articolo 18

L’articolo 18 non vale per l’80% dei nuovi contratti

L’articolo 18 non vale per l’80% dei nuovi contratti

Davide Colombo – Il Sole 24 Ore

«Attenzione, l’articolo 18 riguarda 9 milioni di rapporti di lavoro dipendente su 18 milioni, quindi è una protezione che riguarda meno della metà dei dipendenti italiani» ha affermato ieri mattina ai microfoni di Radio24 il giuslavorista e senatore di Scelta Civica, Pietro Ichino. Un dato incontrovertibile. Ma che fotografa un “mondo immobile”, per usare un’espressione cara a Robert Lucas, teorico assertore della capacità della politica economica di mutare quadri apparentemente immutabili.

Se dai dati di stock volgiamo lo sguardo ai flussi, quelli che fotografano mese dopo mese con quali contratti si entra nel mercato del lavoro, scopriamo che i rapporti sono molto diversi. E che anche se le cose non cambiassero a lungo andare quei 9 milioni sono destinati a ridursi molto velocemente. Vediamo i dati relativi alle comunicazioni obbligatorie del secondo trimestre dell’anno. Dati buoni nonostante la crisi perché, come ha segnalato l’Isfol a fine agosto, segnalano un aumento delle assunzioni (+3,1% su base annua con circa 2.651.000 avviamenti), centrando il il miglior dato dal secondo trimestre del 2012. Ebbene quelle nuove assunzioni sono avvenute per oltre l’80% con contratti flessibili, per i quali non si applica l’articolo 18. Le assunzioni con contratto a tempo indeterminato sfiorano appena il 15%, gli apprendistati il 3,1%, tutto il resto è flessibile. Per capire il decrescente peso relativo dell’articolo 18 bisogna poi considerare che solo una parte di quel 15% di assunzioni standard è avvenuta in un’azienda con più di 15 dipendenti, unico ambito in cui oggi vale la tutela reale contro i licenziamenti senza giusta causa. Insomma se oggi l’articolo 18 vale per meno la metà dei dipendenti la sua prospettiva sembra ancor peggiore, a dimostrazione di come il dibattito politico nazionale sia sempre inversamente proporzionale agli effetti pratici che una norma ha sulla vita delle persone.

Detto che il superamento dell’articolo 18 riguarda dunque una minoranza di lavoratori c’è ora da chiedersi se servirà a migliorare la qualità del lavoro, ovvero se il Governo vincerà la scommessa che si è dato con la “strategia Poletti”. Come hanno ben riassunto in un loro scritto su lavoce.info gli analisti Isfol Emiliano Mandrone, Manuel Marocco e Debora Radicchia, la strategia prevede «una prima liberalizzazione del rapporto di lavoro a termine (più quantità) e poi una complessiva semplificazione, con l’introduzione del contratto unico a tutele progressive (più qualità), sperando che la prima tamponi l’emergenza e la seconda sia sostenuta dalla ripresa economica». Prima è arrivato il decreto che ha cancellato le causali e ora dobbiamo aspettare il decreto legislativo che attuerà l’articolo 4 del Jobs Act.

Per sapere se funzionerà bisognerà aspettare e leggere i futuri andamenti del mercato del lavoro, le comunicazioni obbligatorie e, soprattutto, la lettura longitudinale del panel Isfol-Plus che seguirà. I tecnici dicono che già nel primo trimestre di applicazione delle nuove norme si potranno intravvedere segnali concreti, anche se non ancora molto significativi. Dopo 12 mesi si capirà invece meglio se la strategia ha funzionato. In questo caso non vedremo solo più assunzioni con contratto a tempo indeterminato, incoraggiate dal superamento dell’articolo 18. Vedremo anche un rafforzamento del “ruolo di ponte” svolto dai contratti non standard, quando essi assicurano poi una trasformazione a contratti standard. Quel “ponte”, come dimostrano gli analisti Isfol, è stato colpito dalla crisi: se tra il 2005 e il 2006 il 37,5% dei contratti flessibili si trasformava in contratti a tempo indeterminato, tra il 2010 e il 2011 quella percentuale è scesa di 5 punti, al 32,8%.

Il contesto sarà più difficile, perché il mercato del lavoro è diventato in generale più freddo sulle nuove assunzioni, avendo cumulato un calo degli occupati del 4,2% tra il 2008 e il 2013, l’equivalente di un milione di posti in meno. Ma se la “strategia Poletti” riuscirà a centrare l’obiettivo con la «certezza delle non reintegra in caso di licenziamento illegittimo», allora più contratti flessibili potranno essere trasformati in standard e il “ponte” tra quantità e qualità verrà ricostruito.

Una tutela (e un sindacato) che non convince più

Una tutela (e un sindacato) che non convince più

Paolo Natale – Europa

I più attempati tra noi ricorderanno certamente il vecchio slogan degli anni settanta: Lama non l’ama nessuno. Quando il segretario della Cgil si presentava ai comizi, quando faceva capolino nelle università occupate, quando andava nelle fabbriche per calmare gli operai più bellicosi, si sentiva apostrofare così dai gruppi di contestatori più creativi. Allora il sindacato pareva essere, peraltro, una delle poche realtà cui fare riferimento per cambiare il mondo, per cambiare la politica, per riannodare le lotte di fabbrica con il territorio.

