fisco

I nuovi 51 miliardi di tasse: pane, latte e ancora case

I nuovi 51 miliardi di tasse: pane, latte e ancora case

Franco Bechis – Libero

È un giochino che ormai procede da quattro anni buoni di finanza pubblica. Dall’ultimo anno del governo Berlusconi in poi: lo fece Giulio Tremonti nel 2011, l’ha ripetuto Mario Monti nel 2012 e visto che non c’è due senza tre, è toccato pure ad Enrico Letta nel 2013. Il giochino è questo: si scrive una super manovra dettata dall’Europa, ma non si ha voglia né coraggio di presentare ai propri elettori un salasso senza precedenti. Quindi per fare tornare i numeri si infilano molte norme in assoluta libertà, ben sapendo che in gran parte non daranno nessuna entrata o risparmio di spesa reale. Lo sanno bene i ministri dell’Economia italiani, ma ovviamente lo capiscono anche i super-controllori dell’Ue a cui bisogna chiedere il via libera per ogni manovra economica. Così come finisce il giochino? Con l’inserimento di una clausola di salvaguardia: a fronte di norme-fuffa si mette una copertura vera in caso di fallimento (pressoché certo) delle prime. Scattano sempre l’anno successivo, nella speranza di avere tempo nei 12 mesi di trovare altre soluzioni buone. Nelle ultime tre manovre era previsto in caso di fallimento delle previsioni che scattassero due aumenti delle aliquote Iva e nell’ultima versione il taglio lineare delle detrazioni e deduzioni fiscali.

Il giochino deve essere piaciuto anche a Matteo Renzi, perché ha infilato nella manovra che sta per presentare una superclausola di salvaguardia. Agli italiani presenterà in pompa magna le sue splendide supercazzole. Agli sceriffi della Ue invece dice: «Non state a perdere troppo tempo sul mio libro dei sogni. Perché se tanto non funziona ho una carta di riserva sicura che stangherà gli italiani con nuove tasse per 51,6 miliardi di euro in un triennio». L’avvertimento ai signori che contano è scritto nella nota di aggiornamento al Def appena presentata dal ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan: «Nella legge di Stabilità 2015 è ipotizzata una clausola sulle aliquote Iva e sulle altre imposte indirette per un ammontare di 12,4 miliardi nel 2016 17,8 miliardi nel 2017 e 21,4 miliardi nel 2018. Gli effetti di tale clausola, genererebbero una perdita di Pil pari a 0,7 punti percentuali a fine periodo dovuta da una contrazione complessiva dei consumi e degli investimenti per 1,3 punti percentuali e un aumento del deflattore del Pil di pari importo». Una botta pazzesca sulle tasche degli italiani. Su cui ovviamente il governo minimizza, come se la fuffa fosse quella scritta per gli sceriffi della Ue e la verità invece quella contenuta nelle norme che accarezzano la pancia all’elettorato. «Ma è così», assicura il viceministro dell’Economia, Luigi Casero, che su quella plancia di comando siede ormai da molti anni, attraversando i vari governi, «quando mai sono scattate davvero le clausole di salvaguardia? Qualcuno ha toccato le detrazioni, che per altro sono state sostituite proprio da questa formula che trovate nel Def?».

No, la clausola delle detrazioni non e scattata. Ma quella sull’Iva sì, almeno in parte. Un paio di aumentini sono stati rinviati di qualche mese, ma alla fine grazie al giochino ci troviamo con l’aliquota al 22% invece che al 20%. Questo dimostra che ci sono ottime probabilità che quella clausola di salvaguardia possa entrare in vigore, anche perché fin qui di previsioni economiche il governo Renzi non ne ha azzeccata nemmeno mezza, e il terreno è proprio il principale tallone di Achille dell’esecutivo. Che cosa colpirà quella possibile stangata da 51,6 miliardi di euro? Le aliquote Iva marginali, e cioè quelle al 4% e quelle al 10%, che sono le uniche in grado di fornire incassi notevoli. Rischiano così di rincarare sensibilmente quasi tutti i generi alimentari: latte e latticini, farina, riso, pasta, pane, olio, occhiali da vista, case assegnate dalle cooperative, mense scolastiche (tutti questi sono al 4% oggi), e poi ancora yogurt, birra, uova, miele, tè, spezie, bevande al bar, elettricità, biglietti di cinema, teatro, concerti, servizi di trasporto pubblico (hanno tutti l’Iva al 10%).

