Edicola – Opinioni

I conti non tornano, o si vende o si tassa

I conti non tornano, o si vende o si tassa

Marco Bertoncini – Italia Oggi

C’è stata prima un’offensiva di anticipazioni su prelievi pensionistici, manovra correttiva, patrimoniale. Il clima è subito divenuto pessimo per il governo, specie per il dispensatore di ottimismo Matteo Renzi. Arriva allora la controffensiva, con le volutamente tranquillizzanti frasi del sottosegretario Graziano Delrio (che con l’intervista a la Repubblica riacquista quel ruolo di «Gianni Letta di R.» che pareva aver perduto) e con le solite battute dello stesso presidente del Consiglio.

Tutto bene? No. Senz’altro, specie in agosto, i retroscena dei giornali sono sovente pure bufale. Molte ipotesi sono frutto di riflessioni di personaggi senza ruolo istituzionale.

Peccato però che, partendo dal superministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, vi fossero fonti ufficiali a far testo delle minacce o, se si vuole, delle preoccupazioni. Quando il sottosegretario Pier Paolo Baretta se ne esce dichiarando «Chi guadagna fino a 2 mila euro netti di pensione al mese può stare assolutamente tranquillo», il risultato è semplice: allarmare centinaia di migliaia di pensionati (sia con più di 2 mila euro netti, sia titolari di più pensioni), oltre quelli che percepiscono, poniamo, 1.500 euro e che ben sanno come si parta dall’oro per colpire l’argento e arrivare al bronzo o dai «ricchi» (da far piangere) per spingersi presto ai ceti medio-alti prima, ai medi poi.

Il guaio è in radice. Poiché non si procede con le grandi riforme strutturali (alienazioni del patrimonio pubblico, liberalizzazioni, privatizzazioni, revisione del sistema sanitario nazionale, riscrittura del comparto di regioni, enti locali ed enti pubblici), si finisce col tirar fuori del cappello aumenti tributari o, ancora, soluzioni tampone e insufficienti.

Saranno droga, prostituzione e mafia a salvare i conti del 2014

Saranno droga, prostituzione e mafia a salvare i conti del 2014

Sergio Soave – Italia Oggi

Matteo Renzi ironizza sulla discussione agostana sulle intenzioni «segrete» dell’esecutivo e in particolare sulle ipotesi che circolano di riduzione delle pensioni o di aumento delle tasse, come se si trattasse soltanto di elucubrazioni giornalistiche prive di fondamento o magari animate da ostilità politica. In questo caso, però, il sarcasmo del premier non è giustificato. Renzi ha ammesso che la crescita prevista per quest’anno non ci sarà, ha insistito a garantire che l’Italia manterrà gli impegni sul deficit, e questi due elementi dicono che mancano almeno cinque miliardi. Se si aggiunge che già la legge di Stabilità in vigore prevede che nel caso in cui non si raggiungano gli obiettivi si ricorrerà a un abbattimento lineare delle detrazioni (cioè a un aumento della tassazione) si vede che l’attesa di nuove tasse, che può essere surrogata solo da riduzioni di spesa che incidono sui grandi aggregati, l’unico dei quali che si può aggredire in tempo per ottenere un effetto sul bilancio dell’anno in corso è la previdenza, è tutt’altro che campata per aria.

D’altra parte, se le cose stanno davvero come dice il premier, il suo obiettivo polemico dovrebbero essere i membri del governo che si sono spesi per spiegare che una riduzione delle pensioni chiamate d’oro (ma che sarebbero quelle superiori a 2 mila euro) sarebbe tutto sommato equa. Renzi spiega che invece i risparmi ci saranno e saranno riduzioni di spesa pubblica, ma è lecito dubitare che queste, se non riguardano la previdenza, possano produrre effetti contabilizzabili nell’ultimo trimestre dell’anno. Probabilmente quello su cui il governo conta è l’effetto del mutamento della base statistica su cui si calcola il prodotto interno e quindi ovviamente la percentuale di deficit. Se in questo modo si aumenta il pil formalizzato si può aumentare il deficit mantenendolo all’interno dei vincoli europei, ma questo artificio si può applicare una volta sola e il problema si riproporrà, aggravato, nell’anno prossimo, nel quale peraltro, dovrebbe cominciare a operare la tagliola infernale del fiscal compact. Sarebbe ingeneroso attribuire al governo la responsabilità della situazione deflattiva che si è creata e che coinvolge quasi tutta l’Europa. Ma è altrettanto ingiusto accusare di strumentalità chi, facendo quattro conti, chiede al governo di spiegare come intende fronteggiare le conseguenze negative di un ciclo che non corrisponde alle previsioni troppo ottimistiche. E se si fa uso di troppa fantasia è anche perchè da parte del governo non si eccede certamente in chiarezza.

