Così la Thatcher ha cambiato verso alla lagna sui “giovani penalizzati”

Luciano Picone – Il Foglio

Uno Stato leggero e un sistema di mercato non eccessivamente gravato da vincoli di ogni tipo, che premia il merito e non ostacola la concorrenza, favorisce soprattutto i giovani. Un recente studio dell’Office for National Statitics, l’Istat britannico, sui “Salari nel Regno Unito negli ultimi quattro decenni”, mostra con estrema chiarezza gli effetti di lungo periodo sugli stipendi della “rivoluzione liberale”, nel paese che negli anni 80 è stato il laboratorio mondiale della riscossa “neoliberista”. Nell’immaginario collettivo i baby boomers, i nati nel Dopoguerra rappresentano la generazione più fortunata, quella che ha beneficiato della crescita economica e dell’aumento dei consumi, incappando nella Grande depressione soltanto subito prima o subito dopo la pensione. Secondo i dati elaborati dall’ufficio di statistica inglese, le cose non stanno proprio così. Quelli che in Gran Bretagna hanno iniziato a lavorare nel 1975, sotto il governo laburista di Harold Wilson e nell’apogeo dello Stato assistenziale beveridgiano, hanno guadagnato in termini reali molto meno dei loro coetanei che hanno iniziato a lavorare nel 1985 e nel 1995, durante e dopo il ciclone Thatcher. Chi ha trovato la prima occupazione nel 1995 guadagna il 40 per cento in più rispetto ai suoi genitori in 18 anni di lavoro: «Questa differenza di retribuzione – scrive l’Ons – significa che coloro che hanno iniziato a lavorare nel 1975 devono lavorare tre-quattro anni in più di quelli che hanno iniziato a lavorare nel 1985 e 5-6 anni in più di coloro che hanno iniziato a lavorare nel 1995 per accumulare la stessa ricchezza». Sempre al netto dell’inflazione, lo stipendio mediano di un lavoratore del 1975 era di 6,17 sterline l’ora, mentre nel 2013 è di 11,56 sterline, circa il 90 per cento in più. E se nel 1975 lo stipendio più alto nella carriera professionale di una persona era di circa 7 sterline l’ora, la somma è raddoppiata nel 2013. Una tendenza opposta a quella italiana. Nel nostro paese ricchezza e redditi più alti sono appannaggio dei più anziani, mentre scendono le retribuzioni dei più giovani. Secondo la Banca d’Italia, dal 1991 al 2012 il reddito è salito sia per gli over 55 (dal 104 al 122 per cento rispetto alla media generale) che per gli over 65 (dal 95 al 114 per cento), «per le classi di età più giovani, invece, il reddito equivalente diminuisce significativamente rispetto alla media generale: il calo è di circa 15 punti percentuali per le persone fra 19 e 34 anni e di circa 12 punti percentuali per quelli tra 35 e 44 anni». La crisi dell’Eurozona non ha mutato il trend.

Parla l’economista Francesco Daveri

«La realtà è che la crescita dei salari è legata alla produttività, che da noi è rimasta inchiodata», dice al Foglio Francesco Daveri, docente di Economia politica all’Università di Parma, tra gli animatori del sito Lavoce.info dove ha tentato un bilancio della leader conservatrice in campo economico. «I britannici, nonostante una crisi finanziaria che in teoria avrebbero dovuto pagare più di noi, hanno visto crescere costantemente i loro salari. Uno può dire che si tratta di una bolla, ma è una bolla che dura da oltre 30 anni». Per far ripartire la produttività è necessario riformare un sistema incrostato che ostacola la crescita e l’innovazione. «Le Istituzioni contano – prosegue Daveri – e in Italia è più conveniente far parte delle categorie protette, quelle fortemente sindacalizzate, dove si possono far crescere i salari più della produttività ma alla lunga si perdono posti di lavoro». Più o meno la situazione inglese negli anni 70: un’economia fortemente ingessata, condizionata dalle grandi aziende di Stato e dominata dai sindacati. «La Thatcher ha gettato le basi di un sistema di mercato su cui negli anni 90 si è innescata la rivoluzione tecnologica, le sue riforme economiche fatte in anticipo hanno permesso di cogliere le nuove opportunità» dice Daveri. L’Italia si trova in una posizione difficile, con una mobilità del capitale simile a quella americana e inglese ma con istituzioni che corrispondono ad un modello manifatturiero superato, in cui sono contrapposti capitali e lavoro: «Nell’epoca di Internet e dell’Ict abbiamo conservato istituzioni di un’epoca precedente, non adatte a un’economia di servizi. Un modello che pensa di conservare con la baionetta posti di lavoro destinati a scomparire». E la globalizzazione che poteva un’opportunità si sta trasformando in un boomerang. «Ora le obiezioni non sono solo al mercato – conclude Daveri – ma anche alle nuove tecnologie che necessitano del libero mercato. Ma se prevalgono le forze che resistono al cambiamento il rischio è quello di subire solo i lati negativi della globalizzazione».