Edicola – Opinioni

Svecchiare in tre mosse

Svecchiare in tre mosse

Jean Marie Del Bo – Il Sole 24 Ore

Per gli studi di settore si avvicina il momento di una profonda ristrutturazione. Che si articolerà su tre passaggi per svecchiare lo strumento di controllo per piccole e medie imprese e professionisti. 

Sono passati, infatti, vent’anni da quando si cominciò a parlare di studi di settore come strumento per affrontare lo storico problema della convivenza, nel nostro sistema economico, di milioni tra Pmi e lavoratori autonomi e di un’evasione fiscale diffusa e capillare. L’idea era quella di elaborare una serie di sofisticati programmi di calcolo che fossero in grado di stimare, in modo più efficace di quanto fatto con strumenti precedenti, il ricavo che le imprese dovevano ragionevolmente avere in base a dati contabili e dimensione aziendale.
Dopo vent’anni il confronto si sta ora spostando sulla valutazione di come cambiare un meccanismo che è entrato tra le prassi consolidate del nostro sistema tributario.
Gli studi di settore, partiti operativamente nel 1998, hanno vissuto nel tempo alcuni passaggi che contribuiscono ora a metterne in discussione il ruolo. In primo luogo, sono stati al centro di una vera e propria rivolta “sociale”, che ne ha fatto il punto di caduta della protesta fiscale, nel momento in cui si è cercato di rafforzarne l’impatto. Poi, sono stati depotenziati nella loro forza probatoria quando la Corte di cassazione ha riconosciuto che gli scostamenti devono essere integrati da altri elementi e da una robusta dose di contraddittorio fra uffici e contribuenti. Infine, sono stati adeguati, con correttivi robusti, all’impatto della crisi sui ricavi. Con l’effetto “collaterale” che, nel momento in cui le difficoltà economiche si sono rivelate di lunga durata, sono diventati permanenti degli sconti che, invece, avrebbero dovuto essere temporanei.

Il problema, a questo punto, è la perdita di efficacia dello strumento nel tempo. La ristrutturazione, però, è già cominciata. E sembra articolarsi in tre “fasi” distinte. Si tratta di introdurre indicatori che consentano di impedire che gli studi di settore vengano usati a piacimento da parte dei contribuenti. Di controllare meglio chi ha abusato del regime premiale che garantisce meno controlli a chi è in regola e, nello stesso tempo, di fare degli studi di settore più uno strumento di selezione dei contribuenti a rischio che di controllo diretto. E, infine, di approfittare del treno della delega fiscale per riscrivere la geografia di questi meccanismi, riducendone l’ambito di applicazione a un minor numero di categorie ma ricalibrandoli per renderli più efficaci.

L’idea, dunque, è quella di abbandonare il mito dello studio di settore capace di tutto, in grado di misurare quasi tutto il sistema economico, pur sapendo che con cinque milioni di partite Iva è quasi impossibile pensare al superamento di un meccanismo che favorisca l’adempimento spontaneo e permetta di selezionare i contribuenti da controllare. Mentre si può ridurre l’area di applicazione degli studi di settore solo ai comparti dove può essere davvero utile ed efficace.
La delega fiscale è una grande occasione per tutti. Lo è proprio perché tutti sanno quanto complesso e deteriorato sia il sistema fiscale italiano. L’occasione, però, non va solo riconosciuta e apprezzata. Va sfruttata in tutti i modi per ricostruire una realtà di minore conflittualità e di maggiore collaborazione fra Fisco e contribuente. L’uscita dalla lunga crisi passa anche da scelte come queste.

Un’agenda ragionevole

Un’agenda ragionevole

Francesco Giavazzi – Corriere della Sera

È evidente che Matteo Renzi considera il Pil (prodotto interno lordo) un oggetto un po’ noioso, e comunque la conseguenza, non il faro dell’azione politica. Egli ritiene – in questo seguendo uno dei migliori filoni della recente teoria economica, vedi ad esempio Daron Acemoglu e James Robinson, Perché le nazioni falliscono, Saggiatore 2013 – che il successo di un Paese dipenda dalle sue regole istituzionali e giuridiche. Senza buone regole crescere è impossibile. Di qui il suo impegno per superare il bicameralismo perfetto e soprattutto per riformare il Titolo V della Costituzione limitando l’autonomia irresponsabile delle Regioni. E tuttavia, se pur la sequenza è quella giusta, la differenza fra i tempi che Renzi si è prefisso per le riforme costituzionali e per quelle economiche, poche settimane le prime, mille giorni le seconde, fa sorgere il dubbio che egli sottovaluti la situazione del Paese.

Abbiamo (dati Istat per il mese di giugno) tre milioni e 153 mila disoccupati, 26 mila in più di un anno fa. Fra costoro 700 mila giovani di età compresa fra i 15 e i 24 anni. I giovani che non lavorano in realtà sono molti di più: 700 mila sono quelli che hanno deciso di mettersi presto a lavorare ma, pur cercando attivamente, non trovano nulla. Mentre nel resto dell’eurozona il tasso complessivo di disoccupazione ha cominciato a scendere, in Italia continua a rimanere sopra il 12 per cento (era poco sopra il 6% prima della crisi). Per abbattere la disoccupazione bisogna agire al tempo stesso sull’offerta e sulla domanda. Dal lato dell’offerta il provvedimento principe è la sostituzione dei contratti a tempo determinato e indeterminato con un contratto di lavoro unico a tutele crescenti: il Jobs Act di Renzi. Quel disegno di legge delega è stato presentato al Parlamento quattro mesi fa. Se si è completata la prima lettura di una riforma costituzionale in poche settimane, non si capisce perché il Jobs Act non possa essere approvato da Camera e Senato entro metà settembre, in modo da consentire al governo di emanare i decreti delegati insieme alla legge di Stabilità il 20 ottobre.

Sempre dal lato dell’offerta, la grande risorsa sprecata sono le donne. La loro partecipazione al mercato del lavoro è di dieci punti sotto la media europea. E non è solo colpa del Mezzogiorno: vi è la medesima differenza fra Lombardia e Baviera. Inoltre, quando una donna italiana lavora, la probabilità che dopo un parto ella riprenda a lavorare è solo del 50%. Marco Leonardi e Carlo Fiorio (www.lavoce.info) propongono di incentivare il lavoro femminile sostituendo le detrazioni per il coniuge a carico (che costano circa 3,5 miliardi di euro l’anno e non hanno alcun effetto sul lavoro femminile) con un assegno pagato direttamente alle donne con figli che lavorano, magari proporzionale al numero dei figli. Il Parlamento ha approvato, l’11 marzo scorso, una legge delega che consente al governo di ridisegnare da zero il nostro sistema fiscale (anche riprendendo l’idea, sperimentata per la prima volta durante il governo Monti, di una tassazione differenziata a favore delle donne). L’attuazione della delega è un’operazione delicata perché muterà gli incentivi a lavorare e a investire. Ma il fatto che sia delicata non significa che richieda tempi eterni.

