Edicola – Opinioni

Blitz contro un mondo pietrificato

Blitz contro un mondo pietrificato

Francesco Manacorda – La Stampa

Difficile condividere la sicurezza di Matteo Renzi sul fatto che il decreto varato ieri dal governo per trasformare le dieci maggiori banche popolari in società per azioni cambi segno a una situazione in cui «abbiamo troppi banchieri e troppo poco credito». Non esistono studi che dimostrano che con meno banche e banchieri le imprese vedano aumentare il credito concesso, né ci sono evidenze sul fatto che le banche popolari facciano crediti in misura inferiore di quanto accada alle banche che sono Spa.

Più facile comprendere le ragioni che hanno spinto Renzi a un vero e proprio blitz per decreto sulle popolari e immaginare quali saranno le conseguenze di questa mossa. Le ragione principale, per usare le parole del ministro dell’Economia Piercarlo Padoan, è quella di «dare una scossa» al sistema davvero pietrificato delle popolari, che basandosi sul voto capitario – una testa un voto, indipendentemente da quante azioni si abbiano in tasca – ha finora consentito alla maggior parte di esse di mettersi al riparo da qualsiasi rischio di scalata da parte di altre banche e in molti casi ha assicurato la permanenza al vertice degli stessi uomini per periodi che si misurano non in anni ma in decenni. E la conseguenza facilmente prevedibile di questa scossa è un aumento delle concentrazioni bancarie.

Era comunque opportuno muoversi per sanare un’anomalia più e più volte segnalata anche dal Governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco: la maggior parte delle dieci maggiori popolari che rientrano nel decreto sono assimilabili ormai, per dimensione e modalità operative, ai grandi gruppi bancari. Corretto, dunque, uniformarle a questi sotto alcuni profili: una governance che permetta a chi ha la maggioranza del capitale di incidere e non ostacoli né contendibilità né ricambio ai vertici, una maggiore trasparenza nei rapporti con le autorità di vigilanza, financo – sostengono alcuni – la possibilità di accedere al mercato del credito con condizioni migliori. L’urgenza della manovra è dettata anche dall’entrata in vigore dell’Unione bancaria e dalla necessità di avere condizioni il più possibile uniformi tra i vari istituti.

Si reciderà in questo modo il rapporto delle popolari con il territorio, come protestano insolitamente concordi esponenti di destra, di sinistra e dei Cinque stelle? Non necessariamente. Anche in questo caso non è dimostrata la relazione tra la governance di una banca e il suo rapporto con la realtà in cui opera. E il fatto stesso che una vasta porzione di banche più piccole, in particolare quelle di credito cooperativo, non venga toccata dal provvedimento, dimostra che secondo il governo il cambio di registro non è necessario per tutti.

La conseguenza prevedibile della mossa di ieri, magari anche prima che si siano esauriti i 18 mesi di tempo dati alle popolari per cambiare il loro statuto, è dunque che le nuove società per azioni – non più frenate dal voto capitario che sottopone qualsiasi decisione al voto della maggioranza non delle azioni, ma degli azionisti – saranno protagoniste di fusioni e acquisizioni. Magari tra di loro; magari unendosi a qualche Spa già esistente; magari salvando qualcuna delle Spa bancarie in difficoltà. Se infatti i critici delle popolari citano casi scandalosi come quello della Popolare di Lodi o di Banca Etruria, dal mondo del credito cooperativo si può rispondere ricordando casi come Mps, Carige e Banca Marche, in cui l’essere società per azioni non ha evitato di finire in un mare di guai. Come a dire che non basta solo il modello Spa per eliminare i rischi di una cattiva attività bancaria.

Il governo e la psicosi da decimale: basta poco per sballare

Il governo e la psicosi da decimale: basta poco per sballare

Franco Mostacci – Il Fatto Quotidiano

Molto si è detto sull’opportunità di fissare un valore massimo di indebitamento rispetto al Pil. Se l’Italia sfora il tetto del 3 per cento, la Commissione europea avvia la procedura per deficit eccessivi e si rischia di perdere i possibili benefici derivanti dalle nuove regole sulla flessibilità negli investimenti. Nella Nota di aggiornamento al Def il governo ha previsto per il 2014 un indebitamento netto della pubblica amministrazione di 49,212 miliardi di euro e un Pil nominale di 1.626,516 miliardi di euro (+0,5% sul 2013). Il rapporto tra le due grandezze è 3,03%, arrotondato a 3%. Con questi numeri il vincolo imposto dal Patto di stabilità e crescita sarebbe rispettato. La stima del Pil nominale appare, però, troppo ottimistica. Alla luce di una flessione del Pil reale (-0,4%) e di un’inflazione al consumo di 0,2%, è plausibile ritenere che il Pil nominale rimanga sugli stessi livelli dello scorso anno e non superi i 1.620 miliardi. Il rapporto deficit/Pil ne risentirebbe ben poco: perfino una leggera diminuzione non sarebbe comunque sufficiente a far scattare il fatidico decimale in più.

