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Inps, rischio che sia necessario nuovo ripiano dallo Stato

Inps, rischio che sia necessario nuovo ripiano dallo Stato

Il Fatto Quotidiano – 3 aprile 2016

Dal 2012 l’Inps registra regolarmente una perdita di bilancio di oltre 11 miliardi l’anno che si attende sarà confermata anche per il 2016. Il suo patrimonio netto, che cinque anni fa misurava oltre 40 miliardi di euro, è ormai diretto verso la completa erosione e con esso i 21 miliardi di euro incassati tramite un intervento straordinario di ripianamento delle perdite risalente a due anni fa. Il dato emerge da una analisi del Centro studi ImpresaLavoro. A fine anno i conti dell’Istituto potrebbero essere ancora peggiori, innanzitutto perché per gli esercizi 2015 e 2016 il disavanzo è ancora una previsione, e in passato i consuntivi hanno fatto registrare delle perdite ben più ampie di quelle inizialmente preventivate. Anche se i dati per una volta risultassero in linea con le attese, il patrimonio netto fotografato al 31 dicembre 2016 non andrebbe oltre gli 1,8 miliardi, con la sostanziale imminente necessità di un ulteriore ripiano da parte dello Stato.

Uno degli aspetti più delicati, rileva Impresa Lavoro, è proprio la stima di quanti crediti verranno effettivamente incassati e su quanti invece l’Inps dovrà inevitabilmente gettare la spugna. Ad oggi le svalutazioni previste o effettuate si basano essenzialmente su due parametri ben definiti: il primo è l’anno di riferimento del credito (più lontano è nel tempo e minore è la probabilità di recuperarlo); il secondo è la gestione specifica a cui si riferisce (per alcune gestioni il recupero è più difficile che in altre). Impresa Lavoro ha scoperto che proprio negli ultimi bilanci questi criteri sono stati rivisti al ribasso. Quelli risalenti fino al 2009, indipendentemente dalla gestione cui si riferiscono (42,8 miliardi secondo gli ultimi dati disponibili), vengono svalutati al 99%, riconoscendone quindi la sostanziale irrecuperabilità salvo episodi del tutto sporadici. Per il triennio successivo la svalutazione è del 55% per le gestioni dei lavoratori dipendenti e gli agricoli, mentre è del 30% per gli artigiani e i commercianti e si limita al 10% per la gestione separata. Sui crediti relativi all’ultimo triennio è proposta una svalutazione media del 10%.

La gravità delle stime è in aumento sia per i parametri utilizzati (ben più pessimistici rispetto all’ultimo consuntivo), sia per il fatto che materialmente il recupero crediti non sembra sinora riuscito a sostenerle: di anno in anno il volume di contributi non incassati cresce e nel contempo cresce pure la quota che l’Inps deve accantonare al rispettivo fondo di svalutazione. Impresa Lavoro osserva infatti che le gestioni che mostrano le più basse probabilità di recupero sono quelle più rilevanti: 56,7 miliardi di crediti non incassati (il 54,3% del totale) si riferiscono alle gestioni dei lavoratori dipendenti (incluso le prestazioni temporanee) mentre in minoranza troviamo quelle dei commercianti (20,7%) e artigiani (15,3%). Solo per il 2,3% dei mancati incassi (e con anzianità dei crediti piuttosto bassa) pesa la gestione separata di parasubordinati e autonomi.

In particolare, c’è un costo che l’Inps ha finora sempre regolarmente sottostimato nei suoi bilanci preventivi: quello derivante dalla svalutazione dei crediti, ovvero di quella parte dei contributi che l’ente previdenziale si attende inizialmente di riscuotere ma che nei fatti viene persa. Il fenomeno – si legge nello studio – è dovuto a cause diverse: a parte gli evasori, si va dal caso di debitori falliti o liquidati oppure deceduti senza eredi che ne abbiano accettato l’eredità a quello di crediti caduti in prescrizione o per i quali ne viene accertata l’insussistenza. Per dare un’idea delle dimensioni del problema, la massa dei contributi non incassati dovrebbe superare a fine anno per la prima volta la quota dei 100 miliardi, crescendo nel frattempo al ritmo medio di 740 milioni di euro al mese (una tendenza ormai consolidata). Il loro ammontare esatto supererebbe quindi i 104 miliardi, di cui oltre la metà (56,3) sottoposti a svalutazione.

Sul fronte dei dati previdenziali, in Italia ci sono oltre 474.000 pensioni liquidate prima del 1980, quindi in vigore da oltre 36 anni. Il dato emerge dalle tabelle Inps sugli anni di decorrenza delle pensioni sugli assegni di vecchiaia (comprese le anzianità) e ai superstiti del settore privato, esclusi quindi sia gli assegni di invalidità previdenziale, sia quelli agli invalidi civili sia le pensioni sociali oltre naturalmente ai trattamenti degli ex dipendenti pubblici. Per le pensioni di vecchiaia l’età media alla decorrenza era di 54,9 anni mentre per quella ai superstiti l’età media era di 41,3 anni. In questi dati non sono compresi i baby pensionati del pubblico impiego che sono riusciti a uscire dal lavoro prima del 1992 con almeno 14 anni, sei mesi e un giorno di contributi se donne sposate con figli. L’Inps infatti al momento non diffonde statistiche anche sugli anni di decorrenza delle pensioni del settore pubblico.

