Corriere della Sera

I 3,9 miliardi che i migranti danno all’economia italiana

I 3,9 miliardi che i migranti danno all’economia italiana

Gian Antonio Stella – Corriere della Sera

Ha ragione papa Francesco: gli immigrati sono una ricchezza. Lo dicono i numeri. Fatti i conti costi-benefici, spiega un dossier della fondazione Moressa, noi italiani ci guadagniamo 3,9 miliardi l’anno. E la crisi, senza i nuovi arrivati che hanno fondato quasi mezzo milione di aziende, sarebbe ancora più dura. Certo, è facile in questi tempi di pesanti difficoltà titillare i rancori, le paure, le angosce di tanti disoccupati, esodati, sfrattati ormai allo stremo. Soprattutto in certe periferie urbane abbruttite dal degrado e da troppo tempo vergognosamente abbandonate dalle pubbliche istituzioni. Ma può passar l’idea che il problema siano «gli altri»?

Non c’è massacro contro i nostri nonni emigrati, da Tandil in Argentina a Kalgoorlie in Australia, da Aigues Mortes in Francia a Tallulah negli Stati Uniti, che non sia nato dallo scoppio di odio dei «padroni di casa» contro gli italiani che «rubavano il lavoro». Basti ricordare il linciaggio di New Orleans del 15 marzo 1891, dove tra i più assatanati nella caccia ai nostri nonni c’erano migliaia di neri, rimpiazzati nei campi di cotone da immigrati siciliani, campani, lucani. Eppure quei nostri nonni contribuirono ad arricchire le loro nuove patrie («la patria è là dove si prospera», dice Aristofane) proprio come ricorda Francesco: «I Paesi che accolgono traggono vantaggi dall’impiego di immigrati per le necessità della produzione e del benessere nazionale». Creano anche un mucchio di problemi? Sì. Portano a volte malattie che da noi erano ormai sconfitte? Sì. Affollano le nostre carceri soprattutto per alcuni tipi di reati? Sì. Vanno ad arroccarsi in fortini etnici facendo esplodere vere e proprie guerre di quartiere? Sì. E questi problemi vanno presi di petto. Con fermezza. C’è dell’altro, però . E non possiamo ignorarlo.

Due rapporti della Fondazione Leone Moressa e Andrea Stuppini,collaboratore de «lavoce.info», spiegano che non solo le imprese create da immigrati sono 497 mila (l’8,2% del totale: a dispetto della crisi) per un valore aggiunto di 85 miliardi di euro, ma che nei calcoli dare-avere chi ci guadagna siamo anche noi. Nel 2012 i contribuenti nati all’estero sono stati poco più di 3,5 milioni e «hanno dichiarato redditi per 44,7 miliardi di euro (mediamente 12.930 euro a persona) su un totale di 800 miliardi di euro, incidendo per il 5,6% sull’intera ricchezza prodotta». L’imposta netta versata «ammonta in media a 2.099 euro, per un totale complessivo pari a 4,9 miliardi». Con disparità enorme: 4.918 euro pro capite di Irpef pagata nel 2013 in provincia di Milano, 1.499 in quella di Ragusa.

A questa voce, però, ne vanno aggiunte altre. Ad esempio l’Iva: «Una recente indagine della Banca d’Italia ha evidenziato come la propensione al consumo delle famiglie straniere (ovvero il rapporto tra consumo e reddito) sia pari al 105,8%: vale a dire che le famiglie straniere tendono a non risparmiare nulla, anzi ad indebitarsi o ad attingere a vecchi risparmi. Ipotizzando che il reddito delle famiglie straniere sia speso in consumi soggetti ad Iva per il 90% (escludendo rimesse, affitti, mutui e altre voci non soggette a Iva), il valore complessivo dell’imposta indiretta sui consumi arriva a 1,4 miliardi di euro». Più il gettito dalle imposte sui carburanti (840 milioni circa), i soldi per lotto e lotterie (210 milioni) e rinnovi dei permessi di soggiorno (1.741.501 nel 2012 per 340 milioni) e così via: «Sommando le diverse voci, si ottiene un gettito fiscale di 7,6 miliardi». Poi c’è il contributo previdenziale: «Considerando che secondo l’ultimo dato ufficiale Inps (2009) i contributi versati dagli stranieri rappresentano il 4,2% del totale, si può stimare un gettito contributivo di 8,9 miliardi». Cosicché «sommando gettito fiscale e contributivo, le entrate riconducibili alla presenza straniera raggiungono i 16,6 miliardi».

