gianni zorzi

C’era una volta il risparmio

C’era una volta il risparmio

di Gianni Zorzi* ed Elisa Qualizza** – Panorama

Fiore all’occhiello del nostro sistema finanziario, simbolo della laboriosità e della capacità di risparmio ma anche calpestata nei mille casi di risparmio tradito e spesso trattata dallo Stato come bancomat a cui attingere per far quadrare i propri conti. È la ricchezza delle nostre famiglie, tanto grande da surclassare nei numeri l’enorme debito pubblico, tanto preziosa da spaventare non appena si affacciano i dubbi sulla tenuta del sistema bancario o rispunta qualche proposta di prelievo patrimoniali.

Un’analisi di ImpresaLavoro basata su dati Banca d’Italia, Sistema Europeo delle Banche Centrali, Ocse ed Eurostat fa il punto sulle tendenze nella ricchezza finanziaria delle famiglie, a dieci anni dall’inizio della crisi più grande della modernità, a 15 dalla fine delle banconote in lire e a 25 dal prelievo straordinario sui conti correnti realizzato in una notte. Dopo anni difficili, in termini nominali il volume di attività finanziarie è sul punto di raggiungere la soglia di 4mila miliardi che era stata registrata per l’ultima volta proprio a fine 2006. Il trend di lungo periodo della ricchezza finanziaria ha seguito in sostanza ciò che è stato per l’economia reale: come il Pil, le attività finanziarie sono tornate a crescere, ma non abbastanza per recuperare il terreno perso dall’inizio della crisi, e ancor meno se nel conto si considera l’inflazione.

In tutta Europa, solo la Grecia è più in ritardo di noi rispetto ai livelli del 2006: alcuni Paesi dell’Europa dell’Est nel frattempo hanno raddoppiato i loro volumi, mentre altri più maturi hanno visto incrementi netti considerevoli. Rispetto a dieci anni fa infatti, in Germania le famiglie sono più ricche di oltre 1.300 miliardi (+31,6 per cento), in Francia di oltre 1.200 (+31,9 per cento) e in Regno Unito di 1.900 miliardi di euro (+30 per cento). L’incremento in termini relativi è molto rilevante anche in Olanda (+55,9 per cento, pari a 800 miliardi) e in Svezia (+72,6 per cento ovvero 500 miliardi). La massa di banconote, depositi, titoli e gestioni in capo alle famiglie nel nostro Paese sta ritornando a circa due volte e mezza il Pil (242 per cento per l’esattezza), vicina ormai ai valori pre-crisi. In questo periodo abbiamo perso la leadership del risparmio privato rispetto ad alcuni dei Paesi più virtuosi: in Danimarca, Olanda, Belgio e Regno Unito le attività finanziarie delle famiglie pesano già oltre tre volte il Pil.

Per ogni euro di debito pubblico avevamo, prima della crisi, circa 2,5 euro in attività finanziarie private, scesi oggi a un livello ben inferiore (1,8), che peraltro non accenna a riprendersi da oltre sei anni. In questi termini, tuttavia, la variabile che si è mossa più rapidamente è quella del debito pubblico. Altri Paesi periferici dell’Eurozona, ad esempio, hanno subìto cali più bruschi poiché si sono nel contempo indebitati in misura maggiore e ora presentano dei coefficienti peggiori dei nostri: è il caso dell’Irlanda e del Portogallo, che assieme alla Grecia e a Paesi dell’Est come Croazia, Slovenia e Slovacchia ora arrancano in questa particolare graduatoria.

Di sicuro, il nostro dato rappresenta una brutta notizia per chi teme una patrimoniale a copertura del debito pubblico: nel malaugurato caso si dovesse ricorrere a questo strumento, l’aliquota dovrebbe essere fissata ancor più in alto di quanto non lo sarebbe stato uno o due decenni fa, per garantire una sua efficacia.

Ma non sono solo le tasse a tormentare il sonno dei risparmiatori italiani. La risoluzione delle quattro banche commissariate nel 2015 con l’azzeramento dei titoli subordinati, nonché l’entrata in vigore del bail-in l’anno dopo con la presa di coscienza sul rischio anche di quelli senior, ha spinto le famiglie a ridurre la propria quota in obbligazioni, specie di natura bancaria.

Nonostante tutto, risulterebbero ancora 440 i miliardi investiti in titoli obbligazionari, compresi quelli del debito pubblico. A fine 2016, secondo i dati Banca d’Italia, più di 136 miliardi sono ancora investiti in bond bancari, di cui oltre 27 a elevato rischio (subordinati). E nonostante i ripetuti default del mondo cooperativo, ci sono ancora più di 11 miliardi di risparmi impiegati nei prestiti sociali alle coop, utilizzati come dei semplici libretti ma senza le tutele che proteggono depositi bancari e postali. Quello delle obbligazioni è un vero e proprio primato italiano: il loro peso è dell’11 per cento sul totale delle attività in portafoglio, quasi il quadruplo rispetto alla media Ocse.

Un altro dato molto significativo riguarda il risparmio gestito: i nostri fondi pensione risultano in netto ritardo rispetto alla media internazionale (pesano appena per il 6 per cento dei portafogli: un terzo rispetto alla media Ocse), mentre al contrario fondi comuni e polizze vita hanno raccolto più del 25 per cento dei risparmi rispetto al 16 per cento della media Ocse. Gli incentivi fiscali sui Pir e la maggiore redditività del business del gestito rispetto ai depositi probabilmente accentueranno il fenomeno.

Su base regionale, è interessante un aumento della concentrazione della ricchezza nel Nord-Ovest (ora al 35 per cento), con una crescita molto rilevante degli asset finanziari tra le famiglie lombarde e una minore concentrazione tra quelle piemontesi e liguri. Si è ridotta negli ultimi anni la concentrazione di attività finanziarie nel Nord-Est, con l’importante eccezione delle famiglie venete che risultano comunque stabili. In aumento invece la ricchezza delle famiglie del Centro, a discapito di quelle del Sud. In generale le famiglie del Mezzogiorno risultano però meno indebitate che in passato, al contrario di quelle del Nord-Ovest e del Centro.

Più rilevanti ancora le variazioni nella distribuzione della ricchezza per classi d’età: rispetto a vent’anni fa si è dimezzata la quota di asset in mano agli under 44, mentre è più che raddoppiata per la classe d’età al di sopra dei 64 anni. Le fasce più anziane della nostra popolazione ora detengono quasi la metà di tutti gli asset finanziari, mentre tre quarti dell’indebitamento privato è a carico di nuclei in cui il capofamiglia ha meno di 54 anni. I dati sull’indebitamento delle nostre famiglie sono comunque in generale rassicuranti: seppur quasi triplicato in vent’anni rispetto al reddito disponibile, ha sostanzialmente tenuto negli anni di crisi fermandosi alla quota del 90 per cento. La crescita rispetto al 2006 è di soli 13 punti.

*docente di finanza dell’impresa e dei mercati

**ricercatrice Centro Studi ImpresaLavoro

PIÙ DEBITI, MENO CONSUMI: UN PAESE BLOCCATO

di Massimo Blasoni, imprenditore e presidente del Centro studi ImpresaLavoro

L’impoverimento delle famiglie italiane non si evince soltanto dal loro maggiore indebitamento rispetto al passato. A spaventare è innanzitutto l’ormai sistemica crisi economica che da un decennio blocca la crescita del Paese. La mancanza di fiducia nel futuro porta così alla contrazione dei consumi, che la politica dei bonus elargiti a pioggia non ha in alcun modo saputo rilanciare. Chi può decide di mettere da parte i propri soldi, in attesa di tempi migliori, senza però riuscire a eludere la voracità del fisco: negli ultimi anni la tassazione sul risparmio è infatti più che raddoppiata. Più in generale, a impoverire le famiglie è anche la scarsa qualità (specie nel Meridione) di molti servizi pubblici che pure dovrebbero essere assicurati quale corrispettivo delle imposte versate.

I nuovi padroni delle banche italiane

I nuovi padroni delle banche italiane

di Gianni Zorzi * e Elisa Qualizza **

Quali effetti ha avuto la lunga crisi dell’economia sugli assetti proprietari delle banche italiane? Un rapporto di ImpresaLavoro ha provato a fare luce sui cambiamenti intervenuti in dieci anni. Sotto il peso dei crediti deteriorati e in un contesto competitivo sempre più difficile, azionisti storici come le fondazioni bancarie hanno in molti casi perso del tutto il controllo degli istituti. Il risiko stenta a ripartire, la mano pubblica è vincolata dalla direttiva sul bail-in e i gruppi stranieri sembrano stare alla finestra, con l’eccezione dei fondi d’investimento che invece hanno progressivamente incrementato le loro esposizioni.