Oggi, si sa, non è più così. Ed il sindacato, nelle sue diverse sigle oppure nella sua totalità, non sembra essere apprezzato che da pochi. Se i partiti godono di una fiducia, da parte degli italiani, poco superiore al 10 per cento, le confederazioni sindacali non stanno molto meglio, con giudizi positivi che si fermano intorno a 20-21 punti percentuali. Se gli iscritti, tra lavoratori e pensionati, sono circa 15-16 milioni, pari al 30 per cento dei maggiorenni, questo significa che, paradossalmente, molte delle valutazioni negative arrivano addirittura tra chi aderisce ad uno dei sindacati. E non sono soltanto gli elettori di centro, di destra o non schierati (come molti dei pentastellati) a valutarli male, ma anche quelli che si definiscono di centrosinistra o di sinistra: chi dichiara che voterà Rifondazione o Sel fornisce valutazioni sufficienti ai sindacati soltanto per il 30 per cento, chi voterà Pd per il 25 per cento. Mentre tra gli astensionisti la fiducia è simile a quella per i partiti, un ridotto 5-6 per cento. Una specie di disastro li accomuna nella percezione diffusa della popolazione.

Il giudizio di fondo è evidente: i sindacati si occupano solamente dei propri iscritti, di chi il lavoro ce l’ha ed è occupato nelle aziende medio-grandi. Per tutti gli altri, per chi non ha lavoro, per chi è precario, per chi è in nero e cerca qualcosa di meno provvisorio, le loro azioni paiono inesistenti. Se non contro-producenti. Inutile dire cosa ne pensa la popolazione italiana della strenua difesa dell’articolo 18. Non che piaccia venir licenziati senza giusta causa, è ovvio, ma la percezione generale è che le disposizioni contenute in quell’articolo siano qualcosa di talmente antiquato che oggi non se ne vedono più le ragioni, che allora apparivano al contrario fondamentali per la salvaguardia del proprio impiego.

La stragrande maggioranza dei cittadini è d’accordo che venga dunque riformulato, alla luce delle mutate condizioni di lavoro, dell’attuale stato dell’occupazione, della mobilità reale che sempre più spesso appartiene alla storia personale della vita lavorativa. Quando c’è. Certo non è vero che la colpa della crisi occupazionale è dell’articolo 18, ma è vero che il dibattito che ruota intorno a quell’articolo appare oggi svuotato di senso, tra gli italiani. E anche tra gli stessi elettori del Pd, che ne vedrebbero volentieri un superamento alla luce delle mutate condizioni di lavoro. Una quota vicina al 70 per cento dei votanti Pd vorrebbe una nuova legge sul lavoro, che dopo aver fatto il punto sullo stato attuale, cerchi di diventare un nuovo punto di riferimento per gli anni futuri. Tra la flessibilità e la sicurezza, al passo con i tempi così diversi dagli anni settanta.

7 a 0 per Renzi

7 a 0 per Renzi

Enrico Cisnetto – Il Foglio

«Uno scalpo per i falchi della Ue». Susanna Camusso credeva di colpire al cuore Renzi sottolineando che l’abolizione dell’articolo 18 rappresenta un prezzo pagato dal governo alle aspettative di Ue, Bce e Germania, ma in realtà gli ha fatto un grande favore. Sì, l’emendamento all’articolo 4 della legge delega sul mercato del lavoro, che di fatto supera la disciplina dei licenziamenti senza giusta causa – per cui le nuove assunzioni a tempo indeterminato verranno fatte con contratti a tutele crescenti in base all’anzianità di servizio – e più in generale il “jobs act” che consente al governo di scrivere un testo unico semplificato che “pensiona” il vecchio (e superato) Statuto dei lavoratori, sono riforme (tardive) che servono al paese ma, soprattutto, rappresentano agli occhi dell’Europa quella certificazione di credibilità politica che serve al premier per evitare che gli venga chiesta entro fine anno una manovra correttiva dei conti.

Non che la riforma del lavoro comporti riduzioni del deficit, ma proprio perché il governo riuscirà, forse, a rimanere sotto il 3 per cento (diciamo 2,99 per cento per capirci) ma certo non entro quel 2.6 per cento per il quale era stato assunto un impegno formale certificato nel Def – sosterremo la tesi che la recessione ci esenta da quella riduzione – ecco che Renzi e Padoan cercheranno di barattare l’una cosa con l’altra. Della serie: vedete che stiamo facendo sul serio realizzando una riforma del lavoro di cui si parla inutilmente da 15 anni e che è carica di significati politici. Ora, questa è la migliore delle garanzie che proseguiremo con il risanamento finanziario e le riforme, perciò non penalizzateci proprio adesso che stiamo facendo questo sforzo. Ecco perché gli strepiti dei sindacati – a proposito, dispiace vedere che nel coro ci siano anche quelli moderati – fanno il gioco del governo, e tanto più i decibel sono alti, tanto maggiore è il valore politico della riforma agli occhi di Bruxelles, Berlino e Francoforte.

Non solo. Siccome nel corteo di chi si straccia le vesti per il tabù infranto dell’articolo 18 ci sono i diversi gruppi interni al Pd – più o meno gli stessi che in questi giorni stanno impedendo la fumata bianca per la Corte costituzionale – anche a costoro non dovrebbe essere difficile capire che il loro ostruzionismo è un grande regalo a Renzi. Perché se è vero, come molti dicono e come è lecito e sensato pensare, che il premier intende andare al più presto alle elezioni anticipate (marzo), ecco che la riforma bloccata dai rigurgiti ideologici della sinistra old style rappresenta la più ghiotta delle occasioni per far saltare il banco e andare alle urne, per di più potendo dire agli italiani, e in particolare a quelli moderati che hanno assicurato a Renzi il balzo al 41 per cento alle scorse europee, che la sua testa è stata fatta saltare dai comunisti e dai rottamati contrari ai suoi progetti di modernizzazione del paese. Viceversa, se la riforma passa e Renzi prosegue nel suo percorso di “mille giorni” – magari anche perché Napolitano gli preclude la strada delle elezioni anticipate, eventualmente dimettendosi a inizio anno (dopo la fine del semestre europeo a presidenza italiana) – ecco che ugualmente questo governo segnerebbe un punto pesante a suo favore, sia per aver dimostrato in Europa che è credibile sia perché metterebbe a tacere, almeno in parte, coloro che in questi mesi si sono lamentati dei tanti annunci e delle poche decisioni prese e portate fino in fondo.