Guardando solo al settore privato sono in pensione di vecchiaia da oltre 30 anni (pensioni con decorrenza antecedente al 1986) oltre 800.000 persone mentre altri 527.000 assegni sono ai superstiti. Una parte dei trattamenti potrebbe riferirsi alla stessa persona (nel caso abbia già prima di trent’anni fa avuto diritto alla pensione di vecchiaia e essendo anche superstite di assicurato). L’età media alla decorrenza era molto inferiore all’attuale perché ci si ritirava per vecchiaia a 55 anni se donne e a 60 se uomini. Se si guarda solo alle pensioni antecedenti al 1980 (quindi in vigore da almeno 36 anni) erogate per ragioni diverse dalla vecchiaia e dall’essere superstiti, le invalidità previdenziali sono 439.718 (44,5 l’età alla decorrenza) le pensioni sociali 24.308 (33 anni l’età media alla decorrenza) e 96.973 le pensioni agli invalidi civili (23,21 anni l’età alla decorrenza). Nel 2015 le pensioni liquidate per anzianità sono state 238.400 con un età media alla decorrenza di 62,55 anni mentre quelle ai superstiti sono state 173.378 con un’età media alla decorrenza di 73,89 anni.

«Ora investire in sicurezza»

«Ora investire in sicurezza»

di Massimo Restelli e Gian Maria De Francesco

Una delle prime reazioni dopo gli attacchi di Parigi e di Bruxelles è stata l’invocazione di una maggiore spesa pubblica nei settori sicurezza e difesa, spesso esposti a tagli da parte dei governi europei perché si tratta di costi facili da aggredire (l’ottusità di chi invoca la pace a tutti i costi ha semplificato il lavoro dei governanti). Ma davvero impiegare le nostre tasse per aumentare la nostra percezione di un ambiente sicuro e meno esposto alle insidie del terrorismo islamico può risolvere la questione quando l’Isis ha messo anche Internet tra i suoi obiettivi? La risposta è no e lo spiega bene Edward Marsh, direttore Aerospazio Sicurezza & Difesa della società di consulenza americana Frost & Sullivan.

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Nel 2015 il 60% dei contratti fissi con gli incentivi pubblici

Nel 2015 il 60% dei contratti fissi con gli incentivi pubblici

Francesco Di Frischia – Corriere della Sera

Su dieci contratti a tempo indeterminato stipulati nel 2015, in 6 casi il datore di lavoro ha beneficiato degli sgravi contributivi previsti dallo Stato. In termini assoluti su 2 milioni e 363 mila assunzioni a tempo indeterminato o trasformazioni di contratto a termine, 1 milione e 442 mila hanno potuto usufruire degli incentivi straordinari previsti dal governo. È il risultato di un’analisi fatta dal Centro studi «ImpresaLavoro» elaborando dati Inps. Per capire quanto siano stati importanti i contributi pubblici sul numero totale delle nuove attivazioni a tempo indeterminato, è utile analizzare il loro andamento mensile: a dicembre, ultimo mese disponibile per accedere al beneficio, sono stati attivati 181.900 contratti a tempo indeterminato contro gli 81.558 medi mensili del resto dell’anno, fa notare l’associazione che facendo trapelare un po’ di preoccupazione si chiede: «Cosa succederà quest’anno?».

Complessivamente nell’ultimo anno sono stati attivati 5 milioni e 408 mila nuovi rapporti di lavoro, (+11,1% rispetto al 2014). Di questi contratti, sottolinea ImpresaLavoro, il 62% è rappresentato da assunzioni a termine (3 milioni e 353 mila), il 3,4% da contratti di apprendistato (184 mila) e il restante 34,6% (1 milione e 87 mila) da assunzioni a tempo indeterminato. I contributi statali hanno riguardato tra queste nuove attivazioni il 57,7% dei casi. Grazie anche a questi incentivi i nuovi contratti a tempo indeterminato sono cresciuti su base annua del 46,9%. È calato invece drasticamente il ricorso all’apprendistato (-20,3%) e rimangono stabili i contratti a termine (-0,4%). Un altro aspetto importante del mercato del lavoro tocca le trasformazioni: lo scorso anno se ne sono registrate 578 mila a tempo indeterminato (+44,8% rispetto al 2014). L’85% di queste trasformazioni sono riferite a contratti a termine con una crescita del 49,4%. Il restante 15% è costituito da contratti di apprendistato trasformati in rapporti a tempo indeterminato: in questo segmento la crescita su base annua è stata del 23,2%. Gli sgravi contributivi previsti dal governo hanno così influito su queste trasformazioni al punto che il 73,8% di questi contratti ne ha potuto beneficiare.

«L’analisi dell’andamento degli occupati in Italia – commenta Massimo Blasoni, presidente del Centro studi ImpresaLavoro – segnala come non vi sia stato un incremento sensibile dei nuovi posti di lavoro e come la decontribuzione abbia favorito l’attivazione di nuovi contratti a tempo indeterminato perché molto vantaggiosi e la trasformazione di rapporti di lavoro a termine o atipici. Un obiettivo perseguito dal governo con l’impiego di risorse consistenti».

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Privatizzare, prima di tutto. Due chiacchiere con Massimo Blasoni

Privatizzare, prima di tutto. Due chiacchiere con Massimo Blasoni

Antonluca Cuoco – Strade

Proviamo per un attimo a immaginare di vivere in un’altra Italia, dove i cittadini possono decidere cosa fare dei soldi delle proprie pensioni senza essere obbligati a consegnarli agli sprechi dell’Inps, dove i diritti dei lavoratori pubblici e privati sono uguali, tutte le Tv sono private, in competizione e senza canone obbligatorio e dove non esistono partecipazioni pubbliche in società inutili (clamorosi sono i casi di quelle con più consiglieri d’amministrazione che dipendenti).