Ai massimi del 2007 i titoli bancari quotavano in Borsa circa 210 miliardi di euro e valevano quasi il 30 per cento del listino milanese: oggi invece non superano i 67,5 miliardi e raggiungono a malapena al 13 per cento dei valori di Borsa. Questa distruzione di valore è dovuta a più cause. A parte gli episodi di mala gestio, bisognerà citare l’aumento dei crediti deteriorati (giunti al 175 per cento del capitale delle banche), l’inasprimento dei requisiti minimi di capitale, i margini di interesse sempre più risicati. La media del campione di 49 gruppi bancari analizzati da ImpresaLavoro mostra inoltre indici di redditività negativi e in costante calo sin dal 2013. Per effetto delle svalutazioni, molti dei principali gruppi bancari hanno chiuso il bilancio 2016 in perdita. Probabilmente senza l’entrata in vigore della direttiva del bail-in ci saremmo ritrovati a commentare il ritorno dello “Stato banchiere”, un ruolo che si pensava abbandonato con le privatizzazioni degli anni ’90, che avevano fatto seguito alla trasformazione delle casse di risparmio e dei monti di pietà in società per azioni con la scissione tra attività bancaria ed enti proprietari, ovverosia le fondazioni. A un quarto di secolo dalla loro istituzione, sono loro ad aver perso la maggiore influenza sul nostro sistema. Ormai il 30 per cento degli 88 enti nati dalla legge Amato del ’90 non ha più alcuna partecipazione nella relativa banca conferitaria, e un altro 10 per cento ha mantenuta una partecipazione limitata o destinata a diluirsi o dissolversi a breve.

Le banche conferitarie di 24 diverse fondazioni fanno ora capo a Intesa Sanpaolo mentre altre 13 si sono fuse in Unicredit; cinque istituti hanno ceduto alle lusinghe della Popolare dell’Emilia Romagna, altri cinque all’odierno Banco Bpm e cinque ancora a Ubi Banca. Fondazione Cariparma ha mantenuto il 13,5 per cento del relativo gruppo, passato in mani francesi dal 2007 e da poco ribattezzato Crédit Agricole. Solo una parte degli enti rimasti nel capitale dei gruppi ha voluto – e potuto – partecipare agli aumenti mantenendo inalterata così la quota di partecipazione: per esempio Compagnia di San Paolo, Fondazione Cariplo e Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo, proprietarie complessivamente del 17,4 per cento di Intesa Sanpaolo.

Nello stesso gruppo hanno invece ceduto quote la Fondazione Cr Firenze, ora al 2 per cento, e Fondazione Carisbo, obbligata a ridurre la partecipazione in base al protocollo d’intesa con il Ministero dell’Economia del 2015. Dopo il recente maxi-aumento di Unicredit, le fondazioni di Crt e Cariverona sono scese all’1,8 per cento, e assieme agli altri enti pesano ormai in totale non più del 5 per cento (a fronte del 12 del 2008): ben più rilevanti i pacchetti in mano agli istituzionali battenti bandiera straniera. In controtendenza risulterebbero solo la Fondazione Cr Cuneo e la Fondazione Banca del Monte di Lombardia, salite di recente all’11 per cento di UBI Banca, superando così di poco le quote accumulate da fondi esteri come Blackrock e Silchester. Si sono diluite nel tempo Fondazione Mps (dal 58 per cento di dieci anni fa ora è scesa allo 0,1) e le tre che detengono quote di Carige (ormai tutte insieme non pesano più del 6). Più in generale sono rimaste solo otto le fondazioni che detengono una quota maggioritaria nella banca conferitaria: l’ultima a uscire da questo perimetro ormai molto ristretto è stata Saluzzo, che ha ceduto l’anno scorso a Bper il controllo della banca locale, mentre altre con ogni probabilità la seguiranno a breve.

Sono sette le fondazioni “azzerate” nel 2015 (assieme a moltissimi piccoli risparmiatori azionisti e obbligazionisti junior) a fronte dei processi di risoluzione di Banca Marche, CariChieti e CariFerrara, il primo delle quali ha travolto da solo cinque enti (Loreto, Macerata, Pesaro e Jesi che è stata azzerata pure sulle subordinate, oltre Fano che aveva accumulato una posizione in anni recenti). La parte buona di quegli istituti, assieme a quella di Banca Etruria, è transitata sotto il controllo temporaneo del Fondo di risoluzione e ha trovato acquirenti (Bper e Ubi) solo a inizio 2017 al prezzo simbolico di un euro cadauna. Fondazione Tercas nel 2014 ha perso il controllo dell’ex Cassa di Teramo, poi passata alla Popolare di Bari. Quattro fondazioni sono finite nel vortice delle ex Popolari venete, le cui azioni hanno perso del tutto il loro valore a fronte degli aumenti di capitale del 2016 da Atlante che, dopo essere intervenuto in seguito al fallito tentativo di quotazione dei due istituti, ora rischia già di perderne il controllo. Infatti le ex popolari venete al pari del Monte dei Paschi hanno richiesto l’intervento dello Stato attraverso lo strumento della ricapitalizzazione precauzionale.

Il Parlamento ha da tempo dato il via libera a questi interventi, ancora in attesa del placet europeo, fino a un importo di 20 miliardi di euro. Il settore sembra non esaurire la sua sete di capitale, ed è possibile che nuove piccole grandi rivoluzioni segnino il destino di molti istituti. A breve, per esempio, sarà la volta di Rimini e San Miniato, che assieme alle tre fondazioni che ora guidano CariCesena, attendono di conoscere l’entità degli aumenti di capitale necessari. I grandi gruppi stranieri sono stati sinora alla finestra. Probabilmente scoraggiati dall’ipotesi di consolidare impieghi carichi di crediti dubbi, titoli del nostro debito pubblico e prestiti concentrati su un’economia che ancora mostra bassi livelli di crescita, non hanno fatto acquisizioni significative.

Oltre a Caripanna di cui si è detto, Bnl è interamente partecipata da Bnp Paribas già da oltre dieci anni, mentre Deutsche Bank mantiene la sua ormai storica presenza in Italia e Crediop, travolta nella risoluzione della controllante franco-belga Dexia che l’aveva acquistata nel ’99, da anni è ufficialmente in vendita ma senza trovare acquirenti. Altri gruppi come Barclays hanno deciso di lasciare l’Italia, addirittura accettando di pagare CheBanca! (la divisione retail di Mediobanca) per rilevarne l’anno scorso la rete di sportelli.

Molto diversa la distribuzione dell’azionariato in Borsa. Unicredit è posseduto per oltre il 42 per cento da investitori istituzionali, e un altro 15 e mezzo da investitori non identificati, con meno del 29 per cento in mano al retail. Il pacchetto azionario più importante, pari al 5 per cento, è in mano agli arabi di Aahar, seguito a ruota dal fondo russo di Pamplona; la Central Bank ot’ Libya è invece scesa al di sotto del 3 per cento. In generale chi ha incrementato in misura pressoché costante le quote sono alcuni giganti dell’asset management, a partire da quelli statunitensi. Capital group detiene oltre il 4 per cento di Unicredit e quasi l’1 di Intesa, mentre Blackrock l’opposto. Vanguard ha quasi il 2 per cento di tutte le principali banche quotate, mentre ugualmente diversificati risultano Invesco, Franklin resources, Templeton. Harris è al 3,2 di intesa Sanpaolo, mentre Dimensional fund detiene quote rilevanti in Bper, Banco Bpm, Sondrio e Credito valtellinese per una quota che varia tra il 2,5 e il 4,2 per cento.

Rilevante l’interesse della Banca centrale della Norvegia (Norges Bank) che detiene tra il 2 e il 3 per cento di tutte le nostre quotate. Di recente l’a.d. Di Banco Bpm Giuseppe Castagna ha annunciato che i fondi detengono oltre il 70 per cento del gruppo e che sarà necessario «costruire con loro un rapporto duraturo». Oltre che negli assetti proprietari, i quali appaiono tuttora in evoluzione, ci si attendono dunque cambiamenti importanti anche nei rapporti con gli azionisti e nella governance. È un dramma per il sistema? Ripensando alle cronache di tante gestioni cadute in disgrazia, forse no.

