Opinioni

Von Mises e gli ordoliberali

Von Mises e gli ordoliberali

La letteratura economica recente, di cui diamo conto in questa rubrica, raramente tratta del pensiero liberale. E’ invece incentrata su analisi quantitative di temi e problemi contemporanei. Particolarmente interessante, quindi, si presenta per i liberali un saggio di Stevan Kolev dell’Istituto di Economia internazionale di Amburgo, pubblicato a fine 2016 nei Working Papers del Center for History of Political Economy e intitolato “Ludwig von Mises and the ‘Ordo-Interventionists’ – More than Just Aggression and Contempt?”  (Ludwig von Mises e gli Ordo-Interventisti- Non fu solo questione di aggressività e disprezzo). E’ liberamente scaricabile dal sito del centro studi di Amburgo.

Il lavoro è un’attenta ricostruzione, in parte su materiale inedito, dei quaranta anni di relazioni intellettuali tra il leader della scuola austriaca di economia liberale Ludwig von Mises (1881-1973) e due tra gli economisti più rappresentativi dell’ordoliberalismo tedesco: Walter Eucken (1891-1950) e Wilhelm Röpke (1899-1966). Il lasso di tempo studiato va dall’inizio degli anni Venti fino alla morte di Röpke, avvenuta nel 1966. In questo lungo periodo ci sono state cinque fasi distinte in cui l’interazione scientifica e professionale si è intersecata  con una rete complessa di simpatie e antipatie interpersonali.

Nella prima fase la scuola austriaca e la scuola tedesca (in gran misura basata sullo studio della storia economica più che su quello della teoria) si confrontarono per conoscersi meglio, affilando le rispettive lame. Nella seconda fase il dibattito si incentrò sullo studio del ciclo economico. Nella terza si passò dalle differenze sull’analisi del ciclo economico a veri e propri scontri, al Colloquio Walter Lippmann nel 1938 e ai primi vent’anni di incontri della Mont Pélerin Society, nata nel 1947. La quarta fase segnò la ‘coesistenza pacifica’ nel periodo del miracolo economico tedesco. L’ultima è stata quella dell’avvicinamento e viene studiata anche sulla base di materiale storiografico inedito relativo all’unica laurea onoraria in economia che von Mises ricevette nel 1964 dall’Università di Friburgo.

Sulla base di questa ricostruzione storica il lavoro presenta congetture sulle ragioni per cui i protagonisti, pur lavorando sui medesimi temi, non sono mai riusciti ad impegnarsi in veri e produttivi dibattiti scientifici che in quegli anni avrebbero potuto controbattere al crescente intervento pubblico di marca keynesiana. Kolev formula diverse ipotesi, in gran misura meta economiche e aventi a che fare con le personalità dei protagonisti. Il lavoro ha anche un’ampia sezione che, mettendo a confronto le due scuole, può essere di grande utilità al pensiero neo-liberale di questi anni.

L’economia sommersa in Italia

L’economia sommersa in Italia

di Giuseppe Pennisi

Ci sono due ragioni per iniziare l’anno 2017 con una riflessione sull’economia sommersa:

a) da un canto, anche se i dati Istat segnano solo una leggera, ma flebile, ripresina, il solito “coretto a cappella” sostiene che comunque sarà il sommerso a tirarci d’impaccio;

b) da un altro, la Direzione Generale preposta alle ricerche del Dipartimento del Tesoro del Ministero dell’Economia e delle Finanze ha pubblicato, alla fine del 2016, un eccellente lavoro su dove sta andando l’economia sommersa in Italia. Ne è autrice Cecilia Morvillo. Lo studio è intitolato “Evoluzione delle determinanti dell’economia sommersa: analisi panel di regioni italiane”. Si può scaricare liberamente dal sito del dicastero.

Il lavoro è volto ad analizzare empiricamente la relazione esistente tra l’economia sommersa e alcune variabili esplicative. A tal fine si dispone di dati panel riguardanti le 20 regioni italiane con 12 osservazioni annuali comprese tra il 2001 ed il 2012, per un totale di 240 osservazioni. Nella presente nota l’economia sommersa viene identificata con il tasso di irregolarità del lavoro, pubblicato dall’Istat e calcolato come la quota percentuale delle unità di lavoro irregolari sul totale delle unità di lavoro. Le variabili esplicative sono invece in parte dedotte da una rassegna di studi econometrici relativi all’economia sommersa, tra le quali la densità di popolazione e il tasso di industrializzazione, proprie della dimensione e della struttura economica regionale; il PIL pro capite e la partecipazione femminile al mercato del lavoro, quali variabili di controllo dell’economia sommersa; una proxy dell’intensità della regolamentazione in grado di fornire una fotografia del contesto istituzionale italiano.