Nell’Italia dove invece viviamo per davvero, la pressione fiscale riconducibile alle amministrazioni locali è al massimo storico, come evidenziato dai dati della ricerca “La legge di stabilità 2016 e le prospettive della tassazione locale in Italia”, realizzata dal Cer in collaborazione con Confcommercio. 
Negli ultimi venti anni (1995-2015) le tasse locali sono passate da 30 a 103 miliardi di euro (+248%), mentre nello stesso periodo di tempo le tasse centrali sono cresciute del 72% da 228 miliardi a 393 miliardi. Di più: se nel 1998 meno del 9% dell’imposizione diretta era riconducibile alle Amministrazioni locali a fine 2014 tale quota è salita al 15%.

I dati evidenziano inoltre una marcata dicotomia tra nord e sud d’Italia sul fronte della tassazione. Focalizzando l’analisi sul Mezzogiorno, è amaro sottolineare quanto il Sud sia tra i maggiori pagatori a causa delle inefficienze del sistema. C’è uno scarto di 3-4 punti percentuali, una differenza analoga a quella che vediamo tra il nostro paese e la Germania. A Sud ci sono meno servizi e più imposte, e ancora più che nel resto d’Italia è evidente come le aliquote siano del tutto scollegate dai servizi resi in cambio. Immaginiamo un contribuente tipo con un imponibile Irap o un imponibile Irpef di 50 mila euro. A Roma la pressione Irap più Irpef arriva al 38% seguita da Campobasso e Napoli con il 37,4 e il 37,2%. Seguono Catanzaro, Palermo e L’Aquila con 36,8%. Le città più convenienti dal punto di vista fiscale sono Cagliari (34,8%), Bolzano (34%) e Trento (33,5%).

E’ necessario condurre una riflessione approfondita sulla presenza della mano pubblica nell’economia e nella società. Urge intraprendere un drastico processo di privatizzazione dei beni, immobili e mobili, e di liberalizzazione dei servizi pubblici. Bisogna privatizzare e contemporaneamente, laddove sussiste una situazione di monopolio od oligopolio protetto da barriere all’entrata, liberalizzare. Se da un lato privatizzando è possibile ridurre spesa e debito pubblico, e favorire lo sviluppo di un’economia più efficiente e meno gravata di imposte, dall’altro va ricordato che l’obiettivo fondamentale delle privatizzazioni deve essere quello di allargare gli spazi di libertà.

Di quest’altra Italia necessaria, più snella, aperta e competitiva, parliamo con chi in questo paese vive e fa impresa da oltre 20 anni; è Il presidente del Centro Studi Impresa Lavoro, Massimo Blasoni, che offre ottimi spunti di riflessione nel suo libro “Privatizziamo!

Volendo sintetizzare in un tweet gli argomenti svolti potremmo dire: meno Stato e più privato, così l’Italia riparte?

Sì, senza dubbio. Speso gli italiani restano perplessi di fronte a ipotesi di radicale contrazione degli spazi di intervento dello Stato nelle nostre vite. È comprensibile, perché a lungo si è dato per scontato che alcune funzioni pubbliche dovessero essere garantite, erogate e controllate da esso. E che quasi ogni atto dovessero soggiacere a una autorizzazione pubblica, concessa paternalisticamente o autoritariamente. Allo stesso modo ci si è abituati al fatto che lo Stato dovesse intervenire nei campi più disparati, occupandosi non solo di regolare, ma anche di produrre e vendere beni e servizi finanziati da tariffe o imposte. Ma è possibile ipotizzare in una società organizzata diversamente, con meno Stato e più ampi spazi per le attività private di imprese e famiglie. È un’ipotesi che pone l’accento su aspetti di libertà e, a ben pensarci, anche di giustizia sociale.

Per costruire il futuro, bisogna anzitutto studiare il passato: cioè la prima ondata italiana di privatizzazioni, tra il 1993 e il 2005. Come non ripetere gli errori?

Nel nostro Paese si è privatizzato poco e, soprattutto, male. Il fine non è stato migliorare la competitività di quelle imprese, ma piuttosto quello di cedere una parte delle azioni, per fare cassa, ben attenti a mantenere il controllo e il potere direttivo. Così è stato per Enel, Fincantieri, Finmeccanica e via dicendo. Il resto è storia recente. Consideriamo la privatizzazione delle Poste. L’azienda verrà venduta senza separare il servizio postale tradizionale dal Banco Posta, cosicché i profitti del secondo continueranno a sostenere il servizio core e in modo certo non trasparente. Esattamente l’opposto di ciò che ha fatto Google quando ha creato Alphabet. E la privatizzazione delle Poste non è certo sostanziale, visto che il Tesoro manterrà il 60% delle azioni e imporrà, per il residuo, un tetto del 5% al possesso azionario. Malgrado tutto ciò, grazie alle privatizzazioni lo Stato ha comunque incassato 127 miliardi di euro, anche se non ne ha approfittato per riconvertire e modernizzare l’economia italiana, o ridurre il debito pubblico. Resta moltissimo da fare, ma bisogna partire dal convincimento che lo Stato non deve gestire le imprese. Non ci sono poi solo le società del Tesoro, ma anche le migliaia di partecipate di comuni, province e regioni. Talvolta sono inutili o sono nate per dare una veste solo formalmente privata – vantaggiosa per maneggi politici – e andrebbero semplicemente chiuse. Negli altri casi è d’uopo privatizzarle: sono costate alla collettività 26 miliardi (relazione Corte dei Conti) nel 2014, pur rendendo servizi spesso inefficienti. Privatizzare correttamente non vuol dire creare nuovi monopoli, ancorché privati. Privatizzazioni e liberalizzazioni debbono procedere di pari passo. La concorrenza è altrettanto fondamentale per raggiungere i risultati che vorremmo in tema di qualità dei servizi e minor costo per i cittadini.

Siamo abituati a pensare che sia ovvio e normale che uffici pubblici, scuola, sanità, pensioni, acqua, siano attività gestite direttamente dallo stato. In che modo “Privatizziamo!” dimostra che un diverso modello è possibile e migliora la vita di famiglie e imprese?

Il peso dello Stato frena tutta l’economia. Il governo di David Cameron ha ridotto tra il 2010 e il 2013 la spesa di una quantità che, tradotta in termini italiani, equivale a 16 miliardi di euro l’anno. In un triennio sono quasi 50 miliardi di spese minori. E oggi l’economia britannica, nonostante sia stata colpita da una crisi finanziaria più grave di quella che ha investito l’Italia, cresce tra il 2 e il 3% annuo. Da noi la spending review è rimasta nel cassetto. Se solo fossimo riusciti ad un andamento della spesa primaria pari a quello della media della zona euro dal 2010 a oggi, il risparmio sarebbe quest’anno di una trentina di miliardi. Ma perché in Italia è tanto difficile ridurre la spesa? Il vero motivo risiede nel grande spazio che Stato, regioni e comuni, in una parola la politica, occupano nell’economia nazionale. Fintanto che quello spazio non verrà drasticamente ridotto, la spesa potrà essere contenuta, ma non scenderà abbastanza da consentire un taglio significativo delle tasse. Lo Stato che spende non brilla affatto per oculatezza e se la spesa è improduttiva non genera effetti moltiplicatori. Quegli stessi denari in mano a famiglie e imprese, di norma, sarebbero invece un volano per l’economia perché spesi meglio e più rapidamente.

Se avessimo la stessa la pressione fiscale spagnola, noi italiani pagheremmo 145 miliardi di euro in meno; anche questo è spread e penalizza pesantemente tutto il ceto produttivo della penisola: sbaglio o è un miracolo se siamo ancora in piedi?

Le tasse in Italia sono passate dal 25% del pil nel 1975 al 50% di oggi perché lo Stato e i suoi apparati sono enormemente cresciuti, e questo frena tutto il Paese. Ma per chi si ostina a fare impresa la situazione è ancora più drammatica. Il nostro costo del lavoro è alto: è noto. Ma il problema più rilevante è che una parte eccessiva di quei denari non finisce in tasca ai lavoratori, ma in tasse. Esattamente il 48,2% nel 2014, contro una media Ocse del 36%. Una percentuale molto più alta che in Giappone o Usa, entrambi intorno al 30%, o in Spagna (41%) e Olanda (38%). Quanto alla total tax rate, cioè al carico fiscale complessivo di ogni tributo compreso che grava sui profitti delle imprese, vale la pena di citare qualche dato. In Italia è il 65,4% (fonte Doing Business 2015), in Germania è il 48,8%, nel Regno Unito il 33,7%, in Irlanda il 25,9%. Un peso obiettivamente eccessivo, che disincentiva l’intrapresa in Italia e gli investimenti esteri.

Se lavori vieni pagato, se lavori molto bene vieni pagato di più, se non lavori vieni licenziato: cosa deve accadere perché questo sogno meritocratico diventi realtà?

Sindacato, magistratura e università rappresentano ruoli e funzioni imprescindibili nella società. La tutela dei lavoratori, la garanzia di una giustizia basata sulla terzietà di chi l’amministra e la conoscenza aperta a larghi strati della popolazione sono conquiste relativamente recenti, sicuramente irrinunciabili. Ciò malgrado, oggi in Italia percepiamo, non del tutto a torto, questi ambiti anche come centri di potere, qualche volta autoreferenziali e certo poco inclini a vedere riformato il proprio ruolo in considerazione del mutare dei tempi. Per crescere le nostre aziende hanno bisogno di un mercato del lavoro flessibile, di elasticità contrattuale e di un sindacato non necessariamente antagonista. Possiamo girarci in tondo ed edulcorare il concetto, ma vi sono situazioni in cui è necessario licenziare, premiare il merito (sempre) o lavorare di più (talvolta). La lentezza della giustizia, soprattutto civile, ci fa perdere un punto percentuale di pil all’anno e ci posiziona al 147esimo posto su 183 Paesi in quanto a tempi ed efficacia nella risoluzione dei contratti civili. E se dei tempi della giustizia soffrono tutti i cittadini, per le imprese è forse ancora peggio. Infine, che senso ha un sapere accademico che rischia di essere solo preservazione del passato se non diventa opportunità di lavoro e risorsa per il mondo produttivo?

Privatizziamo! non sembra voler essere un pamphlet contro la politica. Non è pensabile una società senza regole e senza democrazia ma i tempi che viviamo ci pongono sfide nuove e complicate: come attrezzarsi e con quali strumenti vincerle?

Giustizia sociale, democrazia, libertà e diritto sono più facilmente garantiti in una società che cresce e produce ricchezza. Non perché l’economia sia l’antecedente della politica, come credono, ad esempio, i marxisti, e tutto si risolva nell’ambito delle relazioni economiche tra gli uomini. Ma perché il lavoro, un’equa retribuzione o sistemi pensionistici e sanitari, universali ed efficienti, non sono garantiti per decreto, ma sono il prodotto di un’economia libera e di produttori messi nella condizione di creare ricchezza. Occorre creare le condizioni perché ciò avvenga, non dirigisticamente o con spese e investimenti pubblici enormi, semmai agevolando le condizioni dello sviluppo. Non un’Italia senza Stato, insomma, ma con uno Stato che legifera e vigila, non che produce e pervasivamente di tutto si occupa.

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“Lo Stato riduca al minimo il suo raggio d’azione”

“Lo Stato riduca al minimo il suo raggio d’azione”

Intervista di Antonio Signorini (Il Giornale) a Massimo Blasoni

blasoniintLo Stato deve ridurre al minimo il perimetro della sua azione e lasciare al privato quei servizi che il mercato è in grado di rendere più efficienti. Compresa la gestione della pubblica amministrazione. Massimo Blasoni è un imprenditore di prima generazione, ha dato vita al centro studi ImpresaLavoro e ora con il libro “Privatizziamo!” (Rubbettino, 184 pagine, 12 euro) avanza una proposta di riforma radicale.

C’è ancora spazio per idee come la sua?

«Privatizzare è l’unica via per ridurre l’assurdo carico fiscale. Negli anni Settanta la pressione fiscale in Italia era il 22 per cento del Pil, oggi supera il 42,6 per cento e questo è il risultato di un continuo ampliamento del perimetro dello Stato».

A cosa è servito l’aumento della spesa pubblica?

«A creare una burocrazia sempre più invadente che rende difficile il lavoro degli imprenditori. Per fare degli esempi, in Italia per una concessione edilizia bisogna aspettare 227 giorni contro i 96 della Germania ei 105 del Regno Unito. Se fossero privatizzati gli uffici tecnici del Comune e fosse un gruppo di professionisti associati a gestire le concessioni, con remunerazioni legate alla celerità delle risposte, i tempi sarebbero altri. Forse nessun cittadino e imprenditore si sentirebbe rispondere dietro lo sportello, che il funzionario non c’è, che bisogna ripassare dopo le ferie. Secondo me nessuno si scandalizzerebbe nemmeno se fosse esternalizzata l’anagrafe».

Lei propone di privatizzare funzioni della pubblica amministrazione. È un’idea radicale…

«Il libro si chiama Prívitizziamo! Ma non propone solo privatizzazioni di aziende pubbliche. Bisogna essere coscienti che l’organizzazione sociale che conosciamo non è l’unica possibile, siamo solo abituati a pensarlo. Il fatto che uffici pubblici, scuola, sanità, pensioni e acqua siano attività gestite direttamente dallo Stato non è il frutto di un ordine necessario».

L’obiezione che i servizi pubblici perché devono restare a disposizione di tutti…

«A questa obiezione rispondo con i dati delle tariffe telefoniche. Dopo la privatizzazione, in 10 anni, solo calate dell’11,5%, mentre quelle dell’acqua, che è ancora pubblica, sono aumentate del 78,6%. Nel pubblico ci sono costi che il privato non deve sostenere. Poca efficienza, intermediazione politica. Oggi un sindaco fa fatica a decidere. Nel Comune privatizzato, fatti salvi i compiti istituzionali e politici, un primo cittadino potrebbe comportarsi come un imprenditore che premia il merito, assume e licenzia. Tutto questo a beneficio del cittadino».

Ci sono servizi che devono essere comunque garantiti?

«Ci sono funzioni che deve svolgere direttamente lo Stato. La difesa interna ed esterna, la magistratura. Poi ci sono servizi che devono essere completamente liberalizzati con conseguente riduzione delle tasse a carico del cittadino. Sono quelli pubblici, ma che riceviamo in proporzione a quanto paghiamo. È il caso delle pensioni. L’Inps ha avuto uno sbilancio di oltre 12 miliardi l’anno scorso. Perché non lasciare ai cittadini il miglior gestore possibile dei propri denari?».

E i servizi garantiti?

«Sono quelli per i quali riteniamo non ci debba essere proporzionalità tra quanto diamo e quanto riceviamo. La sanità ad esempio. Deve restare pubblica e finanziata dai contribuenti. Un modello solidale che non significa gestione pubblica. Chiariamoci, non immagino una sanità all’americana, con cittadini più abbienti privilegiati perché possono permettersi un’assicurazione migliore. Nel libro si propone che lo Stato acquisti sul mercato, quindi in regime di concorrenza, beni e servizi da offrire ai contribuenti. La differenza è che quei servizi sarebbero gestiti molto meglio».

Il centrodestra è ancora sensibile a proposte liberali come la sua?

«Occorre una politica con più competenze, ma meno professionale e questo non può che realizzarlo il centrodestra, riprendendo in mano le tesi di una vera rivoluzione liberale. I segnali che arrivano dal governo Renzi non sono certo di una riduzione del peso dello Stato. Il mondo intorno a noi è ben più competitivo che solidale, dunque per rilanciare il nostro Paese servono misure radicali: i posti di lavoro non si creano per decreto, ma favorendo un’economia che funziona. Con meno Stato e più privato».

Renzi, Padoan e l’incognita del Pil

Renzi, Padoan e l’incognita del Pil

di Luca Fornovo

Dopo le pagelle poco incoraggianti dell’Europa sull’economia italiana, stamattina arriva un test importante per il governo del premier Matteo Renzi che lo metterà alla prova sia sulla bontà delle sue previsioni che sulla credibilità di cui potrà godere in un futuro prossimo in Europa.

L’Istat diffonde tra poche ore i dati su Prodotto interno lordo (Pil) e indebitamento nel 2015 e la stima su occupati e disoccupati a gennaio del 2016. Manco a dirlo, gli occhi sono puntati sul debito, che si sa è più alto del previsto, ma soprattutto sulla crescita che stenta a decollare.

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Le attese ottimistiche aiutano nel braccio di ferro con la Ue

Le attese ottimistiche aiutano nel braccio di ferro con la Ue

Luigi dell’Olio – Italia Oggi

All’analisi del Centro studi ImpresaLavoro presto potrebbe aggiungersi un altro tassello di errori per eccesso di ottimismo. Infatti, anche per il 2016 l’Italia si avvia verso una crescita su ritmi più contenuti rispetto a quanto stimato dal governo. Nei giorni scorsi l’Ocse ha detto di attendersi per l’anno in corso un Pil in crescita dell’1% netto rispetto a quanto registrato nel 2015, contro il +1,6% usato dall’Esecutivo nella definizione della legge di Stabilità. Uno scostamento non di poco conto, dato che sta a indicare il 37,5% di crescita stimata in meno. Evidentemente Renzi e i suoi ministri si attendevano una più rapida ripresa da parte della Cina e non avevano messo in conto un nuovo indebolimento delle principali grandezze macro nel Vecchio continente.

Tuttavia, se si considera che gli errori negli ultimi anni sono stati generalizzati, senza particolari differenze quanto al colore politico della compagine di governo, è legittimo avanzare il sospetto che non si sia trattato solo di valutazioni errate per incapacità. A maggior ragione se si considera che gli errori nella medesima direzione hanno coinvolto anche gli esecutivi guidati da economisti. Probabilmente nella redazione dei documenti di bilancio per l’anno a venire entrano in gioco una serie di valutazioni politiche che vanno a inficiare la “purezza” delle stime. Questo vale a maggior ragione dall’ingresso in Europa, con tutti i paletti che ne conseguono per i singoli Stati aderenti.

Nel momento in cui il governo indica la sua previsione in merito al Pil dell’anno successivo, fissa una bandierina intorno alla quale costruire tutti gli interventi. Infatti, dai tagli di spesa a eventuali nuove tasse fino alla dismissione di beni pubblici, tutto viene parametrato al Pil atteso in modo da rispettare i vincoli europei. Eccedere nell’ottimismo significa non dover agire con l’accetta, quanto meno in un primo momento. Se poi nella realtà si verificano le condizioni che confermano le previsioni, ogni preoccupazione viene accantonata. Se la crescita si rivela invece inferiore alle attese, si potrà imputare il dato a cause esterne (come la turbolenza dei mercati finanziari o l’improvvisa frenata degli emergenti) per sforare rispetto alle regole europee. In caso di stime effettuate con un atteggiamento prudenziale, si rischierebbe un effetto poco gradito dai politici: quello di una crescita economica superiore alle attese che farebbe accelerare il calo del deficit e del rapporto debito/pil più di quanto imposto dall’Europa. A quel punto reclamare spazi di manovra per premiare il rispetto delle attese sarebbe difficilmente produttivo.

Considerazioni da tenere ben presenti nelle prossime settimane, dato che è iniziata l’analisi in vista del Def 2017 che già parte con 24 miliardi di euro da trovare per non far scattare le clausole di salvaguardia (a cominciare da un nuovo aumento dell’Iva). E il conto è destinato a salire per finanziare interventi a sostegno della crescita. Così non ci sarebbe da stupirsi in caso di nuove stime ottimistiche.

A volte anche i friulani si incazzano, e uno di loro vuole privatizzare tutto

A volte anche i friulani si incazzano, e uno di loro vuole privatizzare tutto

Tino Oldani – Italia Oggi

La pressione fiscale era intorno al 15% del pil in epoca fascista, è salita al 18% nel dopoguerra, per attestarsi intorno al 20% nel 1972, quando Bruno Visentini varò una storica riforma tributaria, che introdusse la trattenuta alla fonte sui redditi da lavoro. Da allora, la pressione fiscale è cresciuta di continuo, fino ad attestarsi al 43,7% attuale, con le tasse locali che negli ultimi vent’anni sono cresciute del 248% e quelle nazionali del 72%. È da questi dati che prende le mosse un bel libro («Privatizziamo!»; Rubbettino), scritto da un imprenditore di prima generazione del Nord Est, Massimo Blasoni, 45 anni, che, in base all’esperienza personale (è stato anche in politica), giudica ormai inaccettabile la pervasività asfissiante dello Stato in ogni settore, uno Stato cresciuto troppo, che si nutre di troppe tasse, uno Stato inefficiente e in perenne deficit, che va messo a stecchetto al più presto, con una radicale politica di privatizzazioni, lasciando al settore pubblico soltanto l’esercito, la giustizia e la polizia, oltre al compito di fare le leggi.

Blasoni è a capo di un’azienda che costruisce e gestisce residenze sanitarie per anziani, ha 1.600 dipendenti, e fa buoni utili. In passato è stato consigliere comunale a Udine per Forza Italia, ed è stato poi eletto consigliere regionale in Friuli, risultando il più votato. Ma, di quell’esperienza, non conserva un buon ricordo. Anzi, nel libro racconta la delusione che provò quando propose di istituire un Fondo regionale di garanzia, per dare liquidità alle aziende friulane in crisi, e la burocrazia regionale si mise di traverso. Un superburocrate regionale non trovò di meglio che affossare l’iniziativa con un sorrisetto di scherno: «Eh, voi imprenditori. Gli imprenditori evadono, già facciamo molto per le imprese, bisogna sostenere i lavoratori non le imprese, e la burocrazia ha i suoi tempi”. Purtroppo, tempi vergognosamente lenti: “Da un anno e mezzo”, annota Blasoni, “attendo la concessione di una licenza edilizia in Veneto, e con me tutti i lavoratori impegnati nel progetto, mentre le Asl piemontesi impiegano mediamente dieci mesi per i pagamenti».

Uscito dalla politica, Blasoni ha fondato un proprio centro studi (ImpresaLavoro), che negli ultimi due anni ha messo insieme una montagna di dati sui danni dello statalismo. I confronti con gli altri paesi sono impietosi. Se in Italia ci fosse la stessa pressione fiscale che c’è in Germania (39,4%, contro il nostro 43,7%), pagheremmo 54 miliardi di tasse in meno ogni anno. Andrebbe ancora meglio se da noi ci fosse la pressione fiscale della Spagna (34%): 145 miliardi di tasse in meno. Per rilasciare una concessione edilizia, la burocrazia italiana impiega 233 giorni, contro 96 della Germania e 87 della Gran Bretagna. Lo Stato, in media, paga le forniture private con un ritardo di 144 giorni, mentre la media Ue è di meno di un mese, con il risultato che lo Stato non è ancora riuscito a pagare i debiti che aveva con i fornitori privati, cosa che Matteo Renzi ha dato più volte per fatta. «Come ha certificato la Banca d’Italia, mancano ancora 70 miliardi», sostiene Blasoni.

La scarsa efficienza di tutti i servizi pubblici, dalla sanità agli sportelli comunali, si deve al fatto che lo status dei dipendenti pubblici è tuttora diverso da quello dei privati, un punto sul quale né il Jobs act, né la riforma Madia hanno cambiato una virgola. «Lo so per esperienza diretta», dice Blasoni: «Un sindaco non ha neppure il potere di spostare un impiegato da un ufficio a un altro. E un lavoratore privato, quando deve fare la fila a uno sportello pubblico, è il primo a toccare con mano che i tempi di lavoro dell’impiegato pubblico sono molto diversi da quelli che vigono in ogni azienda privata. Ecco perché serve una riforma vera della burocrazia, che renda paritario lo status dei dipendenti pubblici e privati, ma soprattutto privatizzi tutti quei servizi che i privati svolgerebbero con maggiore efficienza rispetto a Comuni e Regioni».

Lo Stato vuole fare tutto, anche l’immobiliarista, ma lo fa male. «Prendiamo l’Inps: possiede 22.500 immobili, del valore di 3,2 miliardi, ma ci rimette più di 100 milioni ogni anno nella gestione. È il segno che funziona male», sostiene l’imprenditore friulano. «Visto che la riforma Fornero ha reso le pensioni contributive, che senso ha fare gestire ancora i contributi previdenziali a un ente pubblico inefficiente come l’Inps? Una società privata li gestirebbe meglio. Lo Stato, poi, che aspetta a dismettere l’immenso patrimonio immobiliare, visto che lo gestisce così male?».

L’organizzazione del settore pubblico che conosciamo non è l’unica possibile. Siamo solo abituati a pensarlo. Ma non sta scritto da nessuna parte che uffici pubblici, scuola, sanità, trasporti, pensioni e acqua debbano essere gestite direttamente dallo Stato. Tanto più se il costo dell’intermediazione politica (fatta di Cda, assunzioni ingiustificate e gestione non economica degli acquisti) genera costi impropri, che vengono fatti pagare a tutti noi, famiglie e imprese, con una tassazione folle. Contro lo Stato cattivo imprenditore e cattivo immobiliarista, che si è trasformato in un’idrovora fiscale pur di mantenere un apparato burocratico pletorico, a stipendio garantito e ostile all’impresa, c’è un solo rimedio, per Blasoni: privatizzare. Difficile dargli torto.

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Distribuiti 8 miliardi pubblici, più di metà alle partecipate

Distribuiti 8 miliardi pubblici, più di metà alle partecipate

Mirko Molteni – Libero

Nella galassia italiana delle aziende partecipate dagli enti locali, gli ultimi anni hanno visto un panorama quasi stabile, per l’ammontare complessivo dei contributi alle imprese. Ma al suo interno sono aumentati i finanziamenti ai soggetti pubblici, a scapito però dei destinatari privati. Emerge da un nuovo rapporto realizzato dal Centro Studi ImpresaLavoro, istituto che raggruppa esperti di ispirazione liberale, e divulgato oggi in esclusiva dal nostro quotidiano.

L’indagine esclude le aziende di tipo sanitario-ospedaliero, ed è basata su dati del Siope, il «Sistema Informativo sulle Operazioni degli Enti Pubblici». Copre gli anni dal 2011 al 2014 compresi, lasciando fuori il 2015 di cui mancano informazioni complete. Anzitutto spicca come il totale dei fondi si sia mantenuto sopra gli 8 miliardi di euro, pur con tendenza altalenante. Se infatti nel 2011 gli enti locali hanno versato alle imprese partecipate un totale di 8.451 milioni di euro, nell’anno successivo la cifra era calata a 8.110, per risalire aun picco di 8.605 nel 2013 e scendere agli 8.218 sganciati fra gennaio e dicembre del 2014.