* docente di finanza dell’impresa e dei mercati

** ricercatrice Centro Studi ImpresaLavoro

E I “PICCOLI” PAGANO IL CONTO

di Massimo Blasoni, imprenditore e presidente del Centro studi ImpresaLavoro

I nostri istituti di credito hanno perso nell’ultimo decennio una quota rilevante del loro valore. Mentre in Paesi più sicuri e più attrattivi per i capitali affluivano ingentissime risorse che si trasformavano anche in impieghi per le banche volti non solo agli investimenti in debito sovrano, ma anche per famiglie e imprese. Risorse importanti posto che da noi la concessione del credito si è andata largamente restringendo negli ultimi anni. La profonda crisi di diversi istituti bancari è stata poi la conseguenza dell’azione opaca di un management disinvolto e non all’altezza, anche perché spesso scelto per l’appartenenza a un partito. A pagarne il conto sono stati migliaia di piccoli investitori, non di rado imprenditori locali, del tutto inconsapevoli dei rischi che stavano correndo.

Baratro Inps, perdite di bilancio per oltre 11 miliardi all’anno

Baratro Inps, perdite di bilancio per oltre 11 miliardi all’anno

di Gianni Zorzi

Più di undici miliardi all’anno è la perdita di bilancio che l’Inps subisce regolarmente dal 2012 (anno in cui ha incorporato l’Enpals e soprattutto l’ex Inpdap), e che stima di registrare anche al termine del 2016. Il patrimonio netto che cinque anni fa misurava oltre 40 miliardi di euro è ormai diretto verso la completa erosione, e con esso i 21 miliardi di euro incassati tramite un intervento straordinario di ripianamento delle perdite risalente a due anni fa.

Il conto a fine anno potrebbe essere ancora peggiore, innanzitutto perché per gli esercizi 2015 e 2016 il disavanzo è ancora una previsione, e in passato i consuntivi hanno fatto registrare delle perdite ben più ampie di quelle inizialmente preventivate. Anche se i dati per una volta risultassero in linea con le attese, il patrimonio netto fotografato al 31 dicembre 2016 non andrebbe oltre gli 1,8 miliardi, con la sostanziale imminente necessità di un ulteriore ripiano da parte dello Stato.

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C’è un costo in particolare che l’Inps ha sempre regolarmente sottostimato fino ad ora nei suoi bilanci preventivi: il costo derivante dalla svalutazione dei crediti, ovvero di quella parte dei contributi che l’ente previdenziale si attende inizialmente di riscuotere ma che nei fatti viene persa. Il fenomeno è dovuto a cause diverse: a parte gli evasori si va dal caso di debitori falliti o liquidati, oppure deceduti senza eredi che ne abbiano accettato l’eredità, a quello di crediti caduti in prescrizione, o per i quali ne viene accertata l’insussistenza.

Per il 2016 l’accantonamento preventivato a conto economico sfiora gli 8 miliardi: un valore ben più allineato a quanto rilevato a consuntivo negli ultimi anni, anche in considerazione – riporta testualmente il bilancio Inps – della “vetustà dei residui attivi” e della “presunta probabilità di effettivo realizzo degli stessi”. Per l’anno appena chiuso invece le previsioni assestate contengono accantonamenti per 5,7 miliardi a fronte di meno di un miliardo messo in preventivo.

Concettualmente il problema è analogo a quello che affrontano le banche: i mancati incassi si accumulano nei bilanci (soprattutto in anni di crisi) e diventano a tutti gli effetti crediti deteriorati. Una parte di questi viene efficacemente recuperata mentre la restante quota perde progressivamente la probabilità di un recupero fino a essere soggetta a definitiva svalutazione.

Anche la gestione dei crediti e del loro recupero, del resto, è un’attività che richiede risorse e che può essere condotta in modo più o meno efficace ed efficiente. Talvolta può risultare conveniente delegarla a terzi attraverso strumenti quali la cartolarizzazione o la cessione del credito a operatori qualificati (in questo caso può effettuarsi con uno sconto, anche molto elevato, rispetto al loro valore nominale).

Per dare un’idea delle dimensioni del problema, la massa dei contributi non incassati dovrebbe superare a fine anno per la prima volta la quota dei cento miliardi, crescendo nel frattempo al ritmo medio di 740 milioni di euro al mese (è una tendenza ormai consolidata da anni). Il conto esatto sarebbe di oltre 104 miliardi, di cui oltre la metà (56,3) sottoposti a svalutazione.

Uno degli aspetti più delicati è proprio la stima di quanti crediti verranno effettivamente incassati e su quanti invece l’Inps dovrà inevitabilmente gettare la spugna. Ad oggi le svalutazioni previste o effettuate si basano essenzialmente su due parametri ben definiti: il primo è l’anno di riferimento del credito (più lontano è nel tempo è peggiore la probabilità di recuperarlo) e il secondo è la gestione specifica a cui si riferisce (per alcune gestioni il recupero è più difficile che in altre).

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Si scopre dunque che questi criteri sono stati rivisti al ribasso proprio negli ultimi bilanci. I crediti risalenti fino al 2009, indipendentemente dalla gestione cui si riferiscono (42,8 miliardi secondo gli ultimi dati disponibili), vengono svalutati al 99%, riconoscendone quindi la sostanziale irrecuperabilità salvo episodi del tutto sporadici.

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Per il triennio successivo (mancano informazioni aggiornate ma per il 2010-2012 è arduo stimarli in meno di 20 miliardi), la svalutazione è del 55% per le gestioni dei lavoratori dipendenti e gli agricoli, mentre è del 30% per gli artigiani e i commercianti e si limita al 10% per la gestione separata. Sui crediti relativi all’ultimo triennio è proposta una svalutazione media del 10%.

La gravità delle stime è in aumento sia per i parametri utilizzati (ben più pessimistici rispetto all’ultimo consuntivo), sia per il fatto che materialmente, anche se manca una relazione apposita in bilancio, il recupero crediti non sembra sinora riuscito a sostenerle: di anno in anno il volume di contributi non incassati cresce e nel contempo cresce pure la quota che l’Inps deve accantonare al rispettivo fondo di svalutazione.

Inoltre, le gestioni che mostrano le più basse probabilità di recupero sono – non sorprendentemente – quelle più rilevanti: 56,7 miliardi di crediti non incassati (il 54,3% del totale) si riferiscono alle gestioni dei lavoratori dipendenti (incluso le prestazioni temporanee) mentre in minoranza troviamo quelle dei commercianti (20,7%) e artigiani (15,3%). Solo per il 2,3% dei mancati incassi (e con anzianità dei crediti piuttosto bassa) pesa la gestione separata di parasubordinati e autonomi.

La preoccupazione (lecita) è dunque già riferita al presente: sono sufficienti e realistiche le svalutazioni sinora effettuate dall’ente oppure sono ancora ottimistiche? È sufficientemente strutturata ed efficace l’attività di recupero dell’Inps, specialmente su volumi in consistente crescita? Si può affrontare il problema con strumenti migliori e, in tal caso, quanto può costare non attivarli per tempo?

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Alcuni strumenti come la cessione dei crediti e la cartolarizzazione (sempre che si dimostrino più efficienti per il recupero degli incassi) richiedono appositi strumenti normativi. Le ultime operazioni di trasferimento – delle quali l’esito non è reso chiaro – risalgono ormai al 2005: sappiamo solo che di 26 miliardi di crediti residui ben 11 sono insorti prima del nuovo millennio, e il 10% non risulta ancora svalutato.

I pur nutriti rendiconti dell’Inps (l’ultimo consuntivo misura complessivamente 3883 pagine) non brillano per esaustività con riguardo a questi aspetti. Nemmeno gli schemi sintetici (quelli più fruibili da una platea di non addetti ai lavori) riescono a descrivere con esattezza le dimensioni del problema, che nel dibattito nazionale è rimasto – salvo qualche eccezione e nonostante le sue crescenti proporzioni – sinora sorprendentemente sottaciuto.

 

 

Gianni Zorzi a “I conti della belva” – Radio24

Gianni Zorzi a “I conti della belva” – Radio24

Che senso ha investire in titoli pubblici italiani a rendimento negativo, se oltretutto le tasse erodono ulteriormente il ritorno sul vostro capitale? Gianni Zorzi, dottore di ricerca in finanza e collaboratore del Centro Studi ImpresaLavoro interviene su Radio 24 a “I Conti della Belva”, ospite di Oscar Giannino.
Clicca qui per ascoltare la puntata. (l’intervento di Gianni Zorzi inizia al minuto 57).

