filippo caleri

Gli statali si ammalano di più, il lunedì il giorno preferito

Gli statali si ammalano di più, il lunedì il giorno preferito

di Filippo Caleri – Il Tempo

Statali più cagionevoli di salute. Forse perché il loro posto di lavoro è più sicuro rispetto al privato. Dove infatti ci si ammala di meno nel corso dell’anno. In ogni caso in entrambi i settori se proprio si deve stare a casa con il termometro sul comodino si preferisce il lunedì. Il primo giorno della settimana è scelto per comunicare la malattia al datore di lavoro nel 30% dei casi. I dati sono stati elaborati dall’osservatorio statistico dell’Inps che ha contabilizzato tutte le giornate di malattia nel 2014 sia nel pubblico sia nel privato. In tutto si tratta di oltre 109 milioni di giorni (77.195.793 giornate nel privato e 31.525.329 nella pubblica amministrazione). La conferma della fragilità della salute dei ministeriali è confermata anche nei dati percentuali. L’Istituto guidato da Tito Boeri ha registrato lo scorso anno un aumento dello 0,8% (6.031.362) dei certificati di malattia presentati dai lavoratori pubblici e un calo del 3,2% (11.494.805) di quelli dei dipendenti privati.

A confermare che la salute è più debole tra i dipendenti pubblici si è aggiunto ieri il Centro Studi ImpresaLavoro, che ha rielaborato i dati Inps, giungendo alla conclusione che i circa 3,2 milioni di dipendenti pubblici si ammalano in media quasi il doppio delle volte rispetto ai circa 14 milioni di dipendenti privati registrati presso l’Inps. La base di calcolo sono stati i 71,5 milioni di certificati che dal 2010 (anno della riforma che impone l’invio via web della malattia da parte dei medici di famiglia) sono arrivati all’Istituto di previdenza: 2,6 milioni nel 2010 (periodo in cui il sistema telematico non era ancora entrato a regime), 16,4 milioni nel 2011, 17,2 milioni nel 2012, 17,8 milioni nel 2013 e 17,5 milioni nel 2014. Ebbene dal 2011 al 2014 le giornate di malattia nel settore privato sono state circa 312 milioni 134 mila, mantenendosi stabili ogni anno dopo aver registrato un calo iniziale di 2,4 milioni dal 2011 al 2012 (79,8 milioni nel 2011, 77,4 milioni nel 2012, 77,6 nel 2013 e 77,1 milioni nel 2014). Nello stesso periodo di tempo sono invece costantemente aumentate le giornate di malattia nel settore pubblico, per un totale di oltre 116 milioni 770 mila (25,8 milioni nel 2011, 28,5 milioni nel 2012, 30,7 milioni nel 2013 e 31,5 milioni nel 2014).

L’Inps osserva pure che i lavoratori con almeno un episodio di malattia sono per la maggior parte maschi (56,l%) nel privato e femmine (69%) nella Pubblica amministrazione. E per quanto riguarda poi il numero di assenze per malattia, nel pubblico risultano esser doppie rispetto al privato: i 3 milioni di lavoratori della Pubblica amministrazione, infatti, hanno fatto in media 10,5 giorni di malattia mentre i 13,6 milioni di dipendenti del settore privato sono stati malati in media per 5,67 giorni.

La pratiche fiscali costano 20 euro al giorno

La pratiche fiscali costano 20 euro al giorno

Filippo Caleri – Il Tempo

Non solo fisco esoso e rapace. In Italia le imprese sopportano un costo esoso anche solo per restare in regola e per portare a termine le decine di adempimenti chiesti dall’amministrazione fiscale. Secondo i dati elaborati dal Centro Studi ImpresaLavoro, una azienda media spende, infatti, ogni anno 7.559 euro per disbrigare adempimenti burocratici relativi al pagamento delle imposte: una cifra che non ha eguali in Europa e che rappresenta una vera e propria tassa ulteriore e mascherata che le aziende sono costrette a sostenere.

Un numero che è emerso dall’incrocio di due dati: quello reso noto dalla Banca Mondiale all’interno del rapporto Doing Business e relativo alle ore annue necessarie per svolgere adempimenti fiscali e quello relativo al costo orario medio del lavoro nel nostro paese così come sostenuto dalle aziende e rilevato da Eurostat. Un’azienda italiana, mediamente, deve infatti dedicare ogni anno 269 ore per preparare, compilare e pagare i moduli relativi alle imposte sul lavoro, sul valore aggiunto e sui redditi di impresa. Questo tempo comporta ovviamente un costo, che Eurostat stima mediamente in 28,1 euro l’ora. L’assorbimento di dipendenti dedicati a queste mansioni e quindi distolti dall’effettiva produzione costa così ogni anno alle aziende 7.559 euro.