Fra alti e bassi la situazione complessiva sembra dunque quasi immutata, ma il Centro Studi ImpresaLavoro ha scavato sotto la superficie notando come, dietro le apparenze, nei quattro anni presi in esame molto in verità sia cambiato. I trasferimenti sono stati infatti ridistribuiti pesantemente a favore delle aziende pubbliche, per le quali l’aumento medio in tutto l’intervallo 2011-2014 è stato di ben il 35%. Alle ditte private partecipate, invece, è toccata nel medesimo periodo una diminuzione complessiva del 17%, ammanco che di questi tempi potrebbe essere definito grave. Numeri alla mano, infatti, i trasferimenti alle pubbliche sono decollati di ben un miliardo di euro, dai 2.668 milioni del 2011 ai 3.602 del 2014.

Quasi speculare la discesa sul lato delle private, da 4.705 a 3.890, cioè oltre 800 milioni in meno. In pratica l’ammontare dei fondi rivolti ai due principali settori si avvia a diventare all’incirca equivalente. Per quanto concerne il profilo degli enti locali più coinvolti, sono le Regioni, in media, a rafforzare il proprio ruolo, arrivando a coprire ben il 77 % dei contributi, mentre gli altri enti, fra Comuni, Province, Città Metropolitane e Unioni di Comuni, non vanno oltre il 23% tutti insieme e sono più costretti a tirare la “cinghia”. Nel dettaglio delle sole imprese pubbliche si nota poi che sono rimasti piuttosto stabili i trasferimenti correnti, mentre quelli in conto capitale hanno avuto un’evoluzione molto diversa a seconda degli enti, poiché le Regioni, confermatesi ancora una volta dalle spalle più larghe, li hanno raddoppiati, da 766 a 1.505 milioni, mentre i conto capitale dagli altri enti sono stati più ondivaghi risultando nel 2014 circa la metà che tre anni prima. La situazione ha andamenti un po’ ribaltati nelle partecipate private, dove invece “tengono” Comuni e Province con trasferimenti piuttosto stabili, mentre le Regioni hanno calato i trasferimenti correnti, da 1.498 a 1.282 milioni, e soprattutto quelli in conto capitale, da 2.725 a 2.102 milioni.

L’analisi propone anche l’ammontare pro-capite delle spese per imprese pubbliche regione per regione, notando che ai vertici della classifica stanno tre regioni a Statuto Speciale come Trentino Alto Adige (295 euro per abitante), Val d’Aosta (205 euro) e, ben di- stanziato, Friuli Venezia Giulia (116). Locomotive del Paese, come Lombardia (33 euro per abitante) e Veneto (29) in posizione medio-bassa della classifica, a testimoniare non solo una minor dipendenza delle imprese pubbliche dai fondi degli enti locali, ma anche una diversa efficienza in rapporto al numero di abitanti.

In Italia se sei straniero trovi lavoro prima

In Italia se sei straniero trovi lavoro prima

Laura Della Pasqua – Il Tempo

I Paesi europei in cui i cittadini stranieri sono occupati più e meglio dei cittadini nazionali si contano sulle punte delle dita di una mano. E l’Italia è uno tra questi. Secondo una ricerca realizzata dal Centro Studi ImpresaLavoro analizzando gli ultimi dati Eurostat disponibili, quelli del 2014, il tasso di occupazione dei cittadini italiani nel nostro Paese è del 55,4%, quasi dieci punti percentuali in meno della media Ue (65,2%). Mentre siamo sopra la media europea per occupati tra lavoratori extra-Ue.

Secondo il Centro Studi infatti se si prende in considerazione la percentuale di occupati tra i lavoratori extra-Ue residenti in Italia, la posizione in classifica del nostro Paese vola verso l’alto. Il nostro 56,7%, infatti, è sopra sia alla media Ue (53,2%) sia alla media dell’area euro (52,1%). E il 28° posto su 30, conquistato a stento dai lavoratori di cittadinanza italiana, diventa un 13° posto su 29 (per la Slovacchia non sono disponibili dati aggiornati) quando si tiene conto soltanto dei lavoratori extra-comunitari.

Si tratta di un dato in netta controtendenza rispetto a quanto avviene abitualmente negli altri Paesi e soprattutto nelle altre economie avanzate del continente. Solo altri quattro Paesi europei oltre all’Italia, infatti, hanno tassi di occupazione più bassi tra i propri connazionali rispetto a quelli fatti registrare tra i lavoratori extracomunitari: si tratta di Repubblica Ceca (-6,5%), Lituania (-7,3%), Ungheria (-8,2%) e Cipro (-14,5%).

In tutto il resto d’Europa, la differenza è a favore dei cittadini dei Paesi presi in esame. Il fabbisogno di manodopera a basso costo e la necessità di reperire personale per mansioni di cura garantiscono una maggiore appetibilità della forza lavoro immigrata e, in caso di perdita del lavoro, una maggiore rapidità per rientrare nel mercato. Accettando lavori pagati meno e meno qualificati, insomma, gli immigrati lavorano più degli italiani.

Una delle caratteristiche del mercato del lavoro immigrato in Italia resta però la forte esclusione della componente femminile, che va a riempire quasi totalmente il bacino degli inattivi. Il tasso di disoccupazione delle donne egiziane (45,6%), pakistane (38,5%), tunisine (35,4%), marocchine (34,6%), albanesi (31,7%) è elevatissimo, ma ben più grave è il fenomeno dell’inattività.

Gli stranieri in età da lavoro nel 2014 in Italia sono 4 milioni, di cui 2.294.120 occupati, 465.695 in cerca di lavoro e 1.240.312 inattivi.