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Perché il fondo salva imprese non è (forse) una Nuova Gepi

Perché il fondo salva imprese non è (forse) una Nuova Gepi

Giuseppe Pennisi – Formiche

Il 25 maggio sono stati distribuiti due documenti, del tutto distinti e distanti, ma tra i quali c’è un messo probabilmente non notato dagli autori. Il primo è un’analisi del piccolo ma dinamico Centro Studi ImpresaLavoro sulla dinamica della spesa pubblica negli anni delle varie e numerose spending review. Il secondo è il decreto legge sulla nuova società a partecipazione statale variamente chiamata “turnaround” (la svolta) o “salva aziende” e spesso considerata come una nuova Gepi.

I due testi si prestano a una lettura parallela o simultanea in quanto il primo (quello di ImpresaLavoro) fornisce la cornice in cui situare il secondo (la nuova società a partecipazione statale).

L’analisi di ImpresaLavoro sottolinea che, durante la crisi degli ultimi sette anni, la spesa pubblica in Italia è cresciuta in rapporto al Pil dal 47,8% del 2008 al 51,1% del 2014: un balzo in avanti di 3,3 punti percentuali superiore sia alla media dei Paesi dell’Unione Europea UE (+1,6%) che a quelli della sola Area Euro (+2,6%).

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Opinione pubblica ed egualitarismo nell’età di Facebook

Opinione pubblica ed egualitarismo nell’età di Facebook

Carlo Lottieri

Un dato fondamentale del nostro tempo è la crisi dell’editoria periodica per come la conoscevamo. Si tratta di una crisi profonda che riguarda quasi tutti i quotidiani (dopo che i settimanali sono quasi scomparsi da anni) e che va ben al di là dei pur massicci licenziamenti di redattori e del crollo verticale delle vendite. Il cambiamento del costume e il fatto che si vedano sempre meno quotidiani spuntare dai tasche dei soprabiti sono accompagnati da una serie di conseguenze molto importanti.
I motivi della crisi sono numerosi, ma certamente uno dei principali è l’imporsi di internet (dove è possibile reperire, gratuitamente, una gran massa di informazioni e commenti), insieme al successo dei social network. La trasformazione è profonda e ha ricadute rilevanti sull’economia, sulla vita sociale, sulla politica. Se il giornalismo è stata una delle attività cruciali del ventesimo secolo (veniva dalla carta stampata, ad esempio, Benito Mussolini e ha ruotato a lungo attorno al giornalismo molta parte della vita politica), oggi questo universo sembra progressivamente sprofondare, insieme alla stessa idea degli opinion leader.
Con la disfatta del giornalismo sembra infatti ridursi sempre di più lo spazio di chi storicamente s’incaricava di offrire un punto di vista “ragionato” e aiutava, in tal modo, l’emergere di un’opinione pubblica sufficientemente consapevole. Per decenni “The Times”, “Le Figaro” o il “Corriere della Sera” hanno permesso ogni mattina di avere un’interpretazione dei fatti e della società con cui confrontarsi. L’idea era che l’analisi giornalistica e la riflessione sviluppata nei fondi e nei commenti aiutassero ad affrontare i problemi con razionalità e spirito critico.
Nell’età della rete, però, quanto scrivono gli opinionisti di larga fama sembra interessare sempre meno. Se il giornalismo si basava sull’autorevolezza di alcune testate e di taluni autori, nell’epoca della rete sembra che viga l’eguale dignità dei differenti punti di vista. Ognuno – in Twitter, in Facebook o altrove – dice la propria e al più cerca le opinioni degli amici, per confrontarsi e dialogare. Tutto progressivamente si appiattisce e delinea alla fine uno scenario in cui possono imporsi senza problemi le teorie economiche o scientifiche meno difendibili.
In fondo, il vecchio giornalismo nasceva dalla modestia di una società borghese colta che non si riteneva in grado di dire la propria su tutto, non pretendeva di sapere ogni cosa anche senza avere visto niente, confidava nella qualità di alcuni quotidiani e professionisti. Per citare solo un caso, i “montanelliani” erano persone che in primo luogo conoscevano i propri limiti e poi, in seconda battuta, apprezzavano l’arguzia e l’intelligenza dello scrittore toscano.
Il protagonismo generalizzato dei nostri tempi sembra “liberante” e in parte lo è, ma comporta pure problemi. È certamente positivo nei social network si abbiano confronti e discussioni, e che sia possibile per chiunque esprimere la propria opinione, ma se questo toglie tempo e spazio ad analisi non superficiali è facile che la conseguenza principale sia il venir meno di ogni ostacolo di fronte a quanti vogliono affermare demagogia e complottismo.
Durante il secolo ormai alle spalle spesso i giornali sono stati confezionati male, utilizzati a fini politici, piegati agli interessi di questo o quel gruppo. La barriera che si poneva dinanzi a quanti volevano esprimersi e comunicare ha avuto più volte effetti deprecabili. Era però in qualche modo positiva l’idea (più un ideale che un fatto, ma un ideale comunque non banale…) che il pulpito della comunicazione fosse almeno in parte esclusivo, riservato a pochi, da utilizzarsi con grande cura.
Non ha alcun senso ritenere che siamo sempre e in ogni occasione eguali, perché non posso pensare che quanto so in tema di cellule staminali abbia lo stesso valore di quanto conosce chi questi temi li studia da una vita. Non basta dare un microfono in mano a chiunque perché si possa assistere al costituirsi di un’opinione pubblica improntata a ragionevolezza e buon senso.
Non c’è alcun dubbio che in passato molti opinion leader siano stati poco onesti e inadeguati. È difficile pensare che la totale assenza di opinion leader sia però la soluzione al problema.
Crisi: nel periodo 2008-2014 spesa pubblica è aumentata di 45,5 miliardi (+3,3% del Pil)