 

 

La grande fuga dai Bot. Adesso chi li compra finisce sempre in rosso

La grande fuga dai Bot. Adesso chi li compra finisce sempre in rosso

di Gian Maria De Francesco – Il Giornale

Che la pacchia fosse finita molti lo sapevano o l’hanno capito leggendo i loro estratti conto, ma che un investimento in Bot o Btp potesse comportare una perdita non tutti l’hanno compreso pienamente. A ricordarlo ci ha pensato il Centro studi ImpresaLavoro elaborando i dati delle ultime aste e confrontandoli con i precedenti relativi al triennio 2012-2014. Il combinato disposto del prelievo fiscale sui rendimenti e l’imposta di bollo comportano risultati complessivamente negativi per i risparmiatori. Il vero dramma è un altro: non esiste nessun limite alla tassazione di Bot e Btp anche in caso di rendimento negativo.
I dati sono impietosi e preoccupanti per le famiglie italiane che, secondo i dati ufficiali di Bankitalia relativi a fine 2013, hanno investito 180,8 miliardi di euro della loro ricchezza (il 4,7% del totale) in titoli di Stato. Ma, soprattutto, è una patata bollente per il premier Matteo Renzi e per il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, che ancora non sono intervenuti sulla materia, sebbene siano ampiamente consci del tradizionale «affetto» dell’italiano medio verso il solido Btp.
Per spiegare l’effetto perverso della tassazione conviene partire dalla fine, cioè dagli effetti che i bassi rendimenti (determinati sia dal taglio dei tassi della Bce che dal programma di acquisti di titoli di Stato di Eurolandia lanciato da Mario Draghi) e le imposte hanno prodotto sui buoni del Tesoro. Coloro che avessero acquistato 20mila euro di Bot semestrali all’asta dell’altroieri hanno lasciato sul terreno 25 euro e 60 centesimi. Di questi, 5 euro e 60 centesimi sono legati al fatto che i Bot hanno un rendimento negativo dello 0,055 per cento. Il calo dei tassi fa sì che bisogna pagare lo Stato perché custodisca i risparmi per 6 mesi anziché ricevere indietro del denaro a titolo di interesse sul prestito come accadeva un tempo. Gli altri 20 euro sono relativi all’imposta di bollo che dal 2014 è salita allo 0,2%, una mini-patrimoniale.
Questo caso particolare esclude altri due costi generalmente a carico dell’investitore in titoli di stato. Il primo è rappresentato dalle commissioni bancarie per l’acquisto dei titoli in asta (cioè quando si dà il mandato alla banca, ndr ), che tuttavia sono ridottissime o nulle se il rendimento è vicino allo zero o negativo. A questo si aggiunge il dossier titoli che è di massimi 10 euro semestrali. Se Bot e Btp offrono una cedola, lo Stato preleva il 12,5% (su azioni, fondi, altre obbligazioni e conti di deposito è del 26%) e se lo prende anche se vengono ceduti prima della scadenza conseguendo una plusvalenza.
L’analisi del Centro studi ImpresaLavoro mostra anche che in asta i Bot semestrali e annuali, nonché i Ctz, hanno determinato un rendimento annuo netto effettivo negativo a scadenza per i piccoli investitori almeno sin dalle aste del febbraio 2015. I Btp quinquennali e decennali offerti in asta hanno sempre determinato finora un rendimento positivo sia in termini lordi che netti, L’incidenza effettiva delle imposte (interessi + bollo) ha toccato, tuttavia, il 48,2% per i Btp a 5 anni emessi nel febbraio e marzo 2015, e il 27,4% per i Btp a 10 anni offerti nel marzo 2015. La situazione non migliora per chi volesse comperare i titoli di Stato sul mercato telematico. I prezzi sono tutti superiori a quelli d’asta, per cui la perdita alla scadenza è già assicurata. È, tuttavia, possibile usare la minusvalenza a compensazione di futuri guadagni. Se il governo voleva spingere gli italiani a comperare azioni, ci è riuscito benissimo.
Quando le tasse superano gli interessi dei titoli di Stato

Quando le tasse superano gli interessi dei titoli di Stato

di Gianni Zorzi

Sintesi
Le misure straordinarie adottate dalla Banca Centrale Europea in risposta alla crisi dei paesi periferici scoppiata nel 2011, ivi inclusi il taglio dei tassi fino allo 0,05%, le operazioni straordinarie di rifinanziamento a più lungo termine (LTRO e TLTRO) nonché di acquisto di titoli pubblici sul mercato (“quantitative easing”), hanno portato ad un sempre maggiore calo nei rendimenti dei titoli del debito pubblico italiano. Ciò si traduce in un risparmio (notevole) per il Tesoro, ma anche in un calo drastico della redditività di tale investimento nelle tasche dei piccoli risparmiatori italiani, che secondo i dati Bankitalia più recenti a fine 2013 ne detenevano in portafoglio per più di 180 miliardi di euro. Sebbene i rendimenti lordi dei titoli di Stato siano rimasti in territorio positivo, gli effetti fiscali (legati alle imposte sui guadagni finanziari e alla “mini-patrimoniale” dell’imposta di bollo salita allo 0,2% dall’inizio del 2014) conducono già da tempo a risultati netti complessivamente negativi per i risparmiatori che continuano a sottoscrivere o acquistare titoli di stato italiani. Con il DM 15 gennaio 2015 il Governo ha obbligato le banche a ridurre o annullare le commissioni applicate sui BOT in asta nel caso il rendimento sia nullo o appena positivo. Nessuna misura tuttavia è prevista per limitare il peso delle imposte nemmeno in tali casi.
1. Le modalità di investimento in titoli di Stato
I piccoli risparmiatori possono investire direttamente in titoli di Stato in due modi diversi:
• Sottoscrivendo i titoli in fase d’asta (il cosiddetto “mercato primario”: le aste sono organizzate direttamente del Tesoro secondo un calendario predefinito);
• Acquistando i titoli su uno dei mercati obbligazionari come il MOT di Borsa Italiana (i cosiddetti “mercato secondari”: i titoli già in circolazione sono quotati e gli scambi possono avvenire in tempo reale in tutti i giorni di apertura del mercato);
In entrambi i casi è comunque necessario che le operazioni di investimento siano gestite da un intermediario abilitato (tipicamente una banca), sulla base di un contratto di ricezione e invio ordini per conto del cliente, custodia e amministrazione dei titoli (il cosiddetto “deposito titoli” o “dossier titoli”).
C’è inoltre la possibilità dell’investimento indiretto in titoli attraverso la sottoscrizione di polizze, fondi comuni, fondi pensione, gestioni patrimoniali: in questo caso però il patrimonio è suddiviso – nella quasi totalità dei casi – anche su titoli di altra natura oppure emessi da soggetti diversi dallo Stato.
2. Le “norme per la trasparenza nel collocamento dei titoli di Stato”
Un recente intervento normativo (il D.M. 15 gennaio 2015), entrato in vigore il 20 gennaio 2015, ha modificato le norme per la trasparenza nel collocamento dei titoli di Stato, limitando in particolare le commissioni che banche e intermediari possono porre a carico della clientela in fase di sottoscrizione di titoli alle aste periodiche organizzate dal Tesoro. Il decreto è intervenuto a modificare il precedente D.M. del 12 febbraio 2004 (integrato dal D.M. 19 ottobre 2009), soprattutto per quanto concerne le commissioni massime applicabili alle aste dei BOT (sugli altri titoli come i BTP, i CTZ e i CCTeu permane il divieto di applicare commissioni). Nella sostanza il decreto ha limitato le commissioni massime sui BOT su questi livelli:
• Lo 0,03% del capitale sottoscritto per i BOT mensili (in precedenza era lo 0,05%);
• Lo 0,05% per i BOT trimestrali (era lo 0,1%);
• Lo 0,1% per i BOT semestrali (era lo 0,2%);
• Lo 0,15% per i BOT annuali (era lo 0,3%)
Inoltre, le commissioni devono essere ridotte se il prezzo d’asta dei BOT risulta inferiore a 100 ma il prezzo totale (comprensivo di ritenuta fiscale e commissioni medesime) la supera, e annullate se il prezzo d’asta dei BOT risulta pari o superiore a 100.
Questa norma, nella sostanza, obbliga le banche a ridurre oppure annullare le commissioni se per effetto delle stesse il rendimento per i risparmiatori diventa negativo, ed era stata introdotta infatti per la prima volta nel DM 19 ottobre 2009 in seguito al brusco ribasso dei tassi operato dalle banche centrali dopo il terremoto finanziario scatenato dal default di Lehman Brothers. Un’altra norma del decreto già in vigore dal 2004 limita a 10 euro semestrali il costo massimo applicabile dalle banche su un deposito titoli composto unicamente da titoli di Stato italiani.

