Opinioni

Micro-incassi Equitalia: è un problema la pratica diffusa degli accertamenti presuntivi

Micro-incassi Equitalia: è un problema la pratica diffusa degli accertamenti presuntivi

di Mino Rossi

Il dato è ormai stabilizzato. Dal 2011 in avanti l’Agenzia delle Entrate aumenta ogni anno di 65 miliardi il magazzino dei crediti forzosi di Equitalia (vedasi qui Corte dei Conti, Rendiconto generale 2015 vol. I, pagina 76, Tavola 3.12). Stando alla prassi ultradecennale, tuttavia, si tratta di somme che frutteranno all’erario una quota pressoché simbolica: meno del 10 per cento, e per di più diluiti in un tempo infinito (10-15 anni). Nel 2015, ad esempio, gli incassi forzosi, per la catasta di accertamenti insoluti degli ultimi 15 anni, sono stati appena 1,8 mld, rateazioni comprese.

E così, a passo di lumaca, di fronte a un ammontare da riscuotere di 800 mld, ne sono stati incassati 35, mentre 700 mld (l’87%) si sa già che sono destinati al macero per inesigibilità (ne abbiamo parlato qui). Com’è intuibile, la consistenza vistosamente “marziana” di quest’ultima cifra non poteva che ingolfare il sistema, che da anni è pericolosamente fuori controllo, specie riguardo al funzionamento delle garanzie di imparzialità e di effettività dei recuperi.  Nel senso che né Equitalia, né l’Agenzia delle Entrate, sono materialmente in grado di rilasciare il cosiddetto discarico dei crediti inesigibili. E questo significa che – a causa di una sorta di overbooking – nessuno più oggi sorveglia sul fatto che in questo spaventoso mare magnum di partite da cestinare, non si ritrovino infilati, magari senza volerlo, fronde di intestatari-evasori viceversa ricchi e possidenti.

I numeri visti sopra sembrano appartenere a un altro pianeta, altro che tesoretto! C’è da chiedersi davvero se gli altissimi costi di sistema, compresi quelli sulla tenuta sociale, non superino i vantaggi monetari, che, come visto, sono (e saranno) sempre esigui. D’altro canto, è evidente che il tappezzare di cartelle Equitalia tutto il Paese non poteva che deprimere l’economia piuttosto che risollevarla. Soprattutto se lo hai fatto in forma massiva e a casaccio, come ha dimostrato di fare, del tutto incolpevolmente – e nonostante gli elevati livelli di professionalità raggiunti (è bene chiarirlo) – l’Agenzia delle Entrate.

Prendiamo a esempio, il tasso di errore delle somme date in riscossione forzosa. In un normale sistema, quando vai ad armare la mano del “fuciliere”-Equitalia, autorizzandone l’esercizio di poteri letali sulla incolumità patrimoniale dei destinatari, non dovrebbero essere tollerati errori superiori allo zero virgola zero. E, invece, è successo che l’Agenzia delle Entrate, dopo aver consegnato all’esattore un elenco sconfinato di condanne a “morte economica” (oltre 150 milioni di posizioni, tre per ogni italiano, neonati compresi), ha cancellato il debito, fuori tempo massimo, nel pieno svolgersi della fase esecutiva. E lo ha fatto per una cifra stratosferica: 180 mld, pari al 22% del carico.

L’entità dell’errore non lascia adito a dubbi. Non può essere che l’Agenzia fiscale sia incorsa in uno svarione megagalattico. Trattasi, piuttosto, di segno evidente che la riscossione forzata ha in pancia problemi enormi. Il più rilevante dei quali è dato dal tasso di imprecisione oggettivo della cifra originaria da riscuotere. Una imprecisione che, a sua volta, dipende dal carattere strutturalmente inagguantabile, e oggettivamente ballerino, del quantum evaso.Se riguardasse solo una percentuale ridotta di casi, l’anomalia non avrebbe riverberi e questo non sarebbe un problema per il sistema. Ciò che preoccupa, invece, è che il “vizio” della approssimazione è presente nella stragrande maggioranza dei casi, essendo diventato fenomeno di massa.

E, invero, tolte le situazioni di morosità in dichiarazione (dove, è ovvio, la cifra in riscossione ha “fisiologicamente” un tasso di precisione del cento per cento), negli altri casi, che rappresentano forse i due terzi del carico, si viene chiamati da Equitalia per una cifra presuntiva, e dunque per un quantum, “sistematicamente” inficiato a monte da un tasso di imprecisione elevato. L’altra cosa paradossale è che, mentre sui crediti granitici (morosità in dichiarazione) la penalità è del 30 per cento, è invece quattro volte tanto, la sanzione applicata agli addebiti presuntivi. Ciò nonostante che, in questi ultimi casi, la base di calcolo – cioè, l’imposta evasa – resta niente più che una ipotesi (per quanto qualificata e assolutamente probabile).