Insomma, per come si è messa la partita, Renzi, piaccia o non piaccia, vince 7-0 come l’Inter con il Sassuolo. Con un doppio warning per lui, però. Entrambi in nome degli interessi generali (cioè i nostri). Il primo è: occhio alle elezioni anticipate. Anche ammesso e non concesso) che il Quirinale dia il via libera, e pur partendo dal presupposto, fondato, che Renzi le vincerebbe alla grande, esse rappresenterebbero un ulteriore rinvio di quella svolta in economia di cui l’Italia ha assoluto bisogno e che, alla fine, sarebbe la vera garanzia di successo per l’ambizione politica di Renzi. Il secondo “avviso di pericolo” è: se la riforma del lavoro passa e il governo prosegue – cioè se elezioni anticipate non ci sono – occhio che non basta abolire l’articolo 18 per far ripartire l’economia. Intanto perché la situazione è così deteriorata che il rilancio non puo che passare da un concorso di circostanze, anche abbastanza ampio. Per il mercato del lavoro, per esempio, occorrerebbe superare anche lo strumento della cassa integrazione – che salva posti di lavoro nella maggior parte dei casi non piu esistenti – e arrivare a una forma di salario di sostegno per i disoccupati che consenta una ristrutturazione del sistema produttivo più profonda e più virtuosa di quella prodotta dalla crisi. E poi perché, nello specifico, l’abolizione dei vincoli contrattuali in uscita ha più un valore simbolico che pratico. Infatti, come ha dimostrato uno studio della Cgia di Mestre, l’articolo 18 interessa solo il 2,4 per cento delle aziende (anche se il 57,6 per cento dei lavoratori dipendenti del settore privato), perche solo 105.500 di esse, su circa 4.426.000 in totale, hanno più di 15 addetti.

Dalla ragione su tutto alla ragione su niente

Dalla ragione su tutto alla ragione su niente

Italia Oggi

Un tempo i matti erano gli altri, i «destri», quelli che ignoravano l’Abc del retto pensiero progressista in tema di cinema, d’economia, di balletto classico, di cucina, di filosofia e soprattutto di lavoro. Adesso i matti sono loro. A dirglielo è il loro stesso segretario generale: avete torto su tutto, sulla cultura, sull’economia e sul balletto classico, sui formaggi tipici e sul cinema, ma soprattutto avete torto in fatto di lavoro.

Per trent’anni non hanno mai smesso di difendere l’art. 18 (è l’articolo dello Statuto dei lavoratori, aprendo una parentesi, che negli anni settanta i comunisti avevano avversato di più) e adesso Renzi lascia che se ne parli come d’un malato terminale: due fiori, una prece e amen, si torna alle regole del mercato. Sono diventati tutti dei «Fassina chi» e dei «Bersani cosa». A lungo, per esempio nelle fantasie letterarie degli opinionisti di Repubblica, i progressisti sono stati dipinti come X-Men dei fumetti: mutanti, antropologicamente superior, una o due spanne sopra l’homo sapiens. Tutti pendevano dalle loro labbra. Adesso parlano e nessuno li capisce più. Sono sbertucciati da tutti. Dal Comico, dal loro stesso segretario, tra un po’ anche da Repubblica.

Nel resto d’Europa le tutele sono di natura monetaria

Nel resto d’Europa le tutele sono di natura monetaria

Claudio Tucci – Il Sole 24 Ore

Reintegra o risarcimento? L’Italia prova a superare la tutela reale dell’art. 18 nei contratti a tempo indeterminato per i nuovi assunti. In Europa cosa succede? Che l’obbligo del reintegro, come si evince dalla schede qui sotto, è già un’opzione marginale: in pratica per tutti i licenziamenti senza giusta causa (anche economici) le tutele sono essenzialmente monetarie. «La reintegra è facoltativa in Spagna, dopo la riforma Rajoy – ha spiegato il giuslavorista Massimo Lupi dello studio «Lupi&Associati» di Milano – e anche in Germania la tutela reale non è automatica per tutti i casi di licenziamento». Qui, in particolare, c’è un giudizio soggettivo dei giudici. Ma la scelta della tutela reale non è affatto a maglie larghe: «È legata alla possibilità di un ritorno in azienda del lavoratore», ha spiegato il professore di diritto del lavoro a Modena e Reggio Emilia, Michele Tiraboschi. Del resto «in tutti i paesi europei dove è lasciata al giudice la possibilità di prevedere la reintegra – ha aggiunto il professore di diritto del lavoro alla Luiss, Roberto Pessi – l’ipotesi è circoscritta ai casi di nullità dell’atto risolutivo secondo le regole del diritto comune dei contratti».

FRANCIA
Tetto delle sei mensilità
In Francia, per un licenziamento «sans cause réelle et sêerieuse» (cioè, senza una causa reale e seria), il datore di lavoro può opporsi alla reintegra e quindi il giudice può disporre a favore del lavoratore solo un indennizzo non inferiore alle 6 mensilità. La sanzione della reintegra del lavoratore illegittimamente licenziato non è quindi obbligatoria ed è prevista solo per il licenziamento discriminatorio. Vale a dire quando il licenziamento è nullo per motivazioni attinenti alla sfera privata del lavoratore o intimato a seguito di molestie. In questi casi la reintegra è di diritto per i dipendenti. In tutti gli altri casi scatta invece un risarcimento monetario, un indennizzo, cioè, che aumenta a seconda dall’anzianità di servizio del lavoratore.