Oltre l’Iva, secondo quanto scritto nell’aggiornamento del Def, si rischia un aumento anche delle imposte indirette. Di che si tratta? Tolta l’Iva che è già citata a parte, le principali imposte indirette vanno a toccare tanto per cambiare il mercato della casa: sono le imposte di registro, quella ipotecaria e quella immobiliare. Nell’elenco ci sono pure le accise, che significa nuovo aumento della benzina. Scatteranno? Qualcuna sì di sicuro. Anche perché c’è un piccolo trucco appena perfezionato che consentirà a chi sta al governo (presumibilmente Renzi) di mettere nuove tasse e poi dire che la pressione fiscale con lui non è aumentata. Il trucco è quello del recente belletto ai conti pubblici fatto per calcolare nel Pil il fatturato delle belle di notte, delle spese in armamenti e dello spaccio di stupefacenti. Con quella manovra (ma nessuno se ne è accorto) sono state cambiate anche le poste dell’entrata e magicamente già nel 2014 (e per gli anni successivi) la pressione fiscale è scesa di 0,3 punti percentuali senza levare nemmeno una tassa…

Attrarre multinazionali con un fisco più competitivo

Attrarre multinazionali con un fisco più competitivo

Andrea Tavecchio – Corriere della Sera

Il 22 settembre scorso l’Internal Revenue Service (l’agenzia delle entrate statunitense) e il dipartimento del Tesoro hanno decretato una radicale, sofisticata e immediata modifica delle regole sulla tassazione per le imprese che, fondendosi, riuscivano a spostare la sede fiscale fuori dagli Usa, godendo così di vantaggi fiscali. Un esempio più recente, anche se non andato a buon fine, è quello dell’offerta da 100 miliardi di euro della società farmaceutica americana Pfizer agli azionisti della concorrente inglese AstraZeneca. La mossa del governo Obama ha reso esplicito che è considerato interesse nazionale primario mantenere i quartieri generali delle multinazionali negli Usa. La competizione fiscale internazionale diventa ogni giorno più serrata e Washingon ha battuto un colpo fortissimo: bene il mercato, la finanza e la concorrenza, ma in campo fiscale l’America viene prima di tutto.

In questa competizione, l’Italia è, non da oggi, un vaso di coccio. Non sembra avere, infatti, né una esatta strategia per attrarre capitali e lavoro qualificato né la forza anche culturale, come gli Stati Uniti, di fare guerra nei fatti al tax planning che le multinazionali, legittimamente, mettono in atto per abbassare il loro carico fiscale complessivo. Il governo Renzi, che ha un capitale politico importante, potrebbe dare una svolta se agisse in modo ordinato, non ideologico e rapido. Un primo segnale potrebbe venire già dal Jobs act se, nel merito, fosse effettivamente innovatore. Subito a seguire bisognerebbe approvare una pacchetto di norme per modernizzare la tassazione dei redditi da attività tipiche di holding (come dividendi e royalties) e rendere più veloce il sistema dei visti facilitando, anche fiscalmente, chi da straniero viene a vivere o lavorare in Italia. Sarebbero solo primi passi, ma darebbero un segnale importante. Mantenere ed attrarre quartieri generali di multinazionali in Italia è diventata – finalmente – una priorità politica. Come nel resto del mondo.

Il paradosso della nuova Tasi: case piccole, più cara dell’Imu

Il paradosso della nuova Tasi: case piccole, più cara dell’Imu

Francesco Di Frischia – Corriere della Sera

Chi vive in case popolari pagherà quest’anno una Tasi più cara dell’Imu versata nel 2012. Quei cittadini, invece, che abitano in case di pregio dovranno pagare meno per la Tasi rispetto all’Imu di due anni fa. È questo l’amaro risultato di uno studio curato dal dipartimento politiche fiscali della Cisl sulle 20 città capoluogo di regione, analizzando le delibere delle aliquote pubblicate sul sito del ministero dell’Economia.

Il sindacato ha paragonato le due imposte considerando, come prima casa, tre tipi di immobili con rendita catastale di 300, 500 e 1.000 euro. Nei conteggi sono state applicate le detrazioni deliberate dai singoli Comuni (senza considerare gli sgravi per i figli a carico, facoltà assegnata per legge ai singoli municipi). A conti fatti diminuiscono gli importi della Tasi rispetto all’Imu al crescere della rendita catastale. «È necessario superare le iniquità di Tasi e Imu – chiede Maurizio Petruccioli, segretario confederale della Cisl – facendo pagare proporzionalmente di più chi possiede più case e chi ha più valore catastale, anche per restituire risorse alle famiglie che hanno meno».