Il sommerso nel Pil non ci riporta a galla

Il sommerso nel Pil non ci riporta a galla

Francesco Forte – Il Giornale

La rivalutazione del Pil dell’Italia, che l’Istat farà fra circa un mese, costituisce, per Renzi che si dibatte fra cattive statistiche, un piccolo ma non trascurabile aiuto. Il nuovo calcolo farà scendere la pressione fiscale ufficiale anche se i contribuenti pagheranno le cifre esorbitanti di prima. Anche la spesa pubblica risulterà più bassa sul Pil, anche l’importo rimane eguale. E il rapporto del debito pubblico col Pil scenderà. Un buon aiutino arriverà a Renzi per il deficit in percentuale sul Pil. Se – in ipotesi – per il 2015, prima delle manovre correttive, il deficit è stimato in 48 miliardi, su un Pil di 1.600 miliardi, esso risulta il 3%. L’aumento del 2% del Pil porterà quest’ultimo a 1.632 miliardi, farà scenderà il deficit al 2,94%: 0,6 punti in meno, risparmiando 9,6 miliardi alla manovra correttiva. Questa rivalutazione del Pil dell’Italia avverrà, provvidenzialmente per Renzi, a ridosso della legge di bilancio per il triennio 2015-2017. Essa però non è una escogitazione né del premier fiorentino né dell’Istat. Deriva da una decisione dell’Unione europea per tutti i Paesi membri, che nasce dalla necessità di adeguare il calcolo europeo del Pil ai criteri degli Stati Uniti e altri Paesi. La rivalutazione comporta di includere nel Pil i proventi di attività, che in Italia (e in qualche Stato europeo) sono vietate o semi legalizzate come i traffici di droghe e di prostituzione, che altrove sono invece ampiamente legalizzati. Ma l’impatto sarà limitato anche perché le prostitute e prostituti a volte si chiamano «escort»; i traffici di droghe sono in parte già inclusi nell’economia sommersa, che in Italia viene valutata con indicatori presuntivi (per difetto) al 18%. Soprattutto, verranno incluse nel Pil le spese di ricerca, che in Italia sono considerate costi senza utile e quelle per gli investimenti per la difesa, che per l’Unione europea, per una scelta ideologica adesso non sono veri investimenti. Il calcolo del Pil in più è scivoloso. Per la «prostituzione», concetto labile, e per la droga, di cui si hanno vaghe stime, l’Istat intende fare una correzione del Pil molto limitata. La ricerca scientifica (difficile da definire) può dar luogo a una rivalutazione più consistente. Fra gli investimenti nella difesa verranno inclusi solo quelli fatti con beni comprati all’estero.

I beni nazionali sono già compresi nel prodotto delle imprese italiane. Si pensa che, con questa rivalutazione, il nostro Pil si accresca di circa 1/2 punti che vanno considerati anche per gli anni passati. Dunque se il Pil è, in ipotesi, 1.600 miliardi, col 2% in più, diventerà 1.632. La pressione fiscale di 704 miliardi su 1.600 di Pil è il 44%. Su 1.632 sarebbe 43,03. Se le spese pubbliche sono 784 miliardi scenderanno dal 49% al 47,98% del Pil. Il debito pubblico di 2.160 miliardi scenderà dal 135 al 132,35% del Pil. La rivalutazione del Pil non riduce di un euro il sacrificio fiscale che, per ogni famiglia e impresa, rimane quello di prima. E Renzi è pregato di non prendere il giro il contribuente. Prostituzione e droga, non pagano le imposte ora e non le pagheranno con la rivalutazione. Per la ricerca, il regime fiscale non muta.

Gli acquisti dall’estero di beni d’investimento per la difesa produrranno, come ora, reddito fiscale all’estero. Sembrerà che noi abbiano meno debiti. Ma gli interessi e i rimborsi futuri sono gli stessi. E il deficit produrrà tanto nuovo debito come prima. Per finire, la rivalutazione del Pil non farà aumentare il misero trend della crescita italiana. Infatti le rivalutazioni accresceranno il Pil passato e futuro d’analoghe percentuali. Perciò i rapporti fra tali Pil non mutano. I disoccupati rimarranno una cifra enorme. Questo ritocco non è un alibi per rimandare le riforme.

Prodotto interno lurido? Allora legalizziamo prostituzione e spinelli

Prodotto interno lurido? Allora legalizziamo prostituzione e spinelli

Gianluigi Paragone – Libero

Scusate, ma se parte dei proventi delle attività illecite vanno bene per gonfiare un po’ di pil europeo e quindi ritarare il debito (soliti trucchetti da pezzenti…), domando: perché non vogliamo aprire gli occhi su droga e prostituzione? Perché alcol, sigarette e gioco d’azzardo possono rientrare nell’elenco dei buoni, mentre droga e mignotte no? O meglio, no con qualche se e qualche ma perché resta sempre vero che il denaro non puzza. Il ricalcolo del pil italiano non può essere liquidato come tema ragionieristico, varrebbe la pena (e qui lo faccio) di finirla con questo finto perbenismo tutto italiano e di legalizzare prostituzione e droghe leggere. Sulla prostituzione soprattutto sarebbe ora di 1) abrogare la legge Merlin; 2) legalizzare l’esercizio sessuale in casa; 3) creare quartieri a luci rosse; 4) tassare l’attività delle lucciole. Ci sarebbe un quinto che però appartiene al costume: la libertà sessuale.
Quando ne parlo mi sento ripetere che uno stato magnaccia sarebbe inopportuno. A parte che ormai se lo stato fosse solo magnaccia sarebbe il minore dei mali, ma spiegatemi perché il gioco d’azzardo sì, l’alcol sì, il tabacco sì e le droghe leggere (cannabis) e la prostituzione no. La prostituzione è nella pelle delle nostre città ma nel controllo quasi totale di organizzazioni criminali. Inoltre chiudiamo gli occhi sull’esercizio della prostituzione in casa, pubblicizzata su giornali e siti internet: ci vuole nulla per farsi una trombata in santa pace.