Per una volta l’Italia riesce a battere anche la Germania che, nonostante un costo orario del lavoro più alto di 3 euro rispetto al nostro, con «solo» 218 ore necessarie a pagare le tasse chiede alle sue imprese uno sforzo di 736 euro inferiore al nostro. Il Paese supera anche la Francia che, pur avendo un sistema fiscale pesante come quello italico in termini quantitativi, richiede solo 137 ore all’anno per svolgere tutte la pratiche relative al fisco. È anche vero che in Europa vigono anche sistemi più complessi di quello applicato in Italia – spiega il rapporto della Fondazione – ad esempio quello bulgaro, quello ungherese o quello della Repubblica Ceca. Il basso costo del lavoro rende però decisamente meno oneroso impiegare risorse in compiti burocratici.

«Quando analizziamo il total tax rate cui sono sottoposte le imprese italiane – commenta il presidente di ImpresaLavoro Massimo Blasoni – molto spesso ci dimentichiamo che le tasse emerse non rappresentano il totale del peso che le aziende devono sopportare. La burocrazia non è solo un laccio che blocca lo sviluppo e gli investimenti privati: è anche un costo. Per questo è sempre più necessario agire rapidamente per semplificare il nostro sistema, partendo da quello fiscale. Si tratta di una riforma urgente e che può essere realizzata a costo zero. Basta volerlo».

Mentre si pagano costi pesanti per pagare le tasse. Queste ultime non accennano a diminuire. E l’eventuale sostituzione di una serie di tasse comunali con la «local tax» porterebbe in un’«unica» soluzione 26 miliardi di euro nelle casse dei Comuni italiani. A calcolarlo è l’Ufficio studi della Cgia, l’associazione degli artigiani di Mestre, che ha elencato le principali imposte/tasse comunali e i relativi gettiti che potrebbero essere sostituiti dalla nuova «tassa unica» che i sindaci dovrebbero applicare a partire dal 2016. Ebbene, tra Imu e Tasi (21,1 miliardi di euro), l’addizionale comunale Irpef (4,1 miliardi di euro), l’imposta sulla pubblicità (426 milioni di euro), la tassa sull’occupazione degli spazi e aree pubbliche (218 milioni di euro), l’imposta di soggiorno (105 milioni di euro) e l’imposta di scopo (14 milioni di euro), il gettito totale si aggira sui 26 miliardi di euro.

Renzi ci prova: ecco le sue liberalizzazioni

Renzi ci prova: ecco le sue liberalizzazioni

Filippo Caleri e Marco Valeri – Il Tempo

Abolizione del «prezzo imposto» sui libri, eliminazione del mercato di «maggior tutela» per il gas, vendita libera di medicinali di fascia C nelle parafarmacie. E ancora: rimozione dei vincoli per l’apertura di nuove farmacie, studi notarili, pompe di benzina e persino edicole; ma anche via libera a Uber (il servizio di noleggio con il cellulare), al cambiamento di operatore telefonico in tempi sprint e all’ingresso dei privati nel trasporto pubblico locale e per la creazione di nuove cliniche sanitarie. Renzi tenta il bis delle lenzuolate di Bersani o perlomeno ci prova. Insomma, lobby permettendo, sono in arrivo le «Renzuolate». Per avere l’elenco ufficiale delle nuove liberalizzazioni si deve attendere il 20 febbraio, quando il Disegno di Legge Concorrenza arriverà sul tavolo del Consiglio dei Ministri. Ma la bozza del provvedimento che circola in queste ore, datata 15 gennaio, delinea già la maggior parte degli interventi, che riguarderanno molti settori, dall’editoria all’energia, fino al sistema bancario e alle assicurazioni.

Libri più cari
La bozza prevede sia l’abolizione del prezzo imposto dall’editore, con possibili rincari, soprattutto sui libri di testo scolastici, sia l’eliminazione del tetto massimo del 15% di sconto applicabile sulla vendita di libri. In pratica viene sancita la fine dei limiti imposti dalla Legge Levi del 2011, varata in seguito alle proteste dei piccoli editori e dei librari indipendenti, preoccupati dalla concorrenza dei grandi gruppi editoriali e delle grandi catene di librerie. Preoccupazione che non scompare. Secondo Cristina Giussani, presidente del Sindacato Italiano Librai, l’intervento «è un favore ad Amazon e a tutti quei gruppi che hanno le capacità economiche per vendere libri sottocosto e mettere fuori mercato, una volta per tutte, le librerie indipendenti e i piccoli editori».

Energia
A partire dal 30 giugno 2015 scomparirà anche il servizio «di maggior tutela» del gas per i clienti domestici, nel quale le tariffe sono fissate trimestralmente dall’Autorità per l’energia. Nella stessa data cesserà anche la possibilità per le piccole imprese di aderire al servizio di maggior tutela per l’energia elettrica. Una doppia novità che porterà alla piena liberalizzazione del mercato, ma che potrebbe avere come effetto collaterale un improvviso aumento dei prezzi per i clienti un tempo tutelati. Un rischio riconosciuto anche dal Governo: nella bozza, infatti, si prevede di condurre «un monitoraggio dei prezzi durante la fase di liberalizzazione», per evitare sorprese.