Crisi: nel periodo 2008-2014 spesa pubblica è aumentata di 45,5 miliardi (+3,3% del Pil)

NOTA

Durante la crisi la spesa pubblica in Italia è cresciuta in rapporto al Pil dal 47,8% del 2008 al 51,1% del 2014: un balzo in avanti di 3,3 punti percentuali superiore sia alla media dei paesi dell’Unione Europea (+1,6%) che a quelli della sola Area Euro (+2,6%). Lo rivela una ricerca del Centro studi ImpresaLavoro. Il nostro Paese non è l’unico ad aver aumentato la spesa pubblica in questo periodo anche se tra le grandi economie continentali solo la Francia fa peggio di noi e vede crescere la sua spesa pubblica del 4,2%. Meglio di noi vanno sia la Spagna (+2,5%) sia la Germania, sostanzialmente stabile con un +0,4%. Chi taglia in maniera abbastanza decisa il peso dello Stato sull’economia è invece il Regno Unito che vede la sua spesa pubblica scendere di 2,2 punti di Pil.

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In valori assoluti questo significa che la nostra spesa pubblica è passata dai 780 miliardi di euro del 2008 agli 826 miliardi del 2014, un balzo in avanti di 45,5 miliardi. Ovviamente questa valutazione rischia di essere fuorviante perché non tiene in debito conto l’andamento dell’inflazione e quello del Pil, risultando quindi un valore meramente indicativo.

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Molto più interessante, invece, è capire quali settori abbiano contributo a questi scostamenti perché, come è facilmente intuibile, negli anni della crisi la spesa pubblica si è sensibilmente modificata: vi sono settori che hanno subito tagli più o meno pesanti ed altri che, al contrario, non sono riusciti a contenere dinamiche di crescita. Questi dati sono stati resi recentemente disponibili per tutti i Paesi europei con un aggiornamento fino al 2013. L’analisi di ImpresaLavoro prende in esame alcune funzioni quali: Difesa (spese militari), Cultura, Istruzione, Protezione Sociale.

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Rispetto al 2008 in proporzione al proprio Pil l’Italia spende lo 0,1% in meno per spese militari, passando dall’1,3% all’1,2% del proprio prodotto interno lordo. Tutta l’Area Euro ha subito in questi anni una riduzione di questa tipologia di spesa: tra i grandi paesi solo Francia e Germania hanno visto aumentare l’incidenza della spesa per la funzione “Difesa” sul Pil dello 0,1%. Il taglio più elevato arriva dal Regno Unito che spendeva comunque per questa funzione una cifra nettamente superiore a quella italiana (2,5% del Pil contro 1,3%).

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La spesa per l’ordine pubblico e la sicurezza passa in Italia dall’1,8% al 2% del Pil, facendo segnare un incremento più elevato dei Paesi dell’area euro e di tutte le grandi economie continentali. Anche per questa funzione il taglio più consistente arriva dal Regno Unito che, nonostante un calo dello 0,3% dell’incidenza sul Pil per questa funzione, continua a spendere comunque il 2,2%, più di Italia, Francia, Germania e Spagna.

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La spesa per la funzione ambiente rimane stabile, pesando sul nostro Pil per lo 0,9%, in linea con quanto avviene nell’Eurozona. Diminuisce la spesa per questa funzione in Regno Unito e Spagna, mentre aumenta in Germania e Francia.

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La spesa per la funzione “Salute” cresce in Italia durante la crisi dello 0,2% del Pil, passando dal 7% al 7,2%. L’impegno degli Stati per questa funzione è in aumento in tutta l’eurozona (+0,5%),con l’eccezione della Spagna che non aumenta l’incidenza sul Prodotto Interno Lordo della sanità pubblica. È interessante notare come il Regno Unito, pur impegnato in questi anni in un taglio della spesa pubblica di pressoché tutte le funzioni, aumenti quanto spende per la sanità statale: l’incidenza sul Pil passa dal 7,2 al 7,6%.

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Durante la crisi l’Italia ha tagliato la sua spesa per la cultura passando dallo 0,8% allo 0,7% del Pil e oggi è tra i grandi paesi europei quella che spende meno per questa funzione così come tracciata da Eurostat. Nonostante i tagli effettuati in questo periodo spendono più di noi sia la Spagna (1,1%) che il Regno Unito (0,8%). Stabile la spesa per questa funzione in Germania (0,8%) mentre cresce dall’1,3% all’1,5% del Pil in Francia.

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Per rendere meglio l’idea spendiamo oggi in valore assoluto 1,8 miliardi in meno di quanto spendevamo nel 2008, mentre la Germania spende 3,2 miliardi in più.

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La crisi ha portato con sé un taglio della spesa per istruzione che passa dal 4,4 al 4,1% del nostro Pil. Nello stesso periodo la Germania operava la scelta inversa, aumentandola dell0 0,4% del Pil e superandoci per incidenza sul Prodotto Interno Lordo del settore relativo all’istruzione. Oggi in Europa spende meno di noi solo la Spagna, mentre fanno meglio sia il Regno Unito (5,5% del Pil nonostante un taglio dello 0,7%) che Francia (5,5%), Germania (4,3%) e la media dei paesi dell’area euro (4,8%).