C’è un mercato enorme su scambi e offerte di prestazioni che non capisco il motivo per cui debba stare sommerso e oscuro. Per non dire dei vari giocattoli e attrezzi sessuali che fanno la felicità di venditori e produttori. Insomma,il sesso ci circonda e siccome quello a pagamento si consuma sotto i nostri occhi (farisaicamente chiusi) forse è il caso di fare i conti con l’oste.

L’errore più grossolano che si commette ogni volta che si affronta l’argomento è condizionarlo a un registro morale. Sapete che vi dico? Chissenefrega della morale! Piantiamola. Insisto, se c’è un’attività che non conosce crisi è quella legata al sesso, quindi – siccome fa meno male dell’alcol e del gioco d’azzardo – sbrighiamoci a uscire dalla Merlin. Il sesso straborda in ogni luogo, reale e virtuale: insomma non c’è una sola ragione per non legalizzare la prostituzione e non far godere così anche il gettito fiscale. A meno che non si voglia darla vinta ai bacchettoni in mutandone.

Infine non mi sta affatto bene che per sistemare la contabilità si debbano inserire proventi in mano alla criminalità; se quel denaro non puzza allora cerchiamo di sottrarlo ai criminali. Vale per la prostituzione così come per alcune droghe. Quelle leggere. La cannabis, almeno. Perché non si può vendere in appositi coffee shop? In America si è aperto un dibattito politico, prima ancora che giuridico, sull’uso della marjuana. Ci sono Paesi dove la vendita e il consumo sono leciti senza tanti alambicchi normativi. Aggiungo che nemmeno sullo spaccio hanno senso alcune osservazioni critiche visto che ogni volta che si debbono fare i conti con colpi di spugna gli spacciatori sono i primi a fare festa.

Un’ultima considerazione. Spendo alcune righe sul fatto che la cannabis è una droga ormai superata, poco attrattiva tra i giovani i quali “debuttano” spesso con le droghe sintetiche assolutamente più dannose del vecchio spinello. Lo dico per abituarci all’idea che anche le sfide che ci pongono le nuove generazioni sulle tossicodipendenze sono già più avanti del dibattito politico.

Per chiudere. Se puttane e droga valgono bene un’aggiustatina dei conti economici, allora, cari politici, giù la maschera. Legalizziamo.

Riforme? Cominciamo dalla Bce

Riforme? Cominciamo dalla Bce

Gaetano Pedullà – La Notizia

Come si fa a chiedere agli altri di fare qualcosa che poi non si sa fare con se stessi? La domanda certamente non sfiora Mario Draghi, lodato presidente della Banca centrale europea, ma proprio per il suo caso riguarda tutti noi. Draghi, ieri a summit economico di Jacksone Hole, è tornato ad annunciare misure anche non convenzionali per sostenere la ripresa in Europa, e a chiedere contemporaneamente ai singoli Stati di non rinviare più le necessarie riforme strutturali. Ora chi segue appena un po’ l’economia ricorderà che la Bce promette misure non convenzionali da anni. Cosa sono queste misure? In sintesi l’immissione di un po’ di liquidità per contrastare una crisi che è economica ma anche monetaria. Con un euro che vale il 30% più del dollaro è chiaro che l’export delle imprese europee è mostruosamente sfavorito e di conseguenza naturale che ci siano meno opportunità di lavoro. Tutto qui? No, perché altro grandissimo problema è la spaventosa stretta creditizia sotto gli occhi di tutti. A chi tocca governare questi problemi: agli Stati o alla Banca centrale? Ovviamente alla Bce, che però da anni promette e ripromette ma poi non fa nulla solo perché i tedeschi non vogliono. Fatto salvo che riformare regole vecchie come quelle che abbiamo non solo in campo economico è sacrosanto, non è che insieme all’azione riformatrice dei singoli Stati sia arrivata l’ora di riformare la stessa Banca centrale? Anche perché la Fed americana promette, promette ma poi i tassi del dollaro non li alza. Ma a Francoforte evidentemente voglia di cambiare non ce n’è.