Rc Auto
Moltissime le novità nel campo assicurativo. Rispuntano gli sconti obbligatori per gli assicurati che accettano di installare sulla propria auto le famose «scatole nere», i dispositivi che registrano le attività del veicolo. La nuova bozza, però, prevede sconti anche per chi accetta di sottoporre il proprio veicolo ad ispezione da parte delle compagnie assicurative. Ma cambiano anche le misure per la trasparenza e per l’assegnazione delle classi di merito, che ora prevedono aumenti meno salati del premio assicurativo per chi viene «declassato».

Farmacie e farmaci di fascia C
Il ddl Concorrenza interverrà pesantemente anche sul tessuto delle farmacie. Attualmente, infatti, la norma prevede la possibilità di aprire una farmacia ogni 3.300 abitanti. La bozza del disegno di legge prevede il dimezzamento di tale soglia, abbassandola a 1.500 abitanti, e permettendo quindi il raddoppio del numero di farmacie. Novità anche per i farmaci di fascia C con ricetta, destinati al trattamento di patologie lievi, che potranno essere venduti anche nelle Parafarmacie e nei corner dei supermercati.

Trasporti locali
Altra grande novità del sarà l’arrivo dei privati nel trasporto pubblico locale. La bozza prevede infatti che imprese diverse dal concessionario del servizio di trasporto «possano fornire servizi anche in sovrapposizione alle linee gestite in regime di esclusiva». Viene abrogato anche l’obbligo per le auto del Noleggio con conducente (NCC) di ricevere prenotazioni solo presso l’autorimessa: un divieto che stava a cuore soprattutto ai taxi, ma che ora scompare. E che facilita la vita ad Uber, il servizio di trasporto 2.0 che utilizza guidatori privati e, appunto, NCC.

Edicole, benzina e parrucchieri
Le Renzuolate prevedono, fra le tante cose, anche l’abolizione delle autorizzazioni comunali per l’apertura di nuovi punti vendita di quotidiani e periodici insieme alla rimozione dei vincoli residui all’apertura di nuovi impianti di distribuzione carburanti, e allo sviluppo del «non oil», la parte di business delle pompe di benzina che non è legata al carburante, come vendita di giornali e prodotti di altro tipo. Anche gli acconciatori saranno liberalizzati: la durata prevista dei corsi di qualificazione per accedere alla professione di parrucchiere passa dagli attuali due anni a 900 ore, mentre l’apprendistato si riduce da un anno a 300 ore.

Notai e banche
Alle banche verrà imposto di trasferire il conto corrente, quando richiesto dai clienti, presso altri istituti tassativamente entro 15 giorni. Per i notai, invece, è prevista la trasformazione del tetto minimo di 7.000 abitanti, necessario per l’apertura di una nuova posizione notarile, in un tetto massimo.

La mafia vale 150 miliardi di Pil

La mafia vale 150 miliardi di Pil

Filippo Caleri – Il Tempo

Un flusso di denaro lascia costantemente l’Italia per cercare il paradiso. Fiscale chiaramente. Soldi che sfuggono alla tassazione italiana e dunque ricchezza che lascia il Paese depauperandolo di risorse. Un fenomeno tutt’altro che marginale e che sembra crescere a vista d’occhio almeno secondo Banca d’Italia che ieri ha spiegato che «a parità di altre condizioni, i flussi indirizzati verso i cosiddetti paradisi fiscali sono di circa il 36 per cento più elevati di quelli verso gli altri Paesi esteri». Ad affermarlo il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, in audizione presso la Commissione Parlamentare d’inchiesta sul fenomeno delle mafie, citando quanto emerge dallo studio sui bonifici verso i Paesi a rischio, frutto della collaborazione tra la Uif e il Dipartimento Economia e Statistica della Banca d’Italia. La collaborazione è stata avviata di recente e, sottolinea Visco, «la disponibilità di informazioni, la loro condivisione, sono il presupposto per interventi sempre più efficaci». Secondo il governatore, «permane l’esigenza di ampliare le fonti informative della Uif che, in contrasto con gli standard internazionali, non ha, in particolare, accesso alle informazioni investigative». Soldi che scappano e che sono il frutto anche dell’economia illegale, «probabilmente, il macigno più grave che pesa sullo sviluppo dell’economia italiana» secondo Visco. «Le stime sulla quantità di moneta in circolazione – ha detto il capo dell’istituto centrale – suggeriscono che l’economia illegale in Italia nel quadriennio 2005-2008 potrebbe pesare per oltre il 10% del Pil». Vuol dire una perdita di ricchezza che si aggira intorno a 150 miliardi. Le stime, però, non convergono.