La ricerca ha mostrato che in 11 città su 20 migliaia di cittadini, tra i ceti sociali più bassi, per una rendita catastale di 300 euro dovranno pagare la Tasi, quando prima l’Imu (in 9 casi su 20) costava «zero», grazie alla detrazione prevista per l’abitazione principale pari a 200 euro (indipendentemente dalla rendita catastale). Quest’anno per la tassa sui servizi indivisibili (illuminazione e manutenzione stradale e sicurezza) si oscilla dagli 11 euro di Milano ai 126 di Campobasso, passando per Venezia (46), Ancona (96), L’Aquila (100) e Bari (66), comprese Aosta (50) a Palermo (45). La Cisl rivela anche che a Trieste, Trento, Bologna e Firenze, tenendo come riferimento sempre i 300 euro di rendita catastale, le amministrazioni locali hanno confermato l’esenzione totale dal pagamento della Tasi, così come avveniva per l’Imu. In altre città, invece, è stata mantenuta una progressione legata agli estimi catastali. Infatti i cittadini che abitano in case non di pregio pagheranno di Tasi meno rispetto a quello che prevedeva l’Imu: 16 euro a Roma (contro i 52 di due anni fa), 56 a Torino (dove se ne pagavano 89) e Catanzaro (61 contro 102). Addirittura dimezzata la Tasi a Potenza (26 euro contro 52).

Per gli immobili con rendita di 500 euro, si pagherà una Tasi superiore all’Imu 2012 in 8 capoluoghi tra i quali Venezia (194 euro invece di 136), L’Aquila (168 contro 111), e Palermo (243 contro 203). A Firenze invece l’aumento è di 1 euro (137 rispetto a 136). Si pagherà, invece, una Tasi più leggera tra l’altro a Roma (150 euro contro 220), Torino (167 contro 283) e Napoli (177 contro 220). Scenario completamente diverso se consideriamo un immobile con rendita catastale di 1.000 euro: sono solo due i comuni capoluogo che pagano un importo superiore alla vecchia Imu (Trieste con 554 contro 455 euro e Firenze 484 contro 472). L’ampliamento della base imponibile e l’eliminazione della detrazione fissa universale, sottolineano dalla Cisl, di fatto hanno ampliato la platea dei paganti mantenendo intatto il gettito.

Pressione fiscale da Guinness, e con la crisi sale ancora

Pressione fiscale da Guinness, e con la crisi sale ancora

Sergio Patti – La Notizia

La crisi vale per tutto, ma non per il fisco. Tutto cala – spese, consumi, risparmi – ma la pressione tributaria no. Anzi, l’Italia ha uno dei sistemi fiscali più pesanti e inefficienti d’Europa: la pressione fiscale è elevata, soprattutto su lavoro e impresa, e il sistema fiscale è amministrativamente oneroso. Un quadro che durante la crisi è ulteriormente peggiorato per via dell’aumento della pressione fiscale reso necessario dall’impossibilità politica di tagliare la spesa pubblica. Lo evidenzia una ricerca del Centro Studi ImpresaLavoro che analizza la struttura delle entrate fiscali nel nostro Paese, la loro evoluzione nel tempo e le loro caratteristiche rispetto ai maggiori paesi europei: Germania, Francia, Gran Bretagna e Spagna.

Considerando la pressione fiscale al 1990 al 2012, si osserva come negli ultimi anni l’Italia – assieme alla Francia – abbia visto un forte aumento delle entrate fiscali, di quattro punti di Pil, nonostante la gravissima crisi economica. Buona parte dell’aumento risale agli anni immediatamente precedenti la crisi, per controllare il debito pubblico la cui virtuosa riduzione si era arrestata negli anni precedenti, ma le entrate fiscali hanno continuato ad aumentare. La classe dirigente italiana ha cioè preferito preservare l’ingente spesa pubblica anche a costo di danneggiare ulteriormente l’economia reale, contribuendo ad aggravarne la crisi. È da considerare che l’Italia è caratterizzata da un maggior peso dell’economia sommersa rispetto agli altri paesi europei considerati, e quindi a parità di pressione fiscale sul Pil complessivo (che include anche una stima del sommerso), la pressione fiscale effettiva è ancora maggiore che negli altri paesi.