Ma se questo è quanto danno, quanto ricevono poi gli immigrati? «Considerando che dopo le pensioni la sanità è la voce di gran lunga più importante e che all’interno di questa circa l’80% della spesa è assorbita dalle persone ultrasessantacinquenni», risponde lo studio, l’impatto dei nati all’estero (nettamente più giovani e meno acciaccati degli italiani) è decisamente minore sul peso sia delle pensioni sia della sanità, dai ricoveri all’uso di farmaci. Certo, è maggiore nella scuola «dove l’incidenza degli alunni con cittadinanza non italiana ha raggiunto l’8,4%», ma qui «la parte preponderante della spesa è fissa». E i costi per la giustizia? «Una stima dei costi si aggira su 1,75 miliardi di euro annui». E le altre spese? Contate tutte, rispondono Stuppini e la Fondazione. Anche quelle per i Centri di Identificazione ed Espulsione: «Per il 2012 il costo complessivo si può calcolare in 170 milioni».

In ogni caso, prosegue il dossier, «si è considerata la spesa pubblica utilizzando il metodo dei costi standard, stimando la spesa pubblica complessiva per l’immigrazione in 12,6 miliardi di euro, pari all’1,57% della spesa pubblica nazionale. Ripartendo il volume di spesa per la popolazione straniera nel 2012 (4,39 milioni), si ottiene un valore pro capite di 2.870 euro». Risultato: confrontando entrate e uscite, «emerge come il saldo finale sia in attivo di 3,9 miliardi». Per capirci: quasi quanto il peso dell’Imu sulla prima casa. Poi, per carità, restano tutti i problemi, i disagi e le emergenze che abbiamo detto. Che vanno affrontati, quando serve, anche con estrema durezza. Ma si può sostenere, davanti a questi dati, che mantenere l’estensione della social card ai cittadini nati all’estero ma col permesso di soggiorno è «un’istigazione al razzismo»?

Per non dire dell’apporto dei «nuovi italiani» su altri fronti. Dice uno studio dell’Istituto Ricerca Sociale che ci sono in Italia 830 mila badanti, quasi tutte straniere, che accudiscono circa un milione di non autosufficienti. Il quadruplo dei ricoverati nelle strutture pubbliche. Se dovesse occuparsene lo Stato, ciao: un posto letto, dall’acquisto del terreno alla costruzione della struttura, dai mobili alle lenzuola, costa 150 mila euro. Per un milione di degenti dovremmo scucire 150 miliardi. E poi assumere (otto persone ogni dieci posti letto) 800 mila addetti per una spesa complessiva annuale (26mila euro l’uno) di quasi 21 miliardi l’anno. Più spese varie. Con un investimento complessivo nei primi cinque anni di oltre 250 miliardi.

L’impossibile impresa di semplificare l’Italia

L’impossibile impresa di semplificare l’Italia

Sergio Rizzo – Corriere della Sera

Semplificare, semplificare, semplificare. Da anni non sentiamo parlare, da parte di chi sta al governo, che di «semplificazioni». Dal berlusconiano ministero «per la semplificazione normativa» al montiano decreto «semplifica Italia», al renziano dicastero per la «Semplificazione e la pubblica amministrazione». Ma quando i poderosi apparati semplificatori passano dalle parole ai fatti la musica è, ahinoi, assai diversa. Prendete lo «sblocca Italia», un provvedimento appena approvato dal parlamento, che nonostante il proposito di rendere la vita più facile per la realizzazione delle opere pubbliche contiene un guazzabuglio di norme scritte talvolta in modo così astruso da risultare incomprensibili, ne abbiamo la certezza, perfino ai mandarini che devono averle scritte.

Prova ne sia un fatto che in qualunque altro Paese europeo avrebbe dell’incredibile. Lo stesso giorno che la legge di conversione dello «sblocca Italia» viene pubblicata sulla Gazzetta ufficiale , l’11 novembre, ecco che compare sempre sulla medesima Gazzetta un decreto legge intitolato «Nuove norme per le bonifiche dei siti inquinati» che modifica due norme dello stesso «sblocca Italia» reperibile qualche pagina prima. Inutile leggerlo, se non siete ipertecnici: non ci capirete un’acca.

Ma quello che c’è dentro qui importa poco. È il fatto in sé: ricorda da vicino quello che accadde a Natale del 2006, quando si stava approvando la prima legge finanziaria del secondo governo di Romano Prodi. Un altro guazzabuglio condensato in un unico articolo di quasi 1.400 commi, nel quale si scoprì una norma che mirava a tagliare le unghie alla Corte dei conti.

Quando lo seppe, il giorno prima dell’approvazione, Prodi intimò di toglierla dal testo. Ma era stata scritta in modo talmente indecifrabile che la cercarono tutta la notte ma non riuscirono a trovarla. E il giorno dopo, mentre il Parlamento votava la finanziaria con dentro quella irreperibile norma avvelenata, il governo fu costretto a fare in fretta e furia un decreto legge per abrogarla. Pagò il funzionario che era stato inutilmente incaricato di scovarla, rispedito dal Tesoro agli uffici di provenienza. L’autore del comma incriminato era un senatore, Pietro Fuda, eletto in Calabria nella lista appoggiata dai movimenti dei consumatori. In quel momento, per ironia della sorte, aveva l’incarico di presidente della commissione parlamentare per la Semplificazione normativa.