Date una pensione a Renzi e Poletti

Date una pensione a Renzi e Poletti

Giorgo Mulè – Panorama

Nei piani del governo, quello sulle pensioni doveva essere un blitz: improvviso e, aggiungo io, improvvido. Me lo confidò, lunedì 4 agosto, una mia fonte assai addentro ai segreti ministeriali. Con dovizia di particolari elencò le misure del blitzkrieg fissato per ottobre che prevedeva tra l’altro il varo dell’ennesimo e ipocrita «contributo di solidarietà», la rimodulazione degli assegni calcolati con il metodo retributivo e la revisione delle pensioni di reversibilità. Scrivemmo tutto, ovviamente, e giovedì 7 agosto mandammo in edicola la copertina di Panorama (numero 33) con Matteo Renzi nelle vesti di un vampiro e il titolo: Il prelievo. Nessun giornalone, nei giorni seguenti, approfondì la notizia. Normale, nel provincialismo editoriale italiano. Fin quando domenica 17 agosto il ministro del Lavoro, Guliano Poletti, ha confermato tutto con un’intervista al Corriere della sera. Il resto lo state leggendo in questi giorni (ben svegliati, colleghi) e continuerete a leggerlo nelle prossime settimane.

Sono circa 300 i miliardi che l’Italia paga ai pensionati ogni anno. Per ogni governo si tratta di una categoria bancomat: non c’è manovra, manovrina o manovrona che li abbia risparmiati. Le storture non mancano, per carità, ed è giusto intervenire anche in profondità. Il problema è che bisogna farlo con raziocinio e non a colpi di rapine indiscriminate. Evitando, soprattutto, azioni demagogiche modello Robin Hood come quella in corso: è profondamente sbagliato dipingere il titolare di una pensione da 3.000 euro come un ricco sfondato e quindi meritevole di essere spennato per cedere parte dei suoi soldi a chi ne ha di meno. Perché il pensionato che perderà soldi si sentirà povero e impaurito e spenderà ancora di meno rispetto a oggi mentre l’altro pensionato (già terrorizzato dalla congiuntura attuale e fresco di fregatura dal mancato arrivo degli 80 euro) che ne prenderà poco di più non si accorgerà neppure dell’incremento.

E mentre lor signori discettano di quanto e a chi rapinare, che cosa c’è da aspettarsi se non l’ennesima gelata sui consumi da parte di coloro che con quei 300 miliardi equivalgono al 20 per cento del prodotto interno lordo? Nella platea dei «ricchi» pensionati chi spenderà un euro in più oltre lo stretto necessario? Non ci vuole un economista di Harvard per enunciare questo banale parallelo, lo sanno perfettamente al ministero dell’Economia e pure a quello del Lavoro e lo ha sottolineato un insospettabile come Stefano «chi?» Fassina.

Alla radice di tutto c’è un problema di cultura di governo. Il ministro Poletti è una degnissima persona, un “tecnico” chiamato da Renzi: ma si è nutrito di pane e comunismo (pochissimo il pane) fin da quando aveva le brache corte. Nel defunto Partito comunista ha ricoperto incarichi importanti, è stato custode di quell’ortodossia maledetta nella rossissima Imola negli Anni 80. Che cosa c’è da aspettarsi da un ministro così se non un prelievo dalle pensioni che lui si ostina a chiamare «d’oro»? Inutilmente s’è atteso il colpo d’ala dal sempre assai loquace Renzi, una frasettina tipo: «Suvvia Giuliano, nun di’ bischerate». Macché, muto è stato. Poi, tanto per tenersi sulle generali, ha scritto un tweet che però non smentisce nulla: dice vagamente che i giornalisti a Ferragosto si inventano cose che il governo non ha neppure pensato. Ma a quali cose si riferisce? Tweet da Sibilla cumana.

Comincio a pensare che Renzi, oltreché muto, sia pure sordo. Al premier, che pure dall’orecchio destro, quello delle riforme, sembra recepire qualche segnale, bisogna sturare al più presto l’orecchio sinistro, quello dell’economia: deve avere un tappo che puntualmente gli impedisce di sentire. E, ahinoi, di cogliere la realtà.

Risparmi e rendite più forti della crisi, imprese in ginocchio, a picco gli attivi

Risparmi e rendite più forti della crisi, imprese in ginocchio, a picco gli attivi

Federico Fubini – La Repubblica

È un’italia a tre velocità quella che riemerge dai sette anni più turbolenti per l’economia. Dal giorno in cui Lehman Brothers portò i libri in tribunale, alla fine dell’estate del 2008, il Paese ha iniziato la sua traversata del deserto marciando in tre direzioni diverse: si è molto rafforzato il patrimonio lordo delle banche; ha resistito egregiamente quello, già cospicuo, delle famiglie; è crollata invece la ricchezza delle imprese, già in partenza anormalmente ridotta. Giunto al settimo anno di crisi, questo è insomma un Paese che sembra vivere più di rendite finanziarie o familiari che di produzione pura e semplice, quella che in teoria dovrebbe creare fatturato, nuove opportunità, posti di lavoro.