Il governo potrebbe nominare già la prossima settimana una Commissione tecnica (sul modello della Commissione Visentini che ridisegnò il nostro sistema fiscale all’inizio degli anni Settanta) e chiedere proposte entro metà settembre. Anche in questo caso i decreti delegati potrebbero essere varati entro il 20 ottobre. Per un presidente del Consiglio che quattro mesi fa ci ha promesso una riforma al mese, non sono tempi impossibili.

Liberare l’offerta è condizione necessaria, ma non sufficiente. Occorre che riprenda la domanda. Le esportazioni vanno bene, ma da sole non riescono a sostenere l’intera economia. Deve crescere la domanda interna, cioè i consumi delle famiglie. Affinché ciò avvenga bisogna abbattere la pressione fiscale come ha suggerito giovedì anche il presidente della Banca centrale europea. Gli 80 euro di maggio vanno nella direzione giusta. Fino ad ora non si sono riflessi in un aumento dei consumi perché le famiglie, io penso, temono si tratti di una riduzione solo temporanea delle tasse. Vanno resi permanenti ed estesi ad un numero maggiore di cittadini. Gli 80 euro costano 10 miliardi l’anno, lo 0,6% del Pil. Affinché una riduzione permanente delle tasse abbia effetti significativi sui consumi (considerando il livello da cui parte la pressione fiscale oggi sopportata dalle famiglie) servirebbero almeno 2 punti di Pil, cioé circa 30 miliardi. Dopo la «vicenda Cottarelli», Matteo Renzi ha detto (giustamente) che i tagli di spesa sono una scelta politica e se ne è assunto la responsabilità. Cottarelli stima possibili tagli per 30 miliardi sull’arco di un triennio. Il presidente del Consiglio dovrebbe far suo quell’impegno e al tempo stesso varare, con la legge di Stabilità, una immediata riduzione delle tasse della medesima entità. Una riduzione-choc della pressione fiscale di 30 miliardi (come Alberto Alesina ed io ripetiamo su queste colonne da un paio d’anni) ci porterebbe temporaneamente oltre il limite del 3% nel rapporto fra deficit e Pil. Ma se preceduta dalle riforme istituzionali e dall’approvazione definitiva degli interventi su lavoro e spese, è una proposta che a Bruxelles si può, e a mio parere si deve, portare. La strada più pericolosa è darsi mille giorni e nel frattempo aspettare, magari ricorrendo in ottobre ad un aumento mascherato della pressione fiscale per far quadrare i conti. Matteo Renzi deve aver chiaro che quella strada porterebbe lui al fallimento e l’Italia dritto ad un default sul debito pubblico.

Caro premier, ecco cosa può fare lo Stato

Caro premier, ecco cosa può fare lo Stato

Mariana Mazzucato – La Repubblica

Caro presidente, ho visto dai giornali che lei ha comprato il mio libro “Lo Stato Innovatore”, questo mi ha suggerito l’idea di scriverle una lettera. L’Italia a crescita bassa è tornata in prima pagina. Una delle tesi del libro è che per tirarsi fuori da questo marasma è indispensabile rendersi conto di dove sta il problema. Il problema non sta in un settore pubblico “burocratico” che in qualche modo ostacola la crescita di un settore privato altrimenti dinamico e innovativo. Il problema è che, in assenza di un settore pubblico dinamico e innovativo, la crescita nel settore privato è impossibile da ottenere.

Partiamo dal contesto: i problemi dell’Italia non derivano da un eccesso di dimensioni e di spesa riferito al settore pubblico, ma dal fatto che questo non è sufficientemente attivo e in realtà non spende quanto i suoi principali concorrenti in tutti gli ambiti fondamentali che determinano la crescita della produttività (e quindi la crescita a lungo termine del Pil), ossia capitale umano, istruzione, ricerca e tecnologia. Il deficit italiano prima della crisi si attestava sotto la media Ue. Ma se la produttività (e quindi il tasso di crescita del Pil) è quasi ferma da 20 anni per l’assenza di investimenti di questo genere, anche con un deficit relativamente basso il quoziente debito/ Pil può continuare ad avere una crescita esponenziale (perché il denominatore è statico).

Che fare? È proprio questo l’oggetto del libro. Cosa intendo per Stato Innovatore? Intendo uno Stato che sia disposto a pensare in grande e capace di farlo, che sappia attirare i migliori cervelli nelle sue varie branche, gettare per primo le basi in nuovi fondamentali comparti ad alto rischio, che solo successivamente attireranno il settore privato. Che sia capace anche di costruire un sano rapporto simbiotico, non parassitario, tra i settori pubblico e privato, così che la crescita conseguente non sia solo “intelligente”, ma anche più inclusiva.

Nel libro ricorro all’esempio dell’iPhone per sfatare i luoghi comuni sulla Silicon Valley. Tutte le tecnologie che rendono così “intelligente” quel telefono sono state finanziate negli Usa dal settore pubblico: Internet, Gps, touch screen e persino la nuova Siri a comando vocale. Lo stesso vale per le biotecnologie, le nanotecnologie e la frattura idraulica (per l’estrazione dello shale gas), tutti settori industriali frutto di decenni di investimenti pubblici che hanno preceduto gli investimenti privati. Steve Jobs era ovviamente un genio, ma al pari di altri imprenditori statunitensi, ha “surfato” le gigantesche onde create dallo Stato. In molti paesi europei oggi non sono i surfisti a mancare, ma l’onda. E l’onda serve non solo nei comparti ad alta tecnologia, ma anche in settori affamati di rinnovamento e trasformazione, come il tessile, l’industria automobilistica e l’agricoltura. Vale anche per l’arte, che diventerà un vero patrimonio nazionale solo quando sarà posta al centro di una strategia di crescita che utilizza i poteri della rivoluzione informatica per diffonderla e divulgarla a livello internazionale.