La ricerca, elaborata dal fellow dell’Istituto Bruno Leoni Pietro Monsurrò, si sofferma inoltre sui costi indiretti del sistema fiscale, ad esempio i tempi e le procedure necessari ai contribuenti per pagare le tasse. «Il carico e la struttura del sistema fiscale contribuiscono alla stagnazione del Paese riducendone la competitività e riducendo gli incentivi a produrre, lavorare e risparmiare» ha commentato Massimo Blasoni, presidente del Centri Studi ImpresaLavoro.

Tenetevi forte, arrivano nuove tasse

Tenetevi forte, arrivano nuove tasse

Laura Della Pasqua – Il Tempo

Alla vigilia della presentazione della Nota di aggiornamento del Def (il Documento di economia e finanza) con i nuovi dati su pil e deficit, Padoan delinea un quadro preoccupante con investimenti calanti, disoccupazione molto elevata e un andamento dei prezzi che prefigura rischi. In sostanza la crescita «è stata spostata». E la conseguenza immediata è una manovra correttiva ben più pesante di quanto era stato preventivato. Il ministro dell’Economia, intervenendo alla Camera, non riesce a nasconderlo. Parlando alla conferenza interparlamentare sul fiscal compact Padoan spiega che l’Europa oggi si trova in una situazione di «semi stagnazione» e inflazione «decisamente troppo bassa». In questo contesto «tutte le manovre sono più difficili». Il rischio di deflazione «potrebbe essere in aumento». Ma a questo punto la politica economica europea dovrebbe essere aggiornata. Il fiscal compact che è stato concepito in un quadro macroeconomico più favorevole, «dovrebbe tenere conto delle difficoltà e delle circostanze eccezionali soprattutto di alcuni Paesi». Questo strumento, dice Padoan, «va reso più potente e orientato alla crescita». Serve quindi un approccio «nuovo, non solo basato sull’austerità».

Oggi il Consiglio dei ministri esaminerà la Nota di aggiornamento del Def sul quale verrà costruita la prossima legge di Stabilità (che sarà varata entro metà ottobre). Il premier Renzi ha sottolineato che sarà rispettato il vincolo del 3% quale rapporto tra deficit e pil anche se «le motivazioni di quel parametro sono basate su un mondo profondamente diverso». Però il mancato rispetto porterebbe «a un danno reputazionale più grave dei vantaggi che si potrebbero avere». Ormai viene data per scontata anche dallo stesso ministro una nuova revisione a ribasso della stima del pil per quest’anno che dovrebbe collocarsi fra il -0,2 e il -0,3%. Una previsione molto inferiore rispetto alla più ottimistica stima del +0,8% del Def di aprile. La crescita dovrebbe invece tornare positiva dal 2015 (nelle vecchie previsioni l’anno prossimo il Pil cresceva dell’1,3%). Anche il deficit-Pil pur restando sotto il 3%, dovrebbe peggiorare e passare dalla previsione del 2,6% per quest’anno al 2,8% per rimanere sugli stessi livelli il prossimo anno.

Con questo quadro economico diventa indispensabile una manovra da 20 miliardi. Al ministero dell’Economia si stanno mettendo a punto le ipotesi di intervento. Renzi e Padoan continuano a ripetere che non ci saranno nuove tasse. Non potendo aumentare ancora una pressione fiscale che è a livelli record, cercheranno di camuffare la manovra con una operazione di perequazione sociale. Il che vuol dire un taglio delle detrazioni fiscali che è a tutti gli effetti un aumento della pressione fiscale. Si comincerebbe con l’abolizione delle detrazioni al 19%. Tra queste ci sono anche quelle sanitarie. Infatti nel nuovo modello 730 con la dichiarazione precompilata dal Fisco non saranno indicate le spese sanitarie, suscettibili di detrazione.