La foto di gruppo la scatta Eurostat, che ha appena aggiornato i conti finanziari degli italiani a tutto il 2013. Poiché i dati sull’Italia figurano accanto a quelli del resto d’Europa, il confronto mette in luce le anomalie del Paese e le aree nelle quali invece le sue dinamiche appaiono perfettamente normali. E se c’è un punto sul quale l’Italia non si discosta dalle medie europee e del suo stesso passato, è proprio nel risparmio delle famiglie. La recessione più lunga della storia l’ha eroso e intaccato, non l’ha distrutto o messo in pericolo. Gli attivi puramente finanziari degli italiani – immobili esclusi – valevano nel complesso 3.771 miliardi di euro nel 2008 e alla fine del 2013 erano scesi di circa 60 miliardi a 3.717 miliardi. E un calo da circa mille euro per abitante in sei anni, ma il risparmio delle vale ancora più di due volte il Prodotto interno lordo e resta elevato: in media sono 61 mila euro per ogni residente in Italia, appena sopra la media dell’area euro, più che in Germania ( 57.021 per abitante), in linea con la Francia ( 61.155) e molto sopra alla Spagna ( 37.450). Gli anni della tripla ricaduta in recessione coincidono dunque con cambiamenti minimi per la grande risorsa nazionale, il risparmio delle famiglie: gli italiani riducono appena la loro esposizione azionaria, da 1.200 a mille miliardi di euro, si spostano un po’ i verso i conti di deposito e verso le polizze o i fondi pensione, ma nel complesso continuano a difendere le loro posizioni anche se intorno a loro l’economia arretra di quasi un decimo della sua taglia di prima. Aiuta anche il fatto che, nel frattempo, i vari governi vara-no i loro unici sgravi fiscali proprio a favore delle famiglie: quello di Enrico Letta abolisce mu per circa 5 miliardi, quello di Matteo Renzi taglia l’imposta sui redditi medio-bassi per altri dieci.

Anche più visibile il tocco delle politiche pubbliche dietro i conti conti finanziari delle assicurazioni e delle banche. Lì le dimensioni dei bilanci esplodono, in linea con le enormi iniezioni di liquidità varate dalla Banca centrale europea a favore gli istituti di credito per rispondere all’emergenza. Gli attivi dell’industria finanziaria italiana valevano 4.760 miliardi di euro nel 2008, ma l’anno scorso erano già saliti a seimila: una crescita in euro pari all’intero fatturato italiano di un anno, per un totale di beni delle banche e assicurazioni oggi pari a quattro volte il Pil. Anche in questo l’Italia non si comporta in modo diverso dagli altri Paesi europei: ovunque gli istituti di credito aspirano sempre liquidità dalla Bce, allargano la taglia del loro bilancio, quindi reinvestono in prestiti o soprattutto in titoli di Stato. Dove l’Italia diverge radicalmente dal resto d’Europa è nella ricchezza delle imprese. A confronto con gli altri Paesi era già ridotta in modo anomalo prima del trauma di Lehman, ma da allora subisce un tracrollo. I numeri sono impietosi: il patrimonio finanziario delle imprese in Italia nel 2008 era di 1.700 miliardi e si è eroso 1.541 al 2013. Si tratta di un calo pari circa al 10% del Pil italiano, non casualmente uguale alla contrazione dell’economia del Paese in questo settennato: sono i fallimenti, gli investimenti finiti in nulla, l’erosione dei patrimoni dopo anni di perdite.

Non colpisce solo il fatto chela ricchezza delle imprese in Italia valga meno della metà del risparmio delle famiglie: segno certo che molti imprenditori medi, piccoli e grandi hanno preferito depauperare l’azienda e trasferire le risorse sui propri conti personali, nelle auto di lusso, le ville proprie e dei figli, le tranquille rendite dei discendenti. Ma colpisce ancora di più la crescente divergenza dal resto d’Europa: l’economia spagnola è poco più della metà di quella italiana per fatturato, ma il patrimonio delle imprese iberiche ( 2.100 miliardi ) supera sia il patrimonio delle imprese italiane che il risparmio delle famiglie spagnole. Nessuna grande economia ha una sproporzione così vasta come l’Italia nella ricchezza di famiglie e imprese. E in Francia e Germania queste ultime controllano patrimoni che sono rispettivamente il triplo e il doppio di quelli del settore produttivo in Italia.

Dal punto di vista finanziario, questo Paese si presenta come un corpo con due polmoni non efficienti ma molto gonfi (banche e famiglie) e gambe rachitiche che dovrebbero farlo camminare. Che la ripresa tardi dunque non è strano. Sorprende di più la speranza del governo che possa propiziarla il bonus Irpef alle famiglie, invece che incentivi fiscali che rafforzino le imprese. I dati Eurostat dicono che agli italiani non manca il denaro per i consumi, ma la capacità di creare nuovo reddito producendo qualcosa. Con l’ultima ricaduta in recessione, il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan ha incoraggiato gli italiani a spendere il bonus da 80 euro «con fiducia», mentre lui cerca ancora le coperture di bilancio per renderlo permanente. Quasi che bastasse una (costosa) cura dei sintomi, non delle cause del crollo dell’economia.

