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Ecco gli assegni da fame dei pensionati del futuro

Ecco gli assegni da fame dei pensionati del futuro

Sandro Iacometti – Libero

Già oggi, con il «ricco» sistema retributivo la quota di pensionati che alla fine del mese riceve meno di 1.000 euro lordi è del 42,5%. Si tratta di 6,6 milioni di italiani che evidentemente, anche calcolando l’assegno previdenziale sulla base delle retribuzioni degli ultimi 10 anni di lavoro, come prevede il sistema per chi nel 1996 aveva già 18 anni di contributi all’attivo, non sono riusciti ad ottenere cifre più sostanziose per la vecchiaia.

Con il metodo contributivo introdotto dalle riforme Dini e Fornero, e in questi giorni tornato alla ribalta anche per alcune ipotesi di ricalcolo delle pensioni già erogate, le cose non potranno che peggiorare. E di molto. Soprattutto per chi, e saranno molti considerata la situazione economica e l’evoluzione del mercato del lavoro, non avrà una storia contributiva lineare e monolitica.

Considerato che il 46% degli italiani si colloca nella fascia di contribuenti fino a 15mila euro, che un altro 49% ha redditi compresi tra i 15 e i 50mila euro e che le entrate medie annue emerse dalla dichiarazione dei redditi 2014 si attestano a 20.070 euro (statistiche che comprendono ovviamente anche i pensionati), abbiamo chiesto al Centro studi ImpresaLavoro di effettuare una serie di simulazioni sui futuri trattamenti previdenziali di lavoratori con redditi compresi tra i 20 e i 30mila euro l’anno.

I risultati non sono incoraggianti. Anzi, dimostrano, se mai ce ne fosse stato bisogno, che senza una serie di interventi che incoraggino e rilancino la previdenza integrativa (che invece continua ad essere tartassata) tra qualche decennio l’Italia sarà popolata da un esercito di anziani che dovrà tirare avanti con pochi euro in più della pensione sociale.Le elaborazioni sono state tutte effettuate su un’ipotesi di età pensionabile di 66 anni e un’eta contributiva di base di 40 anni.

La situazione risulta sulla soglia della sostenibilità per il lavoratore dipendente nella fascia alta di stipendio tra quelle prese in considerazione. Con 30mila euro lordi all’anno la sua pensione annua con il contributivo sarà di 22.271 euro (1.713 euro lordi mensili) rispetto ad un trattamento con il retributivo di 24mila euro (1.846 euro mensili). Abbassando l’asticella le cose, ovviamente, peggiorano. Con un reddito di 25mila euro la pensione retributiva ammonterebbe a 20mila euro annui (1.538 euro mensili), ma quella contributiva scenderà a 18.559 (1427 euro mensili). Riducendo le entrate del lavoratore a 20mila euro l’assegno si avvicina alla soglia dei 1.000 euro lordi. Operando solo sul montante contributivo si avrà, infatti, una pensione di 14.847 euro lordi all’anno, ovvero 1.142 al mese.

Lo scenario si fa ben più cupo per i lavoratori autonomi che hanno un’aliquota contributiva (sarà a regime nel 2019) del 24% della retribuzione interamente a loro carico, rispetto al 33% versato dai dipendenti (il 23,8% è pagato dal datore di lavoro). Con un reddito di 30mila euro e 40 anni di contributi il lavoratore autonomo, che con il retributivo avrebbe preso 24mila euro di pensione, riceverà invece un assegno mensile di 1.245 euro lordi (16.197 euro annui). Con 25mila euro il trattamento scende a 1.038 euro (13.497) e con 20mila euro il lavoratore autonomo entra nel club dei 6,6 milioni di italiani, con 830 euro lordi al mese di pensione (10.798 euro all’anno).

Fin qui abbiamo visto lavoratori «fortunati», con una retribuzione stabile e un percorso lavorativo senza interruzioni. Cosa succederebbe in caso di periodi di disoccupazione forzata, vuoti contrattuali e salti contributivi? Il nostro lavoratore autonomo dovrà faticare molto per arrivare alla fine del mese. Con un reddito di 20mila euro abbiamo già verificato che la soglia dei 1.000 euro diventa lontana. Lo stesso, però, accadrà anche a chi guadagna cifre maggiori se la sua condizione di precario lo ha fatto inciampare in qualche anno di disoccupazione.