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3. La fiscalità complessiva dei titoli di Stato per i piccoli risparmiatori
Il prelievo complessivo dello Stato a carico dei piccoli risparmiatori sui titoli del debito pubblico si compone di tre elementi:
• La tassazione sugli interessi (pari al 12,5% delle cedole lorde pagate da BTP, CCT e titoli analoghi, nonché della differenza tra prezzo di rimborso e prezzo d’asta di BOT e CTZ);
• La tassazione sull’eventuale capital gain (pari al 12,5% della differenza tra prezzo di vendita/rimborso e di acquisto, se positiva);
• L’imposta di bollo sul deposito titoli (dal 2014 calcolata in via proporzionale allo 0,2%, dopo una serie di riforme intervenute già dal 2011).
I titoli di Stato hanno resistito dunque agli aumenti delle aliquote sui redditi finanziari decisi negli ultimi anni, guadagnando peraltro una tassazione agevolata rispetto, per esempio, a depositi bancari e titoli emessi da altri soggetti, che scontano ora un’aliquota del 26%. Nel contempo, tuttavia, i titoli del debito pubblico non sono sfuggiti all’applicazione della cosiddetta “mini-patrimoniale” su depositi e investimenti finanziari, riformata una prima volta da Tremonti nel 2011, poi da Monti (2012-2013) e Letta (2014), da cui oggi sono esentati solamente gli investimenti in polizze vita di ramo I e fondi pensione.
Il complesso sistema delle tasse sugli investimenti finanziari in Italia ha inoltre queste due caratteristiche:
• Non c’è alcuna limitazione prevista sulle tasse a carico di investimenti che hanno rendimenti nulli o negativi. La limitazione di cui al DM 15 gennaio 2015 si applicano infatti solo alle commissioni bancarie;
• Non c’è la possibilità di compensare alcuni elementi di guadagno con altri elementi di perdita: nel caso dei titoli di Stato, non si possono compensare i guadagni derivanti dalle cedole (gli interessi) con l’eventuale perdita in conto capitale che si produce tramite l’acquisto dei titoli sui mercati secondari.
Da questo si deduce che anche gli investimenti in titoli di Stato con rendimento lordo positivo possono in realtà presentare un rendimento effettivo netto negativo, ovvero determinare un costo a sfavore del piccolo risparmiatore piuttosto che un interesse a suo favore.

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4. L’acquisto sul mercato primario (aste dei titoli di Stato)
Unendo i dati sui risultati delle aste dei titoli di Stato nel periodo 2012-2015 per alcune tipologie di titoli (BOT semestrali e annuali, CTZ, BTP triennali quinquennali e decennali) al meccanismo di calcolo delle imposte sugli interessi (la ritenuta fiscale del 12,5%) e dell’imposta di bollo per il periodo necessario di detenzione del titolo (lo 0,2% su base annua sul controvalore dell’investimento), si perviene a un indicatore definibile come “rendimento annuo netto effettivo per il piccolo investitore”, grazie al quale si ottengono le seguenti conclusioni:
• I BOT semestrali acquistati all’asta hanno finora avuto sempre un rendimento annuo lordo positivo (o tutt’al più nullo come nell’asta di aprile 2015) ma quelli sottoscritti nell’asta di agosto 2014 hanno prodotto un rendimento annuo netto effettivo del -0,08%, e tutti quelli sottoscritti in asta a partire dal gennaio 2015 hanno prodotto un rendimento annuo netto effettivo sempre negativo;
• I BOT annuali e i CTZ sottoscritti in asta hanno sempre avuto un rendimento annuo lordo positivo ma a partire dall’asta di febbraio 2015 hanno prodotto un rendimento annuo netto effettivo sempre negativo;
• I BTP triennali sottoscritti in asta hanno sempre avuto un rendimento lordo positivo ma quelli emessi nel marzo 2015 presentavano un rendimento netto effettivo pari al -0,07%;
• I BTP quinquennali e decennali offerti in asta hanno sempre determinato finora un rendimento positivo sia in termini lordi che netti. L’incidenza effettiva delle imposte (su interessi + bollo) ha toccato il 48,2% per i BTP a 5 anni emessi nel febbraio e marzo 2015, e del 27,4% per i BTP a 10 anni offerti nel marzo 2015.

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5. L’acquisto sui mercati secondari (MOT)
Questa seconda modalità di investimento in titoli di Stato risulta penalizzata dall’andamento del mercato: chi volesse procedere all’acquisto di titoli sul mercato secondario si ritroverebbe nella quasi totalità dei casi un prezzo di acquisto superiore alla pari. Come si è visto in precedenza, le norme sulla fiscalità delle “rendite finanziarie” impediscono la compensazione tra redditi da capitale come quelli derivanti dall’incasso di cedole dai titoli di Stato, ed eventuali minusvalenze pregresse. Ne consegue che acquistando un titolo sopra la pari:
• Le cedole vengono comunque tassate al 12,50%;
• La differenza tra prezzo di rimborso e prezzo di acquisto è negativa e darà origine, al momento del rimborso, a una minusvalenza utilizzabile a compensazione di alcuni redditi finanziari fino al quarto anno solare successivo.
Questa fattispecie si accompagna dunque alla possibilità concreta che il prelievo fiscale sugli interessi superi già di per sé il rendimento lordo del titolo, determinando una perdita.
Tutti i titoli inoltre sono soggetti all’imposta di bollo fissata nello 0,2% annuo.
Dall’esame dei rendimenti dei BTP quotati sul MOT di Borsa Italiana e dei meccanismi di calcolo delle imposte, si deduce, in base ai prezzi di riferimento rilevati il giorno 23/10/2015 che:
• Tutti i BTP quotati mostrano un rendimento lordo positivo, seppure per molti di essi vicino allo zero;
• Tutti i BTP con scadenza più vicina rispetto al dicembre 2019 mostrano un “rendimento annuo netto effettivo” negativo, salvo naturalmente la possibilità di utilizzare la relativa minusvalenza a compensazione di futuri guadagni secondo le norme di legge;
• L’incidenza del prelievo effettivo si riduce con la distanza dalla scadenza del titolo ed è inferiore al 25% del rendimento lordo del titolo solamente per i titoli con scadenza marzo 2032 e settembre 2046.

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6. Conclusioni
I principali risultati emersi nel corso dell’analisi sono i seguenti:
• In fase di sottoscrizione tramite asta, i BOT semestrali e annuali, nonché i CTZ, hanno determinato un rendimento annuo netto effettivo negativo a scadenza per i piccoli investitori almeno sin dalle aste del febbraio 2015. Ciò risulta verificato anche per il BTP triennale offerto in asta nel marzo 2015;
• I BTP quinquennali e decennali offerti in asta hanno sempre determinato finora un rendimento positivo sia in termini lordi che netti. L’incidenza effettiva delle imposte (su interessi + bollo) ha toccato tuttavia il 48,2% per i BTP a 5 anni emessi nel febbraio e marzo 2015, e il 27,4% per i BTP a 10 anni offerti nel marzo 2015;
• Per quanto riguarda i titoli offerti in asta, on c’è alcuna limitazione prevista sulle tasse a carico di investimenti che hanno rendimenti nulli o negativi. La limitazione di cui al DM 15 gennaio 2015 si applica infatti solo alle commissioni bancarie;
• Tutti i BTP quotati sul MOT alla data del 23.10.2015 mostrano un rendimento lordo positivo, ma tutti quelli con scadenza più vicina rispetto al dicembre 2019 mostrano un “rendimento annuo netto effettivo” negativo, salvo naturalmente la possibilità di utilizzare la relativa minusvalenza a compensazione di futuri guadagni secondo le norme di legge;
• L’incidenza del prelievo effettivo si riduce con la distanza dalla scadenza del titolo ed è inferiore al 25% del rendimento lordo del titolo solamente per i titoli con scadenza marzo 2032 e settembre 2046;
• L’acquisto dei titoli sul mercato secondario determina rendimenti ulteriormente peggiori per i piccoli risparmiatori poiché nel regime del risparmio amministrato non c’è la possibilità di compensare i guadagni derivanti dalle cedole (gli interessi) con l’eventuale perdita in conto capitale che si produce tramite l’acquisto di titoli quotati al di sopra del valore di rimborso.
Il costo per l’Italia dell’emergenza migranti

Il costo per l’Italia dell’emergenza migranti

di Gianni Zorzi – Panorama

Alcune stime recenti hanno tentato di catturare il costo complessivo a carico dei contribuenti della gestione degli sbarchi di profughi e clandestini in Italia. In assenza di una contabilità precisa, le cifre che emergono sotto diverse ipotesi sono elevate ma del tutto realistiche. Uno studio di ImpresaLavoro ha cercato un approccio analitico provando a stimare, voce per voce, quanto costa l’emergenza migranti in Italia.
Primo dato: la scarsissima trasparenza. Nonostante un fenomeno che coinvolge 300mila persone sbarcate in due anni e quasi 100mila migranti ospitati nei nostri centri di accoglienza, non è stata ancora istituita una contabilità analitica dei costi sostenuti. In parte tale aspetto si deve alla distribuzione degli oneri tra i più diversi centri di costo, a livello locale oppure nazionale, che coinvolgono anche dipartimenti diversi come quello della sanità o della difesa. Per il resto, la mancanza di dati puntuali può giustificarsi nella condizione di emergenza, anche se tale ormai perdura da almeno due anni: gli arrivi dei migranti sulle coste italiane, secondo i dati del Ministero, sono passati dai 13mila del 2012 ai 43mila del 2013, per arrivare agli oltre 170mila del 2014. Al termine del 2015 il numero di sbarchi dovrebbe confermarsi di poco superiore a quello dell’anno scorso, e comunque difficilmente supererà la cifra di 175mila. L’assunto è confermato dai numeri più aggiornati forniti dal sottosegretario all’Interno Domenico Manzione in una recente audizione: i 137mila sbarchi registrati sinora corrispondono a quanto rilevato per l’anno scorso nello stesso periodo.
La più importante voce di costo è quella dell’accoglienza in senso stretto, quindi il vitto e alloggio dei soggetti per cui si è provveduto all’identificazione e all’inserimento nelle liste di coloro che hanno richiesto asilo: un importo di circa 643 milioni per l’anno scorso, destinato a diventare di quasi 1,3 miliardi a fine 2015. Questi costi sono in notevole aumento poiché un numero di sbarchi elevato come quello registrato negli ultimi due anni conduce ad un maggiore affollamento delle strutture. Le procedure per l’accoglienza dei migranti non sono così rapide da controbilanciare l’afflusso più corposo di profughi, e le presenze nei centri tendono di conseguenza ad aumentare. L’ondata del 2014 ha quasi quadruplicato, tra gennaio a dicembre, le presenze dei migranti che sono passate da 17mila a oltre 65mila. Considerando anche i dati ministeriali diffusi a più riprese nel 2015, stimiamo in oltre 109mila presenze il dato tendenziale prevedibile per dicembre e in circa 87mila quello medio dell’anno. Tali numeri si riferiscono a tutto il sistema delle strutture di accoglienza: sia quelle governative come la rete Sprar e i Cara, sia quelle in convenzione come i Cas. Per il 2016 è ancora molto presto azzardare delle previsioni ma se il trend non si inverte e gli afflussi proseguono agli stessi ritmi, c’è il rischio che la media delle presenze superi quota 120mila, con un possibile aggravio di spesa pari a circa 480 milioni di euro.
Abbiamo stimato infatti che il costo medio di questi centri sia pari a 40 euro al giorno pro capite, considerando un importo leggermente superiore a quello solitamente comunicata dal Ministero (35 euro) ma vicino al riferimento preso da altre stime come quella della Fondazione Leone Moressa per l’accoglienza in Veneto, e che appare comunque prudenziale tenendo presente una serie di aspetti. Bisogna ricordare ad esempio che i costi delle strutture alberghiere o altre strutture private e convenzionate esterne al sistema pubblico sono per forza di cose superiori, ed è proprio a causa della saturazione della rete Sprar che su queste strutture si concentra la gestione delle emergenze. Inoltre, il costo sanitario e amministrativo per i minori non accompagnati risulta sensibilmente più elevato. Ma ci sono anche gli aspetti riguardanti i possibili appalti gonfiati sotto inchiesta, che potrebbero aver contribuito ad un conto ancor più salato a danno dei contribuenti.
Di per sé gli sbarchi generano anche dei costi per la primissima assistenza (trasporti, noleggio strutture presso i porti, acquisto di coperte, indumenti, scarpe etc.) che potrebbero essere stimati in 168 euro a sbarco (circa 29 milioni all’anno in totale), sulla base dei dati forniti ad esempio dalla Prefettura di Siracusa per la gestione dell’emergenza 2014.

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A questi costi occorre aggiungere le spese sanitarie. Il conto preciso, in questo caso, diventa ancor più difficile. Secondo lo studio di ImpresaLavoro, il costo complessivo per il 2015 risulterebbe pari a quasi 290 milioni di euro, in aumento di circa 20 milioni rispetto al 2014 e con un potenziale aggravio di altri 12 milioni per il 2016. Tali costi non riguardano solamente gli ospiti dei centri di accoglienza provenienti dagli sbarchi (che stimiamo incidere quest’anno per non più di 35 milioni di euro), ma anche tutte le persone entrate clandestinamente in Italia e che stanno per ragioni diverse sul territorio del nostro stato. Non è semplice catturare i numeri di tale fenomeno, per il quale esistono ipotesi diverse: l’OCSE li ha stimati nel 2010 per una cifra che poteva arrivare sino a 750mila, la Caritas si spingeva fino ad 1 milione. Come riferimento per lo studio, si è scelta la stima di 651mila operata dalla Commissione Europea per il progetto “CLANDESTINO”. Il costo pro capite dei trattamenti sanitari a loro favore è altresì caratterizzato dall’assenza di sistemicità nella sua rilevazione. La nostra stima si è allineata ai report locali più autorevoli, seppur datati, che fanno propendere per un costo medio di 391 euro annui (Azienda Sanitaria di Milano), e comunque quantificabile nello 0,3% della spesa sanitaria complessiva (Agenzia Regionale Sanitaria Marche).
Oltre a questo si devono conteggiare le spese di giustizia. I richiedenti asilo sono una piccola parte del totale dei soggetti che sbarcano nel nostro paese. Tuttavia le richieste di asilo, al pari di qualsiasi atto amministrativo, richiedono un’istruttoria da parte delle autorità competenti e, soprattutto, possono essere impugnate. Secondo i dati riportati da Domenico Manzione, le domande già esaminate nel 2015 sono state 61mila, con un incremento del 30% rispetto all’anno scorso. È ipotizzabile, sulla scorta delle statistiche fornite per il passato dalla Commissione Nazionale per il diritto di asilo, che a fine anno gli esiti di diniego superino le 35mila unità, con la concreta possibilità di 23mila ricorsi attivati dai migranti. Ciò condurrebbe secondo le nostre stime a un ulteriore impatto di 59 milioni di euro, dovuti per le spese amministrative relative alle singole pratiche nonché quelli per il gratuito patrocinio.
Vi sono poi tutta una serie di costi correlati che ImpresaLavoro ha raccolto in una voce residuale di un importo pari al 5% dei costi generali per l’accoglienza, bassato sul valore di compartecipazione che i comuni attraverso l’Anci hanno stabilito per la messa in funzione del sistema Sprar/Cara. In questa voce s’intendono compresi costi come quelli sostenuti dagli enti locali per la sistemazione delle aree adibite all’accoglienza, la gestione degli arrivi dei profughi nei comuni, i costi di sicurezza, il costo della popolazione carceraria immigrata irregolare e quello dei relativi rimpatri. Nei primi otto mesi dell’anno sono stati allontanati dall’Italia quasi 10mila immigrati, respinti alla frontiera o espulsi e che si sono organizzati oltre mille voli charter. A questi vanno aggiunti i 486 arresti di scafisti. Un lavoro di questo tipo non interessa solo le coste siciliane ma anche i confini a nord con il fenomeno dei passeur e più in generale i molti controlli tra gli stranieri che si devono fare sul territorio.
Ad essi devono ancora sommarsi i costi militari, determinabili in almeno 400 milioni, che comprendono i costi per il pattugliamento delle coste, il rafforzamento delle frontiere, le missioni navali e aeree, i contributi italiani alle missioni Frontex e EuroForNavMed.
Il conto complessivo per il 2015 dei costi dell’emergenza migranti dovrebbe arrivare dunque, secondo lo studio di ImpresaLavoro, a 2,1 miliardi di euro, in aumento rispetto agli 1,4 miliardi spesi nel 2014. Per il 2016 invece, ipotizzando un numero di sbarchi paragonabile a quello registrato negli ultimi due anni, il costo potrebbe superare la cifra di 2,6 miliardi. La stima è per difetto: tutte le voci di costo sono state quantificate con cautela e nel complesso, del resto, non raggiungono la quota massima dello 0,2% del Pil (3,1 miliardi) comparsa nella nota di aggiornamento del Def 2015 pubblicata il mese scorso. Davanti a questo scenario, comunque, è chiaro che le somme promesse dall’Europa all’Italia per l’emergenza (circa 73 milioni di euro all’anno fino al 2020), non sembrano poi così elevate.