Dopo una breve descrizione dei dati, supportata da una rappresentazione cartografica a livello regionale delle variabili più rappresentative delle diverse condizioni economiche delle regioni italiane, l’analisi empirica si declina in una stima di quattro distinti modelli panel dai quali emergono risultati sui quali riflettere. Il lavoro si incardina nel filone di approfondimenti con approccio modellistico. L’approccio econometrico ha riscosso negli ultimi anni molto successo in quanto è in grado di studiare l’economia sommersa attraverso le sue cause, non limitandosi solamente all’analisi degli aspetti puramente fiscali, ma individuando anche fattori di carattere sociale ed economico che in misura diversa influenzano il fenomeno.

In accordo con l’ipotesi che il lavoro irregolare è “il principale fattore produttivo su cui si basa il funzionamento dell’economia sommersa”, la variabile in esame viene in questo contesto identificata con il tasso di irregolarità del lavoro. Lo studio è stato applicato dapprima su un campione di dati costituito da un panel bilanciato relativo alle 20 regioni d’Italia e composto da 6 variabili con 12 osservazioni annuali comprese tra il 2001 e il 2012, per un totale di 240 osservazioni. L’analisi è stata successivamente arricchita con ulteriori fattori sociodemografici ed economici.

I modelli esaminati, oltre a confermare alcune relazioni già esistenti, hanno fatto emergere due risultati importanti. La relazione tra economia sommersa e intensità della regolamentazione non risulta positiva. Ciò dipende dalla modalità di costruzione dell’indicatore, dal campione di riferimento utilizzato e dalla tecnica di stima applicata. L’interpretazione economica della nuova relazione trovata è perfettamente intuibile considerando la specifica scelta dell’indicatore. E’ infatti agevole ritenere che nelle zone con una maggiore presenza di dipendenti pubblici il sommerso sia meno radicato e ciò a dimostrazione della positiva opera dei pubblici dipendenti di tutte le istituzioni centrali e periferiche. Infine la relazione tra l’economia sommersa e la densità di popolazione mostra un segno negativo, poiché dove la maggior densità è legata ad una necessità lavorativa, tale variabile può essere correlata negativamente all’economia sommersa.

In breve un lavoro da leggere e meditare.

Le banche italiane viste da Washington

Le banche italiane viste da Washington

In settimane in cui il sistema bancario italiano è nell’occhio del ciclone  – un ciclone che ha al suo centro il Monte dei Paschi di Siena – pochi hanno notato un paper redatto congiuntamente da un economista della Banca mondiale (Andreas Jobst) e uno del Fondo monetario internazionale (Anke Weber) sul tema della ‘profittabilità’ delle banche italiane. E’ un documento molto utile per meglio comprendere il contesto in cui sono nate e si sono sviluppate le crisi di alcuni istituti di credito italiani, specialmente quella del Monte dei Paschi di Siena, risolta temporaneamente con un massiccio intervento pubblico che ci auguriamo la riporterà entro pochi anni al mercato. Il lavoro si chiama “Profittabilità e riparazione dei conti economici delle banche italiane” (“Profitability and Balance Sheet Repair of Italian Banks”, IMF Working Paper No 16/175) ed è scaricabile gratuitamente dal sito del Fondo Monetario.

L’analisi prende l’avvio dalla constatazione che la ‘profittabilità’ delle banche italiane dipende in gran misura da tre determinanti: a) la robustezza della ripresa dell’economia reale; b) la politica monetaria e c) gli effetti e gli impatti di riforme del settore, segnatamente di quelle mirate a risolvere ostacoli strutturali alla soluzione del problema di crediti inesigibili e incagliati nonché a promuovere il consolidamento del settore. Un miglioramento della ‘profittabilità’ faciliterebbe il reperimento di capitali per migliorare la capitalizzazione e una necessaria operazione di ripulitura dei bilanci. Il documento esamina in termini quantitativi la capacità attuale e futura di realizzare utili. Un’analisi quantitativa delle 15 maggiori banche porta a concludere che in generale il sistema bancario italiano produce profitti solo leggermente inferiori alla media dell’eurozona. Ci sono però differente marcate e una forte eterogeneità nel settore. Numerose banche dovrebbero ampliare il loro margine se l’economia reale migliorasse. Tuttavia, anche in caso di favorevoli ipotesi di crescita dell’economia, numerose banche di piccole dimensioni continueranno ad avere problemi di ‘profittabilità’:  in tal caso è urgente una ripulitura dei loro bilanci, insieme a misure di riduzione dei costi e a un miglioramento della loro efficienza.

In altro lavoro del Fondo monetario Anke Weber, Emanuel A. Kop e José Garrido (IMF Working Paper No 16/135) indicano specificamente quali sono le misure le riforme legali e manageriali per raggiungere questi obiettivi.