L’Istat, parlando di economia «illegale» (stupefacenti, prostituzione, alcol e tabacchi di contrabbando) ha posto il suo valore nel 2011 allo 0,9% del Pil. Quindi meno di 15 miliardi: esattamente lo stesso valore che ha utilizzato per rivalutare il Pil dell’Italia in base alle indicazioni provenienti da Bruxelles. Transcrime (che considera droga, armi, tabacco, contraffazione, gioco e frodi fiscali) parla di un valore di questi mercati da 110 miliardi in Europa, 16 in Italia. Al di là del peso in sé, che sfugge «alle maglie del Fisco e dei processi economici normali», la presenza di una invasiva economia criminale ha anche un forte potere deterrente verso gli investimenti esteri. Visco stima che «se le istituzioni italiane fossero state qualitativamente simili a quelle dell’area dell’euro, tra il 2006 e il 2012 i flussi di investimento esteri in Italia sarebbero risultati superiori del 15% – quasi 16 miliardi – agli investimenti diretti effettivamente attratti nel periodo».

Ecco chi ha abbassato (davvero) le tasse

Ecco chi ha abbassato (davvero) le tasse

Filippo Caleri – Il Tempo

Sono passati 24 anni dal governo Andreotti sesta versione. Ma agli italiani, salvo qualche eccezione, la sequenza di 10 presidenti del Consiglio che si sono succeduti dal 1990 a oggi non ha regalato nulla: le tasse sono sempre aumentate. La fetta della ricchezza nazionale lasciata al fisco è salita nel periodo considerato dal 38,2% al 43,3%. Un salto di 5 punti percentuali che si è tradotto in nuovi balzelli dai nomi variegati e innovativi come la sequenza infernale che dall’Ici arriva all’Imu senza cambiare però nulla dal punto di vista della vessazione fiscale sugli immobili. Per non parlare poi delle addizionali regionali e comunali. Nate per impostare il federalismo fiscale a somma zero ovvero tasse più alte in periferia con contestuale riduzione al centro e che puntualmente hanno confermato il loro valore di prelievi aggiuntivi e basta. In Italia dunque il risultato è sempre lo stesso: gli italiani sono stati considerati dai loro governanti sempre meno come cittadini e sempre più come sudditi da spremere. I dati analizzati da Il Tempo sono tutti quelli del conto consolidato Istat tranne quelli di Renzi che arrivano dal Def.

Il re dei tassatori
Chi più, chi meno, tutti alla fine hanno bastonato gli italiani. Lo scettro del più rapace in termini di imposizione spetta a uno solo: Romano Prodi che nel corso dei suoi due governi non ha avuto pietà dei contribuenti. Nella prima esperienza a Palazzo Chigi, dal 1996 al 1998, la pressione fiscale è passata dal 41,4% al 42,2%. Non senza passare per un ben pesante 43,4% nel 1997. L’aumento cumulato alla fine del suo mandato è stato dunque di un +1,3%. La medaglia d’oro nella classifica gli spetta perché anche alla seconda prova governativa, e cioè dal 2006 al 2007, Prodi ha portato il carico fiscale dal 40,1 al 42,7%. Con uno spettacolare incremento di 2,6 punti in soli due anni. A contendergli il primato l’ex premier Giuliano Amato. L’uomo che nel settembre 1992 avviò la prima manovra lacrime e sangue e mise in una notte le mani nei conti correnti degli italiani. In un sol colpo fece impennare il peso complessivo del fisco dal 39,2% al 41,7 del Pil. Un salto di 2,5 punti. Indimenticabile. Anche il successore non fu da meno. Ciampi aumentò le tasse di un altro punto percentuale. Era il 1993.

Mai così in alto
Non c’è dubbio che l’uomo che resterà impresso nella memoria degli italiani come quello che ha chiesto loro di più in un solo colpo è stato l’ex premier Mario Monti. L’uomo della provvidenza chiamato dall’emergenza a salvare l’Italia fece il capolavoro. Prese l’Italia già sotto pressione con un fisco al 42,5% del Pil nel 2011 e riuscì, a colpi di Imu, a portare l’asticella dove mai nessuno aveva osato: 44% dunque 1,5 punti di Pil sottratti dal fisco in meno di 365 giorni.

Mano leggera
A qualcuno, però, la sorte del portafoglio degli italiani è sempre rimasta a cuore al punto da arrivare al governo e mettere in campo una severa riduzione fiscale. Il primo nome è quello più ovvio da immaginare. E cioè quello di Silvio Berlusconi che, sulla rivoluzione del fisco, ha puntato il suo successo politico. Il suo miracolo avvenne nel 1994. Arrivato al comando pretese e portò a termine un taglio fiscale «monstre». Dal 42,7 del governo Ciampi si arrivò al 40,6%. La pressione fu tagliata del 2,1%. Ancora di più il Cavaliere fece nel 2005 facendo arrivare le pretese del fisco al 40,1%. Un record. Ma anche il suo concorrente dell’epoca non fu da meno. D’Alema nei 2 anni di esecutivo fece scendere il peso del fisco di quasi un punto.

Renzi al palo
Nonostante gli annunci, anche il premier attuale mantiene una considerevole posizione tra i tassatori. Nel Documento economico e finanziario più aggiornato la pressione fiscale con lui resta al 43,3% del Pil.