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Anche qui i valori assoluti spiegano in maniera molto evidente quello che è accaduto: spendiamo per istruzione, oggi, meno di quanto spendevamo nel 2008: 65,5 miliardi contri i 71,2 di allora. Questo significa che mentre noi tagliavamo la spesa per istruzione di 5,7 miliardi, la Germania la aumentava di 20,5.

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Come era prevedibile, la crisi ha portato con sé un aumento sensibile della spesa dedicata alla Protezione Sociale: questa è passata in Italia dal 18,1% al 21% del nostro Pil con una crescita di 2,9 punti percentuali. Un aumento superiore a quanto avvenuto nell’eurozona (+2,2%) anche se in linea con quello della Francia (+2,7%) e inferiore a quello della Spagna (+3,8%). La Germania, la meno colpita dalla crisi tra le grandi economie, ha contenuto la crescita della sua spesa sociale al solo 0,2% del Pil. Tra i grandi paesi europei, oggi, solo la Francia spende più di noi per questa funzione.
Le imposte che soffocano la ripresa

Le imposte che soffocano la ripresa

Corrado Sforza Fogliani, presidente Centro studi di Confedilizia – Il Giornale

Il centro studi ImpresaLavoro di Udine, presieduto da Massimo Blasoni, ha presentato i risultati di un’indagine sulla tassazione in Europa e l’indice della libertà fiscale che questa ricerca internazionale ha permesso di elaborare. Grazie al contributo di docenti universitari e ricercatori di dieci Paesi (Bulgaria, Francia, Germania, Italia, Lituania, Regno Unito, Repubblica Ceca, Romania, Svezia e Svizzera), il centro studi ha esaminato il sistema tributario in Europa e la classifica che ne è risultata ha collocato al primo posto la Svizzera e agli ultimi due la Francia e l’ltalia.

La graduatoria è stata il frutto della combinazione di quattro fattori: il prelievo tributario complessivo; l’imposizione fiscale descritta dall’Itr in relazione al reddito tassabile da lavoro, capitale e consumi; la semplicità (o complessità) delle procedure burocratiche necessarie all’adempimento degli obblighi tributari;la localizzazione, la responsabilizzazione e la concorrenza dei livelli territoriali del prelievo. Il quadro finale, secondo Blasoni, «descrive un’Europa in cui il fisco appare non asfissiante nelle nuove democrazie post­comuniste e nella piccola Svizzera, mentre i maggiori Paesi (Italia e Francia in primis) derivano la loro difficoltà a crescere soprattutto da una tassazione davvero troppo elevata, conseguente alla sproporzione esistente tra settore pubblico e privato».

La ricerca è disponibile a questi indirizzi, digitando la password «indicefiscale»:

http://impresalavoro.org/indice­liberta­fiscale­2015/
http://irnpresalavoro.org/ranking­liberta-fiscale­in­europa/
http://impresalavoro.org/indice­liberta­fiscale­2015­infografiche/

La folle guerra dell’Europa ai paradisi fiscali

La folle guerra dell’Europa ai paradisi fiscali

Carlo Lottieri

Da qualche tempo una commissione appositamente costituita da parte del Parlamento europeo sta conducendo indagini al fine di valutare in che modo taluni Paesi europei (Lussemburgo, Belgio, Regno Unito, Svizzera e altri ancora) stiano violando le regole comunitarie, sottoscritte anche da chi – come la federazione elvetica – ha firmato accordi bilaterali. L’idea di fondo è che talune normative tributarie di questo o quel Paese europeo sarebbero state elaborate al fine di attirare capitali e investimenti.
Sembra, insomma, che si debba considerare “sleale” il comportamento di cerca di mantenere entro ben precisi limiti l’entità della tassazione, rendendo difficile la vita agli Stati più esosi. Buona parte di questa agitazione è conseguente allo scandalo che ha visto coinvolto Jean-Claude Juncker, attuale presidente della Commissione europea e per molti anni figura cruciale del piccolo principato lussemburghese. Al di là delle circostanze del momento è comunque un segno dei tempi che buona parte della classe politica del Vecchio Continente sembri ossessionata dalla volontà di alzare le imposte là dove sono basse, invece che preoccuparsi di ridurle dove sono divenute ormai insopportabili.
Una quota significativa (sicuramente maggioritaria) del ceto dirigente europeo ritiene che non vi siano limiti alle pretese del potere pubblico, determinato a spremere quanto più sia possibile le imprese e le famiglie. Per questo vengono messe sotto accusa, allora, quelle multinazionali che dislocano nei diversi Paesi le attività e i profitti tenendo in grande considerazione i diversi regimi tributari. Esattamente come ognuno di noi compra un prodotto nel negozio A e un altro nel negozio B, molte corporation con attività in varie aree del mondo valutano i loro progetti di crescita e insediamento anche sulla base del principio che collega tra loro i costi e le opportunità. Se non facessero così, i prezzi dei prodotti e servizi che esse offrono sarebbero molto più alti.
È comunque interessante come la lotta ai paradisi fiscali, e a difesa degli inferni fiscali, si basi in larga misura su una manipolazione del linguaggio. Poiché il mainstream statalista ritiene che ogni euro sia potenzialmente del potere pubblico e che questi abbia il diritto di rivendicarlo, la riduzione delle imposte è presentata come un “aiuto di Stato”, come “concorrenza sleale”, come collaborazione in un’attività sostanzialmente criminale che è orientata a “evadere l’obbligo della contribuzione fiscale”.
Tutto questo è molto preoccupante, dal momento che il chiaro disegno politico di chi combatte le politiche fiscali attrattive – e che negli scorsi, ad esempio, mise sotto processo la crescita impetuosa dell’Irlanda, un tempo terra di povertà ed emigrazione – è arrivare a un’armonizzazione crescente delle politiche fiscali. Su “La Repubblica”, ad esempio, Nicola Acocella ha sostenuto la necessità “di maggiore uniformità nella conduzione delle politiche fiscali, oltre che in materia di regolamentazione finanziaria, politiche industriali e del lavoro e di progetti comuni”. D’altra parte, se adottare una tassazione inferiore significa essere sleale verso chi chiede di più (e attrarre capitali e imprese) è chiaro che l’unica maniera per uscire da questa situazione consiste nell’avere – prima o poi – un regime fiscale identico in ogni parte d’Europa. Ovviamente non si tratterebbe di estendere all’intero continente la fiscalità della Svizzera o del Lussemburgo, ma invece di innalzare tutti i regimi tributari al livello dei più esigenti.
Già oggi molti dicono che non è possibile avere una politica monetaria comune, grazie all’euro, e poi avere differenti politiche fiscali, regole del lavoro disomogenee, sistemi previdenziali differenziati. Ma la battaglia condotta contro i paradisi fiscali – a difesa del socialismo europeo di destra e sinistra – è allora solo una componente (tra le altre) di una più generale battaglia contro le libertà individuali e contro le logiche dell’autogoverno.
Un’Europa che declina a causa dello statalismo (della pressione fiscale, della regolazione asfissiante, dell’intreccio tra politica ed economia) chiede oggi sempre più stato e sempre più dirigismo, provando a soffocare le ultime aree di resistenza e gli ultimi spazi di libertà. Per questa ragione, quanti sono fedeli alle ragioni del liberalismo classico dovrebbero battersi a difesa della concorrenza istituzionale e fiscale tra governi, guardando ai paradisi fiscali non già come a realtà da combattere, ma modelli da imitare.

