012, -1,7% del 2013 e -0,4% nel 2014. Basterebbe però alzare lo sguardo oltre i confini nazionali per decidersi a conservare le bottiglie di champagne per occasioni migliori. L’anno scorso tutti i nostri principali competitor europei hanno infatti registrato una crescita decisamente più marcata del proprio Prodotto interno lordo: +1,2% in Francia, +1,7% in Germania, + 2,2% nel Regno Unito e addirittura +3,2% in Spagna.

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Massimo Blasoni a Radio1 News Economy Magazine

Massimo Blasoni a Radio1 News Economy Magazine

L’intervento del presidente di ImpresaLavoro, Massimo Blasoni, nell’edizione del 27 febbraio di Radio1 News Economy Magazine. Argomento dell’intervista: il nostro studio “Gli extracomunitari nel nostro Paese trovano lavoro più facilmente degli italiani“.

Massimo Blasoni interviene a Radio News Economy (Radio1 Rai)

L'intervento del presidente di ImpresaLavoro, Massimo Blasoni, nell'edizione del 27 febbraio di Radio1 News Economy Magazine: perché gli extracomunitari nel nostro Paese trovano lavoro più facilmente degli italiani?

Posted by ImpresaLavoro on Wednesday, March 2, 2016