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Caos pensioni, ma per i giovani sarà peggio

Caos pensioni, ma per i giovani sarà peggio

Panorama 14 maggio 2015 (1)  Panorama 14 maggio 2015 (2)

 

 

 

 

Gianni Zorzi* – Panorama

La recente sentenza della Corte costituzionale che ha bocciato lo stop all’adeguamento al costo della vita introdotto dal decreto Salva Italia del 2011 ha riacceso il dibattito sul tema della spesa pensionistica, e in particolare sulla sua sostenibilità. Nel nostro Paese, infatti, la spesa per le pensioni, anziché diminuire, è aumentata, e l’Italia è ora al primo posto tra i Paesi Ocse sia se si considera l’incidenza delle pensioni sulla spesa pubblica complessiva (il 31 ,9 per cento, quasi il doppio della media Ocse di 17,6) , sia in rappono al Pil (14,9 per cento, oltre una volta e mezza la media Ocse di 9,5). Nel 2050, inoltre, salirà al 15,7 per cento del Pil e il dato potrebbe peggiorare se vi saranno ancora ritardi nella crescita economica.

La situazione peggiore è quella dei giovani, che si ritrovano minori probabilità di garantirsi un reddito elevato e stabile, e hanno tuttora anche il problema della mobilità nell’Unione europea: se lavorano in Paesi diversi, ai fini pensionistici ancora non hanno strumenti agili di armonizzazione diversi da quelli farraginosi determinati dagli accordi bilaterali ora in essere. Le discontinuità nei rapporti di lavoro e nelle carriere lavorative, comunque, possono costituire il problema principale per i nostri giovani, e del resto si riverberano già oggi in un più basso livello di reddito e di patrimonio, ancor prima che di risparmio pensionistico. I dati pubblicati da Banca d’ltalia mostrano che gli under 35, un tempo depositari di oltre il 17 per cento della ricchezza finanziaria delle nostre famiglie (dati 1991), ora ne detengono solo il 4; nello stesso periodo la ricchezza concentrata tra gli over 65 è invece aumentata dal 21 al 34 per cento.

Se i giovani sono meno ricchi e hanno un reddito più incerto e basso, non stupisce che il tasso di adesione alla previdenza complementare in Italia sia molto più elevato per i soggetti vicini alla pensione: ai fondi e ai piani pensionistici è iscritto più di un terzo dei lavoratori over 55, mentre non vi partecipa nemmeno un quarto degli under 45. Le agevolazioni fiscali previste per le forme complementari, del resto, si fondano soprattutto sulla deducibilità ai fini Irpef dei contributi volontari entro il limite dei vecchi 10 milioni di lire annui. Tale sistema di incentivi, che comunque pesa sulla fiscalità generale per oltre 3,5 miliardi di euro all’anno, risulta più vantaggioso, paradossalmente, per chi della previdenza complementare avrebbe oggi meno bisogno, ossia i più ricchi e i più anziani dal punto di vista lavorativo (che sfruttano la deduzione ad aliquote Irpef più alte, e sono i più prossimi all’età pensionabile). Ci si chiede dunque se questo rneccanismo di deducibilità dei contributi volontari sia ade­ guato a incentivare e rendere conveniente l’adesione dei più giovani alla previdenza complementare, oppure se sia da ripensare, ed eventualmente sostituire in favore di altri interventi più utili alla produttività e alla crescita, come quello di un alleggerimento del cuneo fiscale.

Una ricerca del Centro studi Impresalavoro ha inoltre stimato che il recente aumento delle tasse sui guadagni della previdenza integrativa e sulla rivalutazione del Tfr deprimerà le «pensioni di scorta» di chi si affaccia oggi al mondo del lavoro di un ulteriore importo compreso tra il 5 e l’8,6 per cento, mentre la liquidazione del Tfr subirà un taglio aggiuntivo a fine carriera compreso tra il 3,6 e il 6,2 per cento. Non solo, dunque, i nostri giovani si ritrovano già oggi un carico generazionale pesante e un debito pensionistico elevato sulle loro spalle, ma il sistema fiscale continua a penalizzarli, e sembra pure che «le buone notizie» ­ quando arrivano ­ non li riguardino.

* docente di Finanza dell’impresa e dei mercati, consulente per l’area finanza di ImpresaLavoro (ha collaborato il professor Giuseppe Pennisi)

Una bomba pronta a scoppiare – Massimo Blasoni*

La “bomba previdenziale” che rischia di esplodere nei prossimi anni non è figlia soltanto della sentenza della Corte Costituzionale entrata a gamba tesa sulla “riforma Fornero”. Il nostro sistema pensionistico sconta infatti due grandi crisi, diverse e complementari, che imbrigliano l’Italia: quella demografica e quella economica. Siamo un Paese sempre più anziano e con una popolazione attiva in costante diminuzione, anche perché mancano serie politiche di sostegno alla natalità e alla famiglia (per le quali investiamo molto meno dei nostri partner europei: solo l’1,4 del Pil). Poi c’è la perdurante crisi economica. Senza un deciso cambio di rotta l’incidenza sul Pil della nostra spesa pensionistica è destinata a crescere: il numeratore della spesa per pensioni aumenterà lentamente ma inesorabilmente, mentre il denominatore del Pil rischia di vivere una nuova stagione di bassa crescita e di stagnazione. Così il sistema non è sostenibile. O si attuano riforme radicali in grado di liberare la crescita economica oppure servirà una nuova, pesante, riforma della previdenza.

* presidente del centro studi ImpresaLavoro

Mutui a zero: ecco i risparmi

Mutui a zero: ecco i risparmi

Tobia De Stefano – Libero

Alzi la mano chi nell’autunno del 2008, con l’Euribor a tre mesi che viaggiava al 5,35%, avrebbe scommesso anche un solo euro su un futuro con il tasso interbancario sotto lo zero. Bene, ci siamo arrivati. Ieri, per la prima volta da quando nel 1998 Bloomberg ha iniziato i suoi monitoraggi, la scadenza trimestrale ha varcato il territorio negativo (­0,001%). E adesso cosa succede? C’è un effetto immediato per chi ha sottoscritto un mutuo variabile, ma i guadagni potrebbero essere ancora più elevati in futuro con gli analisti che vedono i migliori prodotti costare non più dell’1,30%. E i fissi che li seguono a ruota. In teoria per i prestiti personali non c’è nessun automatismo, ma alla fine le banche dovrebbero adeguare le loro politiche commerciali alla realtà di un costo del denaro sulla soglia del territorio negativo.

Mutui variabili

La rata si calcola così: ogni mese si somma lo spread (quanto la banca decide di guadagnarci) al tasso di indicizzazione che nella grande maggioranza dei casi è l’Euribor a tre mesi o in alternativa quello a un mese (pochi sono i semestrali). Va da sé che se il nostro tasso è negativo, la somma si trasforma in una sottrazione e il gioco è fatto. Ma occhio, perché le banche si stanno attrezzando. «Diversi istituti ­ spiega Roberto Anedda, direttore Marketing di MutuiOnline.it e PrestitiOnline.it stanno inserendo delle clausola nei nuovi contratti dove specificano che il tasso applicato non potrà comunque andare al di sotto dello spread. Mentre per i prestiti in essere sono da escludere sorprese». E il futuro cosa ci riserverà? «L’Euribor resterà stabile sui valori vicino allo zero per un bel po’. Oggi le migliori offerte oscillano intorno all’1,50­-1,70%, ma da qui a fine anno possiamo aspettarci altri aggiustamenti fino all’1,30%». Con un ventennale da 150 mila euro si risparmierebbero poco più di 100 euro all’anno.

Tasso fisso

Ma forse oggi il vero affare si trova altrove. Perché se è vero che l’Euribor non tocca i mutui a tasso fisso è altrettanto vero che il tasso di riferimento dei fissi, l’Eurirs, è comunque influenzato da una prospettiva di costo del denaro vicino allo zero. «In questo momento ­ continua Anedda ­ con gli Eurirs così bassi (0,70% il 20 anni e 0,74% il 30 anni ndr) si trovano le migliori offerte intorno al 2,50%. Un costo dawero basso (appena l’1% sopra i migliori variabili ndr) che il cliente si assicura per tutta la durata del mutuo. Magari non succederà nel brevissimo, ma non bisogna dimenticare che nell’arco di qualche anno è ipotizzabile prevedere una risalita dei tassi che non possono restare in eterno vicino allo zero».

Prestiti personali

Discorso a parte per i prestiti personali, dove i costi complessivi li decide la banca e variano a seconda della finalità. Ma il prezzo del denaro ai minimi e l’Euribor sotto lo zero hanno il loro peso. «Sicuramente ­ evidenzia Anedda ­ non è un fenomeno misurabile, ma la politica commerciale degli istituti potrebbe essere influenzata dall’Euribor a 3 mesi per la prima volta sottozero». Oggi, i migliori tassi sull’auto sono di poco superiori al 6%, quelli per la ristrutturazione restano un po’ più bassi, intorno al 5,70%, mentre le richieste di liquidità, considerata più rischiosa, oscillano tra l’8,60% e il 9%. Domani potrebbero calare.

Prestiti alle imprese

Se fino a oggi poco hanno potuto le operazioni dirette della Bce, allora è inutile farsi illusioni per l’Euribor sotto lo zero. «L’Euribor ­- ricorda Gianni Zorzi, consulente per l’area finanza di ImpresaLavoro -­ ha un effetto psicologico, ma non credo cambierà molto per il credito alle imprese. La componente più rilevante resta lo spread e su quello sono le banche che devono agire. In questo senso la Bce ha fatto il suo, ma la situazione del credito non è migliorata». Forse potrebbe servire la bad bank di cui ha parlato Padoan che libererebbe gli istituti delle zavorre del passato.

Tasse record sulla casa – Panorama

Tasse record sulla casa – Panorama

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Gianni Zorzi* – Panorama

Il peso delle tasse sul mattone ha sfondato la quota record di 50 miliardi di euro, di cui 38 a carico delle famiglie. È quanto emerge da un’indagine condotta dal centro studi ImpresaLavoro, secondo il quale il totale delle imposte gravanti a vario titolo sugli immobili in Italia (a carico sia dei soggetti privati sia di professionisti e imprese) è cresciuto rapidamente in questi ultimi quattro anni, passando dai 38 miliardi del 2011 agli oltre 50 del 2014. Sulle sole famiglie, il rincaro complessivo è stato nel periodo di 7,2 miliardi (da 31 a 38,2), con una crescente incidenza delle imposte di tipo patrimoniale (da 16,1 a 27,5).

L’aumento è dovuto in particolare a tre ragioni: l’introduzione anticipata dell’Imu a partire dal 2012 in sostituzione dell’Ici e di una parte dell’Irpef prelevata sugli immobili; la sostituzione della Tarsu con la Tares, divenuta successivamente Tari, con un ricarico finale complessivo pari a circa due miliardi annui; l’introduzione della Tasi (2014), per un gettito complessivo di 4,6 miliardi, destinato a sostituirsi alla mancata riscossione dell’Imu sulle abitazioni principali, sostanzialmente abolita dal 2013. Risulta quindi evidente che con l’introduzione anticipata dell’Imu la composizione stessa del prelievo fiscale sugli immobili si sia notevolmente modificata, con una quota ben più elevata (a partire dal 2012) della componente di tipo patrimoniale, non collegata quindi alla produzione di reddito immobiliare ma esclusivamente dalla proprietà o dal possesso delle abitazioni.

Secondo i rapporti dell’Agenzia delle Entrate, che citano espressamente i dati Ocse,l’Italia sarebbe passata, su un campione di 29 Paesi, dal quindicesimo al nono posto tra il 2011 e il 2012 per livello complessivo di tassazione sugli immobili, con un’incidenza sul Pil cresciuta dall’1,7 al 2,5 per cento. Il panorama descritto dai dati internazionali è comunque molto variegato: si va da uno 0,3 per cento del Pil in Estonia al 4,2 del Regno Unito (sulla base di dati che includono anche il prelievo sulla ricchezza netta e le transazioni finanziarie).

Se si considera la sola componente riferita alla tassa di proprietà sugli immobili (per l’Italia quindi l’Imu), e cioè l’unico elemento di tipo esclusivamente immobiliare e confrontabile in via omogenea con gli altri Paesi, dal 2011 al 2013 l’Italia ha messo a segno un sostanziale raddoppio in termini nominali (più 107,4 per cento), l’aumento nettamente più elevato tra i paesi Ocse: il secondo Paese per incremento della tassa di proprietà sugli immobili tra il 2011 e il 2013 è l’Ungheria, con il più 82,4 per cento in termini nominali. L’Italia ora risulta sesta nel campione europeo per la pressione fiscale sugli immobili in rapporto al Pil dopo Regno Unito, Francia, Islanda, Danimarca e Belgio e prima della Spagna e di altri 19 Paesi tra cui la Germania.

C’è poi una anomalia che riguarda la competenza delle imposte sugli immobili. L’Italia ha scelto negli ultimi anni di introdurre per la prima volta una componente accentrata nella tassa sulla proprietà della casa. La tendenza è inversa a quella di altri Paesi, come la Francia, che hanno operato una forte decentralizzazione del prelievo a favore degli enti locali, e con il dato di 25 su 34 Paesi Ocse che prevedono una (sostanziale) esclusiva pertinenza locale di questo tipo di imposte, supportati da fondate ragioni di efficienza.

L’aumento delle tasse complessive sugli immobili si è accompagnato al calo dei prezzi delle case, producendo quindi un aumento ancor più marcato in termini di incidenza delle imposte sul valore delle proprietà oggetto di tassazione. Il valore complessivo degli immobili di proprietà delle famiglie italiane era pari a circa 5.500 miliardi nel 2013, in calo di oltre il 7 per cento rispetto al picco del 2011, quando si sfioravano i 5.900 miliardi. Ipotizzando che nel 2014 i prezzi siano ulteriormente scesi, il valore complessivo del patrimonio immobiliare delle nostre famiglie si ridurrebbe quindi, secondo la nostra stima, a non più di 5.300 miliardi. Su questa discesa dei valori una parte di responsabilità può attribuirsi senz’altro al fisco. Da un lato, con le dovute cautele può essere stimata in una forbice tra il 5 e il 10 per cento la diminuzione dei prezzi dovuta al livello delle imposte in senso proprio. Dall’altro, l’incertezza e instabilità delle regole stesse, che secondo diversi osservatori potrebbe essere alla base anche di un minore interesse degli investitori istituzionali, specialmente esteri.

Nonostante questo, il sistema risulta ancora oggi destinato a ulteriori modifiche, legate per un verso ad una nuova riforma ipotizzata per le tasse locali, apparentemente non stabilizzatesi nella mente del legislatore, e per l’altro verso alla più volte annunciata riforma delle rendite catastali, destinata a modificare la base imponibile della gran parte delle 11 principali imposte che colpiscono proprietari e possessori di immobili in Italia. Gli effetti della futura riforma delle rendite, ancora non delineata nelle sue caratteristiche essenziali, dovrebbero essere dunque valutati accuratamente al fine di prevenire conseguenze indesiderate di tipo sperequativo, nonché di un ulteriore possibile incremento sostanziale e generalizzato del gettito connesso.

*docente di Finanza dell’impresa e dei mercati e consulente per l’area Finanza di “ImpresaLavoro”

Da bene rifugio a bene incubo – Massimo Blasoni*

Questa modalità di tassazione è particolarmente odiosa perché non consente alcuna scelta al cittadino: la casa è infatti un bene di cui non è possibile disfarsi in tempi rapidi, che rappresenta un investimento di lungo periodo e la cui tassazione non dovrebbe quindi essere soggetta a cambiamenti così radicali in tempi così stretti. Con questa politica il bene rifugio per eccellenza degli italiani è stato via via trasformato in un bene incubo. A tal punto che oggi, per chi ha un reddito fisso, è diventata una vera iattura ricevere in eredità un appartamento che non si riesce né a vendere né ad affittare: non ti resta che pagarci sopra le tasse, ed essere trattato dal fisco come un benestante.

* presidente del centro studi ImpresaLavoro