Il settore pubblico, ovviamente, non può fare da solo. Serve un settore privato altrettanto impegnato. Oltre ad avere uno dei tassi più bassi di spesa pubblica in R&S; (riferito al Pil) l’Italia registra anche uno dei livelli più bassi di spesa privata nel settore. La responsabilità non è imputabile alla “normativa”, ma all’assenza di una sana tensione tra Stato e imprese. Un valido esempio? La Fiat attualmente non investe in motori ibridi in Italia, ma lo fa negli Stati Uniti perché Obama lo ha posto come condizione per il salvataggio dell’industria automobilistica. Ecco un altro mito che va a farsi benedire: gli Stati Uniti, la patria del libero mercato, che impongono le politiche industriali al settore privato. E non è certo un caso unico. Il mitico Bell Labs, uno dei laboratori di ricerca privata più innovativi, al centro della rivoluzione informatica, nacque da un teso negoziato tra lo stato e At&t;, all’epoca un monopolio, in cui lo stato esigeva che gli utili privati fossero reinvestiti nell’economia “reale”, in aree che creassero beni pubblici.

Anche se il libro non si incentra sulle società a capitale pubblico, bensì sul rapporto tra i settori pubblico e privato, esamina con occhio critico il genere di strategie che portarono alla nascita dell’Eni e dell’Iri, che ebbero effettivamente un ruolo chiave negli anni d’oro dell’Italia, quando agivano in accordo con la loro missione e attiravano manager di massimo livello. Da pubbliche, ma indipendenti e guidate da esperti, furono un successo. Una volta divenute semplice appendice dei partiti politici smisero di funzionare – diventando il problema, non la soluzione. In realtà, ironicamente, fustigando lo Stato e spacciando la privatizzazione come panacea sarà estremamente difficile attrarre le competenze che queste istituzioni pubbliche richiedono, oggi come allora. A capo del Dipartimento dell’Energia degli Stati Uniti poco tempo fa c’era un fisico premio Nobel, Steven Chu. Ha fondato Arpa-e a cui ha dato l’incarico di promuovere e finanziare la ricerca e lo sviluppo delle energie rinnovabili, come fece a suo tempo la Darpa per Internet. Anche la Germania oggi cresce non perché “tira la cinghia” ma perché ha una banca pubblica strategica, la KfW, che offre capitale paziente alle imprese e ai settori più innovativi- e di istituzioni finanziate dallo Stato come la Fraunhofer, che creano le connessioni tra scienza e industria mancanti in Italia.

Spero che queste riflessioni la incoraggino a cambiare il modo di parlare di politica economica in Italia, abbandonando i soliti discorsi che si trascinano pigri, come se il problema stesse solo nel togliere la burocrazia, nelle riforme del mercato del lavoro, e del fisco. Per arrivare invece a un dibattito nuovo che sproni i settori pubblico e privato ad un maggiore impegno mirato agli investimenti e alla crescita guidata dall’innovazione. Il bonus di 80 euro al mese è indubbiamente utile a molte famiglie in condizioni difficili, ma per una crescita a lungo termine dei redditi, che abbia effetti decisivi sulla domanda dei beni di consumo e sul tenore di vita, è necessaria una strategia di innovazione industriale che porti più posti di lavoro, e soprattutto ne migliori la qualità.

Il suicidio collettivo che l’Italia non può permettersi

Il suicidio collettivo che l’Italia non può permettersi

Adriana Cerretelli – Il Sole 24 Ore

E tre. Mario Draghi si ripete, purtroppo finora invano, per richiamare l’Italia insieme a tutti i ritardatari dell’Eurozona all’urgenza delle riforme strutturali per tornare a crescere.
Per il nostro Paese di nuovo in recessione conclamata e comunque da troppo tempo in forte affanno rispetto ai partner, con tassi di sviluppo dell’1% circa sotto la media europea nell’ultimo decennio, le parole del presidente della Bce suonano come una sorta di ultimo appello in nome e per conto delle ragioni dell’economia, la terza dell’euro, che non può permettersi di far male a sé e agli altri perseverando nella politica degli annunci regolarmente seguita dalla strategia dei rinvii.
Non può perché non crescere significa distruggere imprese e benessere, moltiplicare i disoccupati, rendere insostenibile il debito, violare i patti europei, avviarsi al commissariamento ufficiale Ue, visto che l’uscita dall’euro sarebbe un disastro ancora maggiore dei mali da curare. Che non sono incurabili.

Il primo avvertimento a uscire dalla palude dei veti incrociati per attuare una precisa serie di riforme con allegato calendario era arrivato a Roma nell’estate del 2011: allora Mario Draghi, governatore della Banca d’Italia, e Jean-Claude Trichet, presidente della Bce, avevano scritto una severa lettera a quattro mani consegnata agli archivi senza grandi risultati concreti, caduta del governo Berlusconi a parte.
L’anno dopo, nel corso di un’altra estate ancora più bollente con l’euro sull’orlo del baratro, Draghi ormai a Francoforte aveva fermato la tempesta sui mercati comunicando ai medesimi che avrebbe preso «tutte le misure necessarie» a garantire la tenuta della moneta unica. In breve, la Bce avrebbe fatto la sua parte fino in fondo ma i governi avrebbero dovuto fare la loro, risanando i conti pubblici e facendo le riforme strutturali.
Ancora una volta l’Italia ha sprecato i due anni di tregua sui mercati guadagnati dalle iniziative di Draghi. Tra l’altro proprio mentre Grecia, Irlanda, Portogallo e Spagna, i Paesi finiti sotto i rigori della “troika” per aver chiesto gli aiuti europei, si auto-riformavano per forza ma ora sono quasi tutti tornati sui mercati e ricominciano a crescere.
L’Italia ha evitato gli aiuti e quindi la troika ma ha anche evitato di fare le riforme: in questo modo non è uscita dal tunnel del commissariamento futuro né è tornata a crescere. Cioè ha fatto la scelta peggiore, la più pericolosa e nefasta. Come cifre e previsioni di Istat, Eurostat, Commissione Ue, Ocse e Fmi continuano a dimostrare.