Allarme tasse: così cresceranno nelle Regioni

Allarme tasse: così cresceranno nelle Regioni

Enrico Marro – Corriere della Sera

Da gennaio l’addizionale Irpef regionale potrà salire fino al 3,33%. Un punto in più del 2,33%, già applicato da quattro Regioni: Piemonte, Lazio, Molise e Basilicata. Il Piemonte guidato da Sergio Chiamparino, che è anche presidente della Conferenza delle Regioni, ha già deciso un aumento dell’aliquota per i redditi sopra 28 mila euro. Riguarda meno di un quarto dei 2,6 milioni di contribuenti piemontesi, si giustifica la Giunta. Il conto più salato sarà per i 127 mila cittadini sopra i 55 mila euro. Per loro l’aliquota salirà di un punto: al 3,32% per lo scaglione tra 55 mila e 75 mila euro, al 3,33% oltre. Per fare un esempio, un torinese con più di 75 mila euro subirà un prelievo Irpef complessivo superiore al 47%, considerando l’Irpef nazionale del 43% e comunale dello 0,8%. Si tratta di aumenti «obbligati», sostiene la Regione, per far fronte al debito salito a quasi 9 miliardi. Ma, spiega Massimo Garavaglia, coordinatore degli assessori al Bilancio della Conferenza delle Regioni, «anche altre Regioni, quelle con i Piani di rientro sanitari (oltre al Piemonte, Lazio, Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Calabria e Sicilia, ndr.), rischiano di aumentare le addizionali, a causa dei tagli alle Regioni: 4 miliardi con l’ultima legge di Stabilità e 1,8 con le precedenti due manovre».

Il prelievo medio pro capite che quest’anno è salito a 377 euro con punte di 548 euro nel Lazio e 442 in Piemonte e Campania, potrebbe salire ancora. Come l’aliquota media, che ora sfiora 1,6% (va tenuto conto che molte Regioni articolano il prelievo sui 5 scaglioni Irpef) con Lazio, Molise, Campania e Calabria oltre il 2% mentre il prelievo medio più basso c’è nelle province autonome di Bolzano e di Trento. L’aumento fino al 3,33% è quasi certo nel Lazio, dove è già previsto dalla manovra approvata l’anno scorso, mentre la Campania fa sapere che sarà confermato il 2,03% in vigore. Già domani potrebbe esserci un nuovo incontro governo-Regioni, dice il sottosegretario all’Economia Pier Paolo Baretta. Che anticipa: «Le proposte delle Regioni non vanno nella direzione giusta. Vorrebbero alleggerire i tagli utilizzando i fondi non spesi per il pagamento dei debiti verso le imprese. Sarebbe una soluzione finanziaria mentre secondo noi vanno ridotti gli sprechi».

Le posizioni sono distanti. A sentire le Regioni, 4 miliardi di tagli sono insostenibili, mettono a rischio i servizi, per non ridurre i quali bisogna appunto aumentare l’addizionale. In effetti, secondo i calcoli della Copaff, la commissione del’Economia per il federalismo fiscale presieduta da Luca Antonini, tra il 2008 e il 2013 sono proprio le Regioni ad aver sopportato, in proporzione, i tagli maggiori di spesa: 13 miliardi più 8 sul fondo sanitario. Ma, a sentire il premier Matteo Renzi, tagliare 4 miliardi, su una spesa regionale di 200 miliardi, è possibile intervenendo sugli sprechi e applicando i costi standard. Secondo il rapporto dell’istituto di ricerca Glocus, nella sanità si possono risparmiare 22 miliardi in 5 anni. Per Domenico Casalino, amministratore delegato della Consip, la società del ministero dell’Economia per gli acquisti della pubblica amministrazione, «è senza dubbio nel campo dell’energia che ci sono troppi sprechi. In qualche caso si sono ottenuti risparmi fino al 40%. Centralizzando gli acquisti, oltre a eliminare gli sprechi, si rende più difficile la corruzione».

In questo braccio di ferro a rimetterci è il contribuente. Eppure la legge 42 del 2009 sul federalismo fiscale fissava il principio dell’invarianza della pressione fiscale, quindi se aumentavano le addizionali doveva diminuire l’Irpef nazionale. Invece, afferma la Corte dei conti nel Rapporto sulla finanza pubblica 2013, «non solo non si trovano tracce di compensazione fra fisco centrale e locale ma, anzi, di pari passo con l’attuazione del federalismo fiscale, si è registrata una significativa accelerazione sia delle entrate territoriali sia di quelle centrali». Solo nel 1998, ricorda la Corte, quando l’addizionale regionale debuttò con un’ aliquota che allora era dello 0,5%, «furono ridotte della stessa misura le aliquote Irpef». Da allora, spiega Antonini, «c’è stato un continuo scaricabarile tra Stato, Regioni ed enti locali e il principio dell’invarianza di gettito è stato massacrato». Più accademica la Corte: «Le evidenze» dimostrano «una mancanza di coordinamento fra prelievo centrale e locale, sconfinato nell’aumento della pressione fiscale complessiva a causa di un perverso effetto combinato: lo Stato centrale che taglia i trasferimenti ma lascia invariato il prelievo di sua competenza; gli enti territoriali che, per sopperire ai tagli, aumentano le aliquote dei propri tributi». Quando finirà? Il governatore della Campania, Stefano Caldoro, ha suggerito un po’ provocatoriamente: «Lasciamo il governo nazionale, sciogliamo le Regioni e riorganizziamo le funzioni sulla base delle macroaree».