La responsabilità di tutto questo non può che essere nelle procedure di legge: sono esse il problema. Te ne accorgi anche da una controprova: in sede di accertamento con adesione, l’Agenzia delle Entrate, in ossequio alle regole vigenti, fa in molti casi dietrofront e si autoriduce l’evasione accertata, applicando uno sconto del 44 per cento. Non si tratta di situazioni sporadiche, ma della riduzione media applicata a circa un quinto del plafond accertato. A dimostrazione che la stessa Agenzia “sa” dell’alto tasso di approssimazione che è insito nei suoi “prodotti”. Per il 2014, a esempio, un’evasione inizialmente quantificata in 4,391 mld, in adesione è stata autoridotta dalle Entrate a 2,459 mld (somma riferita a solo imposte – vedasi qui il Rapporto sui risultati del contrasto all’evasione – Tabella I.16 pagina 15).

Ecco perché, quindi, al di là della regolarità formale degli atti mandati in riscossione, si può dire che l’esiguità degli incassi è anche dovuta alla intrinseca dubbiosità (anzi, ancor più, della dubbiosità percepita) del quantum accertato. Un problema, quest’ultimo, dovuto all’errore di aver consentito – come regola, piuttosto che come eccezione – la diffusione della comoda scorciatoia dell’accertamento presuntivo. Benché prevista per legge, infatti, questo tipo di procedura già di per sé costituisce sanzione assai grave. Proprio per gli effetti che ne derivano, anch’essi letali, pertanto, essa andrebbe piuttosto utilizzata solo in casi eccezionali e dopo il superamento di alcuni filtri. Così era nello spirito saggio della riforma dei primi anni ’70 (legge 825 del 1971), che aveva puntato sul cosiddetto accertamento induttivo, ma solo per casi eccezionali, in presenza di scorrettezze contabili molto gravi, e dopo averne verificato de visu le prove, in sede di controllo in flagrante (vidimazioni periodiche, tempestività e regolarità delle annotazioni contabili, eccetera).

A chi piace e a chi non piace la spesa pubblica

A chi piace e a chi non piace la spesa pubblica

di Giuseppe Pennisi

In Italia , la spesa pubblica e il debito pubblico crescono e così pure la pressione e l’oppressione tributaria. Nonostante che tutti se ne lamentino. Cosa incide sulle preferenza per forti spese pubbliche e forti tasse?

Ci sono indubbiamente determinanti storiche e storico sociali. In Paesi a basso livello di reddito- procapite la capacità impositiva è molto limitate ed i meccanismi tributari sono primitivi, con il risultato che la spesa pubblica supera raramente il 15% del Pil e si concentra su sicurezza interna e difesa internazionale. Nei Paesi emergenti, la bassa imposizione è strumento per attirare investimenti dall’estero. Nella società americana , raramente (principalmente in caso di guerra,) il gettito supera il 35% del Pil in quanto le libertà dell’individuo e della impresa sono alla base del compatto sociale. In Europa Occidentale, specialmente nell’eurozona, la pressione fiscale giunge al 45-50% del Pil per sostenere un vastissimo perimetro di spesa pubblica-. Italia e Francia sono gli Stati con più alta pressione tributaria e più alta spesa pubblica.

Spesso gli elettori non se ne rendono conto. Un lavoro interessante è stato messo online dal CESifo (Working Paper Series No 5938) . Sulla base di una inchiesta empirica ed esperimenti, sviscera come e quanto le informazioni (in cui hanno un ruolo importane i media) incidono sulle preferenze per la spesa pubblica, sovente senza tener presente il suo contrappeso (la tassazione). Ne sono autori Philipp Lergetporer della Università di Innsbruck, Guido Scherdt del CESifo,, Katharina Werner del CESifo e Ludger Woessmann dell’Università di Monaco. La conclusione è che “l’elettorato non ha cognizione di come il perimetro della spesa pubblica causa distorsioni tra le preferenze di chi vota”. La squadra di economisti e statistici ha condotto una serie di indagini campionarie prendendo l’avvio dagli attuali livelli di spesa pubblica. Quando coloro che sono oggetto del campione hanno l’informazione, sono essi stessi a proporre riduzioni di spesa nei campi più vari, dalle pensioni alla difesa. Nel passato recente, analisi sulle spese pubbliche per la scuola e sulle retribuzioni degli insegnanti indicano che le reazioni (in favore di riduzione della spesa) sono più per coloro che inizialmente sottostimavano i livelli di spesa . Quindi, la corretta informazione è essenziale per sostenere una revisione della spesa.

Corte dei Conti, “buco” di 16 mld all’anno nelle dichiarazioni fiscali

Corte dei Conti, “buco” di 16 mld all’anno nelle dichiarazioni fiscali

di Mino Rossi

Sono due le cifre che risaltano leggendo le anticipazioni della Corte di Conti pubblicate il 23 giugno scorso sui risultati conseguiti dalle Entrate, nel 2015, circa le attività di contrasto alla evasione fiscale (Rendiconto generale dello Stato per il 2015 vol. I – vedasi qui). Oltre 65 mld di euro consegnati a Equitalia per la riscossione forzosa. Ed oltre 14 miliardi già riscossi. Si veda sotto la tabella di sintesi dei risultati 2015, con particolare riferimento a:
– arretrati recuperati da Equitalia (4,3 mld, Tab.3),
– pagamenti tardivi post-dichiarazione (altri 4,3 mld, Tab.2),
– incassi immediati per accertamenti con adesione (5,6 mld, Tab.1).