Lavoriamo per le tasse 158 giorni all’anno

Lavoriamo per le tasse 158 giorni all’anno

Filippo Caleri – Il Tempo

Benvenuti nella nuova schiavitù. Quella del lavoro, che invece di tramutarsi in contanti e ricchezze per le famiglie di coloro che la mattina alzano la serranda o si siedono alla scrivania, fa sì che i frutti del sudore vadano in buona parte al socio occulto di ogni cittadino della Repubblica. E cioè allo Stato italiano. Che si mette nel cassetto tutti i guadagni maturati nei primi 158 giorni dell’anno. Moneta sonante che, arrivata nelle casse statali, non si trasforma però in servizi di livello adeguato per un Paese civilizzato. Oltre al danno anche la beffa, dunque.

I conti della schiavitù fittizia introdotta subdolamente nel nostro Paese li ha fatti la Cgia di Mestre e confermano che «nel 2013 i contribuenti italiani hanno lavorato per il fisco fino al 7 giugno, vale a dire 9 giorni in più rispetto alla media registrata nei Paesi dell’area dell’euro e ben 13 se, invece, il confronto viene realizzato con la media dei 28 Paesi che compongono l’Ue». L’Italia si conferma così una Repubblica basata sul lavoro. E sulle tasse.In sintesi lo scorso anno per pagare le tasse e le imposte allo Stato gli italiani hanno dedicato 158 giorni di lavoro. Un record storico già uguagliato però nel 2012.

Nell’area euro solo i francesi, con 174 giorni, i belgi, con 172 e i finlandesi, con 161, hanno sopportato uno sforzo fiscale superiore al nostro. Ma forse a giudicare dalle classifiche di vivibilità i soldi lì garantiscono livelli di servizi molti più elevati dei nostri. Il destino di pagatori di tasse per metà annio è comunque comune a tutti gli europei. Magra consolazione. «La media dell’area dell’euro si è stabilizzata infatti a 149 giorni, mentre quella relativa ai 28 Paesi dell’Ue è stata di 145 giorni» spiega l’associazione degli artigiani di Mestre. Tra i nostri più diretti concorrenti solo la Francia presenta un dato peggiore del nostro (174 giorni), mentre in Germania il cosiddetto «tax freedom day» scatta dopo 144 giorni, in Olanda dopo 136 giorni e in Spagna dopo 123 giorni.

Come si sono ottenuti questi risultati? L’Ufficio studi della Cgia ha preso in esame il Pil nazionale dei singoli Paesi registrato nel 2013 con la nuova metodologia di calcolo adottata dall’Eurostat (Sec 2010) e lo ha suddiviso per i 365 giorni dell’anno, ottenendo così un dato medio giornaliero. Successivamente, ha considerato il gettito di contributi, imposte e tasse che i contribuenti europei hanno versato al proprio Paese e lo ha diviso per il Pil giornaliero. Il risultato di questa operazione ha consentito di calcolare il giorno di liberazione fiscale di ciascuna nazione presente in Europa. «A esclusione del Belgio – osserva il segretario Bortolussi – tutti i paesi federali presentano una pressione fiscale molto inferiore alla nostra, con una macchina statale più snella ed efficiente e un livello dei servizi offerti di alta qualità. Pertanto, è necessario riprendere in mano il federalismo fiscale, definire ed applicare i costi standard per abbassare gli sprechi e gli sperperi e, nel contempo, ridurre le tasse di pari importo».

L’ufficio studi della Cgia che è guidata da Giuseppe Bortolussi ha ricostruito, grazie alla nuova metodologia Sec 2010, la serie storica del giorno di liberazione fiscale in Italia dal 1995 al 2013. Ebbene, se dalla metà degli anni ’90 (147 giorni) fino al 2005 (143 giorni) i giorni di lavoro necessari per onorare il fisco hanno sub’to una progressiva riduzione, successivamente sono aumentati sino a toccare il record storico nel 2012 (158 giorni), poi bissato anche nel 2013.

Bomba Tfr nascosta nei conti pubblici

Bomba Tfr nascosta nei conti pubblici

Filippo Caleri – Il Tempo

C’è una bomba a orologeria sarebbe piazzata nella legge di Stabilità. Si tratta della riforma del Trattamento di fine rapporto (Tfr) che consentirà, a provvedimento approvato, di ottenere mensilmente in busta paga il tradizionale accantonamento fatto dalle aziende e da corrispondere a fine vita lavorativa. Se messo nel salario la somma che si percepisce sarà sottoposta a tassazione ordinaria, e non con le aliquote ridotte come quando viene liquidato alla fine della carriera lavorativa.