Prendiamo in esame un reddito di 25mila euro annui. In questo caso basterebbe un buco contributivo di 3 anni a far precipitare il lavoratore nell’ambìto club. La sua pensione sarebbe, infatti, di 12.485 euro annui (960 euro mensili lordi). E il conto peggiorerebbe assai con 5 (11.810 euro) e 7 anni (11.135) di vuoto lavorativo. L’unico che riesce a restare sopra la soglia dei 1.000 euro, seppure per poco, è il lavoratore autonomo con un reddito di 30mila euro annui. Qui il trattamento previdenziale scenderebbe a 14.982 euro (1.152 euro mensili) con 3 anni di vuoto, a 14.172 euro (1.090) con 5 anni e a 13.362 (1.027) con 7 anni.

«Quello previdenziale», ha detto l’imprenditore Massimo Blasoni, presidente del Centro studi ImpresaLavoro, «è un tema che il governo dovrebbe affrontare rapidamente. Con questi tassi di partecipazione al lavoro e con un livello di disoccupazione giovanile che non scende, il rischio che corriamo è quello di aver scaricato sulle future generazioni il peso delle nostre scelte sbagliate. Oggi il 43% delle pensioni è inferiore ai mille euro: come dimostra il nostro studio, per i nostri giovani mille euro rischiano di essere un traguardo impossibile da raggiungere».

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Privatizzare subito – Editoriale di Carlo Lottieri

Privatizzare subito – Editoriale di Carlo Lottieri

di Carlo Lottieri

Da più di vent’anni in Italia è ripetutamente richiamata l’esigenza di operare programmi di privatizzazione, che sottraggano allo Stato il controllo di ampi settori economici e li affidino a soggetti privati. Molte dismissioni hanno pure avuto luogo, anche se tanto resta da fare, ma non sempre è chiaro il vero motivo che deve portare lo Stato a mollare la presa su tante aziende. Questa mancanza di chiarezza nelle idee è premessa a privatizzazioni che, in troppi casi, si rivelano deludenti. Ora potrebbe aprirsi una nuova stagione, simile a quella dei governi dei primi anni Novanta, ma le conseguenze di eventuali cessioni saranno molto diverse sulla base delle ragioni che inducono a privatizzare.
Fino ad ora, infatti, troppe volte la ragione che ha indotto questo o quell’amministratore a privatizzare è stata la semplice esigenza di reperire risorse. Il tal comune mette in vendita alcune farmacie solo allo scopo di avere soldi da destinare alla costruzione di impianti sportivi o biblioteche. A ben guardare, questa non è una privatizzazione, ma una semplice riallocazione delle risorse a disposizione: come quando si cede un immobile per averne un altro. Perfino se il senso primario della privatizzazione fosse quello di reperire capitali da destinare alla copertura del debito (cosa di cui c’è sicuramente bisogno), perfino in quel caso se ci si limitasse a ciò ancora una volta si mancherebbe il bersaglio.
È anche opinabile la tesi di chi sostiene che si deve privatizzare per rendere più efficiente il sistema nel suo complesso. È vero che le imprese private sono mediamente molto più dinamiche, innovative e capaci di soddisfare il pubblico di quanto non siano quelle in mano allo Stato. Ma anche l’argomento dell’efficienza è inadeguato o, meglio, incompleto. Se da un lato privatizzando è possibile ridurre il debito pubblico e favorire lo sviluppo di un’economia più efficiente, dall’altro va ricordato che l’obiettivo fondamentale delle privatizzazioni deve essere quello di allargare gli spazi di libertà. In questo senso ogni privatizzazione è un’amputazione del potere detenuto dall’apparato politico e burocratico. Ed è esattamente per tale motivo che ogni dismissione va accompagnata da una liberalizzazione del settore interessato.
In questo senso sarebbe certamente riformatore quel governo che mettesse sul mercato fino all’ultima azione di Trenitalia e che destinasse gli introiti a ridurre la montagna del debito di Stato. Sarebbe poi facile, in un arco di tempo ragionevole, constatare come la nuova azienda ferroviaria si orienti presto a mutare il proprio stile ed assumere comportamenti più orientati a tagliare i costi inutili, migliorare l’offerta, soddisfare la clientela. Ma i veri risultati arriverebbero solo grazie a un’apertura di mercato che possa vedere più aziende operare in concorrenza tra loro. Il significato più liberale delle privatizzazioni sta dunque nel ridimensionamento del potere pubblico ed è anche per questa ragione che ogni dismissione non è veramente tale se il settore non è aperto alla concorrenza di mercato.
La scelta di trasferire beni e imprese dalle mani di politici e burocrati a quelle di proprietari e imprenditori produce benefici di vario tipo: e certo può aiutare a ridimensionare il debito e migliorare l’efficienza. Ma gli effetti maggiori si hanno quando il cambio di titolarità (dallo Stato ai privati) serve a creare spazi di libertà e a superare situazioni di monopolio legale e privilegio.
Gli effetti economici delle privatizzazioni sono evidenti, ma il punto cruciale è un altro. Nel suo significato più autentico le dismissioni puntano a ricostruire un ordine di diritto e quindi di libertà, anche nella persuasione che solo entro istituzioni legittime e al servizio della società un’economia può crescere in maniera durevole.
Per il credito ora serve una spinta – Editoriale di Massimo Blasoni