Poveri ricchi

Poveri ricchi

Davide Giacalone – Libero

La notizia più modaiola è che Pier Paolo Baretta, sottosegretario all’economia ed esponente del Partito democratico, non usa twitter. Le notizie di sostanza sono più succose: a. chi guadagna 3500 euro netti al mese è da considerarsi ricco; b. la pressione fiscale crescerà, se non altro cancellando le detrazioni; c. al governo studiano come prendere soldi ai pensionati e ai lavoratori (considerati) ricchi. Già che ci si trova, Baretta, non solo non segue i cinguettii, ma neanche legge i giornali, dato che annuncia vita difficile per gli evasori, essendogli sfuggito che la nuova direttrice dell’Agenzia delle entrate (nominata dal governo di cui lui non si è accorto di fare parte) ha già detto che molti dei crediti fiscali contabilizzati sono da considerarsi inesigibili. Immaginari. Non varrebbe la pena di occuparsene, se non fosse che le parole di Baretta, rilasciate a La Stampa, sono la più semplice e chiara spiegazione del perché gli 80 euro elargiti dal governo non hanno funzionato: perché non puoi incentivare la fiducia e terrorizzare al tempo stesso. Fra le due cose prevale la seconda. E queste parole sono da terrore fiscale.

Baretta crede di dire una cosa giusta quando afferma: «i redditi più alti dovranno contribuire» all’uscita dalla crisi. È un record di sintesi e di errori. Punto primo, i redditi più alti pagano da lustri tasse da esproprio. Se la coniugazione al futuro del verbo significa che si vuol chiedere ancora di più la sola conseguenza logica di un tale atteggiamento è la fuga all’estero di chi può permetterselo. E molti produttori lo hanno fatto e vieppiù lo faranno, sollecitati da tali sconsideratezze. Punto secondo, se per uscire dalla crisi si pensa di togliere ancora di più ai contribuenti, per dare a una spesa pubblica che non riesce a limitarsi e a un debito pubblico che continua a crescere, vuol dire che non si è capito un accidente non solo di quel che è già successo, ma di ciò che sta succedendo ovunque non abbiano venduto il cervello al satanismo fiscale: si esce dalla crisi restituendo libertà e soldi ai cittadini, non facendo il contrario. Baretta, quindi, ripetendo il luogocomunismo dello statalismo nemico del benessere, crede di dire cose scontate, ma è scontato che sono cose mortali.

A questo si aggiunga il bel pernacchio a Matteo Renzi e ai suoi “#madeche”, dato che lo smentisce e conferma che il governo sta studiando il modo di prendere ancora soldi dalle pensioni. Solo che, badate bene, non lo fa adducendo la motivazione della distanza fra i contributi versati e la rendita che si riscuote, il che ha ancora un senso, ma stabilendo che i ricchi devono pagare. A prescindere. Ed è certamente ricco chi prende 3.500 euro al mese. Quindi si è ricchi anche con di meno. Baretta ha mai mantenuto una famiglia che non sia a sua volta mantenuta dallo politica o dal sindacato? Definire ricco chi ha un reddito netto annuo di 42.000 euro è un insulto. È segno che chi parla non ha idea di quanto valga il denaro e quanto ne serva per campare. Se si definisce ricco quel livello è segno che si anela un’Italia in cui trionfi la miseria.

Non contento ci fa sapere che sul tavolo del governo si studia come aumentare le tasse, tagliando le detrazioni. E qui arriviamo al dunque: ecco perché la regalia propagandistica degli 80 euro (comunque sbagliata) non funziona, perché chi la riceve sa che gli sarà tolta dalla stessa mano che finge di donare. Baretta conferma. E chi è onesto, come la gran parte degli italiani, tende a tenere i soldi e restare pronto per quando andranno a chiederglieli. Con il che ti saluto la ripresa dei consumi.

La ciliegina sulla torta arriva alla fine: Alessandro Barbera (complimenti per la bella intervista) gli domanda se si riuscirà mai a vendere patrimonio pubblico per abbattere il debito, e Baretta il grande (non dico cosa) gli risponde che il ministro della difesa ha già firmato un accordo con tre grandi comuni, per la cessione di aree, il giornalista gli fa osservare che in quel modo si passa dallo Stato ai comuni e non si vende nulla, e Baretta l’immenso asserisce: il patrimonio va valorizzato. Uno così va subito tolto da dove si trova e spedito a Pompei. Non certo perché saprebbe valorizzare alcunché, ma perché non potrebbe fare più danni di quanti già non ne fanno l’incuria e il tempo.