E’ utile rimarcare la distinzione fra tasse nascoste al Fisco (le sole che, propriamente, possono dirsi “evase”), rispetto al caso diverso della semplice morosità, che si ha quando il contribuente, previa dichiarazione poniamo di un debito per 100, versa poco o nulla allo Stato (può accadere per momentanea difficoltà, ma anche a seguito di precisa strategia dolosa).  Un dato inedito di rilievo concerne invece il 2013, che è l’anno più recente disponibile al riguardo: l’ammontare dei mancati pagamenti in dichiarazione è stato di quasi 16 mld. Siamo tuttavia in un trend in forte crescita, dato che quattro anni prima, il 2009, l’ammontare annuo era di 4 mld in meno (vedasi sotto Tab.2 e, per la fonte, qui – pagina 45, Tavola 2.21).

Da rimarcare che questo accade anche per via della convenienza ad auto-finanziarsi a spese del Fisco, consentita in questi ultimi anni per via delle politiche di compliance. Che ti lanciano ponti d’oro, purché alla fine – quando che sia – ti decidi a pagare. Un esempio è quello del cosiddetto “ravvedimento operoso lunghissimo”, che ti consente di sanare il tutto, praticamente al prezzo di un finanziamento competitivo: anche se ti ravvedi dopo qualche anno dalla scadenza di legge, infatti, lo Stato ha recentemente deciso di applicare una penalità fissa pari al 5% delle somme che avevi omesso di versare.

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Economia e democrazia nell’Unione europea

Economia e democrazia nell’Unione europea

di Giuseppe Pennisi

Per i prossimi tre anni, il tema principale di discussione, e di negoziati, in Europa sarà l’uscita del Regno Unito dall’Unione europea. L’argomento ha un suo sottostante importante: cosa intende l’Ue per democrazia, e per gioco politico democratico. È un argomento che merita di essere scandagliato non solo da politologi, ma anche da economisti poiché è ormai dimostrato – si legga o rilegga l’ultimo libro di Luciano Pellicani, “L’Occidente e i suoi nemici” (Rubbettino, 2016) – che la democrazia è elemento fondante della crescita. L’arresto dello sviluppo in gran parte degli Stati dell’Ue, ormai in corso da circa dieci anni, deve attribuirsi, in buona parte, a quel deficit di democrazia che ha portato la maggioranza dei cittadini del Regno Unito alla Brexit (pur nella consapevolezza dei suoi elevati costi economici) e che serpeggia tra i cavalli di battaglia di numerosi movimenti politici e sociali chiamati anti-sistema e fortemente critici dell’Ue.

Formalmente l’Ue si regge su istituzioni democratiche. Il Parlamento europeo (Pe) è eletto direttamente dal popolo sovrano – con un tasso di partecipazione leggermente superiore al 50% (in linea con quello della media dei Paesi avanzati a economia di mercato) – e i suoi 751 seggi sono ripartiti tra i 28 Stati membri secondo quote definite in trattati ratificati dai Parlamenti nazionali. Il Pe approva la normativa (regolamenti, direttive) secondo una procedura che richiede la partecipazionedei Consigli dei ministri (non eletti direttamente, ma rappresentanti di governi democraticamente eletti).

Il perno della costruzione è la Commissione europea e gli altri funzionari che la compongono, indicati o nominati dai governi, ma che necessitano di ottenere la fiducia del Pe. Sono, in gran misura, ex politici o tecnici, ottimati, convinti di avere la missione, loro assegnata dal Trattato di Lisbona, di andare verso un’ever closer union stimolando accordi irreversibili che vanno, in modo monotematico, in quella direzione. Anzi si tengono distanti dal dibattito quotidiano di confronto politico su questo o su quel tema proprio per non essere distratti dal loro obiettivo che ha passi intermedi alti come la creazione (forse prematura) di un’unione monetaria e anche bassi (come regolamentare la curvatura delle banane e definire, ogni anno, il giorno per cominciare a imbottigliare l’olio d’oliva).

Il nodo di fondo è che in una democrazia ben funzionante non solamente non esistono ottimati, ma si è tutti coinvolti in un dibattito politico quotidiano che è spesso uno scontro, o una serie di scontri, fatti di passione, ma anche – amava ripetere un uomo politico italiano – di sangue e di sterco. È in tale confronto, non solo nel giorno delle elezioni, che i cittadini partecipano e fanno sentire i loro punti di vista, e chi fa realmente politica cerca soluzioni, spesso mediando tra interessi legittimi ma contrapposti. È questo il sale della democrazia, che gli ottimati dell’Ue, accecati dalla missione monotematica che pensano di avere, non conoscono. Sono diventati, quindi, sempre più distanti dai problemi a cui gli europei danno priorità.