GERMANIA
Reintegro non obbligatorio
Qui le tutele si applicano nelle aziende con più di 10 dipendenti, e per i licenziamenti è necessaria una consultazione con il comitato di impresa che, se lo ritiene illegittimo, ricorre al giudice. Che può scegliere tra reintegro e risarcimento. Quindi il reintegro è possibile (ma non obbligatorio) ma è applicato in pochi casi. Questo perché la giurisprudenza tedesca opta per la tutela piena e reale solo se c’è una proficua ripresa della collaborazione tra datore di lavoro e lavoratore. Quando cioè è possibile un effettivo ritorno in azienda. Un licenziamento è considerato illegittimo quando è basato su fattori inerenti la capacità o le qualità o la condotta del lavoratore. Inoltre per i licenziamenti non economici non è prevista una indennità di licenziamento salvo diversa previsione dei contratti collettivi.

REGNO UNITO
Discrezionalità del giudice
Nel Regno Unito la reintegra del dipendente (in un medesimo posto, «reinstatement», o in un posto diverso e comparabile a parità di retribuzione, «reengagement») è prevista dalla legge ma applicata molto raramente. C’è una forte discrezionalità del giudice (nell’ordine di reintegra). Ma se il giudice ritiene non praticabile il reintegro opterà per una sanzione economica di tipo risarcitoria. La prassi evidenzia come molto spesso i giudici preferiscano condannare al pagamento di una somma di denaro piuttosto alta e che viene ulteriormente incrementata qualora il datore non abbia rispettato la procedura prescritta per il recesso. Il riconoscimento economico (per i licenziamenti ingiustificati) ha dei limiti e comunque varia a seconda dell’anzianità di servizio.

SPAGNA
Dopo la riforma Rajoy
La reintegra è divenuta facoltativa in quanto l’imprenditore può optare per il solo risarcimento del danno in favore del lavoratore corrispondendo una somma che al massimo non può superare i 33 giorni per anno di lavoro invece dei 45 precedenti. La riforma Rajoy in Spagna è intervenuta cercando di rendere meno rigido il mercato del lavoro, in primis innalzando da 6 mesi a un anno il periodo massimo di prova durante il quale è consentito alle parti il libero recesso. Il dipendente a tempo pieno, poi, può essere licenziato anche senza giusta causa. L’azienda è tenuta solo a versargli un risarcimento. Il giudice può emettere sentenza di reintegra in caso di licenziamento illegittimo ma l’impresa può non reintegrare il dipendente pagando un indennizzo

ITALIA
Con la legge Fornero
Nel 2012 è stato modificato l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. L’obiettivo era quello di marginalizzare la reintegra. Ma l’intervento è stato troppo complesso, e soprattutto troppo interpretabile da parte dei giudici. La norma oggi prevede tante conseguenze diverse a seconda del licenziamento. Per i discriminatori c’è la reintegra più un risarcimento; per i disciplinari, di base, solo indennità tra 12 e i 24 mesi, ma se il disciplinare è fondato su fatti falsi scatta la reintegra più indennità fino a 12 mesi. Se il licenziamento è fondato su motivi fisici: reintegra più indennità fino a 12 mesi. Se economico: solo indennità (ma se manifestamente insussistente, reintegra più indennità). Per i collettivi: reintegra se si violano i criteri di scelta; per gli altri casi, indennità.

Una norma nata per caso che ha resistito 45 anni

Una norma nata per caso che ha resistito 45 anni

Enrico Marro – Corriere della Sera

Comparso quasi per caso 45 anni fa, l’articolo 18 ha resistito a tutti gli attacchi, compresi due tentativi di referendum: nel 2000, promosso dai Radicali per abrogarlo, e nel 2003 da Rifondazione comunista per estenderlo alle piccole imprese (entrambi falliti per mancato quorum dei votanti). Solo nel 2012, con l’Italia sull’orlo del commissariamento, la riforma Fornero ne ha attenuato il grado di protezione. Un tira e molla ultradecennale. Tra destra e sinistra, imprese e sindacati. E pensare che nel testo originale dello Statuto dei lavoratori l’articolo 18 neppure c’era.

La norma che vieta i licenziamenti senza giusta causa o giustificato motivo, non faceva parte del disegno di legge presentato il 24 giugno 1969 dall’allora ministro del Lavoro, Giacomo Brodolini, socialista, già vicesegretario della Cgil di Giuseppe Di Vittorio. Il provvedimento sulle «Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell?attività sindacale nei luoghi di lavoro» fu messo a punto dal giovane e brillante capo dell’ufficio legislativo di Brodolini, il giuslavorista Gino Giugni, di provata fede socialista anche lui. Il governo era guidato dal democristiano Mariano Rumor. In materia di reintegro nel posto di lavoro lo Statuto prevedeva solo l’articolo 10 che, richiamando l’articolo 4 della legge 604 del 1966 che stabiliva la nullità dei licenziamenti discriminatori (per ragioni di credo politico o fede religiosa, o per l’appartenenza al sindacato), aggiungeva «l’obbligo del datore di lavoro di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro».

L’estensione del diritto al reintegro ai casi di licenziamento senza giusta causa e giustificato motivo fu invece il frutto dei lavori in Senato e della pressione degli avvenimenti sociali, con l’escalation degli scioperi, spesso spontanei, cioè non controllati dalle centrali sindacali. Tanto che nella seduta di giovedì 11 dicembre 1969, nell’Aula di Palazzo Madama, il sottosegretario al Lavoro, Leandro Rampa, democristiano, dichiarava: «Il governo ha ritenuto di dovere presentare un emendamento sostitutivo dell’importante articolo 10, dopo aver riconsiderato, sulla scorta anche di indicazioni già emerse in commissione, alcune esigenze che ci sembravano essenziali allo scopo di garantire ulteriormente i diritti dei lavoratori nell’eventualità del licenziamento». In realtà il grosso del lavoro era stato fatto nella commissione presieduta da un altro socialista, Gaetano Mancini. Il diritto al reintegro (significa che il licenziamento è nullo dall’inizio) prendeva il posto della precedente disciplina (legge 604) che dava facoltà al datore di lavoro di riassumere il lavoratore (non gli paga però il dovuto per il periodo in cui è stato senza lavoro) o di versargli un’indennità.

La conquista era solo una delle tante e non apparve neppure tra le più importanti ai sindacati e ai lavoratori, che con lo Statuto ottenevano «l’effettivo ingresso nelle fabbriche dei diritti fondamentali della persona sanciti dalla Costituzione» (rappresentanze sindacali, diritto di opinione, di assemblea, permessi). Definizione questa che – molti si stupiranno – è di Maurizio Sacconi, ministro del Lavoro del Pdl quando presentò il progetto di legge di «Statuto dei lavori», il progetto di riforma che si rifaceva ai documenti del giuslavorista Marco Biagi, ucciso dalle Brigate rosse nel 2002. Altri due socialisti di formazione, Sacconi e Biagi, convinti però che lo Statuto, e in particolare l’articolo 18, non fosse più utile né alle imprese né ai lavoratori di un’Italia che non era più quella delle grandi fabbriche del Nord, ma un’economia postindustriale e globalizzata.

Lo Statuto dei lavoratori giungeva al termine dell’autunno caldo del 1969, stagione di lotte sindacali, ma fuori dai cancelli delle fabbriche perché fino ad allora ai sindacati era impedito di entrarvi. Il conflitto imperversava. Quello sociale era sano, segno di crescita. Purtroppo era anche il tempo delle trame oscure: il 12 dicembre, il giorno dopo il via libera del Senato allo Statuto, l’Italia viveva una delle pagine più buie con la strage di piazza Fontana. Nei mesi successivi, alla Camera, l’articolo 18 non fu messo in discussione e lo Statuto, la legge 300 del 1970 passò il 14 maggio con 217 voti favorevoli (Dc, Psu, Pri, Pli), 10 contrari e 125 astensioni: Msi, ma anche il Pci e il Psiup. I comunisti ritenevano il testo squilibrato a favore delle imprese. La legge entrò in vigore il 20 maggio. A condurla in porto era stato un nuovo ministro del Lavoro, Carlo Donat Cattin, democristiano della sinistra sociale. Brodolini, già gravemente malato quando presentò il disegno di legge, morì poco dopo. Negli ultimi giorni, preoccupato per la piega che stava prendendo il dibattito, affidò a Giugni questo messaggio: «Fa in modo che lo Statuto dei lavoratori non diventi lo Statuto dei lavativi».

Occupazione, tante fratture da risanare

Occupazione, tante fratture da risanare

Walter Passerini – La Stampa

Beato il paese che non ha bisogno di eroi, di totem o di scalpi, si può dire parafrasando Bertolt Brecht, perché altrimenti saremmo sempre in guerra, che ammette solo vincitori e vinti. Lo scontro al capezzale dell’articolo 18 sta incendiando la politica e le relazioni sindacali, in un momento in cui la priorità è il lavoro. E così il falò delle vanità lascerà solo cenere e macerie e non creerà neanche un posto di lavoro. Con la stessa passione ed energia dovremmo invece discutere di futuro e di come creare occupazione e sviluppo con un orizzonte da qui al 2020. Ai 3,2 milioni di disoccupati ufficiali, ai 3,3 milioni di inattivi rassegnati (non cercano più il lavoro perché pensano di non trovarlo), ai tanti giovani, alle donne, agli over 50 licenziati, ai cassintegrati, dovremmo dire che cosa si sta facendo per farli entrare o rientrare nel mondo del lavoro.

C’è una frattura che va ricomposta. Dalla riforma Treu, passando dalla Biagi, alla Fornero, in questi vent’anni non abbiamo visto il baratro che si stava aprendo tra lavoratori adulti e giovani, tra piccole e grandi aziende, tra industria e servizi, tra occupazione strutturale e al margine. E così abbiamo perso la battaglia della produttività. Avremmo dovuto completare il disegno con uno Statuto dei Lavori universale, uguale per tutti, per tutelare l’esercito dei precari. Ora la deflazione ci ha regalato il record di peggior Paese dell’Ocse e ha messo a nudo le nostre debolezze e le nostre vergogne. Speriamo di non dover assistere nei prossimi giorni a una tragedia, a una piece da tre soldi, a una commedia all’italiana, ma a una dimostrazione di orgoglio e di condivisione delle priorità. Per molti l’introduzione di un contratto, non unico, ma prevalente, a tutele crescenti è una mediazione intelligente, soprattutto se estesa a tutte le nuove assunzioni, e non solo ai contratti di primo inserimento. Non è un contratto in più, perché in contemporanea andrebbero rivisitate e ridotte le troppe formule di assunzione, che lasciano spazio a furbizie ed abusi. Avere trentasei mesi di conoscenza reciproca tra datore di lavoro e lavoratore permette di fare investimenti sulle risorse umane e di consolidare un fidanzamento in un matrimonio. E se a quel punto scattasse una crisi di rigetto, ci sarebbero le condizioni per un onorevole divorzio.

La modifica dell’applicazione dell’articolo 18 ha già avuto una mediazione nel 2012, quando, fatti salvi i licenziamenti discriminatori e le ritorsioni, ha tolto l’automatismo e ha rimesso nelle mani del giudice la decisione tra reintegro e risarcimento per un licenziamento individuale avvenuto senza giusta causa. Del resto, anche con la complicità della crisi, sono state pochissime le cause di questo tipo negli ultimi due anni, segno che le imprese hanno ben altri problemi a cui pensare. Ora, di fronte al testo giunto in Commissione al Senato, intestarsi una vittoria o gridare alla sconfitta riporta al clima di sangue e di vendetta di cui non si sentiva la mancanza, tanto più che lascia spazio alla gestione e all’interpretazione. Non vorremmo però che la sinteticità della norma producesse solo lavoro per gli avvocati. Salvo la minaccia di un decreto annunciata da Renzi, l’iter normativo durerebbe comunque un anno.