Vecchie ricette

Vecchie ricette

Enrico Cisnetto – Il Foglio

Nonostante l’aggiustatina che droga e mignotte potranno dare al pil, il governo rimane a caccia di 20-25 miliardi. La legge di stabilità puntava sul contenimento della spesa, ma dalla spending review non sono arrivati, né arriveranno, i risparmi desiderati, per cui ecco che dal cilindro di ferragosto escono, more solito, tagli ai salari e alla previdenza per tenere il deficit sotto la soglia del 3 per cento. Il tutto condito con l’ennesima puntata – temo non l’ultima – della fiction intitolata “articolo 18” e il solito balletto di dichiarazioni contrastanti tra diversi esponenti del medesimo governo. Non so se andrà davvero cosi, ma se fosse si tratterebbe di una grande delusione e di un grave errore di politica economica. Delusione perché non c’era bisogno del rottamatore armato di inedito vigore giovanilista per mettere in campo pratiche vecchie e già rese obsolete da chi le ha praticate in precedenza non cavando un ragno dal buco, anzi. Ma, soprattutto, ci troveremmo di fronte al gravissimo errore – economico, sociale, politico, di psicologia collettiva – di tornare a spremere il ceto medio che, come ha notato con efficacia Dario Di Vico sul Corriere, ha invece bisogno di continuare a credere di potercela fare a uscire dal pantano recessivo e deflattivo in cui siamo, pena il ritorno di quella depressione che fin qui si è mangiata i consumi e ha azzerato gli investimenti. E saremmo di fronte a una “spremitura” non solo insensata – non si esce dalla crisi punendo il ceto produttivo, sia esso lavoratore dipendente, professionista o imprenditore – ma anche contraddittoria, perché tutti i proclami della politica negli ultimi mesi sono andati in direzione opposta.

Non è un caso che il governo Renzi, primariamente, abbia voluto caratterizzarsi con la manovra degli “80 euro”. Dunque, e assurdo dare con una mano – senza neppure avere la copertura di spesa – nella speranza, peraltro poco fondata, di rimettere in moto la domanda interna, e poi prendere con l‘altra. E questo vale sia per l’eventuale intervento sugli stipendi della pubblica amministrazione, sia per il cosiddetto prelievo sulle pensioni d’oro. Nel primo caso, il tema non e quello di togliere (0 non dare più) un po’ a tutti – secondo la deleteria logica dei tagli lineari, ancor più devastanti laddove c’e maggior bisogno di meritocrazia – ma di rendere efficienti le amministrazioni riparametrando il numero degli addetti. Questo significa trasferire dipendenti da un’amministrazione a un’altra? Ottima cosa. Questo significa mandare a casa un po’ di persone? Spiacevole, ma necessario. E se poi ciò dovesse avvenire sia trasferendo al privato funzioni non strategiche ora nel pubblico (e ce ne sono tante), restringendo così il perimetro funzionale dello stato centrale e periferico, sia per via di una coraggiosa semplificazione del nostro elefantiaco e fallimentare decentramento amministrativo, ancor meglio.

Quanto alla previdenza, pensare di considerare “ricchi”, e quindi da spremere, i pensionati che stanno sopra i 2 mila euro lordi (ma anche con l’altra cifra che circola, 3.500 euro, sempre lordi, il discorso non cambierebbe), è stupido, prima ancora che profondamente sbagliato. E lo sarebbe, sbagliato, anche se l’asticella che individua l’area di prelievo si alzasse di molto. Non solo perché in quest’ultimo caso si rastrellerebbero risorse infinitesimali, ma perché non è dai redditi, per quanto alti, che si deve provare a ricavare ciò che serve a risistemare – specie se lo si vuole fare una volta per tutte – la baracca dei conti pubblici. No, l’obiettivo deve essere, e senza intenti punitivi, il patrimonio. Prima di tutto quello pubblico, sul quale occorre costruire una modalita di “sfruttamento” – cui chiamare a concorrere quello privato, con l’obbligo di acquisto di nuovi titoli e non con prelievi patrimoniali – con ‘intento di ridurre sotto il cento per cento del pil il debito pubblico (e relativi oneri) e ricavare risorse per investimenti in conto capitale. Bini Smaghi dice che si trattercbbe di una manovra pericolosa? Rispetto molto il suo parere, ma non lo condivido. Intanto perché egli critica allo stesso modo tutte le ipotesi di intervento sul debito, dal consolidamento alla patrimoniale, ma io non propongo né l’una né l’altra. E poi perché pecca di conservatorismo in un fronte che a furia di prudenze ci ha portato ad accumulare 2.168 miliardi di debito, di cui cento solo nel primo semestre di quest’anno. E non è certo con il mestolo degli avanzi primari che si svuota questo enorme pentolone.

Dunque, Renzi – che ha mostrato apprezzabile prudenza verso le ipotesi adombrate da alcuni suoi ministri – nel rimettersi in marcia tralasci questo pericoloso itinerario. Che è anche l’unico modo per uscire vivo dallo scontro sull’articolo 18. Il quale è un tabù che sarebbe meglio cancellare, ma è anche uno strumento, specie dopo la riforma Poletti del contratto a termine, dagli effetti decisamente limitati. Abolirlo sarebbe politicamente efficace, economicamente poco significativo. Ora, delle due l’una: o Renzi ha un piano di rilancio dell’economia vero, e allora può anche fregarsene di toccare l’articolo 18, oppure non ha carte in mano e quello diventa il suo jolly. Io preferisco la prima ipotesi.

Capitalismo municipale alla prova

Capitalismo municipale alla prova

Giovanni Valotti – Il Sole 24 Ore

La storia delle imprese municipali ha una lunga tradizione. Molte di queste hanno consentito di infrastrutturare i territori e sono state protagoniste dello sviluppo di servizi pubblici essenziali.