Per il credito ora serve una spinta – Editoriale di Massimo Blasoni

Massimo Blasoni – Panorama

Malgrado i numerosi segnali di ripresa, a leggere i dati Bankitalia, l’accesso al credito resta difficile per le nostre famiglie e imprese produttive (meno nel settore finanziario). I prestiti delle banche al settore privato hanno registrato, ad aprile, una contrazione su base annua dell’1,4%. I prestiti alle famiglie sono calati dello 0,2% e quelli alle società non finanziarie sono diminuiti del 2,2% sui 12 mesi. Certo gli effetti del quantitative easing debbono ancora dispiegarsi compiutamente, tuttavia è ancora da verificare quale sarà il loro impatto. Non hanno avuto effetti sostanziali in passato le operazioni straordinarie di rifinanziamento della BCE. Né Ltro, né la sua versione successiva, il Tltro che condizionava il finanziamento all’erogazione di parte degli importi a famiglie e imprese. Questo perché spesso le banche prediligono impieghi più sicuri di quelli verso l’economia reale. In parte è comprensibile: il rapporto ABI di giugno 2015 evidenziava sofferenze lorde, ad aprile, per 191,5 miliardi, più 15,1% in confronto a quelle di aprile 2014. Anche i tassi restano alti malgrado gli interventi della banca centrale abbiano permesso anche all’Italia di godere del privilegio di potersi indebitare a interessi zero se non addirittura negativi, con impliciti effetti anche sul sistema creditizio.
Il basso costo del denaro all’origine è però condizionato da spread bancari piuttosto rilevanti nel nostro Paese. La disponibilità del credito e il suo costo sono tuttavia alla base di una piena ripresa e del conseguente incremento dell’occupazione. Innovazione, sviluppo e acquisti si nutrono di disponibilità finanziarie la cui carenza e l’elevato costo ci pongono in condizioni di difficile competizione con gli altri Paesi dell’area euro. Basti pensare che le ultime rilevazioni Bce quantificano nel 3,31% il tasso medio complessivo per le imprese italiane contro il 2,81% per le imprese tedesche. Poiché il nostro mercato azionario è assai ridotto – Piazza Affari vale meno del 30% del Pil nazionale a chilometri dagli USA ben sopra il 100% – occorre necessariamente riflettere su strumenti che facilitino l’accesso al credito bancario. Le ipotesi sono molte, dai fondi di garanzia pubblici per le spese di investimento di imprese virtuose, al ventilato utilizzo della Cassa Depositi e Prestiti, a interventi temporanei nel capitale dei principali istituti di credito per potenziarne il cosiddetto core tier one. Il rilancio delle nostre aziende necessita oggi più di opportunità, come il credito, che di contributi pubblici.

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Intanto Roma scivola sempre più verso Atene – Editoriale di Massimo Blasoni

Intanto Roma scivola sempre più verso Atene – Editoriale di Massimo Blasoni

di Massimo Blasoni – Metro

 

