Il clima è tornato positivo ma serve una politica industriale
Enrico Cisnetto – Il Messaggero
Per credere alla moltiplicazione dei pani e dei pesci serve un atto di fede, e io ho sempre preferito i numeri al «credo». Così, quando ho visto che la Confindustria ha sparato al rialzo le previsioni di crescita del pil 2015 dallo 0,5 per cento al 2,1% (e per il 2016 dall’1,1% al 2,5%), rispetto a quelle che aveva diffuso a dicembre, sono saltato sulla sedia. Magari, mi sono detto. Ma queste ipotesi non trovano riscontro in nessuna delle altre stime uscite in questi giorni: né di Bankitalia (+0,4% nel 2015 e +1,2% nel 2016), né di S&P (rispettivamente +0,2% e +0,8%); la più ottimista, Prometeia, non va oltre +0,7% e +1,4%. Allora? Certo, alcuni fattori positivi non mancano. Il commercio mondiale è in crescita e la discesa dell’euro sul dollaro (quasi il 10% negli ultimi 45 giorni. il 16% in sei mesi) spinge il nostro export, che già copre un terzo del pil. Inoltre, se il prezzo del petrolio restasse agli attuali 45 dollari al barile per tutto il 2015 (rispetto ai quasi 100 di inizio ottobre) l’Italia risparmierebbe 24 miliardi, ovvero l’1,5% del pil (occhio, però, perché Claudio Descalzi, numero uno dell’Eni, già prevede che nel secondo semestre le quotazioni tenderanno ai 60 dollari). I tassi d’interesse, poi, sono stracciati. Ma si tratta di positività in atto da tempo, gia ampiamente scontate nelle stime di fine 2014.
E allora. come mai Confindustria ha moltiplicato per quattro? Si dice: le politiche monetarie appena varate dalla Bce sono «manna dal cielo», dovrebbe valere 1,8 punti di pil aggiuntivi. Ma, a parte che nessun altro attribuisce al QE gli stessi effetti taumaturgici, è oggettivamente difficile credere che, da solo, possa generare 30 miliardi di valore aggiunto. Sia chiaro, l’operazione di Draghi è benefica. Ma, intanto, potrebbe saltare per l’Italia se il rating del nostro debito dovesse scendere di un solo gradino (dall’attuale BBB- a C, livello spazzatura). E poi, il permanere della recessione, fin qui, non è certo dovuto a mancanza di liquidità. Se il denaro non affluisce all’economia reale e per la somma di tre ragioni: perché le banche sono costrette a rispettare requisiti patrimoniali sempre più stringenti; perché latitano le imprese con progetti industriali solidi, che non chiedano prestiti solo per tappare vecchi buchi; perché il clima di sconforto e rassegnazione ostacola la spinta agli investimenti, vero motore della crescita.
Ma se la psicologia può anche invertirsi in modo repentino – per l’Istat la fiducia delle imprese a gennaio ha segnato il massimo da settembre 2011 – è difficile che il nostro capitalismo possa liberarsi dei suoi atavici problemi in qualche settimana. Dopo sette anni di crisi un rimbalzo positivo è fisiologico, ma non basta a fermare il declino. Il motore della nostra economia produttiva ha sì bisogno di benzina, ma anche e soprattutto di un’accurata revisione. Serve, dunque, una politica industriale che metta in campo risorse e strategie di lungo termine, che lasci perire le aziende decotte e che spinga su manifatture ad alto valore aggiunto in grado di competere sui mercati internazionali e recuperare quel 35% di competitività tecnologica perduta negli ultimi 15 anni. Le risorse umane ci sono, il vento economico è favorevole. Più che con l’ottimismo di maniera, gli atti di fede o la corsa a prendersi il merito di una ripresa che ancora non c’è, bisognerebbe cogliere l’occasione nei fatti.