Le relazioni di prossimità nel lavoro 4.0

Le relazioni di prossimità nel lavoro 4.0

Il nuovo contratto collettivo dei metalmeccanici e l’intesa preliminare per la contrattazione nel pubblico impiego, nonché le recenti iniziative parlamentari dedicate alla innovazione del quadro regolatorio in termini di sussidiarietà verso le parti negoziali sono ulteriori e significative prove che il mondo sociale ed economico sta cambiando e con esso le relazioni di lavoro, anch’esse in (difficile) transizione verso il “4.0”. Con l’ebook intitolato “Le relazioni di prossimità nel lavoro 4.0”, che aggrega gli atti del seminario “La fine del diritto pesante del lavoro nella quarta rivoluzione industriale” recentemente promosso dalla Associazione Amici Marco Biagi e alcuni contributi originali dedicati ai recenti rinnovi contrattuali, ADAPT, Centro Studi Internazionali e Comparati Marco Biagi, intende continuare ad esplorare la nuova grande trasformazione del lavoro in atto, in particolare soffermandosi sulle relazioni di lavoro adattive e partecipative che vanno delineandosi come adeguate per valorizzare e non subire i cambiamenti tecnologici.

Scarica l’ebook

Come si trasmettono le crisi finanziarie (e chi ne trae profitto)

Come si trasmettono le crisi finanziarie (e chi ne trae profitto)

Brutte nuvole nere si addensano sul Monte dei Paschi di Siena e quindi su una rete di istituti finanziari a esso associati. Giungono in proposito due interessanti lavori: il primo dal Fondo monetario internazionale (Fmi), il secondo dalle Università dell’Arizona, di Melbourne e della Georgia.

In “Crisis Transmission in the Global Banking Network” (IMF working paper No. 16/91), Galina Hale (Federal Reserve Board of San Francisco), Tümer Kaplan (Fannie Mae, l’Istituto di riassicurazione di mutui edilizi) e Camelia Minoiu (Imf) studiano la trasmissione degli shock bancari internazionali, utilizzando l’andamento dei tassi interbancari su prestiti a lungo termine tra seimila istituti nel periodo 1977-2012 al fine di costruire una rete annuale di quanto e come le banche siano ‘esposte’ alle crisi. Vengono stimati effetti diretti e indiretti rispetto a Paesi alla prese con crisi finanziare sui rendimenti bancari e la disponibilità di effettuare nuovi prestiti. Gli effetti diretti riducono i margini di profitto e quindi i loro rendimenti. Gli effetti indiretti da un lato aggravano queste conseguenze e dall’altro spingono i capitali a ‘migrare’ verso altri Paesi e verso banche non in crisi. I due effetti combinati hanno comunque implicazioni sull’economia reale in quanto riducono l’offerta di credito alle imprese ed ai consumatori. In breve, se ne deduce che sistemi bancari interconnessi facilitano la trasmissione delle crisi.

C’è però chi riesce a guadagnare alla crisi, come dimostrano George Aragoni (Arizona State University), J. Spencer Martini (University of Melbourne) e Zhen Shi (Georgia State University) nel paper “Who benefits in a Crisis? Evidence from Hedge Fund Stock and Ioptions Holding”. È ancora inedito ma il testo può essere richiesto all’indirizzo george.aragon@asu.edu. Il lavoro presenta una caratteristica davvero unica di dati su hedge funds e opzioni su azioni, dimostrando come i manager di fondi bloccati riescano durante le crisi a trattare in modo opportunistico con quelli di fondi non bloccati e ottenerne rendite anche cospicue.

E se non fosse il sistema duale tedesco la soluzione formativa per Industry 4.0?

E se non fosse il sistema duale tedesco la soluzione formativa per Industry 4.0?

massagli

MASSAGLI E., Alternanza formativa e apprendistato in Italia e in Europa, Studium, Roma, 2016

La monografia di Emmanuele Massagli è preziosa sotto molteplici punti di vista. In primo luogo aiuta il lettore, sia esso un addetto ai lavori o un semplice curioso, a conoscere nel dettaglio le peculiarità del modello duale tedesco, ovvero il più citato e lodato sistema formativo dell’Occidente, l’unico capace di garantire crescente occupazione giovanile anche in questi anni di crisi economica.

Il prof. Massagli non si ferma però alla analitica descrizione delle caratteristiche positive, ma, in secondo luogo, dedica ampio spazio anche alla riflessione sulle ombre dell’apprendistato germanico. In particolare l’Autore osserva i limiti di questo modello in un mercato del lavoro sempre più orientato alla conoscenza, alla adattabilità, alla frammentazione dei percorsi lavorativi.

Le imprese hanno meno bisogno che in passato di lavoratori addestrati a mansioni specifiche e cercano collaboratori capaci di affrontare il cambiamento, imparare continuamente, pensare lateralmente. Ecco la tesi dell’Autore: se l’apprendistato inteso come politica di contrasto alla disoccupazione giovanile non è in grado di fare emergere queste competenze, l’apprendistato inteso come dispositivo didattico del metodo della alternanza formativa è invece la più efficace strategia pedagogica per formare il lavoratore del futuro. Occupabile non perché riempito di nozioni tecniche specifiche, ma perché persona integralmente formata, tanto “in teoria”, quanto “in pratica”. Ulteriore passaggio: è quindi assolutamente giustificata la crescente attenzione politica verso l’alternanza tra formazione e lavoro, uno dei capitoli principali della recente riforma La Buona Scuola.