Pur strangolata dal debito pubblico e scossa da una profondissima crisi economica e sociale, la Grecia riesce a battere l’Italia sul fronte del mercato del lavoro e delle tasse sulle imprese. Analizzando le classifiche stilate dal World Economic Forum si scopre infatti che questa occupa nel rank mondiale una posizione migliore della nostra per quanto riguarda l’efficienza generale del mercato del lavoro (è 118esima mentre l’Italia è 136esima), la collaborazione nelle relazioni traimprese e lavoratore, la flessibilità nella determinazione dei salari, l’efficienza nelle modalità di assunzione e di licenziamento, il legame tra salari e produttività, l’effetto della tassazione sull’incentivo a lavorare, il merito nella scelta delle posizioni manageriali e infine la capacità del sistema sia nel trattenere talenti sia nell’attrarli. Il rapporto “Doing Business 2015” della Banca Mondiale ci svela inoltre che in Grecia il Total TaxRate sulle imprese (49,9%) è nettamente inferiore al nostro (65,4%) e che la Repubblica ellenica si dimostra meno matrigna della nostra per il numero sia degli adempimenti (8 contro 15) sia delle ore impiegate in media ogni anno da ciascuna azienda (193 contro 269) per pagare le imposte. Senza contare che un’impresa greca riscuote poi il suo credito dalla Pa in appena un terzo del tempo sopportato da un’impresa creditrice italiana (49 giorni invece di 144 giorni). Non è tutto. Perdiamo il confronto anche nel comparto cruciale dell’edilizia sia per i giorni necessari a ottenere un permesso di costruzione (233 contro 124) sia per ottenere l’allacciamento dell’energia elettrica (124 contro 62). Tra l’altro, a una media impresa italiana la bolletta energetica costa il 34% in più che non a una media impresa greca: 0,1735 centesimi di euro per Kwh (chilowattora) invece di 0,1298 centesimi di euro per Kwh. Intendiamoci, l’Italia ha fondamentali economici decisamente più solidi di quelli greci. Tuttavia liberare le nostre aziende da un fardello fiscale ormai insostenibile e produrre regole sul lavoro semplici e certe sono due passaggi non più rimandabili, su cui il governo si dovrebbe impegnare maggiormente. Altrimenti il rischio è che Roma scivoli sempre più verso Atene.

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L’ideologia franco-tedesca e le difficoltà del presente

L’ideologia franco-tedesca e le difficoltà del presente

di Carlo Lottieri
Le cronache di questi giorni sono dominate da due eventi diversamente inquietanti: il rilancio del terrorismo islamista e la crisi europea focalizzata sulla Grecia e sul’euro. In entrambi i casi è chiaro che vi sono responsabilità specifiche: non sono senza colpe i greci, vissuti al di sopra delle loro possibilità e ora indisposti a pagare i debiti accumulati; e devono pure saper riflettere seriamente sulla propria condizione culturale le popolazioni di quel mondo arabo-musulmano che, a ragione, vuole evitare ogni identificazione tra religione e violenza terroristica, ma che al tempo stesso non può negare l’esistenza di un nesso tra Islam e islamismo radicale.
La Grecia ha le sue responsabilità e anche la società musulmana. Non bisogna però negare come l’Occidente in generale e l’Europa in senso più specifico abbiano egualmente commesso molti, anzi moltissimi errori: in un caso come nell’altro. E c’è un’ideologia europea e più specificamente franco-tedesca che in qualche modo sta all’origine di tutto questo. La follia della Jihad, in particolare, non può essere separata dal fatto che negli ultimi due secoli – e non solo a causa del colonialismo – gli europei hanno esportato un po’ ovunque lo Stato moderno e, insieme a esso, una visione giacobina delle istituzioni. In alcune parti del mondo questo ha fatalmente causato forti reazioni con elementi basilari di società di carattere tradizionalista, provocando reazioni di rigetto. Il terrorismo che uccide in nome di Allah è anche una conseguenza dei vari “kemalismi” di matrice europea e di un’ideologia basata sul potere statuale, su un’astratta idea dei diritti umani, sul mito della burocrazia e dell’esercito. La visione del mondo di stampo europeo che ha ispirato la politica dello Scià in Persia ha poi di fatto aperto la strada a Khomeini, ma situazioni analoghe si sono viste anche in molti contesti.
La cultura europea – specialmente tra Francia e Germania – si è innamorata di ideologie costruttiviste e antiliberali. Non è allora un caso se nelle università di Parigi si sono forgiati intellettuali e uomini di governo, provenienti dall’Africa e dall’Asia, che poi hanno preteso di riaffermare nelle loro società astratte logiche di matrice illuminista. Anche in Europa si è sviluppato un processo simile, se si considera che sotto vari punti di vista il processo di costruzione degli Stati Uniti d’Europa ha pensato di replicare lo Stato moderno a livello continentale, partendo dalla burocrazia francese (si pensi a Jean Monnet) e dal vuoto identitario di una Germania post-nazista che ha capito di dover essere europea da momento che non poteva più essere tedesca. Il programma dirigistico di istituzioni politiche europee ora mostra però la corda e questo a seguito del fatto che l’Europa non è una società coerente, non è un luogo di dibattiti e scambi quotidiani, non è un mondo davvero integrato e non è bene che sia retta da un solo governo. Da decenni s’insegue però questo sogno e si è pronti a pagare prezzi anche molto alti pur di preservare il mito di un’unità europea a venire.
La nascita dell’euro è stata il prodotto più importante di questo costruttivismo, proiettato a fissare regole buone per i danesi come per gli italiani, per i tedeschi come per i greci. Oggi è comunque chiaro a tutti che la Grecia non sarebbe dovuta entrare nel club dell’euro e doveva comunque essere messa fuori da tempo. Se questo non è avvenuto è perché – soprattutto a Parigi e Berlino – ci si è innamorati della dimensione ideologica del progetto unitarista. Le società europee possono essere orgogliose di molta parte della loro storia. Devono però comprendere i propri errori fondamentali: il proprio ideologismo, l’infatuazione per lo Stato, l’illusione di avere trovato soluzioni e principi applicabili a ogni latitudine. Non è così ed è bene esserne consapevoli al più presto. Nella nostra cultura politica – da Rousseau a Marx, da Hegel a Comte – c’è una tara illiberale che non smette di produrre frutti velenosi. Solo se sapremo capire fino in fondo tutto questo sapremo evitare nuovi errori.
Manifesto anti-tasse – l’intervento di Massimo Blasoni

Manifesto anti-tasse – l’intervento di Massimo Blasoni

Non credo che lo sceriffo di Nottingham pretendesse dai sudditi, pur per antonomasia vessati, la metà del frutto del loro lavoro come avviene nell’Italia di oggi. Certamente a tanto non ammontavano le imposte medievali ne la tassa sul tè, che pure scatenò la rivoluzione per l’indipendenza americana. Ad essere sincero non ho mai sottoscritto alcun patto. Tuttavia trovo ragionevole che vi siano dei limiti all’esercizio assoluto della personale libertà. Lo richiede la convivenza tra individui, fatti salvi ovviamente alcuni valori non negoziabili che precedono lo Stato. L’istruzione, le infrastrutture, la scuola, rappresentano un costo che non sempre può essere sopportato dal singolo beneficiario. Questi servizi dovrebbero rappresentare un’equa controprestazione per le imposte pagate. Dunque comprendo l’esigenza di contribuire con una parte delle risorse che produco e che questo concorso debba essere proporzionale al reddito e utilizzato con il criterio della solidarietà.
Il demandarne l’utilizzo ai propri rappresentanti eletti, in democrazia è la norma. Il tema si complica quando l’entità delle tasse è eccessiva e quando viene avvertita come sperequata rispetto all’efficienza di servizi. Di più, quando la leva fiscale viene utilizzata in parte rilevante per spese ritenute inutili o per nutrire l’apparato stesso delle istituzioni. Un’avversione che cresce ancor più quando le imposte servono a sanare i deficit di fallimentari avventure imprenditoriali di Stato o quando si costruiscono strade al doppio del loro costo oppure opere di scarso interesse, a inseguire la vanagloria del governante di turno, quando non più privati interessi.
Una delle ragioni cruciali della nostra crisi (e della crisi europea entro cui essa si colloca) è da individuare proprio nell’espansione del prelievo fiscale.
Se non si riuscirà a invertire il processo in atto, questo crescente spostamento di risorse dal settore privato al settore pubblico è destinato a mettere in grave crisi l’intera società occidentale. Deve farci riflettere il fatto che nel corso del ventesimo secolo, nonostante il massiccio ricorso all’indebitamente, la tassazione abbia raggiunto livelli sempre più alti e sia aumentata mediamente di cinque volte nella maggior parte dei Paesi occidentali.
Nel nostro Paese questa dilatazione del prelievo tributario ha raggiunto livelli elevati, soprattutto negli ultimi venticinque anni, così che oggi la situazione è divenuta insostenibile. Dal 1990 al 2015 la pressione fiscale (Apparente) è salita di 5 punti percentuali, passando dal 39% al 44%, e questo spiega in larga misura le difficoltà di un sistema produttivo in cui troppe aziende chiudono o subiscono significative contrazioni. La pressione fiscale reale, cioè tenendo in conto del sommerso che non paga imposte, è giunta al 53%. Vanno ricordate ovviamente anche la total tax rate per le imprese e il cosiddetto cuneo fiscale sul lavoro. Entrambi ci collocano tra i peggiori paesi al mondo. Anche la retorica della lotta all’evasione non ha portato a grandi risultati: si stimano in soli 1 miliardo gli importi recuperati nel 2014.
Nei primi anni del secondo decennio, dal 2011 a ora, mentre il Pil reale calava il prelievo è cresciuto in maniera significativa. Le imposte dirette erano 226,4 miliardi nel 2011 e sono passate a 240,9 miliardi nel 2013 mentre quelle indirette erano 221,7 miliardi (2011) e sono arrivate a 238,6 miliardi nel 2013. Quando un’economia indietreggia e la pressione fiscale cresce, è irragionevole attendersi una ripresa. Spesso le operazioni di riforma del sistema che talora sono state annunciate come riduzioni del prelievo (si pensi alla nuova fiscalità della casa, tra “abolizione” dell’Imu e nuovi tributi come la Tasi) nei fatti hanno finito per pesare sempre più sui bilanci di famiglie e imprese. Sempre nel 2014 si è proceduto ad abbassare l’Irpef sui ceti medio-bassi, ma al tempo stesso sono state introdotte tasse sul risparmio.
Il prelievo alla fonte e l’imposizione indiretta (l’Iva e non solo) rappresentano imposizioni fiscali di cui gli italiani sono certo a conoscenza, ma di cui faticano a valutare il peso. In Italia le imposte sul risparmio – capital gain, imposte di bollo, tobin tax – sono cresciute di 9 miliardi dal 2011-2015. Gli effetti del carico fiscale purtroppo sono moltissimi e perniciosi: la compressione dei consumi e il disincentivo agli investimenti esteri, in primo luogo. Ma altre conseguenze sono la scarsa spinta all’innovazione (che non è certo defiscalizzata) del sistema produttivo, la bassa competitività delle nostre aziende rispetto a quelle di Paesi esteri con un total tax rate decisamente inferiore, l’incentivo all’evasione. Tra gli effetti non mancano, poi, quelli che derivano dalla scarsa efficienza delle spese pubbliche sostenute attraverso l’imposizione fiscale.
Lo Stato che spende non brilla affatto per oculatezza e se la spesa è improduttiva non genera effetti moltiplicatori. Quegli stessi denari in mano a famiglie e imprese, di norma, sarebbero invece un volano per l’economia. Pensandoci non è infondata la massima: quando spendi i tuoi soldi per te, usi la massima attenzione; quando spendi i tuoi soldi per gli altri, stai attento a quanto spendi, ma non alla qualità di cosa compri; quando spendi i soldi degli altri per te, stai attento a cosa compri, ma non a quanto spendi; quando infine spendi i soldi degli altri per gli altri, spesso non ti interessa né cosa compri né quanto spendi. Come solitamente avviene nel caso dello Stato.
Massimo Blasoni, Presidente Centro Studi ImpresaLavoro
La burocrazia frena la ripresa – Editoriale di Massimo Blasoni

La burocrazia frena la ripresa – Editoriale di Massimo Blasoni

Massimo Blasoni – Metro

Nel 2010 in Italia si sono investiti in costruzioni 169,6 miliardi di euro. Quattro anni dopo, complice la crisi e soprattutto l’inasprimento della pressione fiscale sul comparto del mattone, gli investimenti in costruzioni si sono fermati a 138,9 miliardi con un calo in termini reali del 18%. I tempi necessari per ottenere un permesso di costruzione sono invece rimasti invariati a 233 giorni, un tempo record in Europa e che ci fa impallidire davanti ai 64 giorni della Danimarca.

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Superati i 50 miliardi di tasse sulla casa – Libero

Superati i 50 miliardi di tasse sulla casa – Libero

Davide Giacalone – Libero

Ingannevole e intollerabile. Un Paese ricco abitato da poveri. Queste le caratteristiche del ritratto fiscale, come ogni anno desumibile dalle dichiarazioni dei redditi. Un profilo deformato dal satanismo fiscale, in una gara di disonestà fra l’esattore e l’esatto, il cui esito è l’impoverimento collettivo.

L’Italia è in cima alla classifica europea per il prelievo fiscale sui redditi da lavoro (implicit tax rate). Al secondo per quello sui redditi d’impresa. Al quarto, ma stiamo risalendo, per la tassazione ricorrente sul patrimonio immobiliare. Ha un senso che chi tassa molto il patrimonio tassi meno i redditi, e viceversa, ma noi primeggiamo nel tassare tutto, portando il prelievo fiscale al 43,4% del prodotto interno lordo, nel mentre la spesa per investimenti è crollata, in tre anni, del 27%. In sei anni, dal 2009 al 2014, le entrate fiscali sono cresciute di 55 miliardi. La media europea del peso fiscale sui ricavi d’impresa (total tax rate) è del 41,8%. Lasciamo nel mondo dei sogni (nostri), il Regno Unito, dove è del 33,7, ma in Germania arriva al 48,8, mentre da noi ha toccato la vetta del 65,4%.

Intollerabile quel che emerge dalle dichiarazioni dei redditi, perché nel mentre si continua a sentir dire che dovrebbe aumentare la pressione fiscale sui ricchi, lasciando perdere le fasce meno abbienti, questa è la realtà (messa bene in luce da Alberto Brambilla e Paolo Novati): lo 0.19% dei contribuenti versa il 6.9% dell’intero gettito Irpef; l’1,2 il 16,3; il 4,01 il 32.6. A questi signori si dovrebbe fare un monumento, invece li si continua a tartassare con la scusa che sono “ricchi”. In realtà non lo sono affatto. Sono solo onesti. Intanto poco più di 10 milioni di italiani, il 25,23% dei contribuenti che presentano la dichiarazione dei redditi (circa 41 milioni), non versa praticamente nulla: 55 euro. Già solo per pagare le loro spese sanitarie si deve ricorrere ai soldi altrui. Mettete questi numeri in relazione con la retorica del dagli­al­ricco e arrivate alla conclusione: intollerabile. Ma anche ingannevole. Perché l’Irpef è solo l’imposta sui redditi, mica il complesso delle pretese fiscali dello Stato. Martedì 16 si pagano le tasse sulla casa, che sono patrimoniali variamente mascherate. Quest’anno si batterà il record: per la prima volta si sfonda il tetto dei 50 miliardi. Il calcolo fatto dal centro studi ImpresaLavoro è impressionante: nel 2011 gravavano, sulla casa, tasse per 38 miliardi, quattro anni dopo siamo sopra 50. Non so quanti sono in grado di ricordare il balletto delle sigle: Ici, Imu, Tarsu, Tares, Tari e Tasi. Ogni volta si prometteva che non ci sarebbero stati aggravi, se non addirittura sgravi, il risultato è quello appena descritto.

Già, però abbiamo avuto le semplificazioni. Quali? Le dichiarazioni precompilate si sono rivelate, come qui anticipato, precomplicate. Siamo giunti al punto che quelle già firmate e inviate potevano essere modificate e rispedite, dato che la fonte degli errori era l’amministrazione pubblica. L’introduzione della certificazione unica ha creato un caos pericoloso, anche perché il programma per poterla fare correttamente è stato distribuito pochi giorni prima della scadenza, risultato: ritardi, errori, certificazioni non regolari. Per ciascuna difformità il contribuente dovrebbe pagare 100 euro di multa, salvo l’aggravio d’imposta e relativa maggiorazione. Stanno provando a eliminare almeno la multa, visto che è proprio l’Agenzia a perdonare sé stessa. Per le tasse locali dovevano arrivare i bollettini precompilati, che non solo mancano, nella grande maggioranza dei casi, ma neanche è stata fissata l’aliquota da pagarsi, per cui martedì siamo tenuti a pagare quanto pagammo l’anno scorso, salvo attendere che ci facciano sapere a quanto ammonta la differenza da versare poi. Alla faccia delle semplificazioni.

Il satanismo fiscale, inoltre, ha affondato l’ipotesi di far aumentare la liquidità nelle tasche delle famiglie, quindi la propensione alla spesa, mediante anticipazione in busta paga del Trattamento fine rapporto. Ha aderito all’idea solo lo 0,056% dei lavoratori, mentre il 60% dichiarava di non volerlo fare perché avrebbe comportato un consistente svantaggio fiscale. Ed è così.

Nessuno, che sia serio e abbia sale in zucca, crede che questa sia una materia semplice o che si possa cambiarla con un tocco di bacchetta magica. Ma nessuno, che non sia un propagandista da tre palle un soldo, può sostenere che si siano fatti passi in avanti. Il cappio è invariato: la pressione fiscale quale variabile dipendente dalla spesa pubblica, che nonostante i tagli, il drastico abbattimento degli investimenti e i bassi tassi d’interesse che dobbiamo alla Banca centrale europea, continua a camminare per i fatti suoi. Questo è il quadro in cui si deve inserire l’idea del governo Renzi di tornare al capitalismo di Stato, che nell’illusione di far crescere il pil mantiene altissima una pressione fiscale che lo asfissia.

Dal flop del Tfr in busta paga spuntano 8 miliardi di tasse – Libero

Dal flop del Tfr in busta paga spuntano 8 miliardi di tasse – Libero

Attilio Barbieri – Libero

Il flop del Tfr in busta paga rischia di provocare un nuovo buco nei conti dello Stato. Otto miliardi, euro più, euro meno. Sotto forma di entrate fiscali che verranno a mancare. I lavoratori che hanno chiesto il pagamento mensile del trattamento di fine rapporto maturando sono soltanto 567 su un milione, appena lo 0,05% della platea interessata. Nell’ultima legge di Stabilità il governo aveva previsto un’adesione massiccia, da un minimo del 40 fino al 60 per cento degli aventi diritto.