 

Crisi: da 14 trimestri consecutivi il nostro PIL è sotto la media europea

Crisi: da 14 trimestri consecutivi il nostro PIL è sotto la media europea

NOTA

Altro che crescita: per il quattordicesimo trimestre di fila, il Pil italiano fa segnare un andamento peggiore di quello della media dell’Unione Europea. Un’analisi del Centro studi ImpresaLavoro (condotta analizzando le rilevazioni che misurano lo scostamento rispetto al trimestre precedente) rivela infatti che dall’insediamento del Governo Monti ad oggi il nostro Prodotto interno lordo è sempre andato peggio della media dei nostri partner europei.
Il +0,3% fatto segnare nel primo trimestre del 2015 non deve trarre in inganno. Se guardato in chiave comparata si tratta di un dato tutt’altro che esaltante: la media dell’Europa a 28 cresce dello 0,4%, la Spagna dello 0,9%, la Francia dello 0,6%. Come noi crescono sia Germania che Regno Unito, ma con una piccola differenza: questi Paesi hanno sempre fatto sensibilmente meglio di noi in tutti i 13 precedenti trimestri. E solo in un trimestre su quattordici non siamo risultati gli ultimi in assoluto tra i grandi Paesi europei: è accaduto nel terzo trimestre del 2012, quando la Spagna ha fatto leggermente peggio di noi (-0,30% contro -0,20%).
Concretamente questo significa che – fatto 100 il Pil nel terzo trimestre 2011 – quello italiano vale oggi in termini reali 95,4 contro una media europea di 101,8. Ci battono praticamente tutti i Paesi: negli ultimi 14 trimestre il Regno Unito ha visto crescere il suo Pil del 6%, la Germania del 3,8%, la Francia dell’1,1%, la Spagna dello 0,5%. Il reddito prodotto in Italia è invece sceso del 4,6%.
tabella1
grafico modificato
tabella 2
Atti del Seminario “Previdenza, agire per tempo”

Atti del Seminario “Previdenza, agire per tempo”

SEMINARIO PREVIDENZA

CNEL – 6 Maggio 2015, ore 10.30-13.00
Relatori/Discussants

Le prospettive demografiche – Presentazione PDF
Michela Pellicani, docente di Statistica e Demografia, Università degli Studi di Bari
Discussant: Giuseppe Greco, Segretario Generale ISIMM Ricerche

Pensioni e dinamica generazionale di occupazione e redditi
Mauro Marè, Presidente MEFOP
Discussant: Michel Del Buono, Cornell University , Banca Mondiale

Le fabbriche delle pensioni
Giuseppe Guttadauro, esperto di previdenza, docente di Diritto del Lavoro UniECampus
Discussant: Salvatore Zecchini, Presidente Gruppo di Lavoro OCSE su Pmi e Imprenditoria

Verso Pensioni Europee
Giuseppe Pennisi, Presidente Board Scientifico ImpresaLavoro
Discussant: Carlo Lottieri, Istituto Bruno Leoni

Rassegna Stampa:
Panorama
Le prospettive demografiche

Le prospettive demografiche

Michela C. Pellicani – Seminario “Previdenza, agire per tempo”