Tenendo però fermo il “nota bene” esplicitato da Massagli: «l’operazione di affermazione del metodo dell’alternanza è impossibile da innestarsi in un sistema scolastico concepito alla radice secondo altri principi, diventati dogmatici col tempo. L’imposizione di legge è sterile negli effetti e, anzi, più facilmente si trasformerà in ostacolo se la preoccupazione dei dirigenti scolastici sarà polarizzata dalla burocratica necessità di adempiere l’obbligo e non dalla pedagogica attenzione alla costruzione di percorsi realmente formativi». La sfida del futuro è allora quella di ripensare la scuola e la formazione professionale italiana riscoprendo la centralità della alternanza formativa (e, quindi, dei tanti dispositivi che la concretizzano) in ogni processo che voglia essere profondamente educativo.

Come far crescere l’economia

Come far crescere l’economia

In questi ultimi giorni sono stati pubblicati due paper che spiegano indirettamente perché il Governo Renzi ha fatto cilecca, soprattutto in materia di crescita economica, e per quali motivi gli italiani hanno respinto a grande maggioranza, le sue proposte di riforma.

Il primo è un lavoro congiunto di Università scandinave ed americane. Ne sono autori Carl Henrik Knutseon (Università di Oslo), John Gerring (Università del Texas ad Austin) e Svend Eruk Skaaning (Università di Aarhus). Il suo titolo è “Local Democracy and Economic Growth” ed è apparso in una rivista politologica piuttosto che economica (V.Dm, Working Paper 2016.39). Il lavoro riprende studi teorici di North e Putnam, che promuovono la democrazia a livello locale con controllo sociale e incentivi ai politici locali in modo che scelgano politiche che favoriscano lo sviluppo economico, tra cui l’offerta di beni pubblici. Applicano i teoremi di North dal 1900 ai giorni nostri e trovano prove robuste che la democrazia locale favorisce la crescita. Il nesso è valido anche tendendo conto di effetti specifici di singoli Paesi o di particolari periodi temporali. Test econometrici aggiuntivi dimostrano che la relazione è ancora più chiara e più forte in contesti in cui il gioco democratico opera meglio e con maggiore efficacia a livello centrale/nazionale e quando le regioni hanno un ruolo più spiccato nella formulazione e attuazione di politiche economiche. Una tesi che contraddice l’ipotesi del referendum renziano di trasferire competenze dalla periferia al centro. Se ci sono state o ci sono disfunzioni, vanno curate senza bloccare sul nascere la democrazie locali.

Il secondo lavoro – apparso su Economic Inquiry (Volo.55 pp. 98-114, 2017) – è quello di Santiago Acosta-Ormaecha (Fondo Monetario) e Atsuyoshi Morozumi (Università di Nottingham) e spiega come riallocare la spesa pubblica in funzione della crescita economica a seconda dei differenti livelli di reddito. Lo studio copre 83 Paesi nel periodo 1970-2011 e conclude che il modo più efficace consiste nel riallocare verso l’istruzione spese destinate al welfare. Una strategia ce va applicata in particolare a Paesi a basso reddito medio.

Come ridurre il debito pubblico

Come ridurre il debito pubblico

Lo Yale Jornal of International Law ha dedicato il suo ultimo numero (disponibile in versione telematica) a come ridurre il fardello del debito pubblico, tema che chiunque sarà al governo in Italia dovrà affrontare con urgenza. In tal senso alcuni saggi sono particolarmente utili e meritano essere segnalati anche a fini operativi.

Il lavoro di Matthias Goldoman del Max Planck Institute for Comparative Public Law alla Goethe Univesitaat di Francofore, nel saggio “Putting Your Faith in Good Faith: A Principled Strategy for Smoother Sovereign Debt Workouts” (Mettere la tua fede in buona fede: una strategia per alleggerire gradualmente il debito sovrano) sottolinea come per portare a termine una trattativa per la riduzione graduale del debito sovrano occorra far perno sulla buona fede delle parti in causa. Questa fa si che gli Stati debitori e i loro creditori riescano a iniziare bene una trattativa nel caso di una crisi e a raggiungere soluzioni ragionevoli senza ricorrere ad arbitrati o a vertenze giudiziarie.

Un altro saggio firmato da numerosi autori è frutto di un lavoro congiunto tra il Yale Journal of International Law e il Segretario dell’UNCTAD (The United Nations Conference on Trade and Development), che ha grande esperienza di soluzione di problemi del debito sovrano specialmente dei Paesi in via di Sviluppo. Il rapporto conclusivo individua un meccanismo e una road map nonché una guida operativa per giungere a una significativa riduzione del  debito sovrano. La proposta consiste un approccio graduale e incrementale utilizzando una vasta gamma di strumenti. La guida operativa è stata approvata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 2015. Il fascicolo include i paper tecnici a corredo della guida: una vera e propria miniera di analisi e considerazioni.