Sulla base di questo maggiore gettito registrato nella legge di Stabilità presentate dal governo Renzi e che rappresenta coperture per la rifduzione della tasse, la Confesercenti ha fatto due conti e, sulla base di un sondaggio affidato alla Swg, ha stimato che coloro che usufruiranno della facoltà concessa sono molti meno rispetto alle stime dei tecnici del Tesoro. Per questo basandosi sulla proiezione dei dati, l’associazione dei commercianti ha stimato che il gettito Irpef generato dalla maggiore tassazione sarebbe di un miliardo di euro, circa 1,5 miliardi in meno di quanto previsto dalla relazione tecnica alla Legge di Stabilità. Insomma a conti fatti il buco che si potrebbe aprire nei conti pubblici se il comportamento dei salariati replicherà le intenzioni espresse nell’analisi, sarebbe proprio di circa un miliardo. Somma che a quel punto dovrebbe essere recuperata con maggiori tagli alla spesa, difficili da portare a termine, oppure con nuove tasse. Si tratta di un rischio non ancora evidente, che si concretizzerà solo nel 2015, cioè a partire dal prossimo primo gennaio quando la scelta sulla destinazione del proprio accantonamento sarà possibile.

L’analisi delle risposte date dagli intervistati non lascia, però dubbi su quali siano le intenzioni dei lavoratori. Secondo il sondaggio delle Confesercenti solo il 18% dei dipendenti privati italiani, dunque circa due su dieci, sceglierà di avere il Tfr in busta paga, a fronte del 67% che invece continuerà a lasciare accumulare il suo trattamento di fine rapporto nell’impresa in cui lavora o nei fondi negoziali di categoria quando le pianta organica supera la soglia dei 50 dipendenti. Un segnale che dimostra, anche nella recessione, il rapporto di fiducia che intercorre tra i lavoratori dipendenti e le loro imprese. Infine 15% di dipendenti, invece, ancora non ha deciso. Non mancano i timori delle imprese. Il 64% degli imprenditori teme che, se tutti o la maggior parte dei dipendenti scegliessero di avere il Tfr su base mensile, l’azienda avrebbe difficoltà con la liquidità disponibile, a fronte di un 36% che, invece, non avrebbe problemi. Gli ostacoli sembrano nascere dagli impedimenti che le imprese incontrano nell’ottenere prestiti e finanziamenti dal canale bancario, segnalati dal 66% degli imprenditori.

Hanno già scelto di usufruire della possibilità introdotta dalla legge di stabilità soprattutto le persone di età compresa tra i 35 e i 44 anni (21%), seguiti dai giovani fra i 18 ed i 24 (19%). Lo lasceranno in azienda, invece, soprattutto le persone più vicine alla fine del rapporto lavorativo: non lo toccheranno principalmente coloro tra i 55 e i 64 anni (72%) e tra i 45 ed i 54 (70%). Tra i lavoratori che hanno intenzione di richiedere il Tfr su base mensile, la maggior parte è ancora incerta su come utilizzare la liquidità in più (44%). Le indicazioni del sondaggio della Swg-Confesercenti lasciano poco spazio alla tesi che l’effetto espansivo sui consumi del Tfr, ottenuto dai dipendenti, possa consentire allo Stato di recuperare il prevedibile gettito perso grazie alla tassazione indiretta, e cioè l’Iva, sui maggiori acquisti indotti dall’aumento delle disponibilità finanziarie nelle tasche dei lavoratori. Se nel 2015 le indicazioni date dagli intervistati dovessero rimanere invariate, l’Ufficio Economico Confesercenti stima un effetto espansivo modesto sulla spesa, con un incremento, a fine 2015, di 380 milioni, pari allo 0,1% dei consumi commercializzati. Troppo poco.

Ecco cosa cambia (forse) con il Jobs Act

Ecco cosa cambia (forse) con il Jobs Act

Filippo Caleri – Il Tempo

La riforma del lavoro c’è. O meglio ci sarà. Nella notte tra mercoledì e giovedì scorso il sì del Senato al Jobs act, la legge delega al governo per cambiare le regole che disciplinano il mercato dell’impiego, ha messo il primo tassello per rendere la disciplina in materia più flessibile. Non è una rivoluzione copernicana ma non appena i decreti delegati saranno emanati sarà possibile di modificare ad esempio le mansioni in caso di riorganizzazione, ristrutturazione o conversione aziendale (da individuare «sulla base di parametri oggettivi») e mantenendo il livello salariale. Non solo. Arriverà il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti che significa che le tutele previste dall’articolo 18 saranno meno forti per i neoassunti. Non significa che l’occupazione ripartirà, visto che per creare posti di lavoro servono gli investimenti. E quelli non si fanno per legge. Ma sicuramente gli imprenditori non avranno più scuse sulla pesantezza del quadro regolamentare quando devono assumere. Intanto ieri è arrivato il plauso dell’Ocse a Renzi. Il via libera del Senato al Jobs Act «è uno sviluppo molto positivo». Se «pienamente implementato», il provvedimento «può contribuire a mettere il Paese su un sentiero di crescita più dinamica» ha detto Il segretario generale dell’Ocse, Gurria. Ecco le misure principali.

Neossunti
Per i nuovi assunti ci sarà il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti e cioè in relazione all’anzianità. Si va all’eliminazione del reintegro per i licenziamenti economici, che viene sostituito dal solo indennizzo certo e crescente con gli anni di servizio.