Premessa
Grazie al rigore formale che le dà la matematica delle popolazioni, la demografia costruisce scenari per il futuro che servono spesso ad alimentare paure collettive. Per più di cinquanta anni – dalla pubblicazione dei testi fondamentali di Frank Notestein (Notenstein F., 1945) e di Kingsley Davis (Davis K., 1945) sulla transizione demografica – la paura agitata dalle proiezioni è stata e continua ad essere quella della sovrappopolazione, della pressione che la crescita demografica esercita sulle risorse materiali e sul mezzo di produrre beni di consumo, ossia il lavoro
A livello globale questa paura si è concentrata particolarmente sulle nazioni del Sud del mondo che sono entrate più tardivamente rispetto a quelle del Nord nella fase di crescita rapida. La paura della sovrappopolazione non è ancora passata che, già, una paura inversa ha cominciato a prendere sempre più peso. Il vecchio spettro medievale dello spopolamento, sotto le nuove vesti dell’invecchiamento, è risorto anch’esso minacciando il Sud più subdolamente del Nord, poiché il Sud, vivendo ancora nell’idea dell’esplosione demografica, ha manifestato un marcato ritardo nella presa di coscienza del rallentamento in atto della propria crescita.
Il segnale più chiaro non è stato dato dai demografi, ma da un economista. È, in effetti, da Walt Whitman Rostow che giunge il segnale. Il teorico delle “Tappe dello sviluppo economico ” propone nel suo lavoro – « The Great Population Spike and After » (Rostow W. W., 1998) – una visione iconoclasta della demografia.
La demografia, ci dice Rostow, sarà la preoccupazione principale dei prossimi decenni. Ma non sarà per la ragione che si crede, non perché il pianeta sarà minacciato dalla sovrappopolazione. No, al contrario ci dice Rostow, è la riduzione della crescita e la prospettiva della stagnazione demografica a costituire la vera sfida.
Non si tratta solo di una sfida per i paesi industrializzati, che hanno già familiarizzato con l’idea dell’invecchiamento (anche se non si è ancora trovata la “ricetta” di un nuovo contratto tra le generazioni), ma ugualmente, e forse soprattutto, per i paesi meno sviluppati che non sono preparati a tale cambiamento e ove si è propensi a ritenere che il problema risieda ancora nella crescita demografica troppo rapida.
Cosa è l’invecchiamento, cosa produce invecchiamento, quali soluzioni demografiche
Quando si parla di invecchiamento demografico si commette molto spesso l’errore di concentrare l’attenzione sulle persone anziane (con la relativa difficoltà di definizione della soglia o delle soglie di ingresso nella vecchiaia).
In realtà, la definizione stessa di invecchiamento ci dice che esso si verifica quando la quota/proporzione/percentuale di anziani aumenta all’interno della popolazione totale. Non è, quindi, in termini assoluti che occorre ragionare, bensì in termini relativi ossia di rapporto tra la popolazione anziana e la popolazione totale e, ancor più, di rapporto tra la popolazione anziana e quantomeno le altre due grandi classi d’età: giovani e adulti.
Ma cosa “produce” l’invecchiamento demografico (e non biologico il quale rientra nel campo medico e, al contrario de primo, è ineluttabile ed irreversibile, almeno ad oggi)?
Contrariamente a ciò che si può pensare, è sostanzialmente il calo della fecondità ad alimentare l’invecchiamento (invecchiamento dal basso della piramide dell’età) e non il calo (sarebbe meglio dire posticipo) della mortalità (invecchiamento dall’alto).
Ne consegue che le politiche di contrasto dell’invecchiamento, almeno da un punto di vista strettamente demografico (sulle politiche di contrasto alle sue ripercussioni economiche e sociali potremo tornare in seguito), consisterebbero in concrete politiche pronataliste (non i bonus bebè, anche su questo potremo tornare in seguito) le quali, ovviamente, possono produrre effetti nel futuro ma non correggere i risultati dell’evoluzione passata.
Potrebbe esserci un’altra strada, almeno così sentiamo dirci piuttosto frequentemente e da più parti. Potremmo far ricorso alla terza grande variabile demografica (anche se non unanimemente considerata tale): la migrazione e, nello specifico, l’immigrazione. Quest’ultima potrebbe venire in soccorso con un duplice effetto positivo: da un lato, gli immigrati arrivando generalmente da giovani, andrebbero a compensare quelle nascite che non si sono verificate a causa del drastico calo della fecondità (migrazioni di sostituzione), dall’altro, gli stranieri sono caratterizzati da un livello di fecondità superiore a quello degli autoctoni.
Purtroppo, le cose non stanno esattamente in questi termini o meglio, stanno così solo molto parzialmente. Inoltre, non possono essere trascurate almeno due condizioni che incidono in maniera determinante su questo potenziale effetto benefico: l’orizzonte temporale che fissiamo e la disponibilità da parte della comunità di accoglienza a sostenere i costi (non solo economici) derivanti dall’arrivo di immigrati.
A questo proposito, qualche anno fa, esattamente nel 2000, la Divisione di popolazione delle NU ha pubblicato delle proiezioni demografiche relative ad alcuni paesi particolarmente colpiti dall’invecchiamento (tra cui l’Italia) e ad alcuni aggregati geo-politici.

v. power point (1) Migrazioni di sostituzione o il “vaso delle Danaidi”

Invecchiamento e relazione tra classi d’età e generazioni
Qual è la situazione, ad oggi, in termini di invecchiamento della popolazione italiana?

v. power point (2)