Cosa frena o accelera la competitività delle PMI in Italia

Cosa frena o accelera la competitività delle PMI in Italia

Il Rapporto Cerved PMI è dedicato all’analisi delle piccole e medie imprese italiane (PMI), individuate in base alla classificazione della Commissione Europea (CE). In particolare, il documento analizza il complesso di società di capitale non finanziarie che soddisfano i requisiti di dipendenti, fatturato e attivi definiti dalla Commissione. In base agli ultimi bilanci disponibili soddisfano i requisiti di PMI 137.046 società, tra le quali 113.387 rientrano nella definizione di ‘piccola impresa’ e 23.659 in quella di ‘media impresa’.Queste società, che rappresentano più di un quinto (il 22%) delle imprese che hanno depositato un bilancio valido, hanno occupato 3,9 milioni di addetti, di cui oltre la metà lavorano in aziende piccole o piccolissime.

Le PMI realizzano un volume d’affari pari a 838 miliardi di euro, un valore aggiunto di 189 miliardi di euro (pari al 12% del Pil) e hanno contratto debiti finanziari per 255 miliardi di euro. Rispetto al complesso delle società non finanziarie, pesano per il 36% in termini di fatturato, per il 41% in termini di valore aggiunto e per il 30% in termini di debiti finanziari. Sono, quindi, una realtà importante e dinamica dell’economia italiana.

Come si può estendere il loro potenziale, specialmente in materia di innovazione? Alcune risposte interessanti sono nello studio “Design Contribution to the Competitive Performance od SME: The Role of Innovation Capabilities” appena pubblicato nella rivista Creativity and Innovation Management (Vol. 25 No.4 pp. 484-499) a cura di Claudio Dell’Era, Gregorio Ferraloro, Roberto Verganti (Politecnico di Milano), Paolo Landoni (Politecnico di Torino), Helena Karlsoon (Malerden University) e dell’economista Mattia Peradotto. Il loro lavoro merita di essere letto e studiato per comprendere meglio il ruolo dell’innovazione attraverso lo studio di sei piccole e medie imprese in Lombardia che hanno recentemente ricevuto finanziamenti per l’innovazione, analizzando il nesso tra questa e la loro accresciuta competitività sui mercati.

Il mandato di Donald Trump

Il mandato di Donald Trump

di Pietro Masci

Dopo oltre 15 giorni dal voto storico dell’8 novembre, le analisi del voto continuano e si accentuano previsioni e speculazioni sulla nuova amministrazione, anche in relazione alle prime scelte che Donald Trump sta effettuando. L’analisi del voto rimane centrale per capire cosa è accaduto e per orientarsi sulla futura evoluzione politica negli Stati Uniti e del Partito Democratico e di quello Repubblicano e per comprendere le sfide – ma anche le opportunità – alle quali la nuova amministrazione dovrà far fronte e in che misura il Presidente eletto ha un mandato per realizzare il suo programma.

L’insofferenza vince le elezioni

Nell’articolo scritto a ridosso dell’elezione avevo sottolineato che l’esito dell’elezione sarebbe dipeso da tre categorie di elettori: coloro che voteranno Trump senza dirlo; coloro che voteranno per Hillary Clinton controvoglia nel timore di un salto nel vuoto; coloro che si asterranno dal voto perché non intendono essere complici di un sistema che mostra crepe evidenti. Tutte e tre queste tre categorie hanno contributo in modo diverso all’elezione di Trump.

Quanto alla prima categoria, durante la trasmissione maratona di CNN nella notte dell’8 novembre, mentre si osservavano i sorprendenti risultati, un commentatore, Jack Tapper, racconta che durante una sua recente visita in Pennsylvania ha intervistato un pasticciere (di origine italiana). Il pasticciere dice al commentatore: “I see a lot of leaners over here!”  Il commentatore replica stupito: “Leaners? who are the “leaners“? Il pasticciere spiega: “Leaners are those who lean towards you and whisper in your ear so other people cannot hear: I think I am going to vote for Trump this time!”. I “leaners” costituiscono la categoria che potremmo definire dei pendenti o degli esitanti. Infatti, Trump ha battuto Clinton tra i bianchi senza un titolo universitario – la c.d. white working class – di 18 punti percentuali nel New Hampshire, 21 in Colorado, 22 in Arizona, 24 in Wisconsin, 31 in Michigan, e 35 in Missouri. Il margine diventa enorme negli Stati del Sud: 34 punti percentuali in Florida, 40 in North Carolina, 64 in Georgia.

La seconda categoria – coloro che hanno sostenuto Clinton per paura del salto nel vuoto con Trump – non sembra che si sia materializzata. Addirittura, Clinton è andata male con gruppi storicamente favorevoli ai democratici: gli afro-americani non hanno sostenuto Clinton nello stesso numero che avevano appoggiato Obama nel 2008 e nel 2012; i Latinos, che rappresentano circa l’11% dell’elettorato, l’8 novembre, hanno votato per Clinton meno del previsto. Secondo gli exit polls, il Presidente eletto Trump ha ottenuto il 29 per cento dei voti dei Latinos, un dato migliore del 27% ottenuto da Mitt Romney nel 2012. Clinton ha ottenuto solo il 65% dei voti dei Latinos, meno del 71% che il Presidente Barack Obama aveva conseguito quattro anni fa. Inoltre, Clinton non è riuscita ad attrarre i giovani tra 18 e 29 anni : nel 2012 Obama aveva ottenuto il 60% del voto dei Millenials; Clinton ha ottenuto il 55% e Trump il 37%.

Relativamente alla terza categoria, coloro cioè che non hanno votato per disaffezione con il sistema politico, ha votato il 57% circa degli aventi diritto al voto. Un dato in calo rispetto al 58,6% nel 2012 e al 61,6% nel 2008 (il dato più alto degli ultimi 40 anni). Il voto anticipato è cresciuto mentre è crollato quello nel giorno dell’elezione. La partecipazione al voto si è ulteriormente ridotta come reazione a una campagna politica priva di contenuti e negativa. Peraltro, il 4% complessivo dei voti ricevuti dai candidati del Partito Libertario (Gary Johnson) e del Partito Verde (Jill Stein) si può considerare un’ulteriore prova della disaffezione verso i candidati presidenziali principali.

Si può quindi concludere che il risultato finale del voto è stato determinato in una maniera significativa dai pendenti o esitanti, dal basso numero di coloro che hanno votato per Clinton solo per paura di Trump e da coloro che non hanno votato perché indifferenti o insoddisfatti. A decidere l’elezione di Trump sono stati quindi l’insofferenza e la delusione. 

La gestione della campagna

Alcuni eventi significativi possono aver in qualche modo influenzato l’opinione pubblica. Ad esempio le interferenze del FBI che ha archiviato, poi riaperto e infine archiviato di nuovo l’inchiesta sull’utilizzo improprio della posta elettronica della Clinton. Il fattore rilevante che ha favorito la vittoria di Trump resta però la gestione della campagna elettorale. Clinton disponeva di maggiori risorse finanziarie e di un Partito Democratico completamente a sua disposizione ma Trump ha gestito in modo molto più efficace la contesa, sia pure con minori risorse e con un Partito Repubblicano dubbioso sulla sua candidatura. Clinton e la sua macchina elettorale hanno avuto l’arroganza di pretendere che gli Stati che si sono rivelati fondamentali avrebbero comunque votato democratico. Non è stato compreso che non era sufficiente spendere milioni di dollari nella pubblicità televisiva, oppure contare sull’appoggio di varie celebrità della musica e dello spettacolo (ad esempio Beyoncé, Jay Z, Madonna, Jennifer Lopez) e neppure sul sostegno esplicito del Presidente Barack Obama. Erano invece fondamentali la presenza fisica, il contatto con gente che si è sentita abbandonata. Mentre coloro che avrebbero dovuto ottenere l’attenzione diretta di Clinton vedevano la ex-first lady in televisione (magari vicina a qualche celebrità), i sostenitori di Trump affollavano i roboanti, appassionati raduni del candidato repubblicano. 

Alla Clinton sono venuti meno gli Stati della c.d. Rust Belt – la Cintura della Ruggine – anche perché l’organizzazione della sua campagna li ha considerati scontati, e invece nel giorno dell’elezione i sostenitori “garantiti” sono rimasti a casa. Gli esempi più rilevanti si possono verificare in tre Stati (Wisconsin, Michigan e Pennsylvania) tradizionalmente democratici che hanno determinato la vittoria di Trump. Si può infatti affermare che queste  elezioni presidenziali sono state decise da circa 100mila persone su oltre 120 milioni di voti espressi. Secondo gli ultimi conteggi, Trump ha vinto Wisconsin di 0,9 punti percentuali (27.257 voti), Michigan di 0,2 punti (11.837 voti) e Pennsylvania di 1,1 punti (68.236 voti). Se Clinton avesse vinto tutti e tre gli Stati, avrebbe ottenuto 278 collegi elettorali (contro i 260 di Trump) e sarebbe diventata Presidente degli Stati Uniti. In Wisconsin, Clinton è andata una sola volta durante l’elezione e ha perso lo Stato per circa 27.000 voti, consegnandolo ai Repubblicani (non accadeva dal 1984). Clinton ha trascurato anche il Michigan mentre Trump vi ha concentrato gli sforzi nella settimana finale, inclusa la sua presenza nel giorno dell’elezione.  In Pennsylvania, la storia è diversa. Clinton vi ha dedicato più tempo e risorse (mobilitando un esercito di volontari) ma Trump ha fatto meglio, riuscendo a mobilitare gli elettori della classe operaia e rurale e delle piccole città.

In sostanza, la campagna di Clinton non è stata sbagliata ed è stata probabilmente l’unica che si poteva condurre. Indubbiamente, il Partito Democratico conosceva i limiti di Clinton, un candidato che raccoglie molte antipatie, e le difficoltà che avrebbe avuto a vincere le elezioni. Ma né il partito né il Presidente Obama hanno avuto il coraggio di sfidare Clinton che peraltro controllava l’apparato del partito e non ha permesso ad un outsider come Bernie Sanders di emergere.  Trump ha insomma prevalso per i suoi meriti (in condizioni estremamente difficili, osteggiato dal suo stesso partito e dalla stragrande maggioranza dei media) ma anche per la debolezza della sua avversaria.