Ora Draghi ha lanciato il terzo allarme: ignorarlo ancora una volta significherebbe avviarsi al suicidio collettivo. E non perché si debba obbligatoriamente ottemperare a tutte le sollecitazioni in arrivo da Francoforte e Bruxelles ma perché senza riforme, è ampiamente provato, l’economia italiana è condannata a recedere anziché avanzare. Immobilizzata, come Gulliver, dai mille lacci e lacciuoli cui la inchiodano i troppi “lillipuziani” che le girano intorno: politici, burocrati di più o meno alto rango, magistrati più o meno efficienti e illuminati, corporazioni più o meno potenti e determinate…
Riuscirà il governo Renzi dove i suoi predecessori hanno fallito? Non ci sono scorciatoie possibili. La politica degli annunci che si fermano alle parole comincia a innervosire i mercati e i nostri partner europei, ansiosi di vedere i fatti.
In fondo non c’è proprio niente da inventare: la crisi del Pil italiano deriva in larga parte dalla crisi degli investimenti, che a sua volta dipende dalla mancanza di fiducia, e quindi di aspettative positive, in un Paese bloccato da una lunga e pesantissima crisi strutturale. Molto più che debitoria.
Vanno quindi rimossi al più presto tutti gli ostacoli che soffocano o scoraggiano chi fa business in Italia: che si chiamino pubblica amministrazione elefantiaca, leguleia o comunque ostativa, giustizia dai tempi biblici, mercati del lavoro, dei prodotti e dei servizi sclerotici e privi della flessibilità indispensabile per competere su scala europea e globale. E per restituire alle imprese la voglia di rischiare.

La diagnosi è arcinota, la terapia anche: la ripete da anni, inascoltata, la Commissione europea. L’ha ribadita Draghi l’altro ieri. È stata sottolineata con forza tre giorni fa in un editoriale del direttore di questo giornale. Non c’è più tempo da perdere: non solo perché sulla nostra testa pende il rischio concreto dell’apertura entro l’anno di una procedura Ue per mancato rispetto degli impegni presi sui fronti del debito e delle riforme. Non solo perché la nuova Commissione Juncker non si annuncia certo più tenera di quella Barroso.
Non solo perché la Germania della Merkel ha per l’ennesima volta appena risposto picche alla Francia di Hollande che le chiedeva di fare più crescita in Europa: «La Germania è già un motore importante, il più importante, per la crescita dell’Eurozona» ha puntualizzato il suo portavoce. Ma anche e soprattutto perché, se non ricomincia ad auto-generare crescita con le riforme e a recuperare fiducia all’interno e all’estero, l’Italia a poco a poco si auto-distrugge.

Cottarelli non è un passero solitario

Cottarelli non è un passero solitario

Giorgio Mulè – Panorama

Mi uniformerò alla rappresentazione ornitologica della realtà in stile renziano per descrivere Carlo Cottarelli, ennesimo commissario alla revisione della spesa pubblica della storia repubblicana che è sul punto di congedarsi senza aver tagliato quanto avrebbe dovuto e certamente per responsabilità non sue.

Cottarelli, destinatario di un vaffa metaforico da parte del premier, non è certamente un gufo né appartiene a una delle sottospecie indicate dal nostro aulico capo del governo (gufi professori, gufi brontoloni e gufi indovini). Sbaglia però, e pure di grosso, chi lo ritiene un passero solitario che con le sue parole di verità (tanto erano vere che il governo ha dovuto fare una assai ingloriosa marcia indietro) ha avuto il torto di turbare l’armonia che gorgheggia e si espande nella meravigliosa valle italica immaginata da Renzi.

Cottarelli, figura di primo piano del Fondo monetario internazionale, è piuttosto un punto di riferimento per chi guarda e valuta il nostro Paese dall’esterno; ed è (era) insieme una garanzia di mantenimento degli impegni presi. Che, detto in pratica, significa la capacità di intervenire col piccone su quella montagna di sprechi composta da 800 miliardi di spesa pubblica (la metà del nostro prodotto interno lordo) ed evitare un ulteriore incremento del nostro insostenibile debito pubblico. Per questo all’azione del commissario alla spending review guardavano con fiducia le istituzioni europee e gli investitori internazionali nella spasmodica attesa di segnali di svolta. Anche perché Cottarelli era stato chiarissimo fin dopo la sua nomina a ottobre 2013.

Aveva messo da subito in chiaro alcune cosette straordinariamente strategiche tipo che «a metà anno (2014, ndr) deve esserci uno sgonfiamento delle spese e delle tasse»; che «la cosa più importante della spending è il legame tra la riduzione di spesa e la riduzione delle tasse sul lavoro»; e che un punto centrale della sua azione passava «dall’accentramento degli acquisti(della pubblica amministrazione) con la creazione di 35 soggetti invece che i 34 mila attuali». Bene: non uno di questi punti strategici è stato centrato. E, ribadisco, ciò è successo non per una cattiva volontà di Cottarelli, ma per il sabotaggio e la pessima capacità del governo: basti pensare al paradossale blitz con cui proprio l’esecutivo, d’accordo con i comuni, ha rinviato fino a un anno (e poi chi vivrà vedrà) la centralizzazione degli acquisti dopo averla prevista e voluta per decreto appena tre mesi prima!

Chi sta fuori dai nostri confini chiede fatti e invece, ahimè, qui si continuano a sfornare chiacchiere o improvvisazione come nel caso della riforma della pubblica amministrazione gestita dal ministro Marianna Madia. Ma che ce ne importa, ripetono a Palazzo Chigi, avremo la riforma del Senato, che in realtà ha bisogno di ben altri quattro passaggi parlamentari e di un referendum prima di vedere la luce. Peccato che, come questo giornale ripete da mesi, la questione delle questioni non è il Senato ma l’economia reale, la capacità di affrontare di petto il tema della crescita, della disoccupazione e delle tasse che ci soffocano. Il governo aveva a disposizione un funzionario davvero bravo che avrebbe potuto aiutarlo nell’impresa. L’hanno silurato e hanno buttato un altro anno al vento. Ma si può?

Un confine tra passato di crisi e futuro di ripresa

Un confine tra passato di crisi e futuro di ripresa

 Alberto Quadrio Curzio – Il Sole 24 Ore

Il calo del Pil italiano del secondo trimestre conferma una discesa che prosegue dal terzo trimestre del 2011. L’attenuazione del calo sui dati tendenziali trimestrali non basta a tranquillizzare e quindi bisogna che il Governo sia in Italia che in Europa (e con il supporto di tutte le forze produttive) tracci un confine netto tra un passato di crisi e un futuro di ripresa.

Il Pil trimestrale. Un calo dello 0,2% sul trimestre precedente e dello 0,3% sul corrispondente trimestre del 2013 (con “calo acquisito” del Pil per il 2014 dello 0,3%) è preoccupante, anche perché riguarda tutti e tre macro-settori dell’economia (agricoltura, industria, servizi). La variazione delle domanda interna è nulla mentre la componente estera è negativa per gli effetti della crisi Russia-Ucraina che intaccherà anche i prossimi dati tedeschi. Meglio è andata la produzione industriale che è cresciuta in giugno su maggio e nel primo semestre 2014 sul corrispondente del 2013 ma che non ha compensato i cali del Pil.