A provocare il flop è stato soprattutto il deterrente rappresentato dalla tassazione delle somme accreditate in busta paga, equiparate al resto della retribuzione. Ma la scarsissima adesione rischia di costare al fisco addirittura 7,9 miliardi di euro nel lungo termine, mentre nel breve l’equilibrio sarebbe garantito dalle maggiori entrate contributive. A fare i conti è il Centro studi ImpresaLavoro che ha elaborato i dati diffusi dalla Ragioneria Generale dello Stato. «Proprio in virtù della maggiore tassazione applicata sulTfr destinato a finire nelle buste paga dei dipendenti», si legge nel paper dell’istituto, «il governo aveva stimato di raccogliere nel triennio 2015-­2018 oltre 7,9 miliardi di maggiori entrate Irpef accettando però nel contempo di perdere i versamenti contributivi del Tfr per un totale di 8,7 miliardi». Considerati anche i 100 milioni di euro destinati al Fondo pubblico di garanzia come dotazione iniziale e spese residuali che la Ragioneria Generale stima in altri 57 milioni, da qui al 2018 «l’operazione avrebbe determinato nel complesso una spesa di 952 milioni di euro», spiega il centro studi ImpresaLavoro.

Vista l’adesione men che marginale dei lavoratori lo Stato risparmierà sì quasi un miliardo nel triennio. Ma dal primo gennaio 2019 in poi dovrà contabilizzare 8,7 miliardi di entrate contributive al fondo Tesoreria per il Tfr dell’Inps, destinati a trasformarsi in debito nel momento in cui i lavoratori che li hanno versati matureranno il diritto a incassare le relative liquidazioni. «La perdita c’è anche se si vedrà soltanto nel lungo periodo, e rischia di costare molto alle casse dello Stato», osserva l’imprenditore Massimo Blasoni, presidente del Centro studi  ImpresaLavoro. Il meccanismo dell’operazione «Tfr in busta» era tale per cui con un miliardo messo nel triennio 2015-­2018, lo Stato ne avrebbe risparmiati 7,7 di liquidazioni dal 2019 in poi. Vista l’adesione risibile dei lavoratori questo risparmio non ci sarà. Col rischio che per coprirlo il governo ricorra a nuove imposte.

Imprese: ecco il conto salato della bolletta energetica – LaRepubblica.it

Imprese: ecco il conto salato della bolletta energetica – LaRepubblica.it

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“Le nostre imprese sono costrette a pagare una bolletta energetica salatissima, di gran lunga la più cara tra le grandi economie europee”. Un’analisi del Centro studi ImpresaLavoro rivela quanto sia impietoso il raffronto del costo italiano (tasse incluse) per l’elettricità con quello sostenuto dai nostri principali competitor: +14% rispetto alla Germania, +30% rispetto al Regno Unito, +49% rispetto alla Spagna e addirittura +91% rispetto alla Francia. Non solo. Risultiamo nettamente perdenti anche nei confronti degli altri Stati confinanti, che da tempo attraggono imprese e capitali italiani grazie a una tassazione e a un costo del lavoro decisamente inferiori a quelli del cosiddetto Belpaese: +46% rispetto all’Austria, +89% rispetto alla Croazia e +105% rispetto alla Slovenia.

L’analisi di ImpresaLavoro è stata condotta elaborando i dati Eurostat, di cui aveva dato conto Repubblica.it, relativi al secondo semestre 2014 e considerando il prezzo praticato a una media industria italiana, con un fabbisogno energetico annuo tra i 500 e i 200 mWh (megawattora).

Il prezzo finale sostenuto dalle nostre imprese è composto dal costo netto dell’energia e dal totale di imposte e accise che lo Stato applica loro. Se considerata prima delle tasse la nostra energia risulta la quarta più cara in Europa, costando come quella portoghese e leggermente meno di quella britannica, irlandese e spagnola: 0,1052 centesimi di euro per kWh (chilowattora). Il discorso però cambia se vengono incluse le imposte, che da noi hanno incidono in maniera rilevantissima (pesano fino al 48% se si considerano anche le imposte sul valore aggiunto e il 25% se non si considera l’Iva e altre imposte che le aziende possono recuperare) e che fanno quindi diventare la nostra energia in assoluto la più cara d’Europa: 0,1735 centesimi di euro per kWh (chilowattora).