Nel frattempo dovremmo riportare la barra verso le priorità. Come creare lavoro e dare ossigeno a una nuova crescita, che tutele offrire a chi rischia di giocare solo in serie B, quali politiche attive produrre (la Garanzia giovani insegna), quali servizi al lavoro pubblici e privati avviare e irrobustire, che sostegno dare alle imprese che vogliono assumere. Alcuni imprenditori temono un «matrimonio indissolubile». Chi perde il lavoro teme di finire nel girone infernale dei disoccupati di lunga durata (più di 12 mesi), che oggi sono 2 milioni. Se un senza lavoro non trova chi lo aiuta e lo orienta, non c’è ammortizzare sociale che tenga, altro che modello danese. È questo il patto del lavoro che bisogna stilare: perdere il posto può capitare, non è il capriccio di un aguzzino né una vendetta sociale, ma può essere una tappa per ripartire e rientrare, grazie a servizi professionali e tutele universali esigibili indipendentemente dal contratto di cui si è titolari.

Una riforma del lavoro per ripartire. Riduzione dei costi, non del salario

Una riforma del lavoro per ripartire. Riduzione dei costi, non del salario

Michele Salvati e Marco Leonardi – Corriere della Sera

Conosceremo presto la formulazione definitiva che il governo intende dare al suo progetto di riforma della legislazione del lavoro, quel Jobs Act che ha nella sua pancia il tormentone dell’articolo 18: i giornali danno per scontata l’ipotesi di un decreto, ma staremo a vedere. Il nostro articolo precedente (Corriere, 7 settembre) poteva aver lasciato l’impressione che l’attivismo riformistico del governo fosse soprattutto indirizzato a ottenere dalla Germania un allentamento delle condizioni di austerità cui siamo sottoposti: come rifiutarsi di allentarle se facciamo i nostri compiti a casa e attuiamo una riforma così importante secondo un modello uguale o molto simile a quello tedesco?

Vorremmo rettificare questa impressione, se c’è stata: il modello tedesco è opportuno nella sostanza e presentarlo presto in Europa sicuramente rafforza la nostra posizione contrattuale, ma dubitiamo che questa o altre riforme convincano i tedeschi a modificare in tempi brevi il loro atteggiamento. I difetti del sistema della moneta unica sono così profondi, e i vantaggi immediati che esso offre alla Germania sono così importanti, che è improbabile che essa voglia mutare le sue politiche interne e il suo atteggiamento nei confronti degli attuali assetti europei, quali che siano le «riforme strutturali» alle quali i Paesi deboli si sottomettono. Se è così, ristagno e dualismo sono destinati a permanere per un lungo periodo.

Ma allora perché il modello tedesco? O addirittura, perché una revisione profonda della legislazione del lavoro? Risposta: perché comunque ci conviene. Perché in ogni caso, sia che l’austerità europea si attenui sia che persista, e persino in presenza di forti turbolenze degli assetti istituzionali dell’Unione, avere un mercato del lavoro che funziona bene è meglio di averne uno che funziona male. In un contesto globalizzato, in cui tutti i Paesi avanzati sono comunque soggetti a forti pressioni competitive, tra i loro sistemi di legislazione del lavoro quello tedesco è un buon compromesso tra flessibilità e garanzie, tipico di un Paese dell’Europa continentale con un welfare sviluppato e con sindacati forti: difficilmente sistemi anglosassoni sarebbero applicabili da noi.

È un sistema che mantiene un filtro giudiziario al licenziamento, che però non interferisce con le motivazioni economiche addotte dall’imprenditore e solo opera, e può condurre al reintegro in casi estremi, se il lavoratore e i sindacati dimostrano che le motivazioni economiche sono un pretesto che nasconde motivazioni incostituzionali. È un sistema dove esiste una indennità automatica: all’atto del licenziamento l’impresa è tenuta a offrire una indennità di un mese di salario per ogni anno di lavoro e, se il lavoratore 1’accetta, perde il diritto di rivolgersi al giudice. Ed è un sistema dove i centri per l’impiego funzionano decentemente e dove all’indennità di disoccupazione – con durata e modalità non molto diverse dalla nostra Aspi – fanno seguito misure assistenziali, molto modeste, ma di durata indefinita. Tutto si tiene nel mercato del lavoro e una riforma del solo articolo 18 serve poco se non è accompagnata da una revisione di altre parti della legislazione del lavoro e del welfare.

Pochi i punti fermi. Il primo è che l’Italia ha un tasso di occupazione, in particolare quello femminile, troppo basso per permettersi un welfare generoso: il numero degli occupati è all’incirca uguale a quello degli inattivi o disoccupati e poi gli occupati hanno i pensionati sulle loro spalle. Il primo obiettivo è dunque quello di aumentare l’occupazione, con ogni mezzo. Il secondo punto fermo è che l’Italia ha un numero abnorme di occupati in lavori autonomi, il 23%, contro un 13% di Francia e Germania: il secondo obiettivo è dunque eliminare gli impedimenti che ostacolano il ricorso al lavoro dipendente. Oggi il problema non sono gli ostacoli contro i contratti a termine, dove siamo più o meno in linea con gli altri grandi Paesi europei, ed è la Spagna il caso abnorme. Da noi il grande problema è quello delle partite Iva fasulle. Sono loro la fonte dei veri precari del XXI secolo, senza diritti né minimi salariali, privi della possibilità di accumulare contributi pensionistici e spesso costretti all’evasione: è una piaga che dev’essere eliminata.

Il terzo punto fermo è che l’occupazione si favorisce più con le politiche salariali che con l’abolizione dell’articolo 18, pur necessaria. Quando arrivò la crisi del 2007-2009 la Germania si ritrovò con un sistema di relazioni industriali in cui la metà delle imprese e dei lavoratori contrattavano i loro salari al di fuori dei contratti nazionali di categoria e con un sistema di ammortizzatori sociali chiaro e ben funzionante. La combinazione di orari e salari flessibili, di un forte legame tra salari e produttività, ha fatto uscire dalla crisi il Paese meglio di come vi era entrato. Dunque, sarebbe opportuno che nella riforma fosse compresa anche la materia contrattuale.

Un’osservazione finale e di natura politica. In via generale i lavoratori non hanno «colpa» del fatto che il loro lavoro è poco produttivo e che l’occupazione scarseggia. Le colpe sono diffuse su altri soggetti: su imprese incapaci di innovare e organizzarsi in modo efficace, su un sistema fiscale che tassa troppo e male il lavoro e l’impresa, su uno Stato e su una pubblica amministrazione inefficienti e bizantini. Che le conseguenze di queste inefficienze altrui ricadano sul lavoro genera reazioni e resistenze, ed è comprensibile che così avvenga. Ma i costi salariali sono la trazione più importante del valore aggiunto e su di essi occorre incidere se si vogliono restaurare rapidamente condizioni di maggiore competitività. Una penosa bisogna, di cui il governo può essere perdonato solo se attacca con eguale determinazione gli altri segmenti del Sistema-Paese dai quali la nostra scarsa capacità di crescita dipende.

Prigionieri di un feticcio

Prigionieri di un feticcio

Gad Lerner – La Repubblica

Inutile girarci intorno. Il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti è un passo necessario ma è anche un passo indietro nel nostro diritto del lavoro. Consolarci evocando una svolta storica cruciale come Bad Godesberg non allevierà la durezza delle scelte che siamo chiamati a compiere. Quando i socialdemocratici tedeschi ripudiarono la lotta di classe e si candidarono al governo di una società capitalista, nel 1959 a Bad Godesberg, lo fecero nel pieno di un boom economico che garantiva la piena occupazione dei lavoratori. Ben diverso è l’azzardo richiesto oggi a Renzi e al Pd per dimostrarsi affidabili in Europa, nel mezzo di una Grande Depressione che falcidia milioni di posti di lavoro. Altro che Bad Godesberg, ci troviamo sulla linea del Piave. Ai nostri generali tocca valutare se una ulteriore ritirata tattica sul terreno dei diritti e delle tutele sia la premessa necessaria per una futura controffensiva. O se invece si tratti solo di prendere atto di un arretramento già imposto dalla dura realtà dei rapporti di forza.

La resistenza opposta dai sindacati e dalla sinistra Pd all’abolizione definitiva del reintegro obbligatorio dei licenziati – una prassi di cui peraltro già oggi godono solo pochissimi lavoratori italiani – non è liquidabile come retaggio conservatore. Troppi sottintesi circondano il feticcio dell’articolo 18 (o ciò che ne resta). Davvero crediamo che facilitare i licenziamenti in Italia nel 2014 possa aiutare la ripresa economica? Ma soprattutto: l’insistenza con cui ci viene richiesta un’ulteriore iniezione di flessibilità nel mercato del lavoro, non mira forse ad altro, cioè a una decurtazione complessiva dei redditi da lavoro dipendente? Questo è il non detto che vizia il progetto ambizioso del Job’s Act. Non a caso rinviato da gennaio fino a oggi, perché lo stato della finanza pubblica rende impensabile sommare un assegno universale per chi perde il lavoro agli ammortizzatori sociali vigenti, come la cassa integrazione in deroga a carico dello Stato.

Non so se l’abolizione dell’articolo 18 per i nuovi assunti sia solo «uno scalpo per i falchi dell’Ue», come sostiene Susanna Camusso. E sarà poco elegante Maurizio Landini quando ricorda che la maggior parte delle aziende si guardano bene dal fare assunzioni anche dove non si applica l’articolo 18: «Ma per piacere… Che cosa credono in Europa? Che gli italiani siano coglioni?». Fatto sta che sulla riforma del mercato del lavoro italiano grava il sospetto che si tratti di un passaggio preliminare mirato al drenaggio di altre risorse dalle buste paga dei lavoratori.

Chi si è espresso con ammirevole chiarezza in tal senso è l’ex rettore della Bocconi, Guido Tabellini, il quale motiva così l’urgenza della riforma del mercato del lavoro: «Lasciare più spazio alla contrattazione aziendale, evitando che la contrattazione collettiva stabilisca salari minimi inderogabili; e aumentare la flessibilità in uscita per i neo-assunti» (Il Sole 24 Ore, 17 agosto 2014). Richiesto di chiarire cosa intendesse proponendo deroghe ai salari minimi, Tabellini ha precisato: «Meglio consentire alle imprese meno produttive di far scendere i salari anche sotto i minimi contrattuali, anziché licenziare o ricorrere alla Cig». In seguito, «l’effetto regressivo sui redditi bassi potrebbe essere attenuato dalle detrazioni Irpef».

Questo significa parlar chiaro: l’uscita dell’Italia dalla recessione comporterebbe una terapia d’urto di deroga generalizzata dai minimi sindacali previsti dai contratti nazionali. Pagando il prezzo di un ulteriore allargamento della fascia dei lavoratori poveri, in un ridisegno complessivo del nostro sistema economico che sopporti l’acuirsi delle disuguaglianze fra (poche) imprese d’eccellenza e (molte) aziende che sopravvivono al ribasso. Naturalmente Tabellini ammette che la scelta di sospendere i minimi contrattuali provocherebbe un ulteriore crollo dei consumi interni, compensabile a suo parere da una maggiore domanda estera. Lavoratori più flessibili e pagati meno, questo sarebbe il prezzo da pagare per una ipotetica futura ripresa economica. E per dimostrarci affidabili in sede europea.