Nessun europeo che abbia meno di cinquant’anni è preoccupato di eventuali nuove guerre, in mancanza di un’ever closer union, tra Francia e Germania per il controllo della Ruhr. I cittadini europei sono angosciati, invece, da problemi che gli ottimati (retribuiti, ai gradi alti, con stipendi e prebende pari al doppio del compenso del presidente degli Stati Uniti) non percepiscono: il lavoro loro e dei loro figli in un’Europa che non cresce, la sicurezza personale, l’immigrazione e via discorrendo. Temi sui quali gli ottimati organizzarono forbiti seminari e tentano di arrabattarsi, senza giungere a conclusione. Proprio perché distanti dal confronto-scontro politico quotidiano anche su temi che possono sembrare di quartiere, ma che fanno bella o brutta la vita degli europei.

Da europeo e da convinto europeista mi auguro che, di fronte alla Brexit, gli ottimati aprano gli occhi e si rendano conto che stanno marciando, come nel film di Buñuel, “Le charme discret de la bourgeoisie”, verso un suicidio politico. L’unico suicidio – diceva Winston Churchill – a cui di solito si sopravvive. Per comprenderne i danni.

Da ŒCONOMICUS dell’agosto 2016

Fisco, al macero 700 mld di ruoli (e l’Inps triplica gli incassi delle Entrate)

Fisco, al macero 700 mld di ruoli (e l’Inps triplica gli incassi delle Entrate)

di Mino Rossi

A pochi giorni dalla pubblicazione dei due dossier sulle criticità di funzionamento del Fisco italiano, a cura delle massime istituzioni internazionali (Ocse-Fmi – vedasi qui), tornano assai preziosi i dati pubblicati il 23 giugno scorso  dalla benemerita “nostra” Corte dei Conti (vedasi qui Rendiconto generale dello Stato  per il 2015, vol. I).

Dati che ci aiutano in primis a capire, fra le altre criticità, un’anomalia, tutta italiana, riferita al comparto delle Entrate. Incrementatasi, col passaparola, a partire dai primi anni 2000, e che ha raggiunto oggi le dimensioni di una zavorra annua fatta di ruoli per qualche decina di miliardi. I quali nascono inesigibili in partenza, poiché riferiti ad accertamenti intestati o a persone nullatenenti o a società fantasma (parliamo di circa il 40% del carico lordo).

Dimensioni e gravità del fenomeno erano già note, grazie ad alcuni  dossier elaborati in passato dalla Corte dei Conti. Ma il documento di recente pubblicato conferma che il problema è  ancora lì, irrisolto. E lo rivela un dettaglio non da poco: nel 2015, infatti,  sono stati circa 90mila, su un totale di 300mila, gli accertamenti lavorati e notificati dalle Entrate nella indifferenza dei loro destinatari. I quali non hanno né impugnato, né pagato alcunché. Il valore della relativa imposta evasa accertata, al netto delle sanzioni, è stato pari a 7,6 mld (vedasi qui Rendiconto generale 2015 vol. I, pagine 37 e 38, Tavole 2.11 e 2.12).

Ma la novità più grande si rinviene incrociando questi ultimi dati con quelli comunicati il 9 febbraio 2016 alla Commissione Finanze del Senato, nella Audizione resa dall’amministratore delegato di Equitalia. Nella Tabella da noi elaborata sono stati messi a confronto fra loro gli esiti della riscossione coattiva: quella su mandato della Agenzia delle Entrate, e quella ad opera dell’Inps (insieme, i due Enti coprono l’89% del totale di 1.051 mld di ruoli consegnati a Equitalia).

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La Tabella è molto eloquente. Perché, non solo conferma che il carico iniziale delle Entrate è  davvero stratosferico (800 mld di euro, in quindici anni). Ma, anche perché, essa dimostra che la quota Entrate del “magazzino insoluti”, ovvero la parte ufficialmente destinata al macero, ad oggi “pesa” 700 mld, l’87% della cifra iniziale (cifra che in futuro può solo amentare). Inoltre, al confronto con l’Agenzia fiscale, l’Inps (che di certo non è l’Ente più virtuoso al mondo) sembra la Scandinavia. Con una percentuale di 20,8 punti in meno del magazzino insoluti.  E incassi del 15,8 per cento, che triplicano, quasi, il 4,4 delle Entrate. Vale a dire che se i crediti partoriti dall’Agenzia fiscale avessero ottenuto lo stesso tasso di riscossione (più 11,4%) lo Stato avrebbe introitato fino a oggi 90 mld di euro in più.

Il combinato disposto di dati così univoci e convergenti, dunque, costituisce prova del fatto che la prima emergenza da affrontare nel Fisco italiano è il dilagare incontrollato (e incontrollabile, a normativa vigente) della cosiddetta evasione da riscossione. Fenomeno delinquenziale diffusissimo, oramai, preordinato con sistematicità da abili colletti bianchi capaci di blindare a monte la propria impunità patrimoniale, neutralizzando ogni futura azione esecutiva di Equitalia.

Il tutto nascondendosi dietro grappoli di società fittizie – del tipo “apri e chiudi” – che solo momentaneamente appaiono in regola. E che si passano tra loro il testimone, dopo pochi mesi di vita, prima di scomparire nel nulla (magari spostando la sede legale in un paradiso fiscale). Nel mentre, gli sconosciuti burattinai (destinati quasi sempre a rimanere anonimi) ci sguazzano per davvero, affogando nella enorme liquidità illecita loro consentita dalle vendite commerciali esentasse. Vendite effettuate camaleonticamente alla pari, nel mercato legale, dove però tutte le altre aziende, quelle sane, sono spinte fuori mercato poiché esse i contributi Inps non li compensano certo con crediti d’imposta fasulli, mentre l’Iva, l’Ires, l’Irap e le addizionali, li versano fino all’ultimo euro. Puntualmente.