Le ragioni politiche del voto

Clinton e Trump sono stati i più sgraditi candidati presidenziali nella storia americana. Quali sono le ragioni politiche per le quali un candidato inaffidabile – Trump – con tanti aspetti discutibili ha vinto? L’ immediata risposta è che l’avversario era ugualmente se non più discutibile. Come detto, Clinton è profondamente mal vista da una quota elevata dell’elettorato americano. Quando ha avuto responsabilità nel Congresso e come Segretario di Stato, ha commesso errori colossali (voto a favore della guerra in Iraq, intervento in Libia, gestione della crisi in Siria, tensione dei rapporti con la Russia, gestione della posta elettronica con un server nello scantinato di casa durante il periodo come Segretario di Stato, rapporti con la Fondazione Clinton). Tutte queste circostanze hanno portato molti americani a considerarla inaccettabile. 

Trump, il candidato inaffidabile, ha invece avuto la capacità di ascoltare e dare voce alle frustrazioni di una gran parte di americani – sopratutto la classe lavoratrice bianca- che sono stati dimenticati; ha compreso la rabbia di coloro che si sentono minacciati – a ragione o meno – dall’immigrazione, dalla delocalizzazione, dal terrorismo, dalla tecnologia. Si è presentato come il candidato contro il sistema, colui che si è schierato contro il Partito Democratico, contro i media (sopratutto quelli televisivi) e lo stesso Partito Repubblicano, colui che può riformare un sistema “truccato” che opera contro gli interessi del cittadino. 

Trump è visto come l’outsider, il non-politico che suscita passione ed entusiasmo oltre a dubbi e timori. Clinton ha avuto difficoltà a trasmettere la sua solidarietà e sostegno per i lavoratori, quando contemporaneamente riceve ingenti contributi dalle istituzioni finanziarie che hanno avuto grosse responsabilità nella crisi economica e che hanno determinato tante perdite di posti di lavoro.

D’altra parte, gran parte del dibattito tra i due candidati si è incentrato sul carattere di entrambi e non sulla sostanza delle loro proposte. Gli attacchi di Clinton su Trump non idoneo per la Presidenza erano in gran parte visti come il riconoscimento che Clinton si preoccupava del carattere del suo avversario, ma non della situazione economica e sociale che molti americani soffrono. Dal canto suo Trump colpiva duro e aveva un impatto quando diceva che Clinton non ha fatto nulla nei 30 anni della sua vita politica, mentre lui ha creato milioni posti di lavoro. In tale contesto, Clinton non è riuscita a valorizzare la circostanza che avrebbe potuto essere la prima donna Presidente degli Stati Uniti. Non è stata capace di controllare il voto femminile: pur ottenendo la maggioranza del voto femminile (54% secondo gli exit polls) ha perduto il sostegno del voto femminile non di colore, che si è rivolto per il 53% a favore di Trump.

La coalizione che ha portato Trump alla vittoria non va considerata – come Sanders ha sottolineato – come una coalizione di razzisti e di “deplorables” (deprecabili), anche se tali personaggi non mancano nel panorama che lo sostiene. Il tema unificante è l’insoddisfazione con la classe dirigente e con un sistema che non riconosce i bisogni della gente. Un rigetto del conformismo delle élites che pretendono di dettare agli altri i comportamenti da tenere; degli esperti che perdono indipendenza e si appiattiscono al potere; dei media che hanno speso il tempo discutendo di offese e insulti tra i due candidati, di scandali, slogan, gossip e non dei problemi che riguardano la gente comune e delle rilevanti politiche che i candidati propongono. La vittoria di Trump va quindi interpretata come un voto per il cambio, analogo a quello del 2008 per Obama. Gli elettori – soprattutto quelli che sono alla base della piramide – erano stanchi di vuote promesse e non erano disposti a concedere un terzo mandato – comunque storicamente raro – ad un democratico.

La divisione dell’America

Per verificare visivamente la divisione del Paese basta andare fuori dalle grandi città, osservare le manifestazioni soprattutto studentesche, parlare con la gente e addirittura ascoltare l’appello durante lo show musicale Hamilton, a New York. La tensione, i timori, le paure sono palpabili. La ragione profonda della divisione – a mio avviso – è che il paese del multiculturalismo e delle opportunità per tutti ha creato nel tempo interessi prestabiliti, rendite di posizioni che ora riducono l’uguaglianza delle opportunità.

La circostanza che, a livello nazionale, Clinton ha ottenuto circa due milioni di voti più di Trump (il risultato tuttavia non è ancora definitivo) evidenzia quanto l’elezione presidenziale del 2016 abbia diviso il Paese. Va precisato che l’elezione del Presidente negli Stati Uniti si decide Stato per Stato e non a livello nazionale. Tale circostanza – talvolta dibattuta – è accettata come la soluzione che non penalizza i piccoli Stati. Peraltro, i casi di Presidenti che non hanno vinto il voto popolare a livello nazionale, oltre ai collegi elettorali statali, sono rari (l’esempio più significativo è quello di Al Gore che nel 2000 vinse il voto popolare, ma perse quello elettorale e Bush diventò il 43esimo Presidente degli Stati Uniti). Tuttavia, la mancata vittoria a livello nazionale ha implicazioni sulla legittimità del “mandato” del Presidente di realizzare il programma che ha presentato durante la compagna elettorale.