Non so se calcoli di questo tipo vengano soppesati anche a Palazzo Chigi. Certo sembra andare nella stessa direzione la proroga del blocco degli aumenti dei dipendenti pubblici. Del resto è comprensibile che il governo punti a alleviare la sofferenza sociale con sgravi fiscali di natura redistributiva, come già fatto con gli 80 euro, non potendo affrontare di petto il dramma dei bassi salari. Ma quando Renzi, in polemica coi sindacati, afferma che nel pubblico impiego vi sarebbe ancora troppo “grasso che cola”, forse senza volerlo ma sembra assecondare come inevitabile una ulteriore decurtazione delle buste paga.

Di per sé il nuovo contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti corrisponde a un principio di giustizia sociale che i sindacati non possono contestare. Purché si chiarisca in che misura esso vincolerà le aziende beneficiate dal recente decreto Poletti, che consente loro di perpetuare le più vantaggiose assunzioni a termine rinnovabili. Così come bisognerà capire se l’annunciata istituzione di un salario orario minimo rappresenti una tutela per i precari, o invece sia il primo passo per sterilizzare in seguito i contratti collettivi di categoria. Quando la direzione del Pd si riunirà per approvare la versione definitiva del Job’s Act non potrà eludere questa drammatica scelta di fondo: è inevitabile che una democrazia occidentale precipitata in una spirale depressiva retroceda sul terreno dei diritti del lavoro, rinunciando a contemplarli fra le sue norme fondamentali? Renzi ha usato un argomento “di sinistra” denunciando l’ingiustizia di un mercato del lavoro fondato sull’apartheid. Ma se l’articolo 18 ormai è poco più che un feticcio, man mano che si allarga la fascia dei lavoratori poveri diviene sempre più arduo distinguere chi sarebbero le sparute minoranze di “bianchi” avvantaggiati da questo apartheid. Di tutto abbiamo bisogno, tranne che di ulteriori lacerazioni dentro una sofferenza sociale comune.

Come Ue comanda

Come Ue comanda

Giuseppe Turani – La Nazione

La fretta e il piglio più deciso con cui Renzi sta affrontando la questione delle riforme ha una sola possibile spiegazione. Fra Bruxelles e Roma, senza che siano stati firmati protocolli o carte, è entrato in funzione quello che potremmo chiamare crono-programma. Il vertice dell’Ue ha spiegato molto chiaramente che, senza riforme, non ci sarà nessuna attenzione speciale per l’Italia. E, inoltre, ha anche fatto capire che non si può tirare tanto per le lunghe. Da qui il crono-programma: mano a mano che le riforme diventano reali da Bruxelles arriverà qualche attenzione (e qualche soldo) in più. Non è come avere la Troika in casa, ma la differenza non è moltissima: lasciano all’Italia la libertà di fare quello che va fatto. Altrimenti: applicazione severa delle norme comunitarie. In questi ultimi tempi gli appelli da Bruxelles sono stati ripetuti e molto chiari. E anche Draghi ne ha fatti almeno tre di appelli, sia pure nei modi felpati e nebbiosi propri dello stile di un banchiere centrale. Le tensioni delle ultime ore nascono proprio da questo: ci sono alcune cose che la Bce e la Ue considerano non più rinviabili. Il primo caso che viene in mente è quello del mercato del lavoro.

Sono mesi che cercano di farci capire che con l’attuale organizzazione del lavoro non si va da nessuna parte. Il professor Giulio Sapelli, che peraltro è critico verso Ue e Bce, da tempo va sostenendo che la nostra legislazione sul lavoro va rasa al suolo e sostituita con qualcosa di più semplice e di più moderno. E il senatore Ichino a questo sta lavorando da anni. Nessuno ci ha dettato i particolari, ma le richieste europee si possono sintetizzare in una semplice frase: più flessibilità in entrata e più flessibilità in uscita. Questo significa che l’articolo 18 ha i giorni contati. E la stessa cosa si può dire di altre norme che ingessano il lavoro.

Di fronte a questo clima cambiato, la Cgil è già insorta e minaccia grandi mobilitazioni di massa, sostiene (non a torto) che la soppressione (totale o parziale) dell’articolo 18 è lo scalpo che l’Italia si appresta a offrire ai falchi europei. Rimane da capire quanto l’attuale organizzazione del lavoro abbia ancora senso in una società immersa nella competizione globale. E anche la resistenza della Cgil non sembra avere molte possibilità di vittoria: le pretese dei falchi, infatti, sono quelle del mondo moderno mentre la Cgil è un po’ ferma agli anni Cinquanta. Ma c’è di più. La vera grana per la Cgil è un’altra.- se l’articolo 18 può già considerarsi defunto, adesso la partita vera riguarderà la contrattazione aziendale e locale. In sostanza, la futura organizzazione del lavoro punterà a rendere meno importanti i contratti nazionali per dare più spazio alla contrattazione in sede locale o aziendale. Si vuole andare verso una maggiore aderenza al mercato. I dipendenti di aziende che vanno bene potranno chiedere salari più alti, quelli di aziende che vanno male dovranno accontentarsi di buste paga più esili. È facile capire come questa linea finisca per rendere più sfumato il ruolo delle grandi confederazioni sindacali nazionali, destinate a perdere di peso e di importanza. Il sindacato non accetterà tutti questi cambiamenti di buon grado. Ci sarà quindi una tensione crescente. Ma nemmeno la Cgil potrà andare contro la storia. Ormai il mondo va in questa direzione: più flessibilità e più spazio alle realtà aziendali. I contratti buoni dal Trentino alla Sicilia stanno per andare in pensione, assieme all’articolo 18.