I settori in cui le stesse insistono – ambiente, energia, acqua e trasporti – sono al tempo stesso strategici per il paese e fondamentali per la qualità della vita dei cittadini. Per contro, l’evoluzione del quadro normativo e regolatorio in cui queste imprese hanno dovuto operare è stato spesso disorganico e a volte contraddittorio. Così come non sempre lineari sono stati i disegni di sviluppo industriale, sia con riguardo alle politiche settoriali che con riferimento alle singole imprese.

Eppure, quello dei servizi pubblici locali è un settore che, più di altri, ha conosciuto negli ultimi anni anche importanti accelerazioni. Difficile oggi riconoscere nei profili di alcune grandi imprese quotate, tanto quanto in quelli di piccole e medie imprese eccellenti, gli assetti e le logiche di funzionamento delle vecchie municipalizzate. Difficile però, al tempo stesso, non constatare il ritardo di altre aziende, arroccate su posizioni difensive che, inevitabilmente, ne compromettono la competitività e, nel medio periodo, la stessa ragion d’essere.

Sullo sfondo, una situazione in Europa di grande disomogeneità nel quadro delle regole da paese a paese. Il che richiede interventi urgenti di armonizzazione, se davvero si vuole assicurare il dispiegarsi di una giusta competizione, nell’interesse finale del cittadino consumatore. In Italia il tema delle imprese di servizi pubblici è nuovamente tornato alla ribalta, sulla scia delle analisi del commissario Cottarelli, che hanno fornito una lucida e a tratti impietosa fotografia della situazione in essere. È emerso così, con evidenza, un proliferare ingiustificato di imprese a controllo pubblico, operanti negli ambiti più disparati. Ma proprio questa fotografia ha permesso finalmente di distinguere con chiarezza le circa 1.100 imprese che operano in campo ambientale, energetico e idrico, da un nugolo indistinto di organismi operanti nell’ambito dei cosiddetti servizi strumentali. Ecco allora che, isolando la prima famiglia di imprese, alle perdite stimate di circa 1,2 miliardi delle partecipate pubbliche, si contrappongono i 600 milioni di utili e gli oltre 40 miliardi di fatturato riconducibili alle imprese che si occupano di servizi di pubblica utilità.

E sono proprio queste che costituiscono l’ossatura imprescindibile di un sistema di offerta capace di combinare obiettivi industriali con attenzione ai territori e alla responsabilità sociale. A condizione però che le stesse abbandonino definitivamente logiche protezionistiche e si comportino, fino in fondo, da impresa. Il che significa tante cose. Essere capaci di delineare un disegno di sviluppo industriale di medio periodo, tale da renderle competitive nel confronto con altre forme di offerta, pubblica o privata, sia sul piano dei costi che su quello della qualità. Essere in grado di realizzare un rapporto equilibrato tra i poteri della proprietà e quelli del management, contrastando ogni forma di politicizzazione e qualificando le competenze manageriali detenute. Essere disposte a rinunciare a ogni forma di garanzia e tutela, misurandosi sulla capacità di valorizzare gli asset, materiali e immateriali, e trasformandoli in valore per gli azionisti, i territori e i cittadini.

Rivendichino queste aziende, in altri termini, la propria natura di impresa e dimostrino, nei fatti, la propria capacità di intraprendere, senza per questo perdere la propria attenzione al valore sociale del proprio operato, esso stesso possibile fonte di vantaggio competitivo. Altri paesi, Germania in testa, hanno dimostrato in questi anni come il capitalismo municipale possa rappresentare un punto di forza del sistema industriale nazionale.

Le nostre imprese di servizi pubblici lo sono stato in passato e hanno oggi una grande occasione per ritornare a essere protagoniste di una nuova stagione di grandi trasformazioni. Ben vengano, quindi, i processi di aggregazione, l’apertura del capitale a nuovi soggetti, una sempre maggiore esposizione alla competizione, un ruolo sempre più incisivo delle autorità di regolazione. Tutto questo potrà finalmente condurre al superamento della contrapposizione tra pubblico e privato, tra locale e nazionale, in favore dell’unica distinzione che davvero conta: quella tra imprese efficienti, in quanto tali da valorizzare, ed imprese inefficienti, in quanto tali da espellere dal mercato. Le imprese di servizi pubblici sono chiamate a una prova di maturità. Il legislatore ha la responsabilità di valorizzare un patrimonio del nostro paese, creando le condizioni per il sostegno di un percorso virtuoso di qualificazione dell’offerta nel suo insieme. Regole certe, autorità indipendenti forti e competenti, processi decisionali e autorizzativi snelli, rappresentano condizioni fondamentali di rilancio degli investimenti anche attraverso l’attrazione di nuovi capitali, pubblici o privati che siano. Il capitalismo municipale, così come lo abbiamo conosciuto in passato, è ormai alle spalle. Ma imprese efficienti, profondamente radicate nei territori e al tempo stesso capaci di andare oltre gli attuali assetti, hanno davanti a sé un possibile grande futuro.