Licenziamenti
Resta la possibilitò del reintegro per i licenziamenti ingiustificati di natura disciplinare “particolarmente gravi”, le cui fattispecie saranno poi specificate nel decreto delegato. Questo sempre per i neoassunti. Il reintegro previsto dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori resta per i licenziamenti discriminatori.

Contrati stabili
L’obiettivo del Governo è quello di promuovere il contratto a tempo indeterminato come forma privilegiata» rendendolo «più conveniente rispetto agli altri tipi di contratto in termini di oneri diretti e indiretti». Questo comporta un riordino delle tipologie contrattuali, con l’abolizione delle forme «più permeabili agli abusi e più precarizzanti, come i contratti di collaborazione a progetto». Per questo si punta a definire un Testo organico semplificato dei contratti e rapporti di lavoro.

Cambiare mansioni
Sì alla revisione delle mansioni del lavoratore nel caso che parta la riorganizzazione, ristrutturazione o conversione aziendale. Ma va basata su «parametri oggettivi», per «la tutela del posto di lavoro, della professionalità e delle condizioni di vita» ma anche “economiche”, con limiti alla modifica dell’inquadramento. Nella revisione delle mansioni anche la contrattazione aziendale e territoriale può individuare “ulteriori ipotesi”.

Il Governo assume
Arrivano 1,5 miliardi aggiuntivi per i nuovi ammortizzatori sociali. L’obiettivo è di estenderli a una platea di lavoraori più larga. In tutto sul piatto ci sono 11-12 miliardi. Con questi maggiori fondi si punta anche sulle politiche attive e su una maggiore tutela della maternità.

Salario minimo
Resta l’obiettivo di introdurre «eventualmente anche in via sperimentale» il compenso orario minimo anche per i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, nei settori non regolati da contratti nazionali.

Ferie da regalare
Confermata la possibilità per il lavoratore che ha ferie in eccesso di cederle a colleghi che ne abbiano bisogno per assistere figli minori che necessitano di cure.

Solidarietà
Si punta a semplificare e ad estendere il campo di applicazione dei contratti di solidarietù potenziandone l’utilizzo in chiave “espansiva”, per aumentare cioè l’organico riducendo l’orario di lavoro e la retribuzione del personale.

Troppe tasse, ecco la gara a demolire la propria casa

Troppe tasse, ecco la gara a demolire la propria casa

Filippo Caleri – Il Tempo

Dal valore del mattone al piccone per demolirlo. È il triste destino del patrimonio immobiliare italiano, vanto della classe media, tra le più ricche del mondo grazie all’amore, viscerale ma comunque contraccambiato per la proprietà edilizia. Un amore finito, distrutto e lacerato dalle tasse. Sì, ora per non pagare più il conto al fisco, che sulle case ha messo radici e deciso di finanziare senza pietà e a oltranza il deficit dello Stato, si ricorre alla distruzione delle abitazioni o, nell’ipotesi migliore, alla donazione allo Stato. Non è uno scherzo. Ma il risultato inatteso, o forse pianificato e inconfessabile, dei grandi economisti consiglieri dei governi che hanno puntato inopinatamente sull’equazione casa uguale ricchezza, colpendo al cuore e al portafoglio una nazione intera e il nervo portante della sua economia. Dunque la Tasi, ultima invenzione di una classe politica incapace di costruire il futuro e in cerca solo di risorse per tappare i buchi creati dai privilegi accordati nel passato, sta diventando un incubo per molte famiglie italiane. E il genio italico, che nel Dna ha la ricerca della scappatoia per fuggire alla gabella, si è messo già all’opera.

Per la Confedilizia, che rappresenta una buona parte dei proprietari di immobili, sono sempre più frequenti i casi di proprietari di case che, tartassati per case ricevute in eredità e posizionate in angoli remoti del Paese, pensano di lasciare allo Stato i loro «mattoni». Una facoltà prevista dall’articolo 827 del codice civile che recita testuale: «I beni immobili che non sono in proprietà di alcuno spettano al patrimonio dello Stato». In linea di principio dunque basterebbe l’abbandono di fatto di una casa e la comunicazione ufficiale al comune in cui è sito l’immobile per far scattare il passaggio del bene nella disponibilità dello Stato. E la liberazione dall’Imu. Un’ipotesi che è dibattuta però tra i giuristi interrogati dall’associazione. Sì perché lo Stato potrebbe opporre che il passaggio di proprietà, anche se a titolo gratuito, non è esente dal pagamento delle tasse. In particolare potrebbe essere richiesta, se avvalorata l’ipotesi di una donazione, una quota pari all’8% del valore catastale. Se invece passasse l’idea di un trasferimento contrattuale a costo zero allora le Entrate potrebbero esigere l’imposta di registro, il 9% del valore iscritto al catasto, e la tassa catastale che è determinata in cifra fissa. Insomma nemmeno lasciando l’immobile nelle mani dell’amministrazione lo Stato si accontenterebbe. Regalo sì, ma a pagamento, dunque. Questo potrebbe essere il destino di molti italiani stanchi di pagare balzelli su case ereditate dai nonni, luoghi della memoria e dei momenti felici dell’infanzia. Immobili che si trovano, però, nelle aree interne colpite dal calo demografico, sulle quali si pagano comunque Imu (seconda casa) e Tasi esagerate rispetto al valore di mercato vicino allo zero. Tra quelli interessati alla cosiddetta «rinuncia» ci sono anche molti lavoratori con reddito decurtato dalla crisi che non riescono a più mantenere, tra imposte e costi aggiuntivi, la casa delle vacanze. Per queste, infatti, le possibilità di rivendita sono nulle visto che la crisi le ha prese particolarmente di mira.