Perché la Germania Orientale non è diventata un altro Mezzogiorno

Perché la Germania Orientale non è diventata un altro Mezzogiorno

di Giuseppe Pennisi*

Vi ricordate perché e come nacque l’unione monetaria? Alla caduta del muro di Berlino, vennero preconizzate enormi spese pubbliche tedesche per evitare che i Länder orientali diventassero un nuovo Mezzogiorno.

I centri studi basati a Bruxelles pubblicarono paper su paper tratteggiando questa tesi ed anzi dipingendola ancora più fosca: per evitare il ‘”Mezzogiorno d’Europa” ai confini con la Polonia e per impedire un’ondata d’inflazione, la Germania avrebbe avuto forti deficit di bilancio e la Bundesbank alti tassi d’interesse. Tramite gli alti tassi d’interesse, avremmo pagato tutti noi parte del costo dell’unificazione tedesca. Oppure, sarebbe andato a carte quarantotto la rete di accordi europei sui cambi (in gergo giornalistico chiamata Sistema Monetario Europeo, SME).

Tale prospettiva faceva paura soprattutto alla Francia che aveva ricorso a “cambiamenti di parità” (termini elegante per voler dire “svalutazioni” in un salotto con signore di buona famiglia) e che, quasi con la stessa frequenza, cambiava Repubblica. Proprio per questa ragione (smetterla con le svalutazioni ed i cambiamenti di Repubblica), dopo una seria spending review, il 22 febbraio 1987, la Francia aveva firmato con la Germania il patto del Louvre, in base al quale la parità del franco francese con il marco tedesco sarebbe stata fissa e, in pratica,la politica monetaria della Francia sarebbe stata dettata dalla Bundesbank. Proprio nel tentativo di impedire un forte rialzo dei tassi tedeschi per sterilizzare le spese per il previsto Mezzogiorno dell’Est, la Francia propose un percorso a tappe, con parametri oggettivamente verificabili, per dare vita ad un’unione monetarie facendo diventare collegiali le decisioni di politica monetaria.

Molte voci si alzarono contro questo approccio (Alesina, Feldstein, Mundell, tra gli altri) ma quasi nessuno contro la prospettiva del Mezzogiorno dell’Est. Solamente Andrea Boltho del Magdalen College dell’Università di Oxford, Wendy Carlin dell’University College di Londra, e Pasquale Scaramozzino allora all’University College di Londra ed ora alla Università di Roma, Tor Vergata. Contro il coro a cappella (come si diceva allora) o “i gufi” (come si dice oggi), sostennero in un saggio pubblicato nel 1977 sul Journal of Comparative Economics del 1997 che non c’erano le premesse istituzionali, sociali e storiche perché i Länder orientali diventassero un nuovo Mezzogiorno.

Sono tornati sul tema con il paper Why East Germany Did Not Become a New Mezzogiorno pubblicato la settimana scorsa come CEPR Discussion Paper No. Dp 11266. Nel lavoro riesaminano la loro ipotesi alla luce dei dati di 25 dalla unificazione tedesca. Mentre in Italia in termini di reddito pro-capite non c’è stata alcuna convergenza tra il Sud e le Isole, da un lato, ed il centro-nord dall’altro (anzi la divergenza si è accentuata), nello stesso periodo i redditi medi dei Länder orientali tedeschi si sono molto avvicinati a quelli dei Länder occidentali. Le determinanti delle differenze di risultati nei due Paesi dipendono – sostengono i tre economisti – non solo da ragioni storico istituzionali, ma in diversità significative in materia di rendimento degli investimenti, flessibilità del mercato del lavoro e dello sviluppo di settori produttivi competitivi sui mercati internazionali.

*Presidente del board scientifico di ImpresaLavoro

L’età della pensione: riflessioni internazionali

L’età della pensione: riflessioni internazionali

di Giuseppe Pennisi*

L’età “ottimale” della pensione è tema già affrontato in questa rubrica. In un’ottica libera e con un sistema previdenziale essenzialmente pubblico a ripartizione ma in cui le spettanze sono calcolate secondo un metodo contributivo figurativo (come quello italiano), la decisione di lasciare il lavoro e di percepire la pensione, dovrebbe essere lasciata all’individuo. Naturalmente, di solito, quanto prima si “va in pensione”, tanto più basso è il “montante” accumulato e tanto minori sono le spettanze annuali o mensili per una data aspettative di vita. Tuttavia, il mondo non è così semplice. Dove esiste una previdenza pubblica, occorre porre dei “paletti” in termini di età in cui cominciare e percepire le spettanze al fine di evitare che il sistema venga messo a repentaglio da “bracconieri” che andando in pensione troppo presto (nella speranza che anche ove si esaurisse la pensione basata sul montante ci sarebbe comunque un sostegno sociale).