La lunga crisi italiana. Per varie ragioni (politiche,economiche,fiscali) siamo rimasti più esposti alla crisi di altri grandi Paesi della Eurozona anche perché la nostra non-crescita ha una storia lunga. Limitandoci agli ultimi 10 anni, dal 2005 abbiamo avuto una crescita media annua molto più bassa dell’Eurozona. Nel quinquennio 2005-09 abbiamo avuto un calo medio annuo di circa lo 0,4% mentre la Uem è cresciuta dello 0,7%. Dunque una differenza di 1,1 punti percentuali in media annua. Sul 2010-14 l’Italia è calata circa dello 0,3% medio annuo mentre la Uem è cresciuta dello 0,7%. Dunque una differenza di 1 punto percentuale annuo. Non sono differenze da poco.

Le cause di questo divario sono state analizzate dall’Fmi, dall’Ocse, dalla Commissione Europea, dalla Banca d’Italia e anche nel Def del Governo presentato alla Commissione europea in aprile. Consideriamo solo tre temi italo-europei interrelati e relativi alle istituzioni e agli apparati, all’economia e agli investimenti, all’Europa e alla crescita.

Le istituzioni e gli apparati. Dal 2005, in 10 anni, abbiamo avuto sei governi (Berlusconi, Prodi, Berlusconi, Monti, Letta, Renzi) mentre negli altri tre grandi Paesi europei (Germania, Francia, Spagna) le successioni sono state quelle delle legislature. Ha ragione Padoan nel ritenere che le riforme costituzionali e istituzionali possono avere un impatto sull’economia dando certezza di durata ai Governi e semplificando i processi legislative. Ma questo non basta perché certezza e fiducia vanno di pari passo con le riforme, purchè siano quelle necessarie. Il che, stando alle osservazioni degli organismi internazionali, non è accaduto in Italia anche se nel decennio 2001-2011 c’è stata una sostanziale continuità dei Governi Berlusconi, salvo la parentesi di Prodi 2006-2008. In Italia troppe riforme epocali sono state solo annunciate, altre buone insabbiate, altre infine sbagliate. È mancata quella continuità realizzatrice che antepone l’interesse nazionale alla partigianeria politica (forte persino dentro i singoli partiti) e alla critica fine a se stessa ma è anche mancato un forte supporto tecnico degli apparati pubblici. Perciò la riforma degli apparati pubblici è essenziale come ci chiede l’Europa per arrivare alla certezza, stabilità e semplicità delle norme, alla rapidità della giustizia, allo snellimento della burocrazia. È infatti evidente che la nostra “macchina pubblica” non è efficiente (anche se ci sono non pochi tecnocrati capaci) causando costi diretti in termini di spesa pubblica e costi indiretti sui cittadini e le imprese. In queste riforme il Presidente del Consiglio Renzi deve mettere molta determinazione utilizzando anche le competenze necessarie per correggere evitando di distruggere.

L’economia e gli investimenti. Le urgenze dell’economia richiedono anche alcune, poche e chiare, accelerazioni. Tutti sanno che l’Italia ha limitatissimi spazi di finanza pubblica a causa dei vincoli europei. Tutti sanno anche che la manifattura italiana esportatrice è stata la rete d’acciaio che ha tenuto insieme la nostra economia (e anche di più) durante la crisi. Non sempre si ricorda però che gli investimenti totali (pubblici e privati) sul Pil (per di più calante!) sono scesi dal 22% del 2007 al 17% del 2013 e che le previsioni indicano una ripresa così lenta che solo nel 2019 ritorneranno al 20%. Cruciale è perciò il rilancio degli investimenti sia nel partenariato pubblico privato sia nelle imprese per creare innovazione, reti e crescita dimensionale delle imprese, infrastrutture. Il Governo, così come quello Letta, ha messo in campo varie misure per l’economia reale (dalla nuova Sabatini, allo sblocca-Italia, alla riduzione del cuneo fiscale, al potenziamento dell’Ace) ma non basta. Per questo ci vuole presso la presidenza del Consiglio una task force di raccordo tra i ministri dello Sviluppo e delle Infrastutture, la Cassa Depositi e prestiti, il sistema imprenditoriale e bancario per massimizzare l’uso delle risorse della Bei e del Quadro Finanziario poliennale della Ue. E anche per orientare agli investimenti delle imprese la liquidità che da settembre verrà dal Tltro della Bce.

L’Europa e la crescita. Padoan ha rassicurato che il limite del 3% del deficit sul Pil non verrà superato senza bisogno di una manovra aggiuntiva. Speriamo che sia così ma in ogni caso riteniamo che si debbano scegliere delle priorità per la crescita che riguardano l’Italia e l’Europa. La nostra priorità è la spending review dove il programma Cottarelli è già ben definito. Forse non si potranno avere i risparmi lordi annui di 7 miliardi nel 2014, di 18 nel 2015, di 34 nel 2016. Basterebbe la metà dei risparmi, purché certa, da riallocare in parte agli investimenti. Poi bisogna passare con la stessa logica a valorizzare i tanti patrimoni pubblici anche per ridurre il debito senza danneggiare il Pil. Sugli investimenti il Presidente del Consiglio deve mettere tutto il suo peso politico sul presidente della Commissione europea Juncker non solo per spostare almeno al 2017 il nostro pareggio strutturale di bilancio (ce lo meriteremmo perché, come documenta Fortis, siamo i campioni europei degli avanzi primari a danno della nostra crescita) come sarà di certo per Francia e Spagna. Bisogna anche spingere (come chiede persino l’Fmi) l’Europa ad una politica espansiva con gli investimenti infrastrutturali e mettere la Germania di fronte alle responsabilità del suo eccesso di risparmio e di vari surplus dovuti non solo alla sue virtù ma anche alla sua miopia.

Perciò l’Italia ha bisogno di un Commissario europeo forte all’economia reale che, pur nel rispetto “alla Draghi” del ruolo europeo, supporti l’attuale incisività politica di Renzi per evitare a noi e all’Europa un declino lento ma certo.

 

Quella spinta da Francoforte

Quella spinta da Francoforte

Donato Masciandaro – Il Sole 24 Ore

Riforme strutturali per avere mercati più competitivi e Stati più efficienti: è l’unica spinta possibile per ritornare a crescere e dare un senso alla politica monetaria espansiva che la Banca centrale europea ha deciso di proseguire, ma non di accentuare. Perché le condizioni monetarie per tornare alla normalità ci sono. Peccato che manchino tutte le altre politiche economiche. L’assenza di efficienza nei mercati e di efficacia nell’azione pubblica sono i due nodi scorsoi che stanno soffocando l’Unione. È questo il messaggio di Mario Draghi che vale in generale per Bruxelles, ma in particolare per Roma. La Bce fotografa una situazione dell’Unione monetaria Europea in cui la ripresa economica è ancora timida ed instabile. Il termometro è rappresentato da un andamento stagnante sia delle variabili reali – la crescita – che da quelle nominali – l’inflazione. Quale è la diagnosi della nostra banca centrale? È facile. Tutto dipende dallo stato delle aspettative di famiglie, imprese e mercati.

In una situazione normale, una stagnazione con rischio deflattivo può essere attribuito ad un deficit di domanda aggregata. Il deficit di domanda può influenzare le aspettative, attraverso un circolo vizioso che si autoalimenta: il deficit di domanda di oggi implica prezzi calanti per domani, quindi gli operatori hanno incentivo a posticipare le scelte di consumo e di investimento, alimentando il deficit di domanda. In questi frangenti la politica monetaria deve essere normalmente espansiva, per incentivare le decisioni di spesa ed al contempo alimentare le aspettative di inflazione. Purtroppo ancora oggi la situazione in Europa non è normale: il deficit di domanda si intreccia con un eccesso di avversione al rischio, incubatosi prima della Grande Crisi, scoppiato dal 2008 con la crisi finanziaria e consolidatosi negli anni successivi con la recessione economica. L’Europa è in una trappola della liquidità: le iniezioni di liquidità e la crescita dei prezzi azionari non provocano effetti rilevanti e stabili sulle grandezze reali, a partire dalla crescita economica.

L’avversione al rischio spinge a risparmiare – quindi a non consumare – ma non ad investire. La liquidità, sia essa detenuta dalle famiglie, dalle imprese o dalle banche tende ad essere tesaurizzata. Occorrono gli investimenti reali, pubblici e privati, che possono far ripartire la domanda aggregata. È qui il primo nodo scorsoio che l’analisi della Bce mette in luce. Esistono investimenti privati sono lo Stato è in grado di offrire in modo efficace e sistematico i beni pubblici essenziali: dalle istituzioni efficienti – a partire dalla giustizia civile e penale – alle infrastrutture della comunicazione, reale e virtuale. Inoltre occorre riprendere la politica della concorrenza, in tutti i mercati e settori, incluso quello del lavoro, per scogliere completamente il secondo nodo scorsoio, ed essere efficaci anche dal lato dell’offerta aggregata.

L’Italia è un destinatario naturale del messaggio della Bce: il governo Renzi è partito dalla architettura politica, che è la madre delle politiche pubbliche inefficienti, ma non può che essere solo un punto di inizio, se si vuole essere coerenti con il modello sposato dall’analisi Bce. Allo stesso modo la capacità di offrire investimenti pubblici dipende dallo stato delle finanze pubbliche di un Paese. Il presidente Draghi ha fatto notare come i Paesi che avrebbero più bisogno di investimenti pubblici sono proprio quelli che hanno le finanze pubbliche peggiori: alta tassazione unita a pessima qualità della spesa pubblica.

Anche qui la missiva di Francoforte trova un naturale approdo a Roma. L’Italia è un Paese indebitato, con un grosso vantaggio: essere membro dell’Unione monetaria. Grazie a tale appartenenza, può pagare sul proprio debito tassi di interesse, nominali e reali, più bassi. Un vantaggio che purtroppo finora la nostra classe politica ha dissipato. Per un Paese indebitato gli obiettivi del pareggio dei conti, della riqualificazione della spesa e della lotta all’evasione sono indipendenti dall’essere parte dell’Unione, che invece può essere uno strumento per rendere tali obiettivi più credibili, e nel contempo più flessibili in termini di profilo temporale. Purtroppo le voci più miopi nei dibattiti nazionali ribaltano spesso il nesso tra disciplina fiscale e appartenenza all’Unione, ricordato dalla Bce.

La convergenza delle politiche strutturali e fiscali diviene condizione necessaria per far riassorbire stabilmente l’eccesso di avversione al rischio, e tornare ad un sistema economico normale e dinamico. La normalizzazione delle condizioni monetarie, bancarie e finanziarie ha fatto passi in avanti. Mario Draghi ha elencato tutta una serie di segnali incoraggianti, che riguardano la domanda come l’offerta di credito, nonché l’auspicato effetto stabilizzante dell’inizio dell’Unione bancaria. Inoltre aiuta il fatto che la politica della Bce abbia oramai un orientamento opposto a quello intrapreso dalla Fed e dalla Banca d’Inghilterra. Ma i segnali positivi sono tutti reversibili, anche alla luce delle incognite geopolitiche che toccano da vicino l’Unione Europea; purtroppo di nuovo i dibattiti nazionali sembrano orientati dal binocoli alla rovescia. La Bce ha confermato per il secondo mese consecutivo l’orientamento più espansivo della politica monetaria europea dalla sua nascita, nonché una decisione unanime di continuare nel tentativo di normalizzazione. E Bruxelles – nonché Roma – come rispondono?

Carissimo Matteo, mi ricordi Schettino

Carissimo Matteo, mi ricordi Schettino

Maurizio Belpietro – Libero

Non so se avete presente quei bambini che, presi in flagranza di marachella, insistono a dire di non aver messo le mani nella marmellata. Ecco, il governo mi pare si stia comportando esattamente come i ragazzini che negano l’evidenza. Ieri ad esempio il pur bravo e serio Graziano Delrio, sottosegretario alla presidenza del Consiglio, in un’intervista al Corriere della Sera si ostinava a dire che, nonostante i dati del Pil diffusi dall’Istat, alla fine dell’anno il Prodotto interno lordo sarà vicino all’uno per cento in più. Per l’ex sindaco di Reggio Emilia gli analisti dell’istituto di statistica cui compete di rilevare gli andamenti economici sottostimerebbero la lotta all’evasione e gli impegni di spending review. Insomma,sbaglierebbero tutti, tranne Delrio e Matteo Renzi.

Stesso atteggiamento – almeno in apparenza – delle parti del ministero dell’Economia. Al pari del sottosegretario, Pier Carlo Padoan ripete che non ‘è da preoccuparsi se l’economia arretra invece di avanzare. Per risolvere la situazione e ripartire bisognerebbe spendere, far tornare a crescere i consumi. «Spendete», ha ripetuto il gran capo dei conti anche di fronte al flop degli 80 euro, respingendo le perplessità degli analisti e dell’opposizione. Non di meno le parole di uno dei consiglieri più ascoltati del presidente del Consiglio, l’economista israelo-americano Yoran Gutgeld, ora deputato del Pd. Per lui non ci sarebbe nulla da temere. Nonostante il calo del Pil bisognerebbe insistere nella direzione tracciata. Per il super consulente ci vorrà del tempo, magari tre anni, ma alla fine la ricetta miracolosa del governo funzionerà.

La verità è che, come i bambini presi con le mani nella marmellata, né Delrio né Padoan sono molto credibili. Le loro giustificazioni per il brusco calo dell’economia appaiono di rito, quasi come quelle del comandante Francesco Schettino già si preparava a salire su una scialuppa e a raggiungere l’isola del Giglio. Ora l’ex capitano della Concordia insegna impunemente come gestire il panico all’Università e le sue vittime – tranne una – riposano in un cimitero.

Certo, tra la nave della Costa Crociere e l’Italia ci sono diversità. Il nostro Paese a differenza del condominio viaggiante affondato per incoscienza mentre si inchinava davanti a un’isola non è adagiato sul fondale del Tirreno, ma rischia di finirci. I pericoli della situazione italiana sono evidenti. L’economia è ferma ma la disoccupazione aumenta. Il Prodotto interno lordo cala e le entrate potrebbero presto diminuire. Il debito pubblico cresce e in capo a poche settimane potrebbe aumentare anche lo spread. Come si fa a ripetere agli italiani di stare tranquilli? Come si fa a invitare tutti a tornare nelle proprie cabine quando la nave rischia di affondare? Come si può essere così irresponsabili da respingere l’offerta dell’opposizione per un governo di unità nazionale? In condizioni simili, dopo il fallimento di tre governi straordinari – uno tecnico (il peggiore) e due politici (ma non scelti dagli elettori) – c’è poco da scherzare, come ha fatto capire ieri la sferzata di Mario Draghi. Soprattutto, c’è poco da rassicurare e fare i bulli. Di comandanti Schettino non abbiamo bisogno. Semmai abbiamo la necessità di un governo che abbia il coraggio di decidere e varare in fretta le riforme di cui questo Paese ha necessità. Che non sono quelle elettorali o la finta abolizione del Senato. Come ho scritto ieri, con quelle non si mangia. C’è bisogno d’altro. Di quel che ha detto ieri il governatore della Bce: nuove regole per il mercato del lavoro, meno tasse, un drastico taglio della burocrazia, una giustizia che funzioni. Ma per fare questo non serve continuare a ripetere di stare tranquilli. Né ci si può illudere che prima o poi l’Europa ci consentirà di allentare i vincoli di bilancio che ci costringono a una politica di rigore. Ancora Draghi è stato chiarissimo sulla necessità di darci una mossa, pena il commissariamento: non ci sarà alcuna concessione della Merkel o di Hollande e sperare che la nomina di Moscovici all’Economia ci favorisca è una pia illusione.

Renzi-Schettino la smetta dunque di ballare sul ponte di comando con Dominika. Blandire gli elettori, stordirli di parole e promesse non servirà a portare in salvo la nave con il suo equipaggio e i suoi viaggiatori. L’inchino per ottenere più consenso e più applausi finirà come è finita la Concordia: in fondo al mare. Se non vuole questo finale, se non vuole un default o un’uscita dell’euro, cosa di cui molti ormai parlano, il premier si svegli. Una manovra che non ci faccia affondare è ancora possibile.

Gufi e Pil

Gufi e Pil

Enrico Cisnetto – Il Foglio

Anch’io, come l’ottimo Giovanni Orsina, mi domando se Renzi mi abbia inserito nella lista dei “gufi” che da mesi evoca come i suoi veri oppositori (già, gli altri o fanno parte della maggioranza parallela o si sono liquefatti). E temo – pur contando sulla sua amicizia – che l’Elefantino mi voglia schiaffare d’autorità in quella che lui chiama, non senza ragione, «carognesca èlite» perché ho il vizio di badare alla fastidiosa variabile che si chiama andamento (congiunturale e strutturale) dell’economia. Sì, quel viziaccio che mi aveva procurato guai con il facondo Berlusconi (quello dei «ristoranti pieni»), con l’iracondo Tremonti (quello dell’Italia che «sta messa meglio degli altri»), con l’algido Monti (quello del «cresci Italia») e con il cocciuto Letta (quello della «luce in fondo al tunnel»). Tuttavia accetto il rischio e scanso ogni esitazione: l’avevo detto.

Sì, l’avevo detto che delle ripresa non c’era neppure l’ombra, anzi che saremmo tornati in recessione. L’avevo detto che gli 80 euro non si sarebbero tramutati in consumi e che quella non era la misura giusta (se non ai fini elettorali) per far riprendere la nostra economia. L’avevo detto che l’export non sarebbe bastato, intestato com’è a solo 12-15mila imprese, e che la crescita si fa solo con gli investimenti, a loro volta figli di una politica economica e industriale da piano Marshall. Così come avvertito di non dare la colpa a Bruxelles e Berlino – che pure ne hanno – perché sono un alibi a non fare. Come ora è un alibi dire che siamo in recessione perché si è fermata la Germania: il crollo dell’export è stato con i paesi extra Ue. Già, avevo visto meglio del Def (ci vuole poco). Ma non me ne vanto. E non traggo (ancora) conclusioni su Renzi e il suo governo. Insomma, io (come altri) guardavo la realtà, non facevo né il pessimista piagnone né tantomeno tifavo per la conservazione, né quella ideologica né quella in nome di interessi. Ho avuto ragione, ma me ne dolgo.

Non godo affatto nel sentire tornare la parola recessione nel lessico quotidiano. Non mi piace dover mettere in fila ben 17 trimestri con il Pil in rosso sui 28 trascorsi da inizio 2008. Anzi, soffro a vedere che ben 12 degli ultimi 13 trimestri hanno il segno medio davanti (unica eccezione il quarto trimestre 2013). E mi cospargo il capo di cenere. Sinceramente. Chiedo, però, solo una cosa: vorrei che chi ha sbagliato previsioni e scenari almeno avesse la franchezza di ammetterlo. E, soprattutto, che non diventasse recidivo. Eh sì, perché tra Renzi e Padoan non solo autocritica saltami addosso – abbiamo fatto tutto bene, la ripresa è lenta (veramente è la recessione ad essere svelta) ma se perseveriamo arriverà – ma pure giurano che «non c’è bisogno di fare alcuna manovra correttiva». Sicuri? Mi pare improbabile che, con il Pil che scende al denominatore (tre decimi di punto nel primo semestre), il deficit programmato nel Def al 2,6 per cento non sia da ricalcolare. Starà comunque entro il 3 per cento? Forse, ma sappiamo che l’Ue non farà sconti e visto che non ci ha concesso di far slittare il pareggio di bilancio dal 2015 al 2016 potrebbe chiederci di cominciare a limare fin d’ora. Inoltre molti dei provvedimenti del governo, a cominciare dagli 8 euro, sono assolutamente privi di reale copertura – se non si vuole usare la solita presa in giro dei proventi derivanti dalla lotta all’evasione e dalla spending review – e da qualche parte dovranno pur saltar fuori, e i margini di manovra sono stretti, come ha palesato la vicenda dei “quota 96” in cui la maggioranza ha dovuto rimangiarsi quanto promesso. Se infine aggiungiamo che, per effetto della deflazione, gli interessi sul debito ci costeranno altri 17 miliardi, solo parzialmente compensati dai bassi tassi pagati sui titoli di Stato, si capisce come l’intervento correttivo dei conti pubblici – per almeno una ventina di miliardi – sia una necessità e non l’ennesima invenzione dei menagramo. Anzi, rimandare a domani quello che andrebbe fatto oggi provocherà solamente l’acutizzarsi dei problemi e la necessità di intervenire ancor più pesantemente in futuro. No, purtroppo non c’è alcun iperbolico avanzo primario che tenga. La manovra andrà fatta. A meno che…

Ecco, c’è un solo modo per evitare i soliti tagli lineari e le solite tasse più o meno occulte: cambiare completamente registro. Sì, dotarsi di coraggio e dare la scossa che serve al paese attraverso una tripla azione di governo. Da un lato, un’operazione straordinaria sul patrimonio pubblico finalizzata sia all’abbattimento dello stock di debito che a rilanciare gli investimenti pubblici e favorire quelli privati, abbassando le tasse sulle imprese e sul lavoro. Dall’altro come ha suggerito il viceministro Calenda, un piano industriale nazionale che ci consenta di incrementare la quota sul Pil del manifatturiero e dei servizi ad alto valore aggiunto. Infine, avviare riforme strutturali – vere – che siano in grado di tagliare di 7-8 punti sul Pil quella spesa pubblica che, ultimi calcoli, nel 2014 arriverà a superare gli 825 miliardi., 16 in più di quanto programmato e il 7,8 per cento in più del 2013. Lo so, si tratta di politiche impegnative, faticose. Ma, senza, l’esito è già scritto. E ora, se credete, imbalsamatemi e mettetemi pure nella stanza dei gufi. Sic.  

L’ultimo avvertimento

L’ultimo avvertimento

Danilo Taino – Corriere della Sera

La sera del 25 maggio scorso, l’Italia era la beniamina dell’Europa: la netta vittoria di Renzi alle elezioni per il Parlamento di Strasburgo apriva una fase di possibile stabilità politica nella quale realizzare le sempre attese riforme strutturali. La terza economia dell’Eurozona sollevava nei governi e nei mercati aspettative del tutto nuove. Ieri, quella fase era già finita: da Francoforte, Mario Draghi ha separato il caso italiano da quello degli altri Paesi dell’area euro, i quali, mentre Roma rinviava, hanno, chi di più chi di meno, riformato le loro economie. L’Italia sembra tornata a essere il primo problema dell’Europa.

Anche con esempi per un governatore «non convenzionali» – il racconto di imprenditori e di giovani che in Italia non riescono a investire a causa della troppa burocrazia – il presidente della Banca centrale ha dedicato buona parte della sua conferenza stampa mensile a spiegare il perché nell’Eurozona siamo in presenza di una ripresa «non allineata»: i Paesi che hanno fatto le riforme strutturali – «mercato del lavoro, dei prodotti, concorrenza, giudiziario e così via» – crescono, gli altri no, come si è visto dagli ultimi dati del Prodotto interno lordo. Si possono avere tassi d’interesse ai minimi, la Bce può inondare i mercati di denaro, si possono tagliare le tasse (doveroso), ma tutto è inutile se le rigidità del sistema economico impediscono di aprire business, di assumere, di espandere la propria attività, di contare su mercati trasparenti e su norme certe e applicabili. La mancanza di riforme strutturali crea incertezza, «un fattore molto potente che scoraggia gli investimenti».

Poco più di due mesi dopo quel 25 maggio, nelle istituzioni, nei governi ma anche sui mercati, c’è insomma un cambiamento di clima nei confronti della capacità dell’Italia di rendere efficiente l’economia, quasi un contrordine. E questa è una delle ragioni per le quali Draghi insiste sulla necessità di cedere sovranità a Bruxelles anche per quel che riguarda le riforme strutturali: se un Paese non è in grado di farle, glielo si imponga, come già avviene con i bilanci pubblici e con la gestione delle banche. L’Italia è troppo importante e grande per essere lasciata andare a fondo.

Niente di cui essere soddisfatto, per il governo italiano. Il ritorno della recessione e l’analisi del presidente della Bce, non sono però una condanna senza appello per Renzi. Anzi, potrebbero essere un’opportunità per ridefinire priorità e urgenze e per assumere un approccio più solido alla Ue. Se la scelta di iniziare il cammino riformista con l’abolizione del Senato e non con interventi strutturali sull’economia ha probabilmente determinato una tempistica avventata, ora si tratta di mettere sul tavolo impegni precisi e tempi certi per realizzare riforme come quelle indicate da Draghi. Dall’altra parte, va messa in disparte la retorica polemica nei confronti dell’Europa che non darebbe abbastanza flessibilità ai bilanci pubblici, cioè alla spesa: è un argomentare fragile che, tra l’altro, ai partner che hanno fatto «i compiti a casa» appare come la scusa di chi non ha l’energia per impostare una svolta riformista. La Spagna, il Portogallo, l’Irlanda, persino la Grecia indicano che quando si fanno programmi seri di riforma e li si rispettano l’economia riprende fiducia e riparte prima di quanto ci si aspetti. E che, una volta sollevate, le aspettative non vanno poi lasciate cadere: il 25 maggio non è per sempre.