Fin qui le ipotesi di cessione. Ma ci sono anche ipotesi più estreme. Come sempre più spesso accade nei territori collinari e montani. Lo spopolamento di queste aree ha lasciato in eredità centinaia di case nate per l’agricoltura sulle quali, a partire dal governo Monti, si pagano imposte al pari di fabbricati civili. Così alle manutenzioni si aggiungono costi fiscali insostenibili per molti. Le soluzioni anche in questo caso sono amare e violente. Molti rendono inagibile l’edificio staccando le utenze ed eliminando alcune parti come finestre e porte. Così se la casa non è abitabile ma è facilmente riattabile e l’Imu è decurtata del 50% con semplice richiesta al Comune. Ma se l’inagibilità è totale, ovvero l’immobile è a un passo dall’essere un rudere, l’Imu non si paga più. Ed è così che molti stanno distruggendo i tetti per dimostrare la non utilizzabilità del bene. Un processo che è l’anticamera della demolizione. E cioè il completo annullamento della registrazione catastale. Le pratiche di cancellazione di questo genere, lo scorso anno, sono aumentate del 20% spiega Confedilizia. Ma così, in nome del fisco e della colpevolizzazione della proprietà, si distrugge la storia di un Paese.

Delrio sconfessa Renzi: debiti con le aziende pagati a metà

Delrio sconfessa Renzi: debiti con le aziende pagati a metà

Filippo Caleri – Il Tempo

Alla fine la verità sta nel mezzo. Anche nel caso dei debiti della pubblica amministrazione che negli ultimi giorni sono stati al centro di un’autentica lotteria. Gli artigiani della Cgia di Mestre hanno sostenuto che Renzi non ha mantenuto la promessa di saldarli tutti entro il 21 settembre, il premier sceso in campo per precisare che era già tutto in pagamento. Così ieri il sottosegretario alla presidenza del Consiglio ha confermato che in realtà i soldi a disposizione delle imprese sono 55-60 miliardi, ma quelli effettivamente pagati sono 31-32 a causa di ritardi prevalentemente dovuti alla comprensione da parte delle aziende del nuovo sistema per liquidare i loro crediti verso la pubblica amministrazione. «Posso garantire che il meccanismo che abbiamo messo in piedi è assolutamente certo ed esigibile» ha detto Delrio a margine di un’audizione al Parlamento Ue, sottolineando che «sul fatto che ogni imprenditore può andare a riscuotere quello che gli è dovuto non c’è alcun dubbio». Quindi Delrio ha spiegato che «il fatto che da 60 o 55 (miliardi), come presumibilmente saranno alla fine quelli reali, si sia arrivati a 31-32, dipende dai meccanismi di velocizzazione che le imprese hanno avuto nel rendersi conto del nuovo sistema». Delrio ha aggiunto al riguardo che «a volte alcuni enti locali non hanno pagato le loro partecipate», precisando che in questi casi «c’è anche qualche ritardo un po’ colpevole, tra virgolette». Dunque alla fine se i soldi ci sono ma non sono stati erogati è come se non ci fossero. Secondo questa tesi Renzi dovrebbe pagare la penitenza di andare a piedi al santuario del Monte Senario come annunciato nella puntata di Porta a Porta nel caso non avesse assolto l’impegno. A rincarare la dose è stato ieri il vicepresidente vicario dell’Europarlamento Antonio Tajani: «Mancano ancora all’appello circa 60 miliardi dallo Stato per i pagamenti dei debiti della pa». Dati alla mano, «la Banca d’Italia ha stimato i debiti della Pa al 31 dicembre 2012 a circa 90 miliardi», ha spiegato Tajani. «Da parte sua il governo ha stanziato 56,8 miliardi di questi sono stati erogati alle pubbliche amministrazioni 30, ma la Pa ne ha pagati 26,1. Dunque in totale mancano intorno ai 60 miliardi: 30 miliardi di quelli che sono stati stanziati e altri 30 circa ancora da stanziare». Infine Massimo Blasoni, presidente del centro studi “ImpresaLavoro” ha detto che «liquidare i debiti pregressi di per sé non riduce pertanto lo stock complessivo: questo può avvenire soltanto nel caso in cui i nuovi debiti creatisi nel frattempo risultano inferiori a quelli oggetto di liquidazione».