Diverso è il discorso se è l’indebitamento ad essere peggiore del previsto. Il margine a numeratore è, infatti, di appena 200 milioni. Le entrate per il 2014 dovrebbero essere di 786,1 miliardi (+0,5% rispetto al 2013), per il 90% dovute a imposte e contributi. I dati disponibili, aggiornati a novembre, evidenziano 600 milioni in meno di tasse e 900 milioni in meno di contributi rispetto all’obiettivo. A meno di un recupero nel mese di dicembre, mancheranno all’appello 1,5 miliardi di gettito. Le uscite, invece, ammonterebbero a 835,3 miliardi (+1% rispetto al 2013),di cui quasi il 7O% senza margini di manovra: 163 miliardi di stipendi dei pubblici dipendenti, 332 miliardi per il pagamento di prestazioni sociali e 76,7 miliardi di interessi passivi sul debito pubblico. Se le entrate dovessero essere inferiori al previsto, sarà necessario conseguire una corrispondente contrazione delle spese, per non peggiorare il saldo. Il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan ha garantito che il deficit del 2014 non supererà il 3% del Pil e – anche se i margini sono ristretti – non ci sono motivi per mettere in dubbio le sue affermazioni. Non resta che attendere il verdetto finale dell’Istat il 2 marzo.

Valuta debole volàno per gli investimenti

Valuta debole volàno per gli investimenti

Giorgio Barba Navaretti – Il Sole 24 Ore

L’euro è debole, care imprese investite! La domanda interna continua a languire, ma raramente si sono verificate condizioni nei prezzi relativi dei beni più favorevoli alle nostre imprese. La svalutazione di oltre il 15% sul dollaro, il crollo del prezzo del petrolio, la stabilità dei prezzi interni e il credito a basso costo porteranno una crescita sostanziale dei volumi di beni venduti all’estero e un miglioramento significativo dei margini di profitto. Gli investimenti in macchinario sono stati negli ultimi tre trimestri del 2014 di 22 punti inferiori allo stesso periodo del 2008: un quarto di macchine da rinnovare o necessarie a espandere la produzione in meno. Se output e margini riprendono, inevitabilmente ripartiranno anche gli investimenti.

Paradossalmente la svalutazione sarà particolarmente benefica grazie agli anni in cui l’euro è stato forte. Nonostante le imprese italiane siano state sottoposte a condizioni competitive durissime, le esportazioni hanno continuato a crescere e i saldi di bilancia commerciale a migliorare già dal 2010. Il che è stato possibile grazie a ristrutturazioni draconiane e investimenti in qualità, tecnologia e marchi. In uno studio del 2008 Matteo Bugamelli, Fabiano Schivardi e Roberto Zizza avevano evidenziato come nei primi anni dell’euro la crescita della produttività fosse stata intensa in quei paesi come l’Italia, e in quei settori che più avevano utilizzato le svalutazioni competitive.

Oggi il sistema produttivo nazionale è radicalmente diverso rispetto al periodo pre-euro, quando le imprese competevano quasi solamente sulle condizioni di costo. Se dunque allora le svalutazioni erano indispensabili per la sopravvivenza del sistema, oggi sono una spinta per imprese che starebbero in piedi lo stesso. E queste imprese, proprio perché della svalutazione possono fare a meno, sono anche quelle più in grado di approfittarne. Infatti, i prodotti di alta qualità o basati su tecnologie particolari o con un marchio forte sfruttano solo marginalmente l’opzione di abbassare i prezzi in valuta estera. La svalutazione garantisce soprattutto un aumento dei margini di profitto, oltre e più che un aumento dei volumi esportati. E questi profitti devono essere utilizzati per quegli investimenti necessari a rafforzare ancor più la loro competitività globale.

La svalutazione, comunque continua ad avere un effetto benefico anche per le imprese meno efficienti. Il paradosso italiano del crollo dell’output industriale accompagnato dalla crescita dell’export durante gli anni dell`euro forte e della crisi è spiegabile solo in termini di eterogeneità delle imprese. Da un lato le imprese più avanzate crescevano all’estero, mentre quelle più deboli subivano in pieno il calo della domanda interna e l’euro forte. Ora quelle di questo secondo gruppo che sono riuscite a sopravvivere troveranno con la svalutazione un nuovo traino per riprendere a crescere con prezzi più competitivi all’estero.