La Yale Law School ha in corso di pubblicazione un volume che tratta i problemi della terza età , dal titolo “New Deal for Old Age”. I singoli capitoli vengono pubblicati in via telematica, prima di essere finalizzati, come “Yale Law School Public Law Reserch Paper”. Il numero 566 di questi Paper è un saggio di Anne Alstott (luminare di diritto pubblico di Yale) proprio su questo tema.  

Anne Alstott parte dalla premessa che un coro di economisti e giuristi americani chiede una revisione al rialzo dell’età per poter percepite la Social Security, pilastro di base del sistema previdenziale federale americano (spesso i pensioni americani contano su tre pilastri: una pensione “professionale” derivante dalla contrazione ed una frutto di fondi pensioni privati). Attualmente l’età per accedere alla Social Security è 66 anni. Tuttavia, a questo coro si contrappongono, a mò di contrappunto, voci  secondo le quali, alzare i requisiti di accesso, pur avvantaggiando i giovani, penalizza i poveri e coloro che vengono espulsi dal mercato del lavoro prima di raggiungere la vecchiaia. Tra l’altro, i poveri, coloro che guadagnano poco e gli espulsi hanno statisticamente un’aspettativa di inferiore a quella di coloro che hanno redditi medio-alti. Quindi si pone un problema di fondo di politica previdenziale: come giungere ad un equilibrio tra equità intergenerazionale ed equità infragenerazionale.

Anne Alsott sottolinea che l’età è una “categoria contingente” il cui significato fisico e sociale varia. Invece di “partire dall’età” occorre esaminare in profondità gli obiettivi della politica previdenziale. Il saggio mostra come sia, tecnicamente e politicamente, possibile mantenere la possibilità di andare in pensione relativamente presto per i lavoratori che ne hanno effettiva esigenza e, al tempo stesso, mettere in atto un sistema di incentivi per i lavoratori che vogliono e possono lavorare di ritardare l’età in cui cominciare a percepire la Social Security.

È una lettura da cui si traggono lezioni anche per temi su cui sta tribolando l’Italia.

*Presidente del board scientifico di ImpresaLavoro

La partita Italia-Ue sulla crisi delle Banche

La partita Italia-Ue sulla crisi delle Banche

di Giuseppe Pennisi – Formiche

La crisi di alcuni istituti di credito italiani (grandi e piccoli) è sparita da circa una settimana dalle prime pagine dei giornali. Ad esempio, su Il Sole-24 Ore del 17 luglio solo una (quasi invisibile) breve a p. 17 riportava un comunicato dell’ufficio dell’alto rappresentate per la politica estera e di sicurezza dell’Ue, Federica Mogherini, secondo cui ‘il Governo italiano e le autorità europee stanno lavorando positivamente’. Comunicato poco utile perché era da supporsi che le parti in causa stessero lavorando e da auspicarsi che stessero operando ‘positivamente’ verso un accordo.
In effetti, è in corso un negoziato la cui conclusione è tecnicamente semplice, sotto il profilo giuridico (basterebbe un’interpretazione estensiva per un periodo determinato – ad esempio sino al termine del 2016 – per l’applicazione di alcune regole delle direttiva sui dissesti bancari), ma politicamente molto difficile.

In primo luogo, il Governo italiano è stato oggettivamente indebolito dai risultati delle elezione amministrative, è alle prese con la riapertura del dibattito sulla legge elettorale, sta perdendo quota nei sondaggi di un referendum per il quale non è stata ancora stabilita una data ed ha la necessità di giungere ad un accordo ‘bancario’ con l’Ue nel più breve tempo possibile. Tanto il Governo italiano quanto quelli del resto dell’Ue e la stessa Commissione europea (Ce) sanno che le famiglie italiane hanno nei loro portafogli 200 miliardi di euro che, in mancanza di soluzione positiva dei negoziati con l’Ue, verrebbero triturati dal bail in, rendendo ancora più forti le opposizioni all’attuale Esecutivo.

In secondo luogo, la Ce vorrebbe dare una mano al Governo italiano (anche perché non vede alternative all’orizzonte) ma perderebbe di brutto la faccia (dopo la ha già persa giù un paio di volte negli ultimi mesi) se regole appena introdotte con la ratifica di tutte le parti in causa venissero applicate in modo lasco alla loro prima prova per favorire uno ‘degli Stati fondatori’ subito dopo la Brexit.

In terzo luogo – come spiega bene David Schäfer della London School of Economics nel saggio pubblicato nell’ultimo fascicolo del Journal of Common Market Studies – ‘unione bancaria’ si basa sull’’ordoliberalismo’ (il liberalismo delle regole) proprio con il fine (più volte ribadito da Berlino) ‘di rompere il circolo vizioso tra Stati e sistema bancario’. Poco importa se in passato i Länder della Confederazione – non le autorità federali- siano intervenute in aiuto di casse di risparmio e di banche di cui i Länder sono azionisti di riferimento: è un problema di ciascun singolo Land non del Governo federale. Per tale motivo si tratta di istituti non soggetti alla vigilanza della Banca centrale europea ed in gran misura al di fuori dell’unione bancaria.

In quarto luogo, nonostante la buona volontà ai piani alti della Ce e nonostante la disponibilità della Germania a stendere una mano pietosa all’Italia, siamo alla prese con un accordo inter-governativo in cui , salvo fare un ricorso alla Corte di Giustizia Europea (ed avere una sentenza definitiva tra tre-cinque anni), pesa anche il parere degli altri firmatari. Non pochi di loro leggendo i rapporti dalle loro ambasciate a Roma, oppure i giornali italiani ed alcuni quotidiani internazionali, non hanno fiducia in un Governo ed in Parlamento che alla firma ed alla ratifica del trattato di Maastricht si sono impegnati a portare il rapporto debito pubblico: Pil dal 105% al 60% entro un tempo ragionevole e venticinque anni dopo supera il 130% . Un debito pubblico molto elevato in rapporto al prodotto nazionale lordo – è noto- è un nemico della stabilità finanziaria , elemento essenziale per un buon funzionamento del sistema bancario. Infine, non pochi Stati del club dell’unione bancaria, notano che i flebili segni di ripresa in Italia si sono smorzati e si chiedono come possa il sistema bancario riprendere a funzionare bene in un’economia che ristagna o scivola in stagflazione.

Fisco di massa, servono i controlli non gli accertamenti

Fisco di massa, servono i controlli non gli accertamenti

di Mino Rossi

Gli incassi veri, in proporzione, sono da guardare al microscopio. Dal 2000 al 2015 l’Agenzia delle Entrate ha consegnato a Equitalia addebiti da riscuotere, gravanti su famiglie e imprese, per la cifra monstre di 795 miliardi di euro.

Tuttavia, dopo contenziosi, cartelle, pignoramenti e notifiche, la riscossione ha fruttato, in sedici anni, incassi pari a 35 miliardi (praticamente, il 4,4 per cento). Sono questi i dati recentemente diramati dalla Corte dei Conti (Rendiconto generale dello Stato per il 2015 del 23 giugno 2016 – volume I pagina 30, Tavola 1.7 – vedi qui).

Inoltre, la quota del “magazzino insoluti” che Equitalia stessa valuta come non più riscuotibile – a causa di pignoramenti andati a vuoto, sgravi, fallimenti, ditte cessate, nullatenenti, eccetera – ad oggi è pari a 694 miliardi (cifra che in futuro potrà ulteriormente aumentare). Il dato risulta a tabella 3 allegata al testo della Audizione del 9 febbraio 2016 presso la Commissione Finanze del Senato dell’amministratore delegato di Equitalia (vedi qui). Una cifra pazzesca, quindi! Destinare al macero quasi il 90% del carico iniziale da riscuotere significa che tutta la macchina del contrasto è tutt’altro che affidabile e gira a vuoto.

Inoltre, stando alle intenzioni trapelate di recente, in Equitalia non ci sarà nessuno che certifichi l’inesistenza, fra i crediti inesigibili cestinati, di soggetti in realtà ricchi e possidenti. E questo, soprattutto di fronte a una cifra così ingente, sarebbe un fatto assolutamente inammissibile.

E’ indubbio, tuttavia, che questi numeri incredibili sono la spia di una gravissima crisi di funzionamento di un sistema che già da un pezzo è oltre la soglia del collasso.

Una delle principali anomalie che sono alla base di tutto questo, è nel fatto che la macchina di contrasto all’evasione di massa, anziché dedicarsi ai controlli, soprattutto negli ultimi lustri si è concentrata solo sugli accertamenti, la maggior parte dei quali basati su cifre ipotetiche, per legge calcolate presuntivamente.

I due concetti, però (accertamento e controllo), non sono la stessa cosa. Per funzionare, sono indispensabili entrambe le fasi: il controllo che è attività contestuale (che sorveglia e previene), e l’accertamento che invece è attività postuma (che punisce e reprime).

Quando si dice “l’Agenzia delle Entrate ha fatto 302mila controlli” (è questo il dato 2015), non è vero. Si tratta di 302mila accertamenti, eseguiti, al contrario, in assenza di qualunque controllo “in flagrante”. E, per questo, strutturalmente inficiati, nella maggior parte dei casi, da un inconveniente non da poco. E cioè di essere un tantino approssimativi nel quantum (trattandosi di accertamenti presuntivi).

Il Fisco italiano, inoltre, è l’unico in cui la macchina di contrasto è fuorviata dalla ossessione diffusa – purtroppo ingannevole e anche assai controproducente per le casse erariali – dei cosiddetti recuperi da evasione. Destinando però agli accertamenti il cento per cento delle risorse dedicate, esso dimentica che siamo in un sistema basato sull’autotassazione, per cui il suo compito primo è solo di fare controlli (non incassi).

Dal punto di vista di chi presiede alla governance, peraltro, si può dire che il controllo è “fatica” (con pochi poteri), mentre l’accertamento è “potere”, potere di presumere, quando il Fisco non è stato in grado di provare la cifra evasa (ciò che avviene nella maggior parte dei casi).

La metafora del calcio può aiutare. Per far funzionare questo sport servono sì le squalifiche in differita e a tavolino (fase della repressione). Ma, prima ancora di questo, serve in campo un arbitro che faccia l’arbitro (fase della prevenzione). In altre parole, serve una persona che corre e suda dietro il pallone e che fotografa da due passi i fatti di gioco (dove i margini di discrezionalità sono minimi). Per poi trasferire questa fotografia nelle mani di colui che, in presenza di fatti gravi oggettivamente provati – deciderà chi e come squalificare (avvalendosi solo a questo punto – ma in via eccezionale – di poteri discrezionali praticamente illimitati).

Nel Fisco italiano, invece, succede da sempre che la partita si gioca senza arbitro. Il controllore (l’Agenzia delle Entrate) o non c’è proprio (97% dei casi), oppure, quando c’è (3%), osserva la partita lontano dal campo di gioco (il riferimento è agli accertamenti emessi in differita di alcuni anni). Eppure, non è difficile rendersi conto che quando non c’è nessuno che sorveglia, le partite (quasi tutte le partite) non possono che finire in rissa.

Ecco perché si può dire, fuor di metafora, che in un sistema così architettato l’aumento della evasione di massa è garantito a vita, essendo esso la precondizione necessaria senza la quale un meccanismo così non può esistere.

Olimpiadi 2024 a Roma: serve una (seria) analisi costi-benefici

Olimpiadi 2024 a Roma: serve una (seria) analisi costi-benefici

di Giuseppe Pennisi

Non sta certo a me esprimere un’opinione sul dibattito relativo alle possibili Olimpiadi del 2024 a Roma. Da economista, però, ritengo di avere il dovere etico di ricordare che da decenni si fanno analisi economiche sulla base di solidi numeri per quantizzare costi e ricavi, delineare strategie vincenti, mettere in guardia da tattiche perdenti.

Ad esempio, l’Università di Amburgo ha esaminato (in uno studio pubblicato su Hamburg Contemporary Economic Discussions) 48 candidature nell’arco di tempo tra il 1992 e il 2012 e costruito un modello che tiene conto della logistica, della situazione climatica, e del tasso di disoccupazione. Una conclusione importante è che il parco infrastrutturale, i trasporti pubblici e la nettezza urbana devono essere eccellenti. Questo non il caso di Roma.

Le Olimpiadi, comunque, non sono affatto “un affare” in termini di ricavi finanziari (giustapposti ai costi finanziari) per la città, o le città, che le ospitano. Tre economisti greci hanno condotto una valutazione ex-post delle Olimpiadi di Atene del 2004 (è pubblicata sulla rivista Applied Financial Economics, Vo. 18 n. 19 del 2008); finanziariamente, hanno guadagnato solo gli sponsor, le azioni delle cui imprese hanno avuto una rapida ma breve impennata quando la capitale greca è stata scelta – quindi, un effetto annuncio. Di recente, economisti greci hanno individuato nelle Olimpiadi del 2004 una delle determinanti dell’impennata del debito pubblico greco.

Interessante una dettagliata valutazione dei giochi invernali: i costi superano i benefici, anche senza contabilizzare le spese per le infrastrutture (perché permanenti e non connesse solo all’evento) e quantizzando “l’orgoglio della città e della Provincia” di ospitare le gare. In effetti, stime analitiche dei probabili flussi turistici sono modeste (ed i costi associati al turismo olimpico superano i ricavi) come peraltro già rilevato in occasione di altre Olimpiadi, ad esempio quelle tenute nel 1996 ad Atlanta in Georgia).

Uno dei lavori sugli esiti economici non brillanti delle Olimpiadi di Atlanta è intitolato: “Perché gareggiare per essere sede di Giochi?”. La risposta viene data da due saggi relativi uno alle Olimpiadi di Pechino del 2008 (pubblicato nello Sports Lawyer Journal) e l’altro alla Coppa del Mondo giocata in Germania nel 2006 (CESifo Working Paper No. 2582). I costi per la collettività vengono in questi casi superati, anche di molto, dai benefici per la collettività perché l’evento riguarda l’intera Nazione e contribuisce al “Nation Building”.

Si potrebbe dire che le Olimpiadi di Roma del 1960 contrassegnarono la ripresa dopo una lunga fase di guerre. Dimentichiamo che allora il Pil dell’Italia cresceva del 5-6% l’anno, il debito pubblico era un terzo del debito nazionale e il tasso di disoccupazione si avvicinava al 3% toccato nel 1963. Si dovrebbe anche ricordare che Ferenc Janossy (uno dei maggiori economisti, in un lavoro del 1971 (tradotto in tedesco) giudicò le Olimpiadi del 1960 (e le spese improduttive ad esse connesse) come un segno della fine del miracolo economico.

Ho la mente aperta: la proposta di tenere olimpiadi a Roma nel 2024 dovrebbe essere corredata da un’analisi costi-benefici dinamica secondo il metodo Dixit-Pindyck, insegnato per anni alla Scuola Nazionale d’Amministrazione e di cui tanto il Ministero dell’Economia e Finanza quanto il Ministero dello Sviluppo Economico hanno dimestichezza, al fine di uscire da monologhi alterni e di valutare con un metodo solido che impone analisi anche esse solide.