Tante misure per così poco

Tante misure per così poco

Alberto Alesina e Francesco Giavazzi – Corriere della Sera

Quando presentò la legge di Stabilità, Matteo Renzi disse: «È una grande, grande, grande novità: una manovra anticiclica in un momento di difficoltà». A un mese di distanza facciamo fatica a vedere in che modo questa legge possa aiutare la crescita. Il deficit dei conti pubblici (stime della Commissione europea) sarà quest’anno il 3% del prodotto interno lordo, e scenderebbe al 2,7% l’anno prossimo. Il deficit «strutturale» (cioè depurato dal ciclo economico) rimarrebbe sostanzialmente invariato: 0,9% quest’anno, 0,8 il prossimo.

La manovra quindi è a deficit costante. Ma una manovra può essere espansiva anche se, a parità di deficit, riduce le tasse sul lavoro, compensandole con tagli di spesa, soprattutto in un Paese in cui la tassazione sul lavoro è una delle cause della scarsa competitività. Nemmeno questo pare essere il caso. Nell’audizione del 4 novembre alla Camera, il ministro Padoan ha detto: «Con la legge di Stabilità, la pressione fiscale passa dal 43,3% del 2014 al 43,2%, nel 2015». Cioè rimane invariata. E temiamo che questo calcolo parta dall’ipotesi ottimista che le Regioni non traducano i 4 miliardi di tagli loro imposti dallo Stato in maggiori tasse locali, come alcune già stanno facendo. Che cosa c’è di «grande» e di «anticiclico» in questa manovra? Ben poco. La legge di Stabilità elimina dalla base imponibile dell’Irap il costo del lavoro per dipendenti con contratti a tempo indeterminato. Ma cancella anche la riduzione delle aliquote Irap che era stata decisa a maggio. Dal prossimo anno l’effetto netto sarà comunque una riduzione della tassa. Ma il taglio delle aliquote oggi cancellato era stato finanziato aumentando dal 20 al 26% l’imposta sostitutiva sui redditi da capitale diversi dai titoli di Stato. Conclusione: l’aumento di imposte è confermato, il taglio cancellato, almeno per il 2014, quando varrà ancora la vecchia base imponibile Irap.

Insomma, una legge partita con buone intenzioni si è trasformata in una manovra irrilevante per la crescita. Perché? Il problema è che l’impegno di Renzi è durato lo spazio di un mattino. Approvata la legge, e difesala a Bruxelles, il premier, anziché seguirla passo passo, se ne è disinteressato e si è occupato d’altro: di legge elettorale e di riforme istituzionali. Riformare lo Stato non è tempo perso: serve a governare meglio, anche l’economia. Ma nell’emergenza in cui ci troviamo non possiamo permettercelo: il tempo stringe, tutte le forze vanno destinate a far riprendere la crescita, altrimenti avremo un Paese magari con istituzioni migliori, ma dissanguato.

Patrimoniali nascoste sulla casa

Patrimoniali nascoste sulla casa

Massimo Fracaro e Nicola Saldutti – Corriere della Sera

A pensarci bene, è un bersaglio molto facile da centrare. Non può muoversi, non può cambiare Paese, non può rifugiarsi in un paradiso fiscale. Stiamo parlando della casa. Forse è per questo che il Fisco negli ultimi anni l’ha presa di mira. Quasi tutti gli esecutivi che si sono succeduti hanno puntato sugli immobili per aumentare il gettito statale e locale. Così è avvenuto con il passaggio dall’Ici all’Imu. Poi, una mini tregua, con l’esonero per le abitazioni principali. Ma il risparmio è stato in parte (se non completamente) compensato dall’arrivo della Tasi, la tassa sui servizi. Il tutto in un continuo cambiamento di norme, regole e scadenze che hanno disorientato i contributi. E l’incertezza sulle tasse da pagare è il nemico peggiore per un Paese che deve ritrovare soprattutto fiducia.

Speriamo che questo copione non si ripeta con l’operazione avviata in questi giorni. Vale a dire la nomina delle commissioni censuarie, primo passo perla Grande riforma (incompiuta) del sistema tributario: quella del Catasto. Il valore delle case non verrà più determinato in base alle rendite, ma con un mix tra superficie e valori di mercato. E, nell’epoca dei Big Data, anche il Fisco si convertirà agli algoritmi perché userà proprio un algoritmo per elaborare valutazioni corrette. Speriamo sia una formula efficiente come quella che ha fatto la fortuna di Google e Facebook. Rivedere il valore degli immobili è una decisione giusta, perché le attuali valutazioni non corrispondono alla realtà e, soprattutto, sono sperequate. I centri cittadini sono pieni di immobili di pregio che, per i ritardi del Catasto, continuano a pagare le tasse come beni di poco pregio. Mentre i bilocali nuovi nelle periferie hanno valutazioni vicine a quelle di mercato. E tasse altrettanto elevate.

La riforma del Catasto deve essere improntata all’equità e non diventare l’ennesima occasione per battere cassa. Secondo alcune stime i rincari, senza correttivi, arriverebbero anche al 200%. È vero che viene prevista una clausola di salvaguardia, ma solo a livello comunale. Spesso quando si decide di tassare le ricchezze, invece di colpire evasori e grandi patrimoni immobiliari si è finito per pesare soprattutto su chi possiede una sola abitazione, quella in cui vive, e sulla quale magari paga anche il mutuo. Sugli immobili gravano già oggi due/tre patrimoniali mascherate. Non aggiungiamoci anche quella del nuovo Catasto. Ricordiamo che le case a chi ci abita non danno reddito. Mentre il Fisco il reddito dalle case lo pretende. Eccome. Ogni anno. E in denaro contante.

Contratti a tempo, balzo del 20%

Contratti a tempo, balzo del 20%

Enzo Riboni – Corriere della Sera

Chi si farà sedurre dalla promessa dei “pochi, maledetti e subito”? Il detto popolare metaforizza bene la proposta di inserire il Tfr (la “liquidazione”) in busta paga, rinunciando così a un gruzzolo consistente quando si cessa l’attività. Nessuno, per ora, sa se la proposta contenuta nel Jobs Act convincerà i lavoratori, un’informazione che, se conosciuta, darebbe un’idea di quanto il provvedimento potrebbe incidere sulla crescita dei consumi. La società di outplacement (ricollocamento dei lavoratori) Spinlight Counseling, ha provato a dare una risposta con un’indagine che ha coinvolto 200 responsabili del personale di aziende medio-grandi, in gran parte del CentroNord (circa 100mila dipendenti in totale).

I capi risorse umane, sondando gli umori dei lavoratori e interpellando i sindacati interni, hanno concluso che il 70% di chi ha una retribuzione annua lorda non superiore ai 20mila euro (più 0 meno 1.200 euro netti al mese) aderirà alla proposta di inserire il Tfr in busta paga. Chi se la passa un po’ meglio guadagnando tra i 20 e i 30 mila euro, già riterrà meno allettante quella possibilità: si farà convincere uno su due. L’appeal dei soldi subito, infine, crollerà decisamente per chi sta sopra i 30mila euro, che sceglierà il Tfr mensile solo nel 10% dei casi.

Il sondaggio chiede poi ai responsabili del personale altri giudizi sul gradimento del Jobs Act. “La riforma dell’articolo 18 – spiega il managing partner di Spinlight Giulio Bertazzoli – non è ritenuta determinante per la gestione degli esuberi. Altrettanto poco interessante è considerato il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti, un tipo di rapporto che sarà impiegato meno dei contratti a tempo determinato”. Questi ultmi nel 2014 sono stati utilizzati da otto capi del personale su dieci e non hanno riguardato solo giovani e qualifiche medio-basse ma hanno coinvolto anche quadri e dirigenti. Proprio questi manager sono quelli che hanno subito il maggior incremento di contratti a termine: più 20% nei primi sei mesi di quest’anno rispetto al corrispondente periodo del 2013. E nel 2015 si prevede un altro aumento del 20%.

E i lavoratori a progetto? La possibile introduzione, per loro, di un salario minimo non spaventa il 90% del campione, che, facendo parte di grandi aziende, valuta di erogare già oggi ai cocopro, in genere di professionalità medio-alte, compensi più alti di ogni prevedibile minimo futuro. Per evitare infine ulteriori licenziamenti, il 40% dei capi del personale pensa di ricorrere al demansionamento previsto dal Jobs Act. “Per fare un esempio – conclude Bertazzoli – se un’azienda chiude un segmento commerciale, piuttosto che licenziare il capo area potrebbe metterlo a fare il venditore”.

L’economia «000»: inflazione, tassi e crescita ferma

L’economia «000»: inflazione, tassi e crescita ferma

Giuliana Ferraino – Corriere della Sera

Zero crescita, zero inflazione, zero interessi: se viviamo nel tempo zero, è venuta l’ora di ripartire da zero. Gli indicatori economici segnalano che la nostra produzione industriale scende (-2,9% a settembre), l’export è in affanno, la nostra competitività declina. Il Pil continua a restringersi: -0,2% nel secondo trimestre, e le previsioni sono poco ottimistiche sul futuro, come ci ricorda Moody’s. Aumentano soltanto il debito pubblico (salirà al 133,896 nel 2015 stima la Commissione Ue) e la disoccupazione (12,6% a settembre). In sintesi: l’Italia non solo non sa più creare ricchezza, ma ha accumulato una zavorra che paralizza il Paese. E se il denaro a costo zero garantito dalla Bce dovrebbe favorire il credito e promuovere gli investimenti produttivi, di fatto per ora erode risparmi e pensioni. Questa situazione ha impoverito le famiglie e aumentato le disuguaglianze.

Nel tempo zero gli aggiustamenti non bastano più: dobbiamo liberarci delle incrostazioni che ingabbiano il nostro modo di pensare e di agire, retaggio di un mondo che è stato spazzato via da 7 anni di crisi durissima. Per tornare a crescere, creare posti di lavoro e ridare speranza e sogni ai giovani, fermando la fuga dei talenti, serve una nuova cultura. In tutti i settori e per tutte le categoria, che porti liberalizzazioni vere. Basta con corporazioni e club. Tassisti e avvocati non possono fare eccezione. Anche la flessibilità del mercato del lavoro, invocata per attirare investimenti, rilanciare la crescita e favorire le assunzioni, rischia di alimentare nuove disuguaglianze, se non sarà accompagnata da concorrenza reale sul mercato dei beni e dei servizi e le scelte non saranno guidate dalla meritocrazia.

Aziende italiane, la forza delle donne

Aziende italiane, la forza delle donne

Roger Abravanel – Corriere della Sera

Chi scrive è stato tra i primi fautori delle quote rosa per avere più donne nei consigli di amministrazione italiani (Cda). L’obiettivo era di migliorare la qualità del Cda perché nelle aziende all’estero è dimostrato che il contributo femminile li rende migliori. Può sembrare strano che un fautore della meritocrazia possa avere spinto per le «quote», ma la logica era quella delle «azioni positive» del mondo anglosassone: per un periodo limitato bisogna forzare l’inserimento di generi (o razze) discriminate, altrimenti il cambiamento non avviene. C’era anche la speranza che avere più donne nei Cda avrebbe portato a un’altra ricaduta: la crescita dei ruoli nel management, rompendo quel «soffitto di vetro» che riduce la percentuale di donne man mano che si sale nella gerarchia aziendale.

Dopo molte opposizioni (anche da parte di donne ) il concetto è passato ed è partito un vero tsunami, culminato con una proposta di legge bipartisan. L’idea di chi scrive era inserire un «incoraggiamento» nel codice di autodisciplina delle società quotate ad avere almeno due donne nei loro Cda. Ma per la politica l’occasione era troppo ghiotta: la legge è passata e comunque è stata una cosa positiva. Dopo cinque anni, i risultati sono impressionanti. La percentuale di donne nei Cda è quadruplicata, l’Italia è diventata un modello per l’Europa e i presidenti di Eni, Enel, Terna e Poste sono oggi delle donne. Sorge una domanda: questa inondazione «rosa» nei nostri Cda li ha davvero migliorati? Secondo gli addetti al lavoro sembrerebbe di si. A un recente convegno milanese sul tema della governance si è celebrato un grande miglioramento del funzionamento dei Cda italiani. Effettivamente sotto certi aspetti le cose sono migliorate.

Per un quarto di secolo abbiamo assistito a illeciti più o meno gravi in gran parte creati da azionisti di maggioranza e ignorati dai Cda: conflitti di interesse mostruosi a scapito degli azionisti minoritari, corruzione e collusione diffuse, frodi contabili. Oggi è raramente così: le norme che regolano il diritto societario vengono controllate seriamente e la cosiddetta Compliance (rispetto della legge) occupa molto del tempo nei Cda. Per quanto ho potuto osservare, le donne arrivate nei Cda hanno dato un notevole contributo in questo senso non solo perché sono spesso ottime professioniste e avvocati (anche più precise e meticolose degli uomini), ma perché sono delle outsider, davanti alle quali molti consiglieri maschi insider si sentono in difficoltà nell’ignorare
le regole.

Ma i Cda avevano bisogno di un miglioramento ben oltre il rispetto della legalità. Oltre alla C della Compliance nei migliori Cda si trovano altre 4 C. Per 3 di queste serve una grande esperienza manageriale: il Controllo (dei conti e della performance aziendale, non solo dal punto di vista contabile ma del business), il Coach, allenatore dell’amministratore delegato (che ha sempre bisogno di un altro «specchio di se stesso»), il Contribuire al management (per esempio contatti nel settore, punti di vista su potenziali acquisizioni di aziende o di dirigenti). Su queste 3 C le professioniste entrate nei Cda italiani sono riuscite a fare poco perché raramente hanno esperienza manageriale e autorevolezza che viene dopo anni di posizioni di leadership nelle aziende ai massimi livelli. Non per colpa loro, ma perché le aziende italiane negli ultimi 25 anni non hanno mai creato opportuni- tà per donne eccellenti di risalire la gerarchia aziendale.

La carenza più grave è però sulla ultima delle 5 C, il cosiddetto Challenge. Che vuole dire sfidare il vertice aziendale avendo posizioni diverse sulla strategia, sulla struttura organizzativa del top management, sul programma di successione, sugli obiettivi di budget, sul meccanismi di incentivazione della remunerazione. Per farlo, oltre a una grande autorevolezza ed esperienza nel capire il business è necessaria una vera «indipendenza» morale. Molte neoconsigliere hanno queste doti, ma non riescono ad esercitarle perché sono una minoranza in un Cda maschile dove il Challenge è una pratica poco corrente. Anche perché in molti Cda manca quella figura del presidente leáder-senza deleghe che orchestra le 5 C con l’aiuto del Cda Nella maggior parte delle aziende italiane il presidente è l’imprendittore che fa anche il capo-azienda, mentre in quelle publiche (per esempio ex statali) è una presenza molto poco attiva e presente soprattutto sull’esterno.

Resto comunque ottimista che, col tempo, la ricaduta che le quote rosa avranno nell’aumentare la leadership femminile nel management metterà a disposizione dei Cda più donne capaci di migliorarne radicalmente la qualità. Per il Challenge sarà però necessaria una condizione: che oltre alle quote rosa si introducano le «quote azzurre» per avere più maschi con forte indipendenza morale e leadership.

Un comma sparito cancella il tetto alle pensioni d’oro

Un comma sparito cancella il tetto alle pensioni d’oro

Gian Antonio Stella – Corriere della Sera

Avete presente la leggenda di Sissa Nassir, l’inventore degli scacchi che chiese allo Shah un chicco di grano nella prima casella, 2 nella seconda, 4 nella terza e via raddoppiando? Una misteriosa manina ha ideato un giochino simile, facendo sparire alcune parole chiave per le pensioni più ricche. Nel 2014 il giochino costerà 2 milioni di euro: nel 2024 addirittura 493. In un anno. Per un totale nel decennio di 2 miliardi e 603 milioni di euro. A godere di questo regalo, calcola l’Inps, saranno circa 160 mila persone. Quelle che, pur avendo raggiunto nel dicembre 2011 i quarant’anni di anzianità, hanno potuto scegliere di restare in servizio fino ai 70 o addirittura ai 75 anni. In gran parte docenti universitari, magistrati, alti burocrati dello Stato…

Il regalo agli «eletti» è frutto della cancellazione di quattro righe. La legge 214 del 2011 voluta dal ministro Elsa Fornero, che si riprometteva di «togliere ai ricchi per dare ai poveri», diceva infatti all’articolo 24 che dal primo gennaio 2012 anche i nuovi contributi dei dipendenti che avevano costruito la loro pensione tutta col vecchio sistema retributivo, perché avevano già più di 18 anni di anzianità al momento della riforma Dini del ‘95, dovevano esser calcolati con il sistema contributivo. «In ogni caso per i soggetti di cui al presente comma», aggiungeva però il testo originario suggerito dall’Inps, «il complessivo importo della pensione alla liquidazione non può risultare comunque superiore a quello derivante dall’applicazione delle regole di calcolo vigenti prima dell’entrata in vigore del presente comma».

Arabo, per chi non conosce il linguaggio burocratico. Proviamo a tradurlo senza entrare nei tecnicismi: quelli che potevano andarsene con il vitalizio più alto (40 anni di contributi) ma restavano in servizio potevano sì incrementare ancora la futura pensione (più soldi guadagni più soldi versi di contributi quindi più alta è la rendita: ovvio) ma non sfondare l’unico argine che esisteva per le pensioni costruite col vecchio sistema: l’80 per cento dell’ultimo stipendio. Poteva pure essere una pensione stratosferica, ma l’80 per cento della media delle ultime buste paga non poteva superarlo.

Quelle quattro righe della «clausola di salvaguardia» che doveva mantenere l’argine, però, sparirono. E senza quell’argine, i fortunati di cui dicevamo possono ora aggiungere, restando in servizio con stipendi sempre più alti, di anno in anno, nuovi incrementi: più 2 per cento, più 2 per cento, più 2 per cento… Al punto che qualcuno (facendo «marameo» alla maggioranza dei cittadini italiani chiamati in questi anni a enormi sacrifici) potrà andarsene fra qualche tempo in pensione col 110 o il 115% dell’ultimo stipendio. Per tradurlo in cifre: il signor Tizio Caio che già potrebbe andare in pensione con 33.937 euro al mese potrà riceverne invece, grazie a questa «quota D», 36.318.

Chi le fece sparire, quelle righe, non si sa. E certo non era facile accorgersi del taglio in un testo logorroico di quasi 18 mila parole più tabelle. Un testo cioè lungo quasi il doppio del «Manifesto del partito comunista» di Marx ed Engels, il doppio esatto della Carta Costituzionale, cinque volte di più del discorso di inaugurazione del Concilio Ecumenico Vaticano II. Per non dire del delirio burocratese. Con l’apparizione ad esempio dei commi 13-quinquies e 13-sexies e 13-septies e 13-octies e 13-novies e perfino 13-decies. Ciascuno dei quali impenetrabile per chiunque non sia vaccinato contro la burocratite acuta.

«Quante più parole si adopera in distendere una legge, tanto più scura essa può diventare», diceva tre secoli fa l’abate Ludovico Muratori. Parole d’oro: la rimozione di quelle poche righe che arginavano abnormi aumenti delle pensioni d’oro, come ha scoperto l’Inps, hanno prodotto l’effetto perverso che il misterioso autore del taglio doveva aver diabolicamente calcolato. Secondo una tabella riservata fornita al governo dai vertici dell’Istituto di previdenza, infatti, tabella che pubblichiamo, 160 mila persone circa potranno godere sia dei vantaggi del vecchio sistema retributivo sia di quelli del «nuovo» sistema contributivo. E tutto ciò, se non sarà immediatamente ripristinata quella clausola di salvaguardia, causerà un buco supplementare nelle pubbliche casse di 2 milioni quest’anno, 11 l’anno prossimo, 44 fra due anni, 93 fra quattro e così via. Fino a una voragine fra nove anni di 493 milioni di euro. Per un totale complessivo, come dicevamo, di oltre due miliardi e mezzo da qui al 2024. Per capirci: una somma dieci volte superiore ai soldi necessari a mettere in sicurezza una volta per tutte Genova dal rischio idrogeologico e dalle continue alluvioni.

Dello stupefacente meccanismo ideato da Sissa Nassir per farsi dare un’enormità dallo Shah di Persia sorrise anche Dante Alighieri che nella Divina Commedia, per spiegare quanto il numero degli angeli crescesse a dismisura, scrisse «L’incendio suo seguiva ogne scintilla / ed eran tante, che ‘l numero loro / più che ‘l doppiar de li scacchi s’immilla». I cittadini italiani, però, tanta voglia di poetare oggi non hanno. E forse sarebbe il caso che il governo prendesse subito sul serio l’allarme dell’Inps. Andando a ripristinare quelle righette vergognosamente fatte sparire.

Lo Stato imprenditore affascina tanti (ma può far male)

Lo Stato imprenditore affascina tanti (ma può far male)

Massimo Fracaro e Nicola Saldutti – Corriere della Sera

La tentazione e forte, molto forte. Cosi ogni volta che il sistema industriale italiano scopre una sua fragilità, puntualmente c’è chi chiama in causa lei, la Cassa depositi e prestiti. È capitalizzata, ha una leva finanziaria da molte decine di miliardi, funziona come una banca d’affari, ma non è una banca d’affari. Grazie al serbatoio del risparmio che gli italiani hanno depositato alle Poste può funzionare, con tutte le tutele previste dalla legge naturalmente, come una sorta di Bancomat di ultima istanza. Il livello delle richieste, solo per citarne alcune va da Alitalia, Telecom, Ilva, Acciai Terni Speciali. Qualche anno fa si ipotizzò persino la Parmalat. A rileggere i nomi delle società coinvolte, se cosi fosse stato, sarebbe nata una brutta fotocopia dell’Iri, l’istituto perla ricostruzione industriale che quelle società aveva qualche decina di anni fa, in portafoglio. Per fortuna
non è andata così.

Compito dello Stato forse è più quello di mettere le imprese in condizioni di lavorare meglio, di avere una fiscalità chiara, un quadro normativo semplice e non intermittente, una giustizia veloce, che non comprarne le azioni. Soprattutto quando, in situazioni di emergenza e di crisi, non sono in molti a volerle. La stagione delle privatizzazioni sembra molto lontana, risale a circa vent’anni fa. Certo, la mitologia del mercato ha fatto commettere errori. Ma la strada non può essere quella di incaricare la Cassa depositi di riempire gli spazi lasciati vuoti dalle imprese private. Un ragionamento su quali sono i settori industriali nei quali l’Italia vuole conservare un ruolo spetta al governo e la Cassa può essere utile in questo senso, semmai per affiancare dei progetti, non come tappabuchi. Altrimenti finirebbe, e non sarebbe una vittoria, col far rimpianger l’Iri. Però anche gli imprenditori devono farsi avanti per cercare soluzioni di mercato senza finire sempre per invocare l’intervento della Cdp. Non è un Bancomat: né dello Stato, né dei privati.