Se la giustizia frena l’economia

Se la giustizia frena l’economia

Francesco Manacorda – La Stampa

Peso della corruzione a parte, chissà se il 2015 sarà finalmente l’anno buono per schiodare l’Italia da quella umiliante posizione – 147 a su 198 Paesi – che l’indagine «Doing Business» della Banca Mondiale ci assegna quando si parla di esecuzione forzosa di un contratto per via giudiziaria. Centoquarantasettesimi nell’ultima rilevazione e centoquarantasettesimi anche nella precedente, con un progresso certificato dello 0,00 per cento e 1185 giorni per chiudere un procedimento contro una media di 540 giorni per i Paesi più ricchi dell’Ocse. È vero, l’indagine fatta sotto le insegne della Banca Mondiale non è il Vangelo; talvolta anzi viene contestata. Ma è innegabile che il mix di tempi della giustizia lunghi e scarsa certezza del diritto è una miscela esplosiva per qualsiasi operatore economico. E innegabile è anche che chi dall’estero guarda all’Italia come terra di possibili investimenti ha più ragioni per essere preoccupato che rassicurato dalla nostra giungla normativa e regolamentare.

Ora il governo si sta muovendo proprio perché la giustizia non sia più uno dei tanti fardelli che ostacolano la crescita. E sebbene i ritardi rispetto ai pirotecnici annunci fatti da Matteo Renzi all’inizio del suo mandato siano evidenti, qualcosa è stato fatto. Lo ha spiegato anche ieri, intervenendo alla Camera, il ministro della Giustizia Andrea Orlando parlando ad esempio dell’introduzione del processo civile telematico da metà 2014 e delle formule di risoluzione delle controversie alternative al giudizio. Altri aspetti della riforma del diritto rimangono però da concretizzare, come ha ricordato anche di recente Donatella Stasio sul «Sole 24 Ore», spiegando che salvo il decreto legge sugli arretrati della giustizia civile, passato con la fiducia, gli altri sei provvedimenti annunciati dal governo il 29 agosto scorso non sono ancora arrivati in Parlamento.

Accelerare è opportuno, così come correggere altre storture che riguardano la certezza del diritto. A questo riguardo la norma che arriverà con l’«investment compact» che il governo vara oggi e che prevede invarianza delle regole fiscali e amministrative per quei soggetti che investiranno almeno 500 milioni in Italia, si presta a una duplice lettura. Dal punto di vista sostanziale è benvenuta: via libera a tutte le misure che possano attirare capitali e via libera ai grandi investimenti che creano occupazione e ricchezza. Ma da un punto di vista formale non si capisce perché la certezza del diritto, con l’impossibilità di vedersi applicare norme con effetto retroattivo diventi una sorta di privilegio graziosamente accordato dal governo a una categoria di grandi investitori e non sia invece un dato di fatto acquisito per qualsiasi operatore economico, piccolo o grande che sia. E sulle difficoltà di dare ai cittadini un diritto certo va segnalato il balletto sull’evasione fiscale e relative soglie di non punibilità in cui il governo è rovinosamente inciampato.

Nel percorso delle riforme, quella della giustizia potrà essere il passo più importante anche per quel che riguarda l’economia. C’è da ragionare anche su come finanziare un cambiamento che costa. Se andranno nella direzione di snellire e semplificare davvero il sistema, quelli per cambiare il sistema giudiziario saranno soldi ben spesi.

Finalmente risale il Pil, ma brinderemo tra 20 anni

Finalmente risale il Pil, ma brinderemo tra 20 anni

Nicola Porro – Il Giornale

Ieri il direttore generale della Banca d’Italia ha detto che la nostra ricchezza nel primo trimestre di quest’anno dovrebbe crescere. Salvatore Rossi ha anche sostenuto che potrebbe essere il primo di una serie di dati positivi che ci potrebbero accompagnare fino al 2016. Meglio di niente. Ma è ancora presto per brindare.

Prima considerazione. Tra il 1995 e il 2007 l’Italia è cresciuta ad un tasso medio dell’1,5 per cento. Poi, dopo la crisi americana dei subprime, il disastro (con una relativa calma nel biennio 2010-2011). Si può dire che dal 2008 al 2014 abbiamo bruciato ricchezza per più di 300 miliardi, tra mancata crescita e la riduzione del Pil vera e propria. Roba da far tremare i polsi. Fortunatamente gli italiani hanno accumulato, forse proprio grazie al debito pubblico, un’enorme ricchezza privata. Che oggi stanno usando per tamponare la crisi. Per recuperare questo salasso dovremmo crescere ad un tasso del 2,5 per cento annuo per i prossimi venti anni. Neanche uno stuntman del gioco d’azzardo ci metterebbe un euro sopra. Insomma è difficile pensare che quel che abbiamo perso si possa recuperare nel medio periodo. I tassi di crescita di cui si parla in Bankitalia (o quelli più ottimistici del governo) sono più vicini all’1 per cento che al 2. E per di più nessuno scommette che ciò possa avvenire ininterrottamente per i prossimi 80 trimestri (cioè i venti anni di cui sopra).

Seconda considerazione. Ci sono delle congiunzioni astrali piuttosto buone a saperle sfruttare. Intanto il cambio euro-dollaro (compresi i cross con il franco svizzero e le molte monete che molleranno tra poco) è sceso a livelli che rende molto competitiva l’industria italiana. E ciò avviene proprio nel momento in cui comprare petrolio (cioè energia per far girare le fabbriche) è particolarmente conveniente. Il combinato disposto di euro svalutato (come una liretta qualsiasi) e petrolio sotto i 50 dollari rappresenta un sogno per chiunque produca nel Belpaese. Nel passato alla svalutazione della nostra moneta corrispondeva un incremento della bolletta energetica. A ciò si aggiunga una tenuta dei prezzi (addirittura si parla di deflazione) che potrebbe essere manovrata per il verso giusto. Ops. Dimenticavamo: mai come in questo periodo i tassi di interesse sono stati ridicolmente bassi.

Sintesi finale. Quel che manca è un catalizzatore. Un lievito per far girare tutto nel verso giusto. Gli ingredienti sono buoni, di prima qualità. E sette anni di recessione (con alti e bassi) hanno spinto in giù la molla della nostra economia, pronta a scattare. Serve fiducia. La parola magica. Fiducia dei consumatori che riprendano a spendere, e fiducia delle imprese che riprendano a investire. Sergio Marchionne ha fatto entrare proprio ieri, a Melfi, 300 nuovi operai. Può essere un primo segnale. La politica, il governo deve alimentare un percorso virtuoso, fatto di regole certe (per investire), meno burocrazia (per lavorare) e meno tasse (per competere). La politica non può far molto perché le fabbriche producano meglio, ma purtroppo ha fatto davvero troppo perché esse si fermino. Quel che ora manca è dunque un elemento impalpabile ma pesantissimo.

Banche popolari, gli intrecci pericolosi (da tagliare)

Banche popolari, gli intrecci pericolosi (da tagliare)

Daniele Manca – Corriere della Sera

Ancora una volta la riforma delle banche popolari potrebbe non essere varata. Più volte in Parlamento sono arrivati progetti di riforma, la Banca d’Italia ha tentato in tutti i modi di superare quelle norme che sono alla base del funzionamento di questi istituti. E che si basano sul principio di una testa un voto. Per approvare i bilanci, decidere i vertici, che si abbia un milione di azioni o una soltanto si conta alla stessa maniera. Un sistema che ha permesso di organizzare il controllo sugli istituti a partire dal consenso e non dalle cose da fare. E chi è il campione nella creazione del consenso? La politica.

E così il legame con il territorio, che nei casi virtuosi è significato assistere le imprese migliori, in quelli peggiori non si è trasformato solo in inefficienza, ma anche in pesanti scandali. Lodi, Novara, Milano, l’elenco è lungo. E altrettanto lungo quello dei politici schierati a difesa. Non c’è solo il colorito Salvini della Lega, ma lo schieramento è trasversale con esponenti in tutti i partiti dal Pd passando per Forza Italia arrivando alle sigle minori. Tutti pronti a bloccare qualsiasi riforma. Cosa che ha impedito in passato di avviare quel processo graduale, non esente da traumi, che dovrà portare alla separazione delle fondazioni dalle banche. Difficile pensare che le popolari possano resistere per molto tempo ancora.

La foglia di fico delle modalità scelte dal governo non riesce a coprire la debolezza strutturale del settore. La frammentazione del sistema creditizio italiano è seconda solo a quella tedesca. Le aggregazioni tra istituti minori e più grandi non può attendere. Il rafforzamento e l’irrobustimento del sistema, ossatura economica del Paese, non può essere frenato dagli interessi di chi riesce a organizzare poche centinaia o migliaia di votanti per mantenere il proprio potere.

Inutile chiedere a Draghi di far arrivare denaro all’economia se chi poi dovrà gestire quei soldi sarà guidato da interessi di corporazione o peggio di bottega e li userà per tappare propri buchi. Pensare poi che il già avvenuto passaggio della vigilanza sugli istituti da Roma a Francoforte possa garantire una maggiore distanza è un grande errore. Anzi. La vista corta ci garantirà per l’ennesima volta che l’agenda delle nostre riforme venga dettata fuori dai confini nazionali. Che bel risultato.

Contratto sleale

Contratto sleale

Davide Giacalone – Libero

Giunge al Consiglio dei ministri la bozza di un decreto legge contenente il “contratto per dare certezze ai grandi investimenti produttivi”. Proposito lodevole. Ma quel che se ne legge è deplorevole. Talora sembra che si mettano problemi reali, slogan e idee confuse in un frullatore, sperando possa uscirne una bevanda energetica. Più probabile il bibitone energivoro.

L’idea, se capisco bene, è questa: occorre dare certezze agli operatori economici, non modificando continuamente i parametri amministrativi e fiscali che essi inseriscono nei propri business plan, mandando all’aria ogni razionale valutazione del rischio. Eccellente. Ma, scusate, non è la base su cui regge il patto sociale e fiscale di tutti i cittadini? Non è la lettera e lo spirito (mai incarnatosi) dello Statuto del contribuente? Perché se così fosse avremmo un’evoluzione perversa della politica degli annunci: s’annunciano sempre le stesse cose, fidandosi del fatto che poi non si fanno.

Volendo scartare questa ipotesi, che sarebbe vergognosa, provo a immaginare reali novità. C’è un indizio: il governo dice che speciali accordi verranno offerti a chi investe più di 500 milioni (in cinque anni). Che accordi? Fiscali, mormorano. Fiscali? Non avrei obiezioni se si varasse un’aggressiva politica di tax ruling, ovvero di accordi su misura che attirino l’insediamento fiscale di società estere. Ma questo è esattamente il motivo per cui il Lussemburgo è finito sotto procedura d’infrazione. Queste è la politica che è stata contestata (a sproposito) a Junker. E seppure, con uno sforzo di fantasia, si supponga che abbiano in anima una scelta di quel tipo, chi volete che si fidi, nel mondo? Il governo che ha abbassato da 3,9% a 3,5 (con il decreto contenente anche i celeberrimi 80 euro) l’aliquota Irap, salvo poi, alla fine dello stesso anno, il 2014, riportarla dove era con valenza retroattiva, può supporre che qualcuno creda in una promessa di quel genere? Fatta in un Paese in cui qualche decina di giudici possono comunque demolirla? Una promessa in capo ad un governo che cambia le regole fiscali sui giochi e le scommesse, mentre gli operatori del settore affermano che non pagheranno perché prive di legittimità e violanti le regole precedenti? Direi che si tratta di supposizione troppo folle per essere vera. E allora?

Allora potrebbe trattarsi di un trattamento fiscale di favore, ma non diverso da azienda ad azienda, non sottoposto a rapporto contrattuale specifico. Bene, è una bella cosa. Ma se è questa, scusate, che lo fate a fare il decreto legge? Piuttosto date attuazione alla delega fiscale, che avete ancora nel congelatore. E che esista un congelatore costituzionale è idea che non smette di sembrarmi agghiacciante. Ove mai la delega non coprisse l’intera riforma necessaria, ove fosse necessario un intervento ulteriore, il minimo della serietà vuole che prima si attua quel che il Parlamento ha già votato e poi si passa ad aggiungere il resto. Altrimenti ne viene fuori la solita legislazione rococò, che è l’esatto contrario di quel che c’è scritto nel titolo del decreto.

Perché una regola, fiscale, amministrativa o di qualsiasi altro tipo, sia stabile nel tempo occorre non solo che non sia messa nelle mani ballonzolanti di chi cambia idea ogni cinque minuti, ma anche che sia credibile. Alla partenza. La stabilità è un valore, ed è encomiabile che al governo se ne accorgano, dopo avere praticato la traballarietà. Ma la credibilità è un pre-requisito.

Quel che fa rabbia, osservando l’azione di questo governo, è che la gran parte di quel che annuncia è condivisibile, mentre la gran parte di quel che fa è reversibile. Una pirotecnia che abbaglia, ma lascia sul terreno solo bossoli cartonati e mezze cartucce inesplose. Il successo comunicativo è dato dal fatto che chi lo fa osservare viene schiacciato fra gli oppositori dell’orale, mentre chi tace diventa complice dello scritto. E’ un giochino vincente (fin qui), ma inconcludente.

Il dilemma di Draghi

Il dilemma di Draghi

Stefano Micossi – Affari & Finanza

La Bce non può più rinviare la decisione di acquistare titoli a lungo termine dell’eurozona in gran quantità ( quantitative easing, o QE): perché l’inflazione mensile e annua in dicembre è diventata negativa, sta sotto l’1 per cento da ottobre 2013 ed è prevista scendere ancora; perché il suo bilancio si sta sgonfiando, invece di aumentare; perché il nuovo strumento di rifinanziamento delle banche ‘mirato’ alle imprese, il Tltro, non sta funzionando per la scarsa domanda di prestiti dall’economia.

La credibilità della Banca Centrale Europea è a rischio, le misure usuali delle attese d’inflazione nei principali paesi dell’eurozona puntano a zero. Se vuol esser creduta sull’obiettivo d’inflazione – il due o ‘vicino al’ due per cento – la Bce dovrà indicare un programma di acquisti adeguato. Può adottare un programma mensile open-ended – dunque potenzialmente illimitato – legato alla realizzazione dell’obiettivo d’inflazione, oppure continuare gli interventi fino al raggiungimento del target sulla dimensione del bilancio della Bce (i due ‘trilioni’ già decisi dal Consiglio direttivo). Se gli acquisti si fermassero a 500 miliardi, come qualcuno lascia trapelare, la credibilità dell’annuncio sarebbe in questione. Data la dimensione limitata del mercato delle obbligazioni private, inevitabilmente, gli acquisti dovranno includere ammontari consistenti di titoli pubblici.

Nell’intenso fuoco di sbarramento in atto contro il QE, molte voci ne negano l’efficacia, ma i loro argomenti non sono convincenti. L’intervento sosterrà l’attività economica sia spingendo al ribasso il cambio dell’euro (come già sta avvenendo per l’effetto annuncio, finalmente!), sia facilitando la riduzione dell’eccesso di debito (deleveraging) pubblico e privato attraverso la riduzione dei tassi a lunga – che a tal fine devono restare per molto tempo al di sotto del tasso di crescita nominale del pil. La discesa dei tassi sui debiti pubblici trascinerà al ribasso anche quelli sulle obbligazioni e i prestiti privati, dato che nelle condizioni attuali di segmentazione dei mercati finanziari il costo dei primi agisce come un ‘pavimento’ per quello dei secondi. Gli effetti espansivi saranno più intensi se finalmente la Commissione allenterà i vincoli del patto di stabilità per gli investimenti, come già indica la nuova comunicazione sulla ‘flessibilità’ pubblicata martedì scorso.

Due questioni cruciali da risolvere riguardano la scelta sui titoli da acquistare e la gestione dei rischi per il bilancio della Bce. Ogni acquisto di titoli da parte della banca centrale modifica anche lo spread tra i rendimenti dei titoli dei paesi dell’eurozona. Il processo di convergenza degli spread sarebbe più rapido se la Bce concentrasse i suoi acquisti sui titoli dei paesi più indebitati, ma avverrebbe anche se la Bce comperasse solo Bund tedeschi. Infatti, la nuova liquidità finirebbe comunque per affluire sul mercato dei titoli più rischiosi, che garantiscono rendimenti più elevati. Nella visione della Bundesbank, però, la riduzione degli spread è fonte di azzardo morale, attenuando l’incentivo a correggere gli squilibri di bilancio nei paesi spendaccioni; ma una politica monetaria espansiva che non modifica i prezzi relativi delle attività finanziarie semplicemente non esiste.

La soluzione più lineare e meno controversa per la Bce è di acquistare i titoli dei paesi dell’eurozona in proporzione data da una chiave non controversa, come le quote dei paesi membri nel capitale della Bce o nel pil aggregato dell’Eurozona. È importante che allo stesso tempo i paesi indebitati mantengano l’acceleratore pigiato sulle riforme economiche, che resta il miglior viatico per la capacità di Draghi di convincere i colleghi del Consiglio direttivo a espandere. La Bce ha gli strumenti per aumentare la pressione su chi eventualmente perdesse la direzione (Grecia post-elezioni inclusa).

La seconda questione cruciale è come gestire possibile perdite della Bce sul suo portafoglio titoli. Nel caso di una banca centrale nazionale, il rischio degli interventi di mercato aperto ricade automaticamente sul bilancio pubblico, che è il garante ultimo dell’offerta di moneta e delle passività della banca centrale. Nel caso della Bce, invece, un back-stop fiscale non esiste; peggio, se la Bce assumesse tali perdite a seguito dell’insolvenza di un debitore sovrano dell’eurozona, ciò configurerebbe secondo alcuni una violazione del divieto di bail out previsto dall’articolo 125 del Trattato di Lisbona.

La soluzione logica sarebbe di guardare per questa funzione di back-stop al bilancio del Meccanismo europeo di stabilità, che già costituisce il nucleo di una futura capacità fiscale dell’eurozona, ma per i tedeschi per ora questa è una bestemmia. Se ogni stato garantisse le perdite sui suoi titoli, l’effetto sui tassi dei paesi indebitati potrebbe attenuarsi fino a scomparire; superare il problema facendo acquistare da ogni banca centrale i titoli del suo paese equivarrebbe ad annunciare la fine della politica monetaria comune. In pratica, il problema è meno intrattabile di quel che sembra: con ogni probabilità all’inizio la Bce registrerà consistenti guadagni in conto capitale sui titoli acquistati, man mano che i tassi scenderanno. Questi guadagni costituiranno un cuscinetto più che adeguato per coprire eventuali perdite su alcuni dei titoli in portafoglio. In effetti, già in occasione della ristrutturazione del debito greco, nell’estate del 2011, la Bce compensò le sue perdite con guadagni realizzati in precedenza.

Il “gioco del cerino” che mette nei guai Draghi

Il “gioco del cerino” che mette nei guai Draghi

Giuseppe Pennisi – IlSussidiario.net

In attesa della riunione del Consiglio della Banca centrale europea si stanno affilando i coltelli e la situazione appare ogni giorno (ove non ogni ora) più complicata. Un coretto a cappella di cronisti e commentatori ha scritto, sulla stampa italiana, che dopo il documento dell’Avvocato generale della Corte di Giustizia europea, il management della Bce deve considerarsi “sereno” e deve essere considerato acquisito il “via libera” al Quantitative easing (Qe) e alle misure “non convenzionali” che, insieme a un numero di componenti del Consiglio Bce, Mario Draghi vorrebbe mettere in atto per rilanciare l’economia dell’eurozona, specialmente le Outright monetary transactions (Omt). O non hanno letto il documento o vivono lontani dal mondo Bce.

Facciamo un passo indietro a un ricorso alla Corte Costituzionale tedesca fatto da un gruppo nutrito di economisti e giuristi tedeschi, secondo cui le Omt proposte dal Presidente Bce nel giugno 2012 avrebbero trasgredito vari trattati e la stessa Carta fondamentale della Repubblica Federale. Il massimo tribunale della Germania ha risposto chiedendo il parere della Corte di Giustizia Ue. È un parere non vincolante, ma è altamente probabile che la Corte Tedesca vi si atterrà. Se non altro per non restare con il cerino acceso in quel di Karlsruhe (dove i giudici rosso togati hanno sede).

Tuttavia, l’Avvocato generale Pedro Cruz Villalon, il cui parere verrà molto probabilmente recepito dalla Corte di Giustizia Ue (su questo punto concordo con il coretto a cappella) ha scritto un documento tra il fariseo e il pilatesco, passando il cerino agli organi dell’unione monetaria, in primo allo luogo alla Bce, il cui Consiglio si riunisce ben prima della Corte tedesca di Karlsruhe (peraltro ancora non convocata).

Il documento, infatti, afferma che la Bce deve avere «ampia discrezionalità» in materia di politica della moneta, ma unicamente in questa materia. In questo quadro, le misure “non convenzionali”, il Qe e soprattutto le Omt (non affatto amate a Berlino e dintorni) possono essere formulate e attuate purché siano uno strumento di politica monetaria e non aiuto finanziario a uno Stato membro. L’esatto contrario di quanto vorrebbe il management della Bce, che desidererebbe poter acquistare obbligazioni di Stati in difficoltà (ad esempio, titoli del debito italiano per ridurne il fardello).

Inoltre , secondo il documento, ciascuna operazione dovrebbe essere effettuata sulla base di un programma economico concordato dallo Stato membro con le autorità Ue, un po’ come le varie forme di structural adjustment lending che Banca mondiale e Fondo monetario internazionale attuano da quaranta anni – e che la Troika ha elaborato per Cipro, Grecia, Irlanda e Spagna. Infine, secondo il documento, le circostanze straordinarie per tale intervento eccezionale devono essere precisate, unitamente a un meccanismo di monitoraggio, perché il programma definito venga attuato.

Quindi, un “nulla osta” molto condizionato, pieno di paletti e vincoli che ne rendono difficile l’attuazione. Potrebbe il Governo Renzi essere messo nella condizione di dover rendere conto a un gruppo di eurocrati con cui concordare misure specifiche la cui attuazione verrebbe monitorata con attenzione? E quello Hollande?

Prima ancora di arrivare a questi nodi politici, dovrebbero essere sciolti spinosi nodi tecnici. Prendiamo la forma più semplice di Qe: l’acquisto di obbligazioni degli Stati dell’eurozona. L’acquisto avverrebbe in proporzione alla loro partecipazione al capitale della Bce per tutti i 19? O si terrebbe conto della “qualità” dei titoli di ciascuno? Quale metro di giudizio, in questo caso, verrebbe utilizzato per valutare la qualità? Quello delle quattro agenzie di rating (tre essenzialmente americane e una cinese)? Oppure si metterà in piedi un apparato specifico europeo? E come si tratterebbero le obbligazioni di Stati in cui forze politiche importanti (e che potrebbero presto avere responsabilità di governo) hanno annunciato l’intenzione di ripudiare parte del proprio debito sovrano?

In effetti, a questi interrogativi posti dai giuristi e dagli economisti che hanno fatto ricorso alla Corte suprema tedesca, i giudici rosso togati di Karlsruhe pensavano di avere qualche risposta dalla Corte di Giustizia europea. Sono stati, invece, rinviati non direttamente al mittente, ma al Consiglio Bce, nel cui seno infuria la battaglia.

Ove la situazione non fosse sufficientemente complicata, un numero crescente di economisti (anche italiani) ritiene che la Bce deve considerarsi causa dei suoi mali, in quanto, pur adottando una politica di inflatition targeting e fissando tale target, ha fatto cadere l’eurozona in deflazione. Altri documentano che con una crescita della quantità di moneta al 2,5% l’anno, non è la liquidità a far difetto, ma un sistema economico, regolamentare e giudiziario obsoleto che frena gli investimenti – Nomura lo ha scritto chiaro e tondo ai propri clienti. In tal caso, Qe, Omt e tante altre sigle servirebbero unicamente ad arricchire la galassia degli acronimi.

La flessibilità che serve per creare occupazione

La flessibilità che serve per creare occupazione

Danilo Taino – Corriere della Sera

C’è un numero che colpisce nelle statistiche sul mercato del lavoro di Eurostat. Dice che, alla fine del terzo trimestre del 2014 , gli italiani «disponibili per il lavoro ma che non lo cercano» (e che quindi non entrano nelle statistiche della disoccupazione) erano il 14,2% del totale della forza lavoro; in crescita dell’ 1,1% rispetto a un anno prima. In assoluto è la quota più alta nella Ue, la cui media è il 4,1% . In Germania, per dire, la percentuale è 1,2 , in Gran Bretagna 2,2 , in Spagna 5,0.

La prima considerazione che il dato solleva è che la disoccupazione italiana è dunque di parecchio più alta del tasso ufficiale – 13,4% lo scorso novembre – che Eurostat calcola secondo i criteri stabiliti dall’Ilo, l’Ufficio internazionale del lavoro. C’è insomma un gruppo di persone, più consistente che negli altri Paesi, che non cerca un’occupazione anche se sarebbe nelle condizioni di farlo: su scala europea, si tratta per il 57,4% di donne e probabilmente questa maggioranza di genere è ancora più accentuata in Italia.

Una seconda considerazione, più interessante, parte dal fatto che queste persone hanno ragioni strutturali e stabili per non cercare lavoro: ritengono che esso non sia disponibile, preferiscono occupazioni in nero, svolgono funzioni domestiche a cominciare dalla cura dei figli, mostrano ritrosie culturali. Di base, però, a scoraggiare la ricerca di un’occupazione è la rigidità del mercato del lavoro stesso. Quando, nei primi Anni Duemila, la Germania riformò il sistema delle garanzie all’occupazione e introdusse una dose di flessibilità nella tipologia dei contratti, aprì le porte a centinaia di migliaia di studenti e soprattutto di casalinghe che non avevano mai ufficialmente cercato un lavoro ma che, di fronte all’opportunità, entrarono nel sistema produttivo. Il numero di persone impiegate, che fino al 2006 non aveva mai superato i 40 milioni , oggi supera di molto i 42 milioni. I posti così creati sono in gran parte mini-job e dunque hanno retribuzioni basse; ritenute però interessanti da questi soggetti. Uno sviluppo che in parallelo ha reso le imprese più disponibili a creare posizioni, prima inesistenti, adatte alla nuova offerta di lavoro. Non sempre, dunque, è una variazione nella domanda che arriva dalle imprese a creare occupazione. Molto spesso, sono i cambiamenti nell’offerta i fattori che la creano. E, con essa, reddito e ricchezza.