Tab. 1 – Indici di struttura, speranza di vita e età media, Italia, 2003 e 2013

tabella pellicani

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Per cercare di cogliere con più efficacia le evoluzioni della struttura per età possiamo avvalerci di un primo semplice indice di struttura (Is) che ci permette di apprezzare con immediatezza i cambiamenti in termini di peso relativo di ogni classe di età all’interno della popolazione totale.
Is = (t+αPx-x+a / t+αPT / tPx-x+a / tPT) * 100 – 1001
Le trasformazioni strutturali sono così importanti da emergere con estrema evidenza già attraverso una semplice osservazione della Figura 3.
Fig. 3 – Is (variazioni della struttura per età), Italia, 1950-2000 e 2000-2050

tabella pellicani 2

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Tutte le classi di età ne sono toccate e spesso, in modo rilevante. Tra il 1950 e il 2000 si è assistito ad un quasi dimezzamento del peso relativo delle classi d’età giovanili (0-14 anni) e ad un contestuale più che raddoppio delle classi d’età anziane (> 65 anni) che si trasforma facilmente in triplicazione per gli ultrasettantacinquenni. Segnaliamo la perdita di importanza della classe 15-24 anni tanto nel passato quanto nel presumibile futuro che è destinata a lasciare una traccia in termini di alterazione del profilo delle piramidi delle popolazioni osservate. Se si dovesse realizzare l’ipotesi di rimonta della fecondità soggiacente alle proiezioni utilizzate1, nel 2050 dovremmo attenderci una quasi stazionarietà della proporzione di giovanissimi, una riduzione del peso degli adulti (soprattutto dei giovani adulti) e un aumento di quello degli anziani attutito rispetto all’aumento registrato nel 2000.
Come abbiamo visto, la prospettiva convenzionale della demografia, quando si osserva la struttura per età, è di distinguere tre grandi classi d’età: giovani, adulti, anziani e di considerare il rapporto tra le classi estreme e la classe centrale come un indicatore della dipendenza demografica (concetto puramente quantitativo che non rende l’idea del contratto tra le generazioni il quale, a sua volta, deve tenere in considerazione elementi qualitativi per stabilire le modalità e le forme di solidarietà tra attivi e inattivi).
Questa prospettiva prende in considerazione, quindi, aggregati che non corrispondono alle “realtà vissute”, tangibili per gli individui. Ebbene, nel momento in cui ci si interessa ai processi di determinazione della scelta, occorre sforzarsi di immedesimarsi nella situazione che gli individui percepiscono.
Un secondo indice (Ig) ci permette di mettere in relazione diretta le diverse generazioni. La soglia dell’unità rappresenta l’equilibrio (quantitativo) tra generazioni di genitori e figli.
Ig = tPg+γx-x+a / tPgx-x+a 2
Fig. 4 – Ig (relazione tra generazioni), Italia, 1950-2050

tabella pellicani 3

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il commento della curva (Fig. 4) si fa da solo. Una sola annotazione relativa all’indice calcolato per genitori 60-64enni su figli 30-34enni: il 2015 rappresenta un momento di svolta poiché, da un rapporto favorevole ai figli (anche se già “appesantito”) si giunge ad un contesto fortemente squilibrato caratterizzato dalla presenza di 1,5 genitori (anziani) in media per ogni figlio (nel 2030). Il miglioramento finale, benché auspicato, è ancora tutto da verificare.
Al fine di avvicinarsi ancor di più alla “realtà vissuta”, abbiamo, infine, simulato la prospettiva dell’individuo piuttosto che quella della popolazione basandoci sulla constatazione che in demografia (e non solo) il cambiamento può essere interpretato anche come la successione di generazioni che non si “rassomigliano”. Più il cambiamento è rapido, più i contrasti intergenerazionali sono marcati.
In termini appunto generazionali: in una prospettiva orizzontale, è l’ammontare di ogni generazione osservata ad ogni determinata età che varierà e in una prospettiva verticale, è il rapporto tra generazioni di età diverse che cambierà.
Al momento dell’entrata nelle età produttive e riproduttive (25 anni), ci siamo posti la seguente domanda: qual è il carico che i suoi “genitori” (e la prospettiva del loro mantenimento) fanno pesare su di lui?
Abbiamo costruito un indicatore che illustra la valutazione che un individuo medio (in senso statistico) può fare della propria situazione (Fargues Ph. – Pellicani M.C., 2000).
Detto indice, se limitiamo l’analisi alle generazioni nate sino al 2000, quelle che compiranno 25 anni entro il 2025, gode del vantaggio di non comportare alcuna proiezione, cioè alcuna ipotesi sul futuro.

v. power point (3) i.c.a.

i.c.a. = 2 * (lg-30 55 / lg-30 30) / (ISFg * lg25)
Figura 5 – Indice di carico ascendente, Italia, generazioni 1950-2000

tabella pellicani 4

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Conclusioni
In conseguenza di un complesso di circostanze che hanno cambiato profondamente la società e la sua organizzazione, la durata media della vita è raddoppiata in poco più di cento anni. L’aumento del numero di anziani è espressione di una evoluzione positiva, una rivoluzione a dire il vero, che ha permesso di raggiungere traguardi fino a pochi decenni fa giudicati inarrivabili. Nonostante lo scenario sia profondamente mutato, la definizione di “anziano” ancora oggi utilizzata per scandire i tempi della vita sociale, continua a far riferimento alla sola età anagrafica, un indicatore quantitativo che ha la caratteristica di progredire in maniera costante e inalterabile, dal momento della nascita a quello della morte, in modo indipendente dal succedersi delle generazioni e dal mutare dalle condizioni interne ed esterne all’individuo, al suo stato di salute e alla sua vitalità.
Una delle domande sulle quali si sta concentrando l’attenzione sia in ambito scientifico che politico è se all’allungamento della vita corrisponda un aumento della vita in buona salute o se, al contrario, questo comporti un allungamento della vita vissuta in condizioni di malattia e di dipendenza. Il verificarsi dell’uno o dell’altro scenario comporta, ovviamente, importanti conseguenze per gli individui, per le loro famiglie e per la collettività in termini organizzativi e di costi da sostenere per far fronte alla domanda di servizi sanitari e assistenziali.

v. power point (4) Un’unica speranza di vita? La “speranza di salute”