Nell’elenco delle detrazioni fiscali, oltre agli sconti fiscali sulle spese sanitarie, ci sono quelli sui mutui e su molte altre voci: dalle palestre alle spese funerarie. Valgono in tutto 5,4 miliardi. Un’ipotesi sul tappeto è di legare lo sconto fiscale al reddito. La detrazione del 19% resterebbe piena fino a una certa soglia (per esempio 30 mila euro), per poi decrescere fino ad annullarsi. Un altro meccanismo, simile, agirebbe invece sulle franchigie, legando anche queste al reddito e ponendo un tetto massimo di detrazione. Allo studio anche un possibile aumento della tassa di successione e dell’Iva sui bene di prima necessità, come il pane (ora al 4%). Non è escluso che venga riproposto lo sfoltimento delle partecipate statali, da quelle in mano al Tesoro alle migliaia di municipalizzate sulle quali finora non si è fatto nulla perché significa mettere a rischio tante poltrone legate alla politica.

Taxes are not beatiful

Taxes are not beatiful

Il Foglio

Ad aprile il governo inglese abolirà la tassa di successione sul capitale dei fondi pensione, tassa oggi del 55 per cento. Tralasciando le tecnicalità di un sistema basato molto sulla previdenza integrativa, ne beneficeranno gli eredi di oltre 400 mila pensionati che ora, e pur con la superimposta, preferiscono ritirare i soldi a una rendita aggiuntiva alle pensioni. Ma, come ha detto il cancelliere dello Scacchiere George Osborne, l’obiettivo e di principio: “Incoraggiare gli anziani a godersi liberamente il denaro, ed eventualmente lasciarlo ai loro cari anziché al fisco”.

Alla vigilia delle elezioni 2015, i Tory strizzano certo l’occhio a due o tre generazioni; giusto mentre i laburisti chiedono di aumentare l’imposta sulla casa. Ma soprattutto Londra porta avanti un percorso di alleggerimento fiscale attuato con tagli alla spesa: corporate tax ridotta al 20 per cento, mentre in Italia le imprese pagano tra imposte, contributi e burocrazia quasi il 60; cinque punti in meno sulle persone fisiche, cioè il 35 per cento di pressione contro il 44 dell’Italia; ulteriori riduzioni per le giovani coppie; tagli sulle accise di carburanti ed energia.

Quando David Cameron si insediò a Downing Street, nel 2010, i laburisti e vari paludati analisti previdero una Gran Bretagna ridotta alla povertà: oggi il pil cresce del tre per cento, più di tutti gli altri paesi industrializzati, la disoccupazione scende al sei, il deficit si è dimezzato, il debito è al di sotto della media Ue, e 40 punti in meno che da noi. Certo, gli inglesi non hanno i vincoli dell’euro, la loro Banca centrale non aveva una Bundesbank con cui contrattare. Ma il coraggio di voler essere sempre liberi padroni dei loro soldi, quello sì.

Le inutili ipocrisie sulle tasse

Le inutili ipocrisie sulle tasse

Dario Di Vico – Corriere della Sera

Fino ad ora il governo non ha inserito nell’agenda delle sue priorità il lavoro autonomo e le partite Iva. Quando si è trattato di aumentare il reddito disponibile sono state privilegiate le fasce medio-basse del lavoro dipendente e il Jobs act ha come riferimento un laburismo tutto sommato tradizionale, anche se declinato in chiave di flexsecurity. Il tutto è stato gestito con lo strumento della legge delega che si sta rivelando un contenitore ipocrita: inizialmente appare utile per allargare lo spettro dell’azione di riforma senza generare conflitti, ma nel prosieguo mostra tutti i suoi limiti. Accumula contraddizioni e non è in grado di scioglierle se non con un atto d’imperio finale.

Qualcosa del genere rischia di accadere anche con la delega fiscale, lo strumento «largo» con il quale il governo pensa di riprendere a dialogare con gli autonomi. In linea di principio non si può che essere d’accordo con questo riallineamento di attenzioni perché il lavoro indipendente è destinato a crescere ed è la strada che prendono molti giovani in cerca di prima occupazione, di fatto costretti a «inventarsi» il proprio lavoro. Ma il famoso diavolo continua a nascondersi nei dettagli.

Vale la pena ricordare come l’apertura di nuove partite Iva resta sempre sostenuta, al ritmo di 40-50 mila al mese e la percentuale di quelle che mascherano un rapporto di lavoro dipendente si può stimare attorno al 15-20%. Non di più, come pure lasciano pensare i sindacati confederali che ne hanno fatto – come nel caso della Cisl – un punto focale di propaganda e comunicazione. Il guaio maggiore, caso mai, è che molte di queste nuove partite Iva chiudono la loro attività dopo qualche mese, come si può dedurre dalla dinamica delle cancellazioni che rimane sempre molto elevata (80 a 100 nel rapporto con le nuove iscrizioni) e da una rotazione molto frequente in alcune attività economiche giudicate a bassa barriera d’ingresso, segnatamente la ristorazione nei grandi centri urbani.

Detto questo, l’ipotesi di provvedimento che il ministero dell’Economia e finanze ha in gestazione per le mini-imprese (un milione di contribuenti) e che dovrebbe approdare nella delega fiscale appare, nelle intenzioni, ambiziosa perché punta a semplificare drasticamente le procedure, a limare la pressione fiscale e a introdurre nuovi criteri di equità tra i contribuenti di diverse fasce di ricavi. Tre obiettivi in uno, non facili da raggiungere in contemporanea perché da una parte il gettito che proviene da queste attività non può calare di brutto e nello stesso tempo bisogna dare un segnale di riduzione delle tasse. Come se non bastasse occorre affrontare anche alcune contraddizioni che si sono prodotte nel tempo come quella che, proprio a causa del regime forfettario, fa sì che le nuove imprese non siano incentivate a crescere per il rischio di dover pagare a caro prezzo (fiscale) le commesse aggiuntive conquistate. È giusto, quindi, affrontare le strozzature erariali e normative che oggi penalizzano le piccolissime imprese, ma non va sottovalutato il rischio che il messaggio possa non arrivare chiaro e limpido. Il governo, dunque, si occupi degli autonomi e delle partite Iva ma stia attento allo sperimentalismo fiscale. Le cavie potrebbero non gradire.

In Italia c’è il fisco più pesante d’Europa

In Italia c’è il fisco più pesante d’Europa

Metronews

L’Italia ha uno dei sistemi fiscali più pesanti e inefficienti d’Europa: la pressione fiscale è elevata, soprattutto su lavoro e impresa, e il sistema fiscale è amministrativamente oneroso. Durante la crisi la situazione è ulteriormente peggiorata per via dell’aumento della pressione fiscale reso necessario dall’impossibilità politica di tagliare la spesa pubblica: a evidenziarlo è una ricerca del Centro Studi “ImpresaLavoro” che analizza la struttura delle entrate fiscali nel nostro Paese, la loro evoluzione nel tempo e le loro caratteristiche rispetto ai maggiori paesi europei.

«Considerando la pressione fiscale dal 1990 al 2012 – si legge nel Rapporto – si osserva come negli ultimi anni l’Italia, assieme alla Francia, abbia visto un forte aumento delle entrate fiscali, di 4 punti di Pil, nonostante la gravissima crisi economica. Buona parte dell’aumento risale agli anni immediatamente prima della crisi, per controllare il debito pubblico la cui virtuosa riduzione si era arrestata». Analizzando ad esempio l’Itr sul lavoro (il livello di tassazione implicito), si osserva come l’Italia sia abbondantemente sopra i maggiori paesi europei, 3 punti più della Francia, 5 più della Germania, e addirittura 9 e 18 rispetto a Spagna e Gran Bretagna. E rispetto alla Germania, l’Italia nel 2012 aveva una pressione fiscale superiore di ben 4 punti di Pil, pari a 65 miliardi di euro.

Case e tasse rebus, salvate l’Italia malata di fisco

Case e tasse rebus, salvate l’Italia malata di fisco

Massimo Scotton – Il Secolo XIX

Il sistema fiscale del nostro Paese necessita da tempo di essere riformato, è un tema che da anni, meglio decenni, ascoltiamo dibattere tra le forze politiche di ogni tendenza, con particolare intensità in periodi di campagna elettorale, nei quali spesso si sente parlare di semplificazione forse senza conoscerne a fondo il significato. Risultati concreti tuttavia non se ne sono visti, anzi. La crisi economica porta alla ribalta l’eccessiva onerosità del carico fiscale su cittadini e imprese oltre alla continua difficoltà di reperire gettito a copertura della spesa pubblica. Fa sorridere, per inciso, leggere la proposta di adeguamento dell’imposta di successione ai più alti standard europei, laddove non si ricorda a memoria di uomo che vi siano mai stati adeguamenti al ribasso in numerosi altri settori impositivi nei quali siamo leader indiscussi a livello europeo, se non mondiale. Ho inteso pertanto riferirmi al sistema fiscale, piuttosto che a questa o quell’imposta nel particolare, per il fatto che è l’intero impianto a dover essere riformato affinché possa costituire una infrastruttura su cui possa basarsi l’attività economica, produttiva e sociale per lo sviluppo del Paese nei prossimi decenni.

L’attuale condizione ha generato inoltre la tangibile compromissione del rapporto di fiducia tra i cittadini, lo Stato e nel particolare la sua amministrazione finanziaria. Quali fattori hanno determinato questa situazione? Un sistema fiscale complesso, fatto di norme per la maggior parte emanate con decretazione di urgenza, che non si inseriscono in maniera organica in alcun disegno globale di tassazione bensì alterano di volta in volta le precedenti condizioni. Un legislatore fiscale che spesso dimostra di non conoscere la materia lasciando ampi varchi a postume interpretazioni. Un sistema sostanzialmente mutante, instabile, spesso persecutorio, mai precettivo, che si traduce in una tassazione ormai insopportabile sia in termini diretti che in termini di oneri indiretti e costi di compliance a carico di imprese e cittadini. Una condizione di incertezza costante non più sostenibile che penalizza altresì gravemente l’immagine del nostro Paese.

L’Italia infatti è stabilmente accreditata di un “deficit di attrattività” per quanto riguarda gli investimenti esteri che preferiscono altre sedi europee, anche in uscita dall’Italia. Le recenti statistiche hanno preso in esame l’ultimo ventennio con raffronti allarmanti: un gap di uno a cinque tra noi e la Gran Bretagna ad esempio, ma non solo, Francia e Germania quasi il triplo rispetto a noi. Tutte le altre nazioni europee riescono a vendere il loro sistema molto meglio dell’Italia, con una legislazione semplice, certezza e stabilità del diritto, poca burocrazia, bassa pressione fiscale e non certo favorendo l’evasione, attraendo quindi, inesorabilmente, capitali ed investimenti. È un mercato anche questo, globale, sul quale è obbligatorio competere. Gli indirizzi espressi alla stampa dal nuovo Direttore dell’Agenzia delle Entrate all’atto del suo insediamento hanno posto in evidenza un rinnovato approccio di valutazione nei confronti di ciò che effettivamente concretizza fenomeni di evasione fiscale rispetto ad errori di interpretazione o applicazione delle norme esistenti. Non si può che condividere tale approccio auspicando ancora una volta che le leggi in materia fiscale diventino più chiare, semplici, a tutto vantaggio di un concreto sostegno all’attività di contrasto a comportamenti chiaramente orientati al compimento di illeciti.

A livello comunale abbiamo assistito ad un notevole inasprimento della tassazione con l’introduzione di nuovi tributi locali il cui pagamento è in scadenza nei prossimi mesi. A questi si aggiunge la rateazione delle imposte a saldo e acconto per le annualità 2013 e 2014. Un impegno pressante per i cittadini e le imprese. Gli enti locali hanno emanato una normativa regolamentare improvvisata, per nulla omogenea sul territorio nazionale, istituendo nuovi tributi Iuc,Tari, Tasi, in parte sostitutivi di altri, le vecchie Ici e poi Imu. Il risultato allo stato attuale è devastante in termini di oneri a carico del cittadino nel reperire aliquote comunali, esenzioni, detrazioni ed altro al fine di poter adempiere con una qualche minima tranquillità all’obbligazione tributaria. Alcune municipalità provvedono, e bene fanno, ad inviare a domicilio bollettini precompilati, altre devono ancora decidere le aliquote. Davvero complicato adempiere da parte del cittadino e di chi professionalmente lo assiste. Benvenuti siano quindi gli 80 euro in busta paga, anche se la maggior parte finisce verosimilmente in pagamento dei tributi comunali nel prossimo mese e la rimanente in pagamento delle rate di prestiti al consumo 60 mesi con i quali è stata comprata la produzione industriale degli anni 2008/2009. Per quella di oggi non ci sono più soldi. Per il legislatore nazionale c’è veramente spazio per una riforma del sistema fiscale italiano, purché davvero abbia voglia di cominciare.

