Edicola – Opinioni

Più opere e meno squilibri per rilanciare l’Europa

Più opere e meno squilibri per rilanciare l’Europa

Alberto Quadrio Curzio – Il Sole 24 Ore

La crisi economica europea ha trovato di recente due conferme e una autorevole indicazione su come uscirne. La conferma viene dal rallentamento della Germania e dal Fondo monetario internazionale che chiede investimenti pubblici in infrastrutture. Per questo giornale non si tratta di novità perché da anni ripetiamo che il dogma del rigore fiscale senza politiche espansive europee centrate sugli investimenti, specie in infrastrutture, era sbagliato.

I trinomi dell’Fmi
Con oggi si chiudono a Washington le riunioni annuali di Fmi e Banca mondiale (istituzioni a cui aderiscono 188 Paesi) che hanno celebrato anche il loro 70° anniversario. È stato presentato anche il World economic outlook di ottobre che va letto alla luce di due interventi, cruciali anche per l’Europa, del direttore generale Fmi, Christine Lagarde. Il primo è di prospettiva storica a 70 anni da Bretton Woods, quando Fmi e Banca mondiale furono fondate con il contributo di John Maynard Keynes. Lagarde rende omaggio a questo genio e prospetta tre coppie di alternative di fronte alla quali l’economia mondiale si trova oggi: tra accelerazione e stagnazione; tra stabilità e fragilità; tra solidarietà e isolamenti. Lagarde spiega perché accelerazione, stabilità, solidarietà sono tra loro connesse. A nostro avviso è quella combinazione su cui si è costruita l’Eurozona (e l’Unione europea) che adesso vacilla avendo scelto, sbagliando, la ricombinazione di stagnazione, stabilità, isolamenti. Il secondo intervento riguarda l’attuale urgenza di politiche economiche per rilanciare crescita e occupazione, specie in alcune aree geo-economiche in forte rallentamento. Qui emerge in modo netto la presa di posizione sulla Eurozona per la quale Lagarde segnala i rischi di persistente bassa inflazione (che per noi è deflazione) e di recessione per superare le quali chiede misure monetarie più forti della Bce e misure fiscali dei Paesi sia in surplus che in deficit evitando gli eccessi di rigore, ammorbidendo gli effetti delle necessarie riforme nel mercato del lavoro, favorendo la crescita.

Gli investimenti e le infrastrutture
Alle politiche monetarie e fiscali per la crescita viene aggiunta con forza dall’Fmi quella sulle infrastrutture come strategia cruciale per evitare il rallentamento dell’economia mondiale e la stagnazione in alcune aree. Con riferimento all’Eurozona noi abbiamo trattato su queste colonne di infrastrutture sotto ogni punto di vista: dai metodi di finanziamento (Project bond, Eurobond, partenariato pubblico-privato) alle tipologie di investimenti (reti transeuropee, tecnoscienza, capitale umano e fisico). L’Fmi enfatizza l’urgenza degli investimenti pubblici in infrastrutture sia come leva fondamentale per rilanciare adesso crescita e occupazione, sia perché la quota delle stesse sul Pil è calata in generale, sia perché nei Paesi sviluppati vanno ammodernate e nei Paesi in via di sviluppo vanno costruite. Le condizioni di liquidità attuali sono anche molto favorevoli per costi finanziamento bassi e per l’emissione di titoli di debito in mercati molto liquidi. L’Fmi calcola che un aumento dell’investimento in infrastrutture di un punto percentuale di Pil genera nelle economie avanzate un incremento dello 0,4% di Pil nello stesso anno e dell’1,5% entro quattro anni. La conclusione è che investimenti in infrastrutture ben fatti aumentano la produttività delle economie e si ripagano anche in termini di rapporti del debito pubblico sul Pil.

Gli squilibri tedeschi
Il World economic outlook (Weo) dell’Fmi si sofferma anche sulla crisi dell’Eurozona e sui problemi dei suoi Stati membri. Il messaggio che più colpisce è quello secco indirizzato alla Germania con la richiesta di aumentare gli investimenti pubblici nelle infrastrutture. Il messaggio si ripete in varie forme nel Weo rilevando che la Germania è l’unico Paese nel quale tra il 2006 e il 2013 sono cresciuti sia il surplus di parte corrente con l’estero (dal 6,3% allo 7,5% del Pil, pari a 274 miliardi di dollari) sia i crediti finanziari netti sull’estero (dal 26,9% al 46,2% del Pil ovvero 1678 miliardi di dollari) mentre gli investimenti interni sono scesi rispetto al risparmio. Così gli investimenti totali sul Pil dal 22,3% nel 2000 sono scesi al 16,9% nel 2013 mentre si prevede una risalita solo al 18,5% nel 2019. All’opposto la quota del risparmio lordo sul Pil è passata nello stesso periodo dal 20,5% al 24% con la previsione di scendere solo al 23,5% nel 2019. La Germania soffre perciò di squilibri macroeconomici che da anni vanno ben oltre i limiti previsti dagli accordi europei per il rapporto tra il surplus di parte corrente sull’estero e il Pil. Purtroppo le istituzioni europee non hanno avuto la forza di richiamare la Germania a più investimenti che avrebbero trainato tutta l’Eurozona. Inoltre si è a lungo taciuto nelle sedi istituzionali sui vantaggi che la crisi stessa ha prodotto per la Germania. Sono critiche che da tempo Marco Fortis avanza, segnalando anche che il crollo della domanda degli altri Paesi dell’Eurozona avrebbe colpito la stessa Germania. È quello che sta accadendo. Infatti le stime di crescita per il 2014 sono state ribassate dall’1,9% all’1,3% e per il 2015 dal 2% all’1,2%, l’export di agosto è crollato del 5,8% rispetto a luglio e la produzione industriale del 4,8% mentre la fiducia delle imprese è in calo da maggio. È dunque in corso un rallentamento marcato.

Una conclusione Euro-tedesca
Al di là dei numeri contano anche le opinioni e tra queste spicca quella di uno tra i più autorevoli economisti tedeschi, Marcel Fratzscher, direttore dell’Istituto tedesco per la ricerca economica (Diw). Nel suo recente volume “L’illusione tedesca” (presentato dal ministro dell’Economia, il socialdemocratico Sigmar Gabriel) si sostiene sia che la prosperità tedesca vacilla per gli errori di politica economica sia che la Germania deve investire di più in infrastrutture e in capitale fisico e umano. Speriamo che questa opinione venga accolta dal governo tedesco, che dovrebbe anche aprirsi alla piena collaborazione con il presidente della Commissione europea per la realizzazione degli investimenti infrastrutturali convenienti per tutta l’Eurozona. Anche per l’Italia, che tuttavia non potrà sottrarsi a riforme radicali capaci di renderci un po’ più “tedeschi”.

Troppe combinazioni per una sola tassa

Troppe combinazioni per una sola tassa

Massimo Fracaro e Nicola Saldutti – Corriere della Sera

Ormai ci siamo. Entro giovedì 16 ottobre i contribuenti dovranno versare la Tasi, la tassa sui servizi indivisibili (che ha sostituito l’Imu sulla prima casa, anzi l’Ici, anzi l’Isi, anzi la Iuc, solo per ricordare alcuni dei molteplici nomi con i quali sono state chiamate le imposte sugli immobili). E si tratta della gran parte dei Comuni che non erano riusciti a rispettare i tempi della scadenza di giugno. Ne restano ancora 659 che non hanno ancora fissato l’aliquota, per questi centri si pagherà tutto in una volta, il 16 dicembre. Un groviglio di scadenze e conteggi che non è degno di un Paese civile. Chi ha provato a calcolare in quanti modi si potranno saldare i conti con il Fisco è arrivato a misurare fino a 85 mila combinazioni diverse. Ottantacinquemila modi che dipendono da aliquote, comune di residenza, detrazioni, rendite catastali. Definirlo un sistema bizantino, sinonimo di complicazioni burocratiche non basta. È qualche cosa di più. E questo è il capitolo delle regole.

Se poi andiamo ai conteggi la sorpresa è ancora maggiore. L’illusione, ribadita dai ministri del Tesoro che si sono susseguiti, era che la Tasi dovesse, in qualche modo, pesare meno del’Imu, della vecchia imposta municipale. Ma non sarà così. Secondo i conteggi della Uil su 15 milioni di contribuenti, almeno sette milioni verseranno di più. A versare di più saranno i proprietari delle abitazioni principali più piccole. Dire beffa è dire poco. Adesso i tecnici stanno studiando un modo per evitare che i proprietari di più abitazioni versino due imposte, la vecchia Imu e la Tasi. Il progetto di unificarle semplificherebbe un po’ la vita dei contribuenti. Ma il punto è un altro: la casa assomiglia ad una specie di bancomat dello Stato. E adesso che i Comuni sono alle prese con il taglio dei trasferimenti la sensazione è che la situazione possa complicarsi. Forse è arrivato il momento di una tregua.

Garanzia giovani, perché non va

Garanzia giovani, perché non va

Dario Di Vico – Corriere della Sera

Stavolta non c’è neanche l’alibi dei soldi. Gli stanziamenti per la Garanzia Giovani ammontano addirittura a 1,5 miliardi eppure ci stiamo pericolosamente avvicinando a un clamoroso flop. Sull’apposito portale il ministero del Lavoro pubblica un report aggiornato: al 9 ottobre i giovani registrati erano circa 237 mila di cui però solo 53.800 sono «stati presi in carico e profilati». Le occasioni di lavoro pubblicate online dall’inizio del progetto sono poco più di 17 mila. Ma al di là dei numeri, che pure da soli già raccontano di un’iniziativa a scartamento ridotto, la verità è che Garanzia Giovani sta vivendo come fosse una procedura ministeriale. Al dicastero ammettono le lentezze, parlano di realtà «a macchia di leopardo» (vuol dire che al Sud non si è mosso niente), della difficoltà di far dialogare per via telematica Centro per l’impiego (Cpi), Regioni e Stato e dell’intenzione del ministro Giuliano Poletti di fare il punto con gli enti locali a metà novembre. Auguri sinceri.

La verità è che doveva trattarsi di una grande mobilitazione di energie e persino di un’operazione pedagogica. I giovani fino a 29 anni dovevano essere chiamati a fare uno sforzo culturale, a rendersi occupabili. La comunicazione è stata invece debole, non ha colpito i ragazzi e non li ha messi in movimento. Occorreva spiegare loro che non basta volere un posto di lavoro ma oggigiorno diventa decisivo mettersi in grado di conquistarlo e allora bisogna considerare il curriculum come un tesoretto che si accumula e sul quale si investe di continuo. Niente di tutto questo è stato fatto e non vale la considerazione che pure si sente ripetere spesso ovvero che i nostri Centri per l’impiego contano 9 mila addetti e l’Agenzia nazionale tedesca 100 mila. Di un altro carrozzone pubblico facciamo volentieri a meno. Debole come capacità di mobilitazione il ministero lo è stato anche nel coinvolgimento dei soggetti potenzialmente interessati. Il terzo settore, ad esempio, poteva essere mobilitato per tempo per la capacità di offrire tirocini ai giovani. Più in generale bisognava creare una coalizione di organizzazioni che si facevano promotrici di Garanzia Giovani e lo inserivano in agenda tra le priorità. Vi risulta che qualche associazione di categoria abbia organizzato iniziative in merito o assicurato un’informazione puntuale? E non valeva la pena incalzare anche i sindacati e i loro centri di assistenza? Anche questa capacità è mancata e nei territori questo vuoto si sente. Al Sud non ne parliamo. I ragazzi non vengono interessati nemmeno per via indiretta, non sentono che attorno i «grandi» si sono mobilitati. Così quando vengono chiamati finiscono per adempiere a un obbligo burocratico e non si responsabilizzano. E poi aspettano che il telefono suoni.

Garanzia Giovani poteva essere un test di politiche attive per il lavoro e invece sta perpetuando l’equivoco dei Cpi. Si comincia dal paradosso che a dar lavoro ai disoccupati dovrebbero essere dei co.co.pro. che lavorano a intermittenza nei Centri e poi si arriva alla mancata collaborazione con le agenzie private. Non si contano gli ostacoli che sono stati frapposti alle collaborazioni con le varie Adecco, Gi Group, Manpower, Quanta. Disposizioni regionali di 20-30 pagine, doppio accreditamento nazionale e regionale, impossibilità di avere rapporto diretto con i ragazzi. Accanto ad alcuni assessori regionali più aperti e moderni ce ne sono altri che continuano a pensare che occuparsi di lavoro «sia un compito dello Stato e basta». Il risultato di queste incomprensioni è che Garanzia Giovani alla fine trascura il contatto con le imprese. Non è un caso che la Nestlé voglia assumere qualche migliaio di giovani senza passare di lì o che la McDonald’s in Italia non abbia trovato la collaborazione giusta. Bastava copiare quello che molte università fanno con il placement ovvero i colloqui diretti giovani-aziende e si sarebbe innovato profondamente. Invece sul portale girano sempre gli stessi annunci, lo stesso fotografo viene cercato da settimane e settimane e comunque le richieste puntano su profili esperti e non alla prima prova. E come ha detto il giuslavorista Michele Tiraboschi «basta scavare un po’ più a fondo per accorgersi che il sito governativo non fa altro che rimbalzare offerte presenti su altri siti».

Che fare adesso per evitare che il flop demotivi tutti, le strutture e soprattutto i giovani disoccupati? Tiraboschi ha steso addirittura un decalogo di miglioramenti pratici per far funzionare il portale. Dall’inserire un filtro che selezioni subito i giovani per condizioni occupazionali/formative a permettere una ricerca avanzata tra i diversi annunci che oggi si affastellano in 400 pagine di visualizzazione. Si cominci pure da qui ma è proprio il caso di dire che bisogna cambiare marcia. Non si può lasciare tutto in mano ai ministeriali, se non altro perché non possiamo buttare dalla finestra un miliardo e mezzo.

Ps. Anche questa settimana a Roma ci sarà il solito e inutile mega convegno su Garanzia Giovani.

La riforma dei contratti è la priorità

La riforma dei contratti è la priorità

Vincenzo Visco – Il Sole 24 Ore

Il dibattito sulla riforma del mercato del lavoro si è concentrato sulle modifiche all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, argomento che tutti gli esperti considerano di scarso rilievo pratico, ma che ha una valenza altamente simbolica e quindi risulta politicamente molto rilevante. Il motivo per cui l’articolo 18 è percepito come un simbolo ha a che vedere con la storia stessa del movimento operaio a partire dalla fine dell’800. Il problema di fondo è se il lavoro debba essere liberamente scambiato sul mercato o invece debba essere diversamente regolato e tutelato. La questione rievoca le battaglie sul lavoro minorile, la tutela delle lavoratrici e della maternità, l’orario di lavoro, l’ambiente di lavoro, i diritti di rappresentanza, ecc… In sostanza l’articolo 18 evoca il principio secondo cui i datori di lavoro non possono fare quello che vogliono o ritengono più opportuno nei confronti dei loro dipendenti. Il venir meno di certe tutele o di certi principi rievoca tempi in cui l’equilibrio necessario tra lavoratori e datori di lavoro era profondamente squilibrato e il rischio che si possa tornare indietro.

Del resto anche oggi in Paesi non certo poco importanti la tutela del lavoro appare squilibrata, carente, precaria e talvolta assente. È comprensibile quindi l’attenzione con cui si guarda a questo problema. Queste sono le questioni che, più o meno consapevolmente, sono dietro le polemiche attuali che hanno ovviamente una valenza ideologica e politica in quanto riguardano i poteri effettivi o immaginati della parti in causa. Naturalmente le questioni relative ai licenziamenti discriminatori o disciplinari o comunque privi di una giusta causa possono essere (e sono in pratica) risolti diversamente nei vari Paesi, e non è detto che il reintegro sia necessariamente preferibile al risarcimento, né che l’intervento del giudice sia da preferire a una soluzione arbitrale. Tuttavia è evidente che qualsiasi soluzione si volesse adottare, sarebbe opportuno che fosse condivisa e non imposta, e al tempo stesso che non è utile né ragionevole rifiutarsi di discutere delle soluzioni alternative possibili, se cambiare può portare a miglioramenti.

Ma le questioni rilevanti del nostro mercato del lavoro sembrano altre: l’articolo 18 ha, come si è detto, una importanza concreta marginale, anche se sul piano politico la sua aggressione può apparire utile. Il problema di fondo risiede invece nella sistematica perdita di competitività del Paese dopo l’ingresso della moneta unica che avvenne, è bene ricordarlo, in un contesto in cui in tutti i Paesi partecipanti l’inflazione era sotto il 2%, il disavanzo sotto il 3% del PIL, e la bilancia dei pagamenti era in equilibrio, il tasso di cambio lira/euro inoltre – checchè se ne dica – fu a noi favorevole. Subito dopo tuttavia, dall’inizio degli anni 2000, inizia un processo di divaricazione tra la dinamica della produttività (stagnante) e quella dei salari nominali (crescente). La divergenza riflette due fattori fondamentali: l’andamento dell’inflazione, superiore alla media europea, e la carente capacità di innovazione del sistema.

In poco più di 10 anni abbiamo così perso 30-40 punti di competitività rispetto alla Germania che ha affrontato l’ingresso dell’euro con una incisiva riforma del mercato del lavoro e della contrattazione promossa dal governo, ma condivisa da imprese e sindacati. In Italia il meccanismo contrattuale è rimasto invece lo stesso, furono inoltre assicurati in più occasioni rinnovi dei contratti del pubblico impiego che si sarebbero dovuti evitare e che hanno svolto la funzione di pivot rispetto al resto del mercato del lavoro; inoltre anche negli altri settori protetti dalla concorrenza si manifestavano fenomeni analoghi, e alla fine anche i contratti dell’industria erano spinti verso una crescita non giustificata dalla produttività. Il risultato è stato una perdita di esportazioni, di reddito e di occupazione, una carenza di investimenti, un peggioramento delle condizioni di bilancio, nonostante l’aumento della tassazione. L’esplosione della crisi finanziaria e la pretesa dei Paesi creditori di imporre ai soli Paesi in deficit l’onere dell’aggiustamento hanno fatto il resto. È dal sistema di contrattazione che occorre quindi iniziare, esso va reso flessibile sia a livello privato che pubblico, sia a livello aziendale che territoriale, con l’obiettivo di far crescere contemporaneamente sia la produttività (investimenti pubblici e privati) che i salari.

Oggi ciò non avviene, anzi avviene il contrario. Per esempio, se si esamina l’ultimo contratto dei metalmeccanici si vede che esso prevede per il 2014, anno di recessione e di deflazione, un incremento salariale superiore al 2% che poteva apparire modesto e moderato quando il contratto fu firmato nel dicembre 2012, ma che risulta oggettivamente stravagante ex post nella situazione attuale in cui non tutte le imprese, anzi probabilmente molto poche, sarebbero in grado di onorare gli impegni senza conseguenze negative. Gli interventi sul mercato del lavoro dovrebbero quindi farsi carico e trovare soluzioni per questi problemi che sono quelli rilevanti. E non si dica che l’Italia è diversa dalla Germania a causa della presenza prevalente di piccole imprese, in quanto la necessaria elasticità salariale e di organizzazione del lavoro potrebbe essere assicurata anche da apposite contrattazioni in sede locale e territoriale, tenendo conto della localizzazione delle imprese, e di altri specifici fattori di costo. I cambiamenti necessari sono quindi molti e profondi. Si tratta di avere coraggio e consapevolezza da parte sindacale e imprenditoriale ed equilibrio e capacità di leadership da parte del governo. Ma nella situazione attuale non mi sembra esistano altre alternative.

Le regole valgono per tutti (Berlino compresa)

Le regole valgono per tutti (Berlino compresa)

Fabrizio Galimberti – Il Sole 24 Ore

«L’Europa si farà nelle crisi, e sarà la somma delle soluzioni apportate alle crisi», scrisse Jean Monnet nel 1976. È vero; anche noi, nel nostro piccolo, ci decidiamo a fare qualcosa solo quando siamo tirati per i capelli. Ma la crisi attuale è forse la più seria da quando l’Europa volle farsi Comunità europea, e la “soluzione apportata” ancora non si vede. Nell’ottobre del 1939 Winston Churchill disse: «Non posso prevedere quel che farà la Russia. È un rebus, avvolto nel mistero, dentro un enigma; ma forse c’è una chiave. Quella chiave è l’interesse nazionale della Russia». La chiave oggi della complicata situazione europea è l’interesse nazionale della Germania. Un “interesse nazionale” che è più culturale che finanziario. «Per noi tedeschi, quel che è allo stesso tempo il nostro difetto nazionale e la nostra più grande qualità, è la mancanza di tatto, altrimenti detta difetto di immaginazione; siamo incapaci di metterci al posto degli altri, li feriamo gratuitamente, ci facciamo odiare, ma questo ci permette di agire con inflessibilità e senza cedimenti»: così parla il tenente Bruno von Falk, nel capolavoro di Irène Némirovsky, “Suite Française”.

Certo, sarebbe bello se un afflato di politica alta portasse l’Eurozona fuori dalle secche. Anche la Germania in passato ne è stata capace, ma c’è voluta la sanguinosa sconfitta nella Seconda guerra per aprire le porte a una costruzione europea; così come c’è voluta la caduta del muro di Berlino e l’eccitante epopea della riunificazione tedesca per arrivare alla grande tappa di Maastricht e della moneta unica. Oggi ci vorrebbe un altro capitolo di quella “immaginazione al potere” che i sessantottini reclamavano. Ma manca la tragedia e manca l’epopea. Esperimenti di laboratorio hanno descritto il cosiddetto “effetto rana nella pentola”: se si mette una rana in un pentolone con l’acqua calda, questa balza fuori; ma se la si mette nell’acqua fredda e poi la si scalda lentamente, la rana muore bollita. Le cose nell’Eurozona stanno peggiorando al rallentatore, ed è inutile sperare che spunti un Adenauer o un Kohl. Bisogna lavorare entro i recinti dell’esistente. Ma l’esistente è adatto alle temperie del 2014? La risposta è no, per una questione di tempi e di culture. I tempi: le prescrizioni di vent’anni fa non sono più adatte a una crisi che ancora non riesce a uscire dal più profondo sconvolgimento dell’economia mondiale dagli anni Trenta. Le culture: come osserva Roberto Artoni in “La cultura economica e la crisi”, si è prestata «esclusiva attenzione all’indebitamento della Pa, ignorando le dinamiche molto più preoccupanti…in altri settori dell’economia.

Questo atteggiamento ha natura profondamente ideologica: in un sistema liberista l’unico possibile fattore di…disordine può venire dall’azione dell’operatore pubblico». Anche se “l’esistente” non è adeguato, purtroppo non ci sono alternative (a parte gli scriteriati suggerimenti di uscire dall’euro) ad agire all’interno delle regole. Ma è possibile, queste regole, lavorarle al fianco. Di regole la Ue se ne è date molte, e non riguardano solo la finanza pubblica: ha anche stabilito indicatori e obiettivi di carattere sociale (rischio di povertà, diseguaglianza dei redditi, disoccupazione di lunga durata…). Anche se, come ci ricorda Enrico Giovannini (in “Scegliere il futuro”), i Paesi teutonici si affrettarono a precisare che questi indicatori non dovevano essere usati per spingere i Paesi a fare o non fare.

Va bene, limitiamoci alle regole che riguardano l’economia. Anche sulla finanza pubblica l’Italia può, come sta già facendo, guadagnare spazi di libertà, essenzialmente sfruttando quelle “circostanze eccezionali” che giustificano un rinvio del pareggio; così come, su un terreno più tecnico, è bene che si sia cominciato a mettere in discussione i metodi attraverso i quali si calcola il saldo strutturale di bilancio (basterebbe cambiare ragionevolmente alcuni parametri per concludere che avremmo già raggiunto l’obiettivo del pareggio). Ma tutto questo – mendicare le “circostanze eccezionali” o contestare le equazioni – ancora non basta. Fa parte di una strategia difensiva, quella di uno scolaro che si discolpa di fronte alla maestra. C’è bisogno di passare – sempre dentro le regole – a una strategia offensiva, mettendo sotto accusa la maestra. Fortunatamente fra le regole del “Six Pack” c’è anche la Mip (“Macroeconomic Imbalance procedure”) che cifra, fra le altre, anche le forchette entro cui si devono collocare alcuni indicatori. Fra questi c’è il saldo corrente con l’estero, che deve essere compreso fra il -4% del Pil e il +6%, pena un invito alla correzione.

Il problema è che già da sette anni la Germania viola questa regola, e, nell’ultimo “Alert Mechanism Report” (un monitoraggio previsto dalla Mip) c’è, al primo posto delle raccomandazioni, un invito alla Germania a stimolare la domanda interna, evitando così quella che vorremmo battezzare una “procedura per avanzo eccessivo”. La responsabilità dei Paesi creditori nel risanamento degli squilibri ha una lunga e onorata storia: data da Bretton Woods, quando Keynes (che anche in quel caso aveva ragione) cercò di stabilire regole che ponessero a carico anche dei Paesi creditori la correzione degli sbilanci. Anche nella storia dello Sme venne a galla la questione della ripartizione degli interventi fra Paesi in deficit e in avanzo. Ma oggi una giusta condivisione delle misure di risanamento è essenziale per preservare l’unità dell’Eurozona. E farebbe bene anche ai tedeschi, che avrebbero solo da guadagnare da un aumento della quantità di beni e servizi consumati all’interno del Paese. Insomma, la prossima volta che il ministro delle Finanze tedesco invita tutti al rispetto delle regole, si dovrebbe rispondergli che fra i “tutti” c’è anche lui.

Gli economisti pentiti (o quasi) adesso fanno autocoscienza

Gli economisti pentiti (o quasi) adesso fanno autocoscienza

Federico Rampini – La Repubblica

«La professione dell’economista non si è coperta di gloria in questi ultimi sei anni, è il minimo che si possa dire». Comincia così “l’autocoscienza dell’economista” a firma di Paul Krugman. Il premio Nobel dell’economia include se stesso nel bilancio negativo: «Quasi nessun economista aveva previsto la crisi del 2008, e quelli che lo fecero avevano anche previsto troppe crisi che non erano mai accadute». L’allusione in parte è a se stesso (Krugman era già pessimista molti anni prima del 2008) in parte ad altre Cassandre celebri come Nouriel Roubini e Robert Shiller. Anche i migliori, dunque, sbagliarono. O perché attribuirono una crisi imminente a cause errate: i macrosquilibri delle bilance dei pagamenti fra Usa, Cina e Germania, per esempio. Oppure perché avevano profetizzato il disastro con troppo anticipo (1999 nel caso di Shiller). La categoria dei pessimisti avverava la battuta secondo cui «gli economisti hanno previsto dieci delle ultime quattro recessioni». Molto peggio gli altri, comunque. E cioè la maggioranza: i cantori del libero mercato come meccanismo perfetto, capace di correggere i propri squilibri, di generare prosperità sempre ed ovunque. Quelli, tra l’altro, avevano il più delle volte le leve del potere in mano: vedi Alan Greenspan, presidente della Federal Reserve “addormentato al volante” mentre Wall Street gonfiava la bolla speculativa dei mutui sub-prime. Ideologia e conflitto d’interesse si sorreggevano a vicenda: la “mano invisibile” consentiva a Wall Street di respingere limiti e restrizioni. Ma la storia continua, ora l’epicentro del disastro intellettuale è l’eurozona…

In America l’autoflagellazione degli economisti è diventato un nuovo genere letterario. Quella frase autocritica di Krugman, è l’incipit di una sua recensione uscita sul supplemento libri del New York Times. Il libro è Seven Bad Ideas (sette cattive idee) di Jeff Madrick. L’ultimo di una lunga serie. Tra i migliori in questo filone ci sono Zombie Economics dell’australiano John Quiggin (sottotitolo: “Le idee fantasma da cui liberarsi” edito dall’Università Bocconi); il monumentale saggio di Philip Mirowski Never Let a Serious Crisis Go toWaste( non lasciare che vada sprecata una grave crisi); un altro australiano, Steve Keen, con Debunking Economics. L’elenco è molto più lungo, a conferma di due aspet- ti importanti. Primo: almeno una parte della categoria degli economisti sente di avere tradito la propria missione, la propria funzione sociale, il proprio dovere verso il pubblico. Secondo: c’è un’altra parte più numerosa, però, che non sente alcun bisogno di associarsi all’autocoscienza e di fare autocritica. Purtroppo nella seconda categoria ci sono molti esperti vicini al potere, tecnocrati che hanno un’influenza enorme sulle decisioni dei governi. Questo è un dato che Krugman sottolinea nella sua recensione al libro di Madrick, e che accomuna tutte le altre opere che ho appena citato: la formidabile capacità di sopravvivenza delle idee sbagliate. Nelle sette idee che Madrick prende di mira, almeno tre sono strettamente legate fra loro: il dogma della “mano invisibile” (il mercato capace di auto-regolarsi); l’avversione all’intervento statale nell’economia; e la certezza che la globalizzazione sia sempre benefica.

C’è però un aspetto che Krugman non tratta nella sua recensione, e riguarda il clima intellettuale in Europa. I tre dogmi mercatisti di cui sopra hanno avuto meno influenza nel Vecchio Continente. Gli Stati Uniti vivono sotto l’egemonia neoliberista dai tempi di Ronald Reagan in poi; ma in Europa la versione pura e dura del mercatismo ha sfondato solo in Gran Bretagna. La Germania, sia che fosse governata dai socialdemocratici o dai democristiani, ha sempre preferito una versione ben temperata del liberismo, la cosiddetta economia sociale di mercato o “modello renano”. Lo Stato, anche nella vocazione di Welfare, ha sempre avuto in Europa continentale un ruolo maggiore che in America, almeno da Reagan in poi. E tuttavia il pensiero economico americano ha dovuto accettare di recente qualche salutare shock pragmatico. Krugman ricorda per esempio che la Chicago Business School (cresciuta all’ombra dell’autorità di Milton Friedman, il padre dei neoliberisti, Nobel anche lui) in un sondaggio fra economisti ha trovato che il 92% riconoscono l’efficacia dell’Amministrazione Obama nel contrastare la recessione con investimenti pubblici. La prova dei fatti, almeno in questo caso, ha potuto scalfire i dogmi. Non tutti, per carità. Le pagine dei commenti del Wall Street Journal rimangono in appalto alla fazione più radicale dei neoliberisti; i quali da cinque anni gridano “al lupo al lupo”, denunciando i disastri imminenti provocati dal deficit pubblico Usa (che invece si sta riducendo) e il ritorno dell’iperinflazione dietro l’angolo (di cui non c’è traccia). Milioni di risparmiatori americani hanno pagato di tasca propria per gli errori di questi esperti: il caso del fondo Pimco è esemplare, il più grosso gestore di bond ha creduto al mito dell’inflazione fabbricata dalla politica monetaria della Federal Reserve, e ha fatto scommesse disastrose sull’andamento dei mercati.

Da nessun’altra parte però il disastro della scienza economica sta producendo danni sociali così gravi come in Europa. Un altro grande economista americano, Benjamin Friedman (autore de Il valore etico della crescita, Università Bocconi), sulla New York Review of Books si occupa della “patologia del debito europeo”. Evidenzia la lettura “religiosa” del debito come vizio o peccato da espiare, che ispira Angela Merkel. Ricorda ai tedeschi afflitti da amnesia che loro furono i beneficiari del più colossale perdono di debiti della storia, dopo la seconda guerra mondiale. Traccia dei parallelismi inquietanti fra l’attuale depressione europea e quella degli anni Trenta, ivi comprese le conseguenze politiche come l’ascesa della xenofobia. La Merkel ormai appare dogmatica perfino agli esperti del Fondo monetario internazionale, che da tempo la esortano a rilanciare la domanda interna nel suo paese usando la leva degli investimenti in infrastrutture. Ma l’autocoscienza dell’economista, che in America è iniziata almeno nelle frange più illuminate, non ha ancora scalfito le certezze granitiche che governano l’Europa: dove gli accademici “krugmaniani” (i Piketty e i Fitoussi) sono amati dall’opinione pubblica ma contano poco, e di certo non influenzano i tecnocrati di Berlino, Francoforte e Bruxelles.

Le strane parole di Draghi fanno presagire un commissariamento

Le strane parole di Draghi fanno presagire un commissariamento

Sergio Soave – Italia Oggi

C’è qualcosa di poco chiaro nelle più recenti esternazioni di Mario Draghi, nelle quali prevede che i governi che non riescono a creare lavoro saranno costretti a dimettersi. L’elemento di ambiguità sta nel fatto che un potere che agisce dall’alto rispetto ai governi europei, soprattutto ovviamente quelli dell’area euro, sembra appellarsi a una sorta di pressione dal basso, che provenga da cittadini ed elettori. Se letto con malizia, sembra una sorta di predisposizione di un «commissariamento democratico», cioè di un intervento dall’alto sulla situazione politica e non solo economica dei paesi europei (ma Draghi è italiano e si sente tale) basata su una sorta di appello proveniente dal basso. Fu così, peraltro, che i Savoia giustificarono la loro occupazione dei territori italiani in base a presunte richieste popolari poi confermate dai plebisciti celebrati con le truppe piemontesi in casa. È un caso felice di commissariamento democratico, ma certamente non un esempio di rispetto della sovranità degli stati preunitari.

Anche senza ricorrere a paragoni ovviamente forzati, si potrebbe determinare una situazione di crisi finanziaria nuovamente aggressiva, alla quale il governo nazionale non è in grado di reagire e che richiede quindi un cambio nella direzione politica. Draghi ha recentemente ricordato, forse non a caso, come una analoga situazione condusse alla sostituzione dell’ultimo governo di Silvio Berlusconi con un esecutivo tecnocratico volto a realizzare le raccomandazioni europee, a cominciare da quelle dello stesso Draghi. Ora la situazione sembra diversa perché non c’è, a causa del disfacimento delle formazioni politiche esterne al Partito democratico, una possibilità reale di ribaltare il governo con una pressione dal basso, cioè in parlamento o nel voto popolare. A meno che, appunto, non intervenga una formidabile destabilizzazione «dall’alto», che Draghi sarebbe il più titolato a esprimere e forse anche a impersonare, nel caso in cui nelle cancellerie europee si ritenesse che spetta a lui assumere direttamente la responsabilità di «raddrizzare» le cose in Italia, magari dal Quirinale con poteri di fatto straordinari. Si dirà, con ragione, che allo stato degli atti questa è pura fantapolitica, che dedurre tutte queste conseguenze dalle parole di Draghi è un triplo salto mortale dal punto di vista della consecutio logica. È così senza dubbio, ma resta un certo stridore della funzione tecnica e istituzionale del presidente della Banca centrale europea e le considerazioni sulle reazioni elettorali ai comportamenti dei governi che non risultino abbastanza ligi alle direttive, anche se queste sono sostanzialmente condivisibili.

Strade e tasse a senso unico

Strade e tasse a senso unico

Raffalello Lupi – Il Tempo

Strade e tasse: due territori fuori controllo. Quando il limite di velocità è cinquanta, tutti vanno a settanta-ottanta, e qualcuno strombazza per superarli, a centotrenta, non arriva mai una macchina della stradale o dei vigili. Che evidentemente trovano più comodo passare col taccuino e multare le auto in divieto di sosta, dove tutti hanno sempre parcheggiato e sempre parcheggeranno senza dare fastidio a nessuno, anche perché altri posti non se ne trovano. La stessa mancanza di controllo del territorio c’è per le tasse, dove l’ufficio controlli di Civitavecchia si trova a Trastevere, e gli operatori economici indipendenti al consumo finale, che magari evadono qualcosa, sono magari rosi dal dubbio di poter nascondere molto di più, migliorando il loro tenore di vita; è una frustrazione analoga al tarlo dell’automobilista in coda, che vede altri sfrecciare sulla corsia di emergenza, o sulla preferenziale completamente inutile, dove passa un autobus ogni mezz’ora.

Le strade e le tasse sembrano insomma distanti, ma sono invece legate dalla mancanza di adeguato controllo amministrativo del territorio. Così come i vigili urbani non riescono a distinguere la guida pericolosa dall’innocuo divieto di sosta, gli uffici tributari non riescono a distinguere, nella vastissima platea degli operatori economici, chi è povero davvero da chi si finge tale. Automobilisti e contribuenti vengono così torchiati a casaccio, per comportamenti diffusi, senza raggiungere, in entrambi i settori, i comportamenti che la pubblica opinione avverte come veramente insidiosi. La responsabilità è dell’esasperata legificazione, figlia degenere di una malintesa «cultura delle regole», che ha danneggiato la cultura dei valori e del buonsenso , irrigidendo la società e trasformando sempre più la macchina pubblica in una asettica burocrazia, desiderosa solo di prendersi meno rischi possibili.

Per finta

Per finta

Davide Giacalone – Libero

Proteste immaginarie contro riforme immaginifiche. La piazza si agita per il sobbollire della voglia di protestare, mentre il legislatore s’arruffa per compensare la genericità nello svogliatamente proporre. Il risultato finale è il crescere della chiacchiera e lo scemare della sostanza. Gli studenti s’intestano il “no” alla riforma della scuola, ma di quale riforma parlano? Gli stessi giovani manifestano contro il cosiddetto Jobs Act, in realtà sfilando contro le suggestioni sventolate, mancanti di provvedimenti effettivi. Anzi, ed è singolare, protestano contro quello che non c’è, ma non contro quello che è già passato, ovvero il decreto Poletti che consente di assumere per tre anni senza contrarre alcun obbligo nei confronti del lavoratore. Conta l’immagine, insomma, non la realtà.

A me piacerebbe che la riforma della legislazione sul lavoro avesse la stessa ruvida chiarezza e univocità di quel decreto, nel qual caso non avrei difficoltà nello spiegare il perché le proteste sono sbagliate. Sarebbe bello poter dire a quei ragazzi: siete in errore e non capite che la difesa dell’esistente è quel che vi condanna alla marginalizzazione. Accendete i fumogeni, sventolate le bandiere palestinesi, impugnate il megafono in un giorno da ricordare, ma, se v’avanza tempo, pensate: il vostro interesse sta in direzione opposta. Dovreste chiedere di fare di più e di farlo più in fretta.

Della retorica della velocità, invece, s’è impadronito il governo. Peccato che la pratichi propiziando la lentezza. Peccato che si sollecitino sentimenti forti per poi dar luogo a risultati mosci. Prendete ad esempio la legge delega sul lavoro, sulla quale è stata e sarà ancora posta la fiducia, per fare alla svelta: il risultato consisterà in una brusca frenata per incostituzionalità. Con il testo passato al Senato non si va lontano, perché la delega è così generica da lasciare lo spazio, domani, ai ricorsi contro i decreti legislativi. Ricorsi innanzi ai quali la Corte costituzionale dovrà constatare l’estrema debolezza dell’indirizzo, quindi la potenziale illegittimità dell’attuazione. E non basta, perché il compromesso politico sul celeberrimo articolo 18 è a sua volta incostituzionale, perché distinguendo fra vecchi e nuovi assunti introduce una discriminazione inconciliabile con la Costituzione. Ci si dovrebbe, semmai, arrivare da un’altra parte: varando il contratto a tutele crescenti e considerando transitoriamente acquisito il tempo dei contratti in essere. Ma nella delega non c’è.

Il ministro del lavoro, al Senato, ha detto che si tende a esagerare, da una parte e dall’altra, circa gli effetti della riforma. Da una parte e dall’altra. Nel bene promesso e nel male temuto. Temo abbia ragione. Ma se ha ragione, vuol dire che l’effetto reale sarà un brodino. Per giunta non è soppressa la cassa integrazione, il che toglie risorse ai nuovi ammortizzatori sociali, che con 1,5 miliardi non ammortizzano un bel niente. Dicono i governativi: intanto cominciamo. Lasciamo perdere che partirono promettendo un approccio assai diverso, ma cominciare con così poco, mettendo nel conto uno stop costituzionale, equivale a dire: facciamo finta. E di tutto abbiamo bisogno, tranne che di far finta.

Deutschland uber alles

Deutschland uber alles

Davide Giacalone – Libero

Qualcuno crede che la Germania sia divenuta vittima della propria politica del rigore, imposta agli altri europei. Continua a crescere (mentre noi continuiamo a cadere), ma meno di quel che era previsto. Per forza, dicono i credenti nel boomerang, avendo impoverito gli europei che compravano i prodotti tedeschi ora ne pagano e conseguenze. Non è così, o, meglio, questo è solo un aspetto della realtà. La Germania governata da Angela Merkel persegue una politica di potenza continentale. Sovverte il disegno stesso dell’Unione europea e la logica politica che presiedé alla nascita della moneta unica, suscitando il netto dissenso dei governanti tedeschi che a quel disegno contribuirono. Suoi complici sono la debolezza e la confusione mentale delle classi dirigenti di altri paesi europei. Non solo non serve a nulla, ma è masochisticamente controproducente esaltare lo sfondamento dei parametri, mentre, all’opposto, si dovrebbe riportare i tedeschi al loro rispetto formale e sostanziale. Se non si vuole che quella logica tedesca diventi padrona d’Europa (sfasciandola per l’ennesima volta) si deve usare l’Ue per batterla.

Si vive troppo spiaccicati sul presente, perdendo visione generale e prospettiva storica. La geografia e la storia sono forze che muovono il mondo anche se i governanti le ignorano. L’euro è nato per contrastare il risorgere della tentazione egemonica tedesca. Per bilanciare la riunificazione, in cambio della quale dovettero abbandonare il marco. Ignoranti e smemorati sappiano che nel preparare quel passaggio l’Italia ebbe un ruolo fondamentale, perché fu la nostra scelta di schierare gli euromissili a trarre i tedeschi fuori da un dramma, avviando la fine della guerra fredda e, quindi, mettendo in marcia il processo che avrebbe portato alla riunificazione (ottime e informatissime le pagine di Sergio Berlinguer, nel suo “Ho visto uccidere la Prima Repubblica”). La frittata s’è girata perché molti capirono l’importanza di far partire l’euro, ma non che per restarci si doveva cambiare. Adeguarsi al nuovo, cavalcare e non subire la globalizzazione. Lì i tedeschi, che capirono e anticiparono i tempi, hanno preso un vantaggio. Poi, nella tempesta del 2010-2012, lo trasformarono in uno strumento di dominio.

Perché Merkel non fa crescere il suo mercato interno, perché ha così a lungo resistito alla crescita dei salari? In fondo gli elettori tedeschi sono come quelli del resto del mondo: votano volentieri chi gli farcisce la busta paga. In fondo nei centri Tafel si distribuiscono pasti a tedeschi,a famiglie, che non hanno i soldi per mangiare a sufficienza. Non lo ha fatto perché accumulava un vantaggio sugli altri europei. E’ stata una scelta coerente con la politica di potenza, non un errore tecnico. I francesi sfondano il deficit? Che lo facciano pure: da Berlino giungerà un richiamo, ma si fregano le mani. Gli italiani non riescono a cambiar nulla, polemizzando giorno e notte sul niente? Che si divertano: a Berlino faranno mostra di umore torvo, ma se la ridono. Nelle diverse lingue d’Europa si attende il parere della Merkel, la quale gira e va a dire: continuate così, bravi. Perché in questo momento, e da tempo, i tedeschi si finanziano a tasso negativo. È come se i mercati dessero soldi ai tedeschi in cambio della loro cortesia nell’accettarli in prestito. E lo fanno perché vedono una potenza reale, che i soldi non li distribuisce agli elettori. Se questa divaricazione continua, se da una parte c’è credito a tasso negativo e dall’altra deficit e spese pubbliche fuori controllo, in nome di una plebea rivolta contro i parametri, l’effetto sarà che la Germania potrà comprare quel che di succulento c’è in Francia e in Italia. E chi venderà sarà felice di far cassa, prima di giungere allo scasso.

La Banca centrale europea è la sola istituzione dell’Unione che resiste a questa logica. Sicché è da dementi che francesi e italiani si dilettino a indebolire la Bce, con la loro cattiva condotta. Due cose, oggi, si dovrebbero chiedere. Una alla Merkel: per favorire la riunificazione e varare l’euro il governo tedesco mandò a stendere la Bundesbank, che era contraria, faccia altrettanto, in fretta, e neutralizzi la sua Corte costituzionale, che è suo affare interno, perché noi siamo europei, non tedeschi. La seconda alla Commissione europea: giuste le procedure d’infrazione per chi sfonda i parametri, sicché parta la procedura verso la Germania, che non rispetta da anni quello sul surplus commerciale. Se queste armi le si lascia solo alla Merkel (che ha torti, ma anche ragioni), ce le troveremo puntate alla tempia, o altrove.