D’alta parte, Trump ha trascinato il Partito Repubblicano a vincere le elezioni al Senato e alla Camera sicché questo ora controlla la Presidenza e il potere legislativo e potrà introdurre cambi anche radicali (ad esempio nel settore della salute). Inoltre, esiste la chiara opportunità di influenzare in senso conservatore le scelte dei giudici della Corte Suprema. Il Presidente dovrà scegliere un candidato per rimpiazzare Antonin Scalia ed è prevedibile che, data l’età di almeno tre giudici attualmente in carica, nei prossimi 4 anni potrà effettuare altre nomine di giudici alla Corte Suprema che ulteriormente orienterebbero la Corte in senso conservatore. Infine, a livello statale, il Partito Repubblicano ha Governatori in 33 Stati (su 50), il livello più elevato dal 1992 e controlla Camera e Senato in 32 Stati. In tale situazione, la c.d. “tirannia della maggioranza”, che i padri fondatori della Costituzione americana hanno sempre considerata come il peggiore dei mali, è una distinta possibilità che si può verificare ed esacerbare ulteriormente le divisioni. È vero – e democratico – che l’esito delle elezioni ha conseguenze. Tuttavia, varie delle proposte elettorali di Trump sono contradittorie e radicali e se adottate alla lettera rischiano di accentuare la divisione e la polarizzazione dell’America e l’intolleranza.

Il mandato

Il Presidente Trump ha la legittimità e l’autorità necessarie per realizzare il programma che ha presentato durante la campagna elettorale? Potrà adottare i cambi presentati durante la campagna elettorale tra i quali quello di “drain the swamp” (prosciugare la palude), ossia eliminare rapporti e interessi precostituititi – spesso esemplificati dai lobbisti – che assediano le istituzioni e influenzano, determinano e corrompono le decisioni del governo? Si tratta di un tema complesso che qui non può essere certamente esaurito.

Trump non ha un compito semplice e dovrà giostrarsi tra le promesse elettorali e la possibilità di dividere ulteriormente il Paese. Dovrà dimostrare concretamente di occuparsi di tutti gli americani e lavorare con il Congresso (Senato e Camera), con i rappresentanti direttamente eletti dai cittadini e destinati a garantire controlli ed equilibri del sistema democratico, dando all’opposizione l’opportunità di esprimere punti di vista e interessi e pervenire a soluzioni che spesso sono compromessi, come normalmente accade in democrazia. Trump dovrà navigare tra i pesi e contrappesi del sistema americano – che saranno messi alla prova – cercando di rispettare le più importanti promesse elettorali senza cercare di governare in modo autocratico.

Su due obiettivi è probabile che gran parte degli americani sia d’accordo: rinvigorire la crescita economica in modo tale da creare posti di lavoro ed opportunità; ristabilire principi, valori e regole alla base dell’esperimento americano. In tale ottica, il Presidente non potrà operare come il “padrone” di una compagnia privata nemmeno quotata in Borsa, anche se la tentazione esiste. L’eliminazione dei conflitti d’interesse tra Trump Presidente e Trump uomo d’affari è fondamentale anche se – a termine di legge – le cautele da intraprendere per evitare conflitti d’interessi si applicano a tutti coloro che ricoprono cariche pubbliche ma non al Presidente degli Stati Uniti che è considerato al di fuori di conflitti d’interessi. Come pure è vitale che Trump operi in modo trasparente spiegando le scelte politiche e di personale, evitando soluzioni di sorpresa ed immotivate come è nello spirito dell’uomo di affari. 

Il compito principale del nuovo Presidente nel realizzare in modo coerente e con una visione di lungo periodo le contraddittorie proposte elettorali è quello di compattare il Paese e riportarlo ai valori originari e pertanto prosciugare la palude e ricreare le condizioni per la crescita economica e sociale e la concreta realizzazione del sogno americano. Questo è il vero mandato che dovrà conquistarsi giorno per giorno. In tal senso, Trump ha una grande opportunità e sarà interessante osservare in che modo intende afferrarla. È presumibile che i primi chiarimenti verranno quando il nuovo Presidente avrà completato la sua squadra di governo e sceglierà le politiche ed iniziative che intende avviare. Tuttavia, le iniziative e decisioni di Trump dovranno essere considerate non pregiudizialmente da rigettare, ma andranno valutate alla luce dei valori, principi e regole del sistema americano. Solo facendo tangibilmente riferimento ai principi ispiratori si potrà essere più ottimisti in relazione all’unità del Paese e si potrà assicurare che lo spettacolo delle elezioni presidenziali del 2016 sarà irripetibile.