Renzi batte il record delle tasse

Renzi batte il record delle tasse

Laura Della Pasqua – Il Tempo

Renzi ha battuto tutti i record. Innanzitutto quello della velocità. Tanto rapido ad annunciare l’abbattimento delle tasse a cominciare da quelle sulle famiglie numerose, e tanto veloce a fare marcia indietro. Non solo. Il record di tutti i tempi messo a segno dal premier è quello del numero di nuove imposte in un arco di tempo estremamente ridotto. Una sorta di gara a fare meglio dei suoi predecessori, anche di quel campione del rigorismo che è stato Monti. Il Prof al confronto con Renzi sembra un pivellino per l’uso della leva fiscale che comunque Monti giustificava sempre indicando come mandante Bruxelles. Renzi invece non si dà nemmeno la cura di scusarsi con gli italiani e mentre getta fumo negli occhi, con le slide e i twitt, promettendo di sforbiciare privilegi e sacche di inefficienza, usa senza remore la clava delle imposte. Le randellate interessano tutti indistintamente, famiglie e imprese. La fantasia però non è il suo forte se nel mirino è entrata subito la casa, tradizionale fonte di gettito sicuro. Dopo soli sette giorni a Palazzo Chigi, nel primo Consiglio dei ministri, Renzi traduce in un decreto legge l’accordo fra governo Letta e Comuni sulla Tasi. Vediamo le tasse del premier.

Tasi
La tassa sui servizi indivisibili (come l’illuminazione pubblica) s i rivela subito una batosta, peggio della vecchia Imu. Si dà libertà ai sindaci di alzare l’aliquota di un altro 0,8 per mille sulla prima casa, passando dal 2,5 al 3,3 per mille, oppure sulle seconde case, salendo dal 10,6 all’11,4 per mille. I soldi secondo il piano del governo dovrebbero servire a finanziare le detrazioni fissate dai sindaci. In realtà non c’è nessun obbligo a introdurre le detrazioni mentre per l’Imu erano stabilite in 200 euro sulla prima casa e 50 euro a figlio. Risultato: secondo la Uil, l’aliquota media deliberata dai municipi capoluogo di provincia è del 2,6%. La Cgia di Mestre sostiene che in un grande Comune su due la Tasi sarà più cara dell’Imu.

Rendite finanziarie
Dopo circa un mese ecco che Renzi decide di colpire gli investimenti in Borsa e il risparmio. Il prelievo sale dal 20 al 26% e riguarda anche i conti correnti. Salvi, al momento, i titoli di Stato e i buoni fruttiferi postali. Anche i fondi pensione non sono stati risparmiati, con la trattenuta che versano allo Stato sui rendimenti maturati che passa dall’11 all’11,5%.

Quote Bankitalia
Anche le banche sono chiamate a stringere la cinghia. Raddoppia l’imposta sostitutiva sulla rivalutazione delle quote Bankitalia.

Detrazioni Irpef
Tutti i lavoratori che avranno accumulato detrazioni fino a 4.000 euro nel 2013, dovranno aspettare il 2015 per vederseli riconosciuti. Inoltre l’accreditamento delle detrazioni non avverrà più direttamente ma si dovrà aspettare un bonifico dalla Agenzia delle Entrate. Vengono tagliate le detrazioni Irpef sopra i 55mila euro.

Passaporto
Aumenta il costo per il rilascio del passaporto che passa dai 40,29 euro ai 73,50 euro, a cui bisogna aggiungere il costo del libretto.

Sigarette
Dal 1° ottobre il pacchetto di sigarette aumenta di 1 euro.

Smartphone
Smartphone e tablet più cari. Le tasse sull’acquisto di dispositivi dotati di memoria digitale aumentano di circa il 500%. Quando si acquista uno smartphone o un tablet si pagano dai 3 (dispositivi fino a 8 Gb) ai 4,80 euro (32 Gb) per il diritto d’autore contro gli appena 0,9 previsti finora per i telefonini.

Benzina
Il decreto Irpef all’esame di palazzo Madama prevede clausole di salvaguardia che consentono al Tesoro di aumentare le accise su benzina, alcol e tabacchi qualora avesse bisogno di soldi.

Energie
Tassate le rinnovabili.

Successioni
In arrivo, secondo indiscrezioni, con la prossima legge di Stabilità un aumento dell’imposta sulle successioni. Il governo Berlusconi l’aveva abrogata nel 2011, il governo Prodi l’aveva reintrodotta nel 2006, ma prevedendo una franchigia di un milione di euro. Al di sopra di questa cifra, l’eredità viene tassata al 4%.