Al momento attuale non si hanno risposte univoche a questa domanda: per alcune condizioni, e soprattutto per quelle di più grave limitazione dell’autonomia personale, l’evoluzione è stata senz’altro positiva garantendo un aumento della vita vissuta in buona salute e comprimendo la cattiva salute verso età sempre più avanzate, tanto da bilanciare, in un certo senso, l’invecchiamento demografico. Per altre condizioni l’evoluzione è molto meno netta ed un giudizio complessivo circa le conseguenze dell’invecchiamento sullo stato di salute della popolazione italiana, risulta incerto.
Per di più, anche se dal punto di vista della qualità degli anni di vita guadagnati il bilancio è globalmente positivo, altri problemi emergono che possono condizionare negativamente gli andamenti futuri e generare aumenti di costi economici e sociali. Si tratta delle diseguaglianze (di genere, territoriali, sociali, economiche) che caratterizzano la sopravvivenza e la salute, producendo divari che possono arrivare anche a diversi anni di vita. E ancora, i rischi di evoluzione negativa sono oggi accresciuti per la prolungata crisi economica che compromette la funzionalità e l’efficacia della sanità pubblica, con costi differenziati sul territorio e per le diverse classi sociali.
L’esperienza di altri Paesi ha dimostrato che la longevità e la buona salute non devono considerarsi dei risultati acquisiti una volta per tutte, e che in caso di crisi il disagio dei gruppi più svantaggiati si trasforma molto rapidamente in una peggiore condizione di salute e un più alto rischio di morte (v. ad esempio Unione Sovietica). Questi scenari negativi possono essere contrastati per varie vie, alcune delle quali non implicano necessariamente l’utilizzo di maggiori risorse.
Agganciare, quindi, l’età pensionabile alla speranza di vita (in Italia come in altri paesi europei), risulta quantomeno meccanico e semplicistico. Vorrebbe dire sancire la dipendenza automatica delle pensioni dalle evoluzioni demografiche senza tener conto delle contemporanee evoluzioni in campo sociale, medico, economico, politico. Per certi versi, addirittura, ciò potrebbe mascherare una debole volontà di portare avanti interventi incisivi finalizzati all’aumento della partecipazione, in particolare femminile e giovanile, al mercato del lavoro o di dedicare adeguati investimenti destinati all’aumento della produttività.
Una nuova riforma pensionistica è inevitabile

Una nuova riforma pensionistica è inevitabile

Salvatore Zecchini – Seminario “Previdenza, agire per tempo”

Dopo 6 grandi riforme dal 1992 al 2011 il problema del riequilibrio del sistema previdenziale italiano, più a torto che a ragione, sembrava aver perduto agli occhi dei governanti e dell’opinione pubblica gran parte di virulenza ed attenzione. Fino a qualche giorno fa, se se ne parlava, era per la questione degli “esodati”, per i quali si cerca di trovare un avvicinamento alla pensione che costi poco alle casse dello Stato. Improvvisamente, dal 30 aprile la situazione è cambiata con la dichiarazione di incostituzionalità del congelamento dell’adeguamento all’inflazione dei trattamenti medi ed alti. Il Governo, dopo aver dichiarato col DEF e successivamente che non era intenzionato a intervenire, ora è costretto a reperire circa 17 miliardi (1% PIL al lordo della tassazione di ritorno) per coprire il nuovo buco di bilancio. Non si tratta soltanto di corrispondere quanto non versato, ma di evitare che negli anni avvenire la curva di proiezione della spesa pensionistica in rapporto al PIL si innalzi, compromettendo gli sforzi fatti per abbassarla nell’ultimo decennio. Visto che un nuovo aumento del peso del fisco è insostenibile, è quindi probabile che sarà necessaria una nuova riforma di sistema con tagli di spesa.
Perché i conti della previdenza non erano più visti come un problema tale da richiedere nuove, tempestive riforme? A parte le considerazioni di opportunità elettorale, la risposta sta negli esercizi di simulazione della spesa pensionistica fino al 2060 effettuati dalla Ragioneria Generale e confermati nel DEF 2015. Ne risulta che in rapporto al PIL la spesa, dopo aver raggiunto l’apice del 15,9% nel 2014, dovrebbe scendere al 15,8% quest’anno e continuare a flettere fino al 15,4% del 2019. Queste previsioni di sostenibilità del sistema non sembravano del tutto irrealistiche, pur scontando alcune ipotesi su cui è ragionevole nutrire dubbi. In particolare, una crescita reale di medio periodo del 1,5% annuo, un tasso d’occupazione di circa 10 punti percentuali più elevato che nel 2010, e un tasso d’incremento della produttività dell’1,5% annuo.
Sempre prima della sentenza della Consulta, la RGS riteneva che il rapporto Spesa pensionistica/PIL avrebbe continuato a scendere fino al 15% a circa il 2030 a causa dell’innalzamento dell’età minima di accesso alla pensione e dell’applicazione parziale del metodo contributivo, per poi risalire fino al 15,5% nel 2044 per effetto dell’aumento del rapporto pensionati/occupati, e successivamente ridiscendere fino al 13,7% nel 2060 a seguito dell’estesa applicazione del sistema contributivo e della riduzione del rapporto pensionati/occupati. Questi risultati ovviamente sono attesi se le regole del sistema rimangono stabili nel tempo, ma è evidente che il sistema non è stabile, perché è sotto il costante assedio di una massa di lavoratori che vedono come scopo principale della loro vita lavorativa quello di andare in pensione a spese di quanti restano a lavorare. Un chiaro esempio di parassitismo sociale!
Ma questo non è il solo motivo per preoccuparsi degli effetti del sistema attuale, perché ve ne sono altri ben più pressanti:
  1. L’impatto negativo del sistema pensionistico attuale sulla capacità di crescita dell’economia;
  2. le iniquità intragenerazionali ed intergenerazionali;
  3. il disincentivo implicito nel sistema nei confronti della previdenza complementare e l’alimentare distorsioni nella società verso un modello tendente all’inattività.
Ciascuno di questi punti richiede un breve commento per concludere con l’indicazione di qualche orientamento a cui dovrebbe ispirarsi il governante saggio.
Una spesa pensionistica nell’ordine del 15,5% del PIL può apparire sostenibile, ma è superiore di circa 3,5 punti alla media dell’eurozona, e lo è ancor più se il confronto è fatto con le economie più dinamiche dell’area OCSE. L’incidenza sul PIL risulta di circa 1 punto percentuale superiore a quella della Francia, di oltre 4 punti alla Germania e di 9 punti al UK. Questa forte incidenza si riflette in un prelievo per contributi sulle remunerazioni che dovrebbero andare ai lavoratori pari al 33%, mentre la media OCSE è del 19,6%. Questa imposizione inoltre grava per 23,8 punti percentuali sul datore di lavoro, appesantendo il costo del lavoro e scoraggiando la domanda di lavoro, con conseguenze negative sul tasso di disoccupazione e sulla propensione ad investire nel Paese.
Appare altresì sproporzionato che questa spesa assorba attualmente il 34% della spesa pubblica primaria, percentuale che dovrebbe salire al 35,6% nel 2019.
Nondimeno non è solo la sproporzione, ma le iniquità del sistema che lo dovrebbero rendere poco accettabile ai lavoratori delle ultime generazioni. Mentre costoro si vedono sottrarre il 33% del loro reddito per sostenere i pensionati, il loro titolo alla pensione rappresentato dal tasso di sostituzione netto è destinato a scendere, ad esempio per un lavoratore dipendente, dall’83,2% nel 2010 al 77,3% nel 2020 e al 71,4 nel 2040. Queste percentuali peraltro nascondono la pochezza degli importi risultanti in valore assoluto, dato che esse si applicano a retribuzioni che tendono a crescere poco, che si collocano su livelli inferiori mediamente a quelli dei maggiori paesi UE, e che non si riferiscono a carriere di lavoro spezzettate. Le attese sono peggiori per chi lavora ad intermittenza, in quanto non può sperare di ricevere una pensione consistente nella vecchiaia, a meno che accetti di lavorare più a lungo o abbia goduto di retribuzioni medio-alte.
L’iniquità intergenerazionale del sistema pensionistico attuale si può cogliere anche sotto un altro profilo. Secondo le stime dell’OCSE, in media la ricchezza pensionistica netta data dal cumulo delle pensioni riferite all’arco di vita al netto delle imposte sulle pensioni stesse supera il salario medio annuale lordo di 9,5 volte per gli uomini e di 10,8 volte per le donne (contro 8,1 e 9,3 volte rispettivamente nella media OCSE). Questa ricchezza viene coperta dai contributi versati annualmente da chi resta al lavoro, oltre che dalle imposte.
L’iniquità non è soltanto intergenerazionale ma anche intragenerazionale. Tra i pensionati attuali sussiste infatti un’ampia differenziazione quanto al rapporto tra l’ammontare dei contributi versati durante la vita lavorativa e il totale dei redditi da pensione durante la vita residua. Per una fascia abbastanza ampia, l’ammontare del trattamenti supera ampiamente il montante contributivo, sempre che si applichi interamente il sistema contributivo in vigore per il calcolo delle pensioni. Ne sono esempi i trattamenti accordati ai rappresentanti politici, ai ferrovieri e ad alcune categorie con fondi speciali. Questo squilibrio, contrariamente a un’opinione diffusa, non è impossibile da misurare, considerato che i dati sono disponibili dagli anni 90, mentre per i due decenni precedenti si conoscono le aliquote contributive e si possono ricostruire le retribuzioni a cui andavano applicate.
Il disincentivo al risparmio previdenziale complementare è un altro degli effetti deplorevoli del sistema. Per quanti possono contare su uno stabile lavoro remunerato mediamente, dato l’alto tasso di sostituzione, l’incentivo a risparmiare per crearsi una previdenza complementare si riduce significativamente. Solo con l’abbassamento del tasso di sostituzione e con il lavoro precario, o le retribuzioni relativamente basse l’incentivo aumenta, ma questi sono casi in cui le possibilità di risparmio sono ridotte. Non deve quindi sorprendere che solo 6,2 milioni di lavoratori su 22,2 milioni aderiscono alla previdenza complementare. Questa è anche penalizzata dal Quantitative Easing della BCE, che ha polverizzato i rendimenti obbligazionari, e dall’incremento della tassazione sui rendimenti.
Su questo sfondo è evidente che il Governo non ha scelta migliore che intervenire con l’ennesima riforma al fine di smorzare la dinamica della spesa pensionistica in rapporto al PIL e al totale della spesa pubblica, ridurre le iniquità e favorire la previdenza complementare. La motivazione principale è che per stimolare la crescita occorre anche ridurre la tassazione e potenziare le risorse per gli investimenti. In quest’azione il vincolo da tenere presente è la ricerca di una maggiore equità sia intergenerazionale che intragenerazionale.
Traducendo questi principi in poche parole, significa ridurre al tempo stesso i trattamenti a tutti i pensionati, facendo alcune distinzioni, e i prelievi contributