Edicola – Opinioni

Un errore non accettare l’aiuto della Bce

Un errore non accettare l’aiuto della Bce

Nicola Saldutti – Corriere della Sera

Il mercato tende, per sua natura, a cercare rapidamente una spiegazione delle cose (inspiegabili) che accadono. Ieri era una giornata molto importante per capire quante possibilità ci sono di riuscire a combattere il calo dei prezzi (la deflazione), uno scenario di forte rallentamento dell’economia in Europa. E la Banca centrale europea ha messo in campo una delle armi più efficaci: la possibilità per le banche europee di finanziarsi a un tasso d’interesse molto basso, pari allo 0,15%.

Tanto per avere un’idea la media dei tassi di finanziamento per le imprese viaggia ancora intorno al 9%, quasi dieci volte di più. E che cosa è accaduto? Che gli istituti di credito hanno bussato alle porte di Francoforte chiedendo molti meno fondi di quanto non ci si aspettasse. Soltanto 82 miliardi di euro rispetto ai circa 150 miliardi previsti. Certo, molti analisti considerano che la data decisiva sarà quella dell’11 dicembre, nella quale si realizzerà il secondo round di questa operazione e soprattutto sarà già concluso l’esame sulla solidità banche, i cosiddetti stress test . Una valutazione che servirà a capire quali gruppi avranno bisogno di aumenti di capitale e quali no (si dice che almeno due gruppi italiani dovranno tornare sul mercato per chiedere fondi). Eppure questa spiegazione non basta. Si potrebbe pensare che le banche non abbiano chiesto le risorse perché in realtà la liquidità di cui dispongono è sufficiente. E allora perché questa situazioni di stretta creditizia? Nei mesi scorsi lo scontro tra banche e imprese non è stato morbido: da un lato le aziende hanno accusato gli istituti di credito di non erogare abbastanza finanziamenti, dall’altro le banche accusano le aziende di chiedere soprattutto mezzi finanziari per ristrutturare i loro vecchi debiti (spesso di scarsa qualità) invece di domandare prestiti per nuove iniziative e investimenti.

E forse il dato di ieri dice anche questo: tra banche e imprese si dev’essere rotto qualcosa anche nel meccanismo di dialogo. Una specie di corto circuito nel quale, come si dice, il «cavallo non beve» pur avendo molta sete. Una situazione che ha del paradossale soprattutto se le istituzioni, in questo caso la Bce, hanno ormai messo in campo molte delle loro possibilità. Con la doppia riduzione dei tassi d’interesse e l’annuncio di essere pronta a comprare anche i cosiddetti Abs (asset backed securities ), una sorta di titoli di debito che fanno capo direttamente alle aziende. Dopo quello che è accaduto ieri forse serve un altro passo: banche e imprese, a livello europeo, dovrebbero cominciare a capirsi di più.

E il semestre intanto passa

E il semestre intanto passa

Franco Venturini – Corriere della Sera

In Europa non dobbiamo avere paura di dire la nostra. Non deve farci sentire più insicuri un presidente del Consiglio che «ci mette la faccia» per chiedere a Bruxelles (pardon, a Berlino) più elasticità in un rigore che, almeno per quanto riguarda il deficit al 3% del Pil, il governo intende rispettare. E tuttavia, se per l’Italia è una conquista mostrarsi meno timida del solito, c’è modo e modo di farsi valere. E basta poco, anche con le migliori intenzioni, a spararsi sui piedi.

Matteo Renzi è pericolosamente vicino a questa dolorosa constatazione. Non gli manca di certo la capacità di comunicare, ma la consapevolezza di dover rendere l’Italia più credibile quando la si guarda dalle capitali europee che contano, quella sì sembra fargli difetto. Il suo linguaggio è spesso aggressivo verso «l’Europa da cambiare», obiettivo che condividiamo ma con altro stile. La sua sfida per imporre Federica Mogherini nel ruolo di Alto rappresentante per la politica estera è stata vinta, ma ha creato malumori, per l’eccesso di irruenza troppo diverso dalle paludate mediazioni cui è abituata la Ue. Quanto al semestre di presidenza italiana, era nato zoppo per il tempo che avrebbe richiesto il ricambio della Commissione. E comunque quando qualcosa si prova a fare siamo alle solite, come dimostra il poco rispettoso tira e molla sul vertice che si terrà l’8 ottobre a Milano per discutere di lavoro. Un errore di calcolo pare del resto emergere sull’effettiva consistenza dell’«asse» con la Francia che ha le stesse nostre rivendicazioni, ma che si guarda bene dall’irritare la Germania, debole com’è nelle sue alte sfere politiche. Germania che a sua volta lascia trapelare una certa insofferenza nei confronti di una Italia definita «inconcludente».

Per convincere e ottenere (forse), Renzi, oltre a cambiare l’Europa, doveva e deve cambiare l’Italia. Non può bastare il suo ottimo risultato elettorale alle Europee. Fiducia nell’Italia significa riforme fatte e rese operative senza arenarsi nella vergognosa montagna dei decreti attuativi che non hanno mai visto la luce, significa pochi annunci ma seguiti da riscontri, significa non avere un Parlamento bloccato dai regolamenti di conti interni ai partiti (e qui la colpa non è di Renzi, o non è soltanto sua).

Non vogliamo dire che il premier abbia fatto poco o nulla nei suoi primi mesi di governo. Non sarebbe nemmeno giusto liquidare ora i suoi «mille giorni». Ma un problema esiste, ed è di considerevole entità: se Renzi non capirà alla svelta che un certo atteggiamento retorico («se vogliono la guerra avranno la guerra», ecc.) risulta controproducente in Europa più che mai se non è puntellato da realizzazioni compiute, sarà il suo stesso progetto a finire contro un muro. Un muro che potrebbe chiamarsi Katainen prima ancora di chiamarsi Merkel.

Resta l’ipotesi che Renzi sia arrivato alla conclusione che le resistenze alle riforme siano troppo forti, che si debba andare alle elezioni nel 2015 portando in dote i tentativi riformisti (vani?) cui stiamo per assistere a cominciare dal decreto lavoro. Si capirebbe, allora, che nella sua strategia certi messaggi diretti all’opinione pubblica nazionale prevalgano oggi sulla moderazione dei comportamenti verso l’Europa. Si tratterebbe comunque di un errore, perché il danno fatto renderebbe ancor più difficile una risalita già molto ardua. Ricordate il Telemaco del primo discorso a Strasburgo? Era coraggioso e pieno di speranza. Ma se non cambierà anche lui, assieme all’Italia e all’Europa, Ulisse non riuscirà a trovarlo.

7 a 0 per Renzi

7 a 0 per Renzi

Enrico Cisnetto – Il Foglio

«Uno scalpo per i falchi della Ue». Susanna Camusso credeva di colpire al cuore Renzi sottolineando che l’abolizione dell’articolo 18 rappresenta un prezzo pagato dal governo alle aspettative di Ue, Bce e Germania, ma in realtà gli ha fatto un grande favore. Sì, l’emendamento all’articolo 4 della legge delega sul mercato del lavoro, che di fatto supera la disciplina dei licenziamenti senza giusta causa – per cui le nuove assunzioni a tempo indeterminato verranno fatte con contratti a tutele crescenti in base all’anzianità di servizio – e più in generale il “jobs act” che consente al governo di scrivere un testo unico semplificato che “pensiona” il vecchio (e superato) Statuto dei lavoratori, sono riforme (tardive) che servono al paese ma, soprattutto, rappresentano agli occhi dell’Europa quella certificazione di credibilità politica che serve al premier per evitare che gli venga chiesta entro fine anno una manovra correttiva dei conti.

Non che la riforma del lavoro comporti riduzioni del deficit, ma proprio perché il governo riuscirà, forse, a rimanere sotto il 3 per cento (diciamo 2,99 per cento per capirci) ma certo non entro quel 2.6 per cento per il quale era stato assunto un impegno formale certificato nel Def – sosterremo la tesi che la recessione ci esenta da quella riduzione – ecco che Renzi e Padoan cercheranno di barattare l’una cosa con l’altra. Della serie: vedete che stiamo facendo sul serio realizzando una riforma del lavoro di cui si parla inutilmente da 15 anni e che è carica di significati politici. Ora, questa è la migliore delle garanzie che proseguiremo con il risanamento finanziario e le riforme, perciò non penalizzateci proprio adesso che stiamo facendo questo sforzo. Ecco perché gli strepiti dei sindacati – a proposito, dispiace vedere che nel coro ci siano anche quelli moderati – fanno il gioco del governo, e tanto più i decibel sono alti, tanto maggiore è il valore politico della riforma agli occhi di Bruxelles, Berlino e Francoforte.

Non solo. Siccome nel corteo di chi si straccia le vesti per il tabù infranto dell’articolo 18 ci sono i diversi gruppi interni al Pd – più o meno gli stessi che in questi giorni stanno impedendo la fumata bianca per la Corte costituzionale – anche a costoro non dovrebbe essere difficile capire che il loro ostruzionismo è un grande regalo a Renzi. Perché se è vero, come molti dicono e come è lecito e sensato pensare, che il premier intende andare al più presto alle elezioni anticipate (marzo), ecco che la riforma bloccata dai rigurgiti ideologici della sinistra old style rappresenta la più ghiotta delle occasioni per far saltare il banco e andare alle urne, per di più potendo dire agli italiani, e in particolare a quelli moderati che hanno assicurato a Renzi il balzo al 41 per cento alle scorse europee, che la sua testa è stata fatta saltare dai comunisti e dai rottamati contrari ai suoi progetti di modernizzazione del paese. Viceversa, se la riforma passa e Renzi prosegue nel suo percorso di “mille giorni” – magari anche perché Napolitano gli preclude la strada delle elezioni anticipate, eventualmente dimettendosi a inizio anno (dopo la fine del semestre europeo a presidenza italiana) – ecco che ugualmente questo governo segnerebbe un punto pesante a suo favore, sia per aver dimostrato in Europa che è credibile sia perché metterebbe a tacere, almeno in parte, coloro che in questi mesi si sono lamentati dei tanti annunci e delle poche decisioni prese e portate fino in fondo.

Insomma, per come si è messa la partita, Renzi, piaccia o non piaccia, vince 7-0 come l’Inter con il Sassuolo. Con un doppio warning per lui, però. Entrambi in nome degli interessi generali (cioè i nostri). Il primo è: occhio alle elezioni anticipate. Anche ammesso e non concesso) che il Quirinale dia il via libera, e pur partendo dal presupposto, fondato, che Renzi le vincerebbe alla grande, esse rappresenterebbero un ulteriore rinvio di quella svolta in economia di cui l’Italia ha assoluto bisogno e che, alla fine, sarebbe la vera garanzia di successo per l’ambizione politica di Renzi. Il secondo “avviso di pericolo” è: se la riforma del lavoro passa e il governo prosegue – cioè se elezioni anticipate non ci sono – occhio che non basta abolire l’articolo 18 per far ripartire l’economia. Intanto perché la situazione è così deteriorata che il rilancio non puo che passare da un concorso di circostanze, anche abbastanza ampio. Per il mercato del lavoro, per esempio, occorrerebbe superare anche lo strumento della cassa integrazione – che salva posti di lavoro nella maggior parte dei casi non piu esistenti – e arrivare a una forma di salario di sostegno per i disoccupati che consenta una ristrutturazione del sistema produttivo più profonda e più virtuosa di quella prodotta dalla crisi. E poi perché, nello specifico, l’abolizione dei vincoli contrattuali in uscita ha più un valore simbolico che pratico. Infatti, come ha dimostrato uno studio della Cgia di Mestre, l’articolo 18 interessa solo il 2,4 per cento delle aziende (anche se il 57,6 per cento dei lavoratori dipendenti del settore privato), perche solo 105.500 di esse, su circa 4.426.000 in totale, hanno più di 15 addetti.

L’irrilevanza di Confindustria di fronte all’offensiva renziana sul lavoro

L’irrilevanza di Confindustria di fronte all’offensiva renziana sul lavoro

Il Foglio

In Viale dell’Astronomia, la sede di Confindustria, non si sta preparando alcuna campagna o una qualsiasi iniziativa pubblica e condivisa a sostegno della riforma renziana del mercato del lavoro che invece sta motivando la mobilitazione dei sindacati. A invocare manifestazioni di piazza, e si vedrà con che modalità – magari solo con dei gazebo dai quali distribuire materiale informativo sulle “vertenze e i problemi del lavoro” – sono la Cgil di Susanna Camusso e la Cisl di Raffaele Bonanni parallelamente alla Fiom di Maurizio Landini. Per quanto le sigle sindacali siano affette dalla “annuncite” quando si tratta di proclamare uno sciopero generale (“ne annunciano a prescindere”, ha detto Renzi) in questi giorni stanno confinando il dibattito pubblico alla sola difesa dell”articolo 18. Con l’idea di far passare un messaggio preciso: come si può con il tasso di disoccupazione al 12,6 per cento fare così a mani basse strage di lavoratori? Quando invece si tratterrebbe di incentivare la flessibilità del mercato e, infine, adottare quella linea tracciata dall’ad di Fiat-Chrysler nel 2011 per favorire la prevalenza dei contratti aziendali su quelli nazionali, senza i quali sindacati e Confindustria non avrebbero ragion d’essere.

In verità non sono mancate in questi giorni le prese di posizione confindustriali sul punto più controverso dello Statuto dei lavoratori e sulla necessità di trasformare un mercato del lavoro che ha ingessato imprese e investimenti: dichiarazioni a sostegno sono arrivate dal direttore generale dell’Associazione, Marcella Panucci, e dal presidente di Federmeccanica, una delle strutture principali dell’associazione, Fabio Storchi (“l’articolo 18, come l’insieme delle nostre regole sul mercato del lavoro, non è più ammesso dalla realtà globale in cui le aziende si muovono”). Ma al netto di sparute interviste e dell’apertura di credito piuttosto netta del quotidiano confidustriale di ieri (“Renzi ha rotto gli indugi sull’ultimo tabù della sinistra e sul mondo del lavoro”) non s’ode una voce stentorea o il rumore dei passi di imprenditori marcianti.

Il presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi, che ieri mattina ha incontrato il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, continua anche giustamente a criticare il “pessimismo che si coglie da tante parti”, a denunciare tutti gli ostacoli esterni all’attività imprenditoriale sintonizzandosi con la platea che si trova innanzi (ieri il problema era il divario digitale esposto a un convegno sulle telecomunicazioni) e a sottolineare come l’Italia “non è un ecosistema favorevole alle imprese, agli investimenti e al rischio privato” e “ne abbiamo controprove quotidiane”, ha detto. Questo forse non basta ora che si prepara una rivoluzione per un paese abituato al consociativismo e che necessita di mettersi in linea non tanto con l’Europa – dove pure il lavoro è al centro delle esortazioni della Banca centrale europea e della Commissione, oltre che del Fondo monetario – quanto rispetto ai concorrenti internazionali, dentro e fuori dall’area Ocse.

Quando nel 2002 la Germania era in recessione e rischiava la procedura di infrazione per deficit eccessivo, gli industriali diedero un contributo decisivo attraverso una campagna pubblica ad ampio spettro per invocare riforme improntante alla flessibilità dell’impiego, quelle che poi il cancelliere socialista Gerhard Schröder affidò alla regia dell’allora capo della Volkswagen Peter Hartz. Da Viale dell’Astronomia si è spesso dato prova di sapere curvare il dibattito con tambureggianti iniziative d’impatto. Alcune discutibili (il “Fate presto” del Sole 24 Ore nel 2011 a governo Berlusconi morente), altre capaci di motivare la mobilitazione degli imprenditori “innamorati dell`Italia” (nel febbraio del 2014). Forse ora varrebbe la pena di fare altrettanto.

Renzi è un vero fenomeno da baraccone, premier superfluo e indispensabile allo stesso tempo

Renzi è un vero fenomeno da baraccone, premier superfluo e indispensabile allo stesso tempo

Ishmael – Italia Oggi

Sostiene Matteo Renzi che, per «recuperare il tempo perduto», servono almeno «mille giorni». Con meno, non ce la si fa. Mille è il minimo, e chi lo nega è un gufo o un rosicone. Dipendesse da lui, dipendesse dalle sue maniche rimboccate, o dai bambini delle scuole elementari che gli rivolgono (povere creature) domande compiacenti e salameleccose suggerite dalla signora maestra o dal signor direttore, il signor premier farebbe anche più in fretta. Ma il mondo è pieno di brutti ceffi: di «benaltristi», per esempio, e di miscredenti, i quali negano che negli 80 euro si siano incarnate insieme la Giustizia Sociale e la Provvidenza Divina – l’una onnipotente, l’altra misericordiosa.

Mezzo parlamento gli si è rivoltato contro? Renzi ha illustrato il suo «programma dei mille giorni» senza entrare nei dettagli e, in buona sostanza, senza illustrare alcunché ma distribuendo, in compenso, potenti sganassoni ai suoi nemici e avversari. Costoro, invece d’incassare in silenzio, hanno risposto leccando gelati, pazziando e fischiando, agitando bandiere. Dispiace dar loro ragione, perché gli avversari del premier sono i soliti, irriducibili nemici della ragione: Movimento 5 Stelle, ex comunisti, post dicì de sinistra, berlusconiani di scuola falchesca.

A costoro vien voglia di dare sempre torto, per partito preso e a prescindere, nella certezza che, come parlano, i politici e gli antipolitici provocano catastrofi. Sempre nel torto, costoro hanno tuttavia ragione a non poterne più dell’esecutivo, il più vanaglorioso e frivolo della storia repubblicana, di fronte al quale si scappella, riconoscendone il primato, persino l’intero corpo di ballo del bunga bunga, da Nicole Minetti e Ruby «Rubacuori» in giù. Eppure anche Renzi non ha torto quando se la prende con tutta questa genia di benaltristi e rosiconi. È il primo leader italiano dai tempi di Craxi a sfidare apertamente i magistrati e la nomenklatura sindacale. Nessun rosicone, gufo o benaltrista aveva mai osato tanto.

Forse Renzi è un millantatore quando assicura che cambierà l’Italia in capo a mille giorni da oggi. Ma gli ex democristiani di sinistra e i post comunisti li ha rottamati davvero, e mica tra mille giorni, ma cinque o sei mesi fa, e definitivamente. Renzi è una specie di fenomeno da baraccone. Riesce a essere un premier superfluo e indispensabile nello stesso tempo. Non so come ce ne sbarazzeremo. E neanche se ce ne sbarazzeremo.

Dalla ragione su tutto alla ragione su niente

Dalla ragione su tutto alla ragione su niente

Italia Oggi

Un tempo i matti erano gli altri, i «destri», quelli che ignoravano l’Abc del retto pensiero progressista in tema di cinema, d’economia, di balletto classico, di cucina, di filosofia e soprattutto di lavoro. Adesso i matti sono loro. A dirglielo è il loro stesso segretario generale: avete torto su tutto, sulla cultura, sull’economia e sul balletto classico, sui formaggi tipici e sul cinema, ma soprattutto avete torto in fatto di lavoro.

Per trent’anni non hanno mai smesso di difendere l’art. 18 (è l’articolo dello Statuto dei lavoratori, aprendo una parentesi, che negli anni settanta i comunisti avevano avversato di più) e adesso Renzi lascia che se ne parli come d’un malato terminale: due fiori, una prece e amen, si torna alle regole del mercato. Sono diventati tutti dei «Fassina chi» e dei «Bersani cosa». A lungo, per esempio nelle fantasie letterarie degli opinionisti di Repubblica, i progressisti sono stati dipinti come X-Men dei fumetti: mutanti, antropologicamente superior, una o due spanne sopra l’homo sapiens. Tutti pendevano dalle loro labbra. Adesso parlano e nessuno li capisce più. Sono sbertucciati da tutti. Dal Comico, dal loro stesso segretario, tra un po’ anche da Repubblica.

Prima o poi ci arrivano

Prima o poi ci arrivano

Raffaele Marmo – La Nazione

«Prima o poi ci arrivano, magari ma ci arrivano. Il problema è che non si guardano mai indietro e non contano mai i danni fatti nel frattempo». La chiosa è di un vecchio sindacalista che ne ha viste tante, quando parla della Cgil e dell’attuale sinistra Pd. È stato così proprio con lo Statuto dei lavoratori, non votato dall’allora Pci e mal visto dalla stessa Cgil e oggi difeso come fosse il frutto migliore della loro storica azione. Ma è stato cosi anche con il decreto di San Valentino sul taglio della scala mobile, contrastato sempre da Pci e Cgil-tendenza Botteghe Oscure fino a giungere al referendum dell’85 (clamorosamente perso, per inciso): salvo poi sostenere che la politica dei redditi, con annessa concertazione, aveva salvato l’Italia dalla bancarotta. Manca ancora un po’ e analoga sorte toccherà alla Legge Biagi, quando magari verrà messa pragmaticamente in discussione perché superata o superabile.

Ma fermiamoci qui. Sarebbe lungo l’elenco degli appuntamenti con la storia rispetto ai quali la sinistra-sinistra politico-sindacale, è arrivata con decenni di ritardo. E, dunque, non poteva che essere così anche nel passaggio cruciale di questi giorni nei quali vengono poste le premesse per il superamento dell’articolo 18. Senonché, a fare oggi la differenza, è che il presunto «attacco» ai diritti dei lavoratori non viene dalla «destra» sostanziale o formale (Craxi, Berlusconi) o dai «padroni», ma da colui che, fino a prova contraria, è il leader del loro partito. Da qui il disorientamento, la complicazione del quadro di riferimento, anche l’incapacità del «che fare» che attanaglia la sinistra di estrazione Ds-Cgil.

È saltato, insomma, il vecchio modello, all’interno del quale era agevole distinguere «buoni» e «cattivi», salvo accorgersi poi, a distanza, che i «cattivi» magari avevano avuto ragione. Questo è sicuramente un merito – il più importante a oggi – di Matteo Renzi: aver fatto saltare il comodo e confortevole schema di gioco che ha permesso alla sinistra poco riformista e tanto massimalista di non dover fare i conti con i propri errori. Non a caso è il primo vero atto blairiano del suo governo, all’insegna di quel passaggio – la rottura con la sinistra interna – che segnò la nascita del New Labour, perché, come avvisò Tony Blair nel 1995, «values don ‘t change, but times do», i valori non cambiano, ma i tempi sì.

L’asta può attendere

L’asta può attendere

Giuseppe Turani – La Nazione

Il cavallo non beve? Ci sono i soldi ma le imprese li lasciano nelle banche? Probabilmente sì. La Bce ha messo a disposizione delle banche una prima tranche dei 400 miliardi stanziati da qui a dicembre. Ci si aspettava che in questa prima asta le richieste fossero almeno di 100 miliardi. Invece ci si è fermati poco sotto quota 83 miliardi. Mario Draghi, cioè ha messo sul tavolo 100 miliardi, ma non sono stati ritirati nemmeno tutti dalle banche (che avrebbero dovuto rigirarli alle imprese). Ma non c’era l’intera Europa affamata di soldi da investire? La vicenda è un po’ più complessa.

Intanto, questa prima assegnazione di fondi è caduta proprio nel giorno del referendum scozzese. Le banche, non sapendo quale sarà la situazione dell’euro il giorno dopo, hanno preferito muoversi con i piedi di piombo. Inutile rischiare quando si potrà partecipare alle altre aste. La seconda ragione della prudenza è molto tecnica. A ottobre scattano per le banche europee gli stress-test. Si faranno prove per vedere come i bilanci degli istituti reagiscono di fronte a una serie di difficoltà. Le banche lo sanno e si sono preparate (come hanno potuto). In pratica dovrebbero avere tutte i bilanci a posto, in grado di superare gli stress-test. In queste condizioni hanno preferito non complicarsi troppo la vita imbastendo operazioni finanziarie nuove a pochi giorni dall’avvio dei test.

Anche perché i soldi della Bce si potevano ritirare solo a fronte di reali prestiti alle aziende o alle famiglie. In sostanza, bisognava impostare delle operazioni di credito che invece si è ritenuto più prudente rinviare al fine di non “sporcare bilanci che, almeno in teoria, così come sono dovrebbero essere in grado di superare le prove previste. Ma quasi certamente c’è anche il fatto che le banche europee non hanno davanti ai loro sportelli la fila di aziende che chiedono soldi per nuovi e vantaggiosi investimenti. E la cosa è abbastanza comprensibile.

L’economia europea è quasi ferma (quella italiana va addirittura indietro). In queste condizioni anche l’imprenditore più avventuroso si guarda bene dall’investire visto che poi non saprebbe a chi vendere i suoi prodotti. Sembra di capire (ma bisognerà attendere le prossime aste) che mettere soldi sul tavolo non basta: bisogna anche che esista un mercato, cioè gente che abbia la voglia di fare acquisti e di spendere soldi. Oggi non è così.

La liquidità da sola non basta

La liquidità da sola non basta

Carlo Bastasin – Il Sole 24 Ore

Ci sono limiti a quello che la politica monetaria può fare, oltre i quali spetterebbe alla politica fiscale dei governi intervenire, sostenere direttamente l’economia e la domanda aggregata. Il modesto esito della prima operazione di credito mirato e a lungo termine (Tltro) è probabilmente una testimonianza dei limiti della Bce. Quella di ieri non rappresenta una lezione conclusiva, vi sono infatti anche ragioni tecniche dietro al collocamento di solo metà dell’ammontare di crediti che era stato stimato.

Tuttavia la bassa domanda per prestiti quasi senza costo, di durata lunga e da destinare alle imprese, inevitabilmente accentua i dubbi sullo stato dell’economia reale e sulla possibilità che sia la politica monetaria a scioglierli. Nella media dell’area euro il credito alle piccole e medie imprese non è più limitato dalla disponibilità di fondi quanto in passato, ma pesa un’incertezza ancora grave sul futuro.

Il rischio di deflazione, per esempio, renderebbe il livello dei tassi reali non così favorevole come sembra. Inoltre è ancora in corso un processo di riduzione dei debiti, e questo comprime l’effetto di ogni politica monetaria espansiva. Alla fine la maggiore offerta di credito finisce per essere poco utile alla crescita, o secondo la nota metafora, finisce per spingere invano una corda.

Nelle statistiche europee spicca la coincidenza tra debolezza del credito bancario e degli investimenti. Nei paesi europei più vulnerabili d’altronde le condizioni incerte dei debitori pesano sia sull’offerta sia sulla domanda di credito e la caduta degli investimenti è stata particolarmente forte. Ma chi si aspettava più adesioni all’offerta della Bce, osserva che nell’operazione di ieri si sono fatte sentire soprattutto le defezioni delle banche di paesi non della periferia. Alcune di esse hanno voluto evitare di apparire bisognose di fondi proprio alla vigilia della valutazione dei bilanci. Ma in realtà sono mesi che, nonostante la disponibilità di denaro a buon mercato, il credito non sta crescendo nemmeno nei paesi più solidi dell’area euro.

La scarsa domanda di credito delle banche dei paesi più saldi si aggiunge alla diagnosi di chi ritiene che l’area dell’euro sia scivolata in una trappola della liquidità; che i problemi dell’economia siano soprattutto nel vuoto di investimenti; o si nascondano in un’incertezza più insidiosa sul futuro dell’Europa che affonda le sue radici sotto l’intero territorio economico dell’euro-area. Se è così, è possibile che anche altre iniziative della Bce – l’acquisto di titoli da cartolarizzazione (Abs) o perfino quello di titoli sovrani – abbiano un impatto insufficiente su un’economia reale che non vuole investire e non può consumare.
Prima di trarre conclusioni bisognerà attendere che si chiarisca tra poche settimane lo stato delle banche europee, con l’esito dell’analisi dei bilanci e la revisione degli attivi. A quel punto sarà chiaro quali istituti avranno bisogno di ricapitalizzarsi. Per banche più solide sarà possibile assumersi il rischio tipico delle fasi di transizione dell’economia, l’asimmetria informativa che durante le crisi rende più difficile al creditore valutare le reali prospettive del debitore. Ma a patto che si riesca a ricostruire un po’ di fiducia nel futuro. E per farlo non è indispensabile fare davvero tutte le cose inutili prima di fare quella necessaria: senza rilanciare la fiducia, le aspettative non possono cambiare.

Non è un compito che si può lasciare solo alla Bce. L’operazione di ieri getta anzi un’ombra sull’obiettivo della Bce di aumentare rapidamente il proprio bilancio. La quantità di credito che la Bce intende immettere nei prossimi mesi è davvero grande, poco meno di mille miliardi di euro. Ma nelle complesse circostanze attuali, l’effetto dell’offerta di credito non sembra dipendere dal volume, quanto dall’effettivo beneficio per il debitore: può essere il trasferimento di rischi a carico del creditore oppure un costo del denaro eccezionalmente conveniente. In entrambi i casi, la politica monetaria tenderebbe però ad assumere caratteri fiscali, che spetterebbero invece ai governi. Quando la Bce ha chiesto ai governi di farsi carico dei rischi dei titoli cartolarizzati, la risposta di Germania e Francia è stata negativa, come se si fosse ormai accettato che la politica fiscale comune finisca nascosta dentro al bilancio della Banca centrale. Non è un buon modo per convincere i cittadini, i risparmiatori e gli investitori, ad avere fiducia nella volontà politica europea.

Il credito riparte quando c’è crescita

Il credito riparte quando c’è crescita

Alessandro Plateroti – Il Sole 24 Ore

Il primo colpo di bazooka contro la crisi è andato a vuoto: l’asta Bce dei prestiti agevolati per riattivare l’erogazione del credito in Europa è andata ben al di sotto delle aspettative, creando così seri interrogativi sull’efficacia della manovra per favorire la ripresa manifatturiera e sulla necessità di interventi monetari più radicali. Se le banche hanno chiesto infatti meno del previsto – 82,6 miliardi a fronte di aspettative per quasi 150 miliardi di euro – significa che le tensioni e le incertezze che si vedono ancora all’orizzonte, soprattutto sul fronte economico, rendono del tutto superflua un’ulteriore provvista di liquidità da riservare all’attività di lending per le piccole e medie imprese: senza la domanda, la maggiore offerta ha poco senso.

L’asta Tltro ha messo a disposizione delle banche quasi 400 miliardi di qui al 2016, da rimborsare in quattro anni. E l’ha agganciata a una condizione ben precisa: se la banca non utilizza il prestito per aumentare le erogazioni alle piccole e medie imprese non finanziarie, dovrà restituire l’intero ammontare entro due anni. Una condizione “tagliola”, questa, voluta espressamente dallo stesso Mario Draghi per scoraggiare il ricorso ai prestiti di Francoforte solo per poi acquistare titoli di Stato: «I prestiti – ha detto a chiare lettere Draghi – devono essere contratti solo per finanziare l’economia reale». Se l’intenzione e gli obiettivi dell’operazione erano (e sono) dunque buoni – in Inghilterra la ripresa del credito si deve proprio a una manovra analoga lanciata dalla Bank of England (loan for lending) – resta da capire perchè le banche dell’Eurozona non si siano presentate in massa allo sportello.

Anche se conclusioni più certe e definitive sulla partecipazione delle banche al programma per le pmi si avranno non prima di dicembre, quando scatterà la seconda delle 6 aste Tltro programmate dalla Bce per un totale di 400 miliardi, l’esito dell’assegnazione di ieri non è stata del tutto una sorpresa nemmeno a Francoforte: non solo perchè l’asta è caduta proprio alla vigilia della pubblicazione degli stress test sui bilanci bancari – un esame che mette in tensione le banche e le spinge alla prudenza – ma soprattutto perchè è ormai da tempo che la stessa Banca centrale europea va ripetendo che le manovre sulla liquidità servono a stabilizzare il mercato finanziario, ma possono fare poco o nulla per rilanciare l’economia europea e soprattutto quella dei paesi periferici dell’Eurozona la cui ripresa (anche in termini di investimenti esteri e di fiducia dei mercati) molto dipende dalle riforme strutturali, dal varo di efficaci politiche industriali e soprattutto dalla capacità della classe politica europea di rispondere con nuove politiche di bilancio più flessibili alle sfide di una crisi che non si può più nemmeno definire a macchia di leopardo.

Il non aver affrontato per tempo la crisi industriale e occupazionale in Paesi chiave dell’Unione Europea – come per esempio l’Italia – ha generato infatti una sorta di effetto-domino sulle economie circostanti, fino a ostacolare la ripresa in paesi-guida come la Germania o a peggiorare situazioni già in bilico come quella francese. Ora che lo stallo dell’economia europea è chiaro a tutti – come confermano i recenti allarmi di tutte le organizzazioni economiche e finanziarie internazionali, dall’Fmi all’Ocse fino all’Eurotower di Mario Draghi – il vero nodo della questione è che cosa farà Bruxelles sul fronte politico per dare peso, sostanza e prospettive alla manovra di stimolo monetario appena avviata da Francoforte. Qui non si tratta più solo di discutere i margini di flessibilità fiscale che ogni Paese ha il diritto di avere per fronteggiare una crisi economica, ma di fare almeno tre passi in più: dare un ruolo alla Commissione nel decidere piani di intervento di sostegno straordinario per i casi di crisi industriale più acuta a livello nazionale o regionale, aumentare il bilancio della Ue per dotarlo di risorse ad hoc da utilizzare nel sostegno dell’occupazione laddove le crisi industriali hanno superato il livello di guardia. Non ultimo, rivedere il sistema di regole sulla stabilità del mercato finanziario e dell’industria bancaria per ridurre, se non temperare, quelle norme chiaramente pro-cicliche che hanno costretto le banche di ogni tipo e dimensione a stringere il credito per sostenere (o evitare) drastici interventi di ricapitalizzazione e pulizia dei bilanci.

Oggi per una banca è estremamente oneroso non solo detenere partecipazioni azionarie nelle aziende – fenomeno tipico dei mercati come il nostro in cui il ruolo del mercato dei capitali è stato tradizionalmente svolto dal settore bancario – ma anche erogare credito alle piccole e medie imprese, che sono non a caso le più colpite dal credit crunch. Secondo i parametri di Basilea 3, la banca che presta soldi a una piccola azienda la cui solidità o patrimonializzazione non è eccellente (e quale Pmi non si trova oggi in questa situazione?) è costretta a effettuare accontamenti che si avvicinano ormai alla stessa entità del prestito: a che serve allora dotarsi di liquidità aggiuntiva? In conclusione, il flop dell’asta Tltro è in realtà un messaggio molto chiaro lanciato dalle banche ai governi e alle istituzioni europee: la liquidità è utile per sostenere il mercato finanziario, per uscire dallo spettro della deflazione e per rafforzare il patrimonio del settore creditizio attraverso gli acquisti di titoli di Stato. Ma se l’obiettivo è quello di rilanciare l’economia, serve molto di più del denaro facile: servono politiche industriali per indirizzare gli investimenti delle imprese, serve un’Europa più consapevole dell’interdipendenza che lega i destini – e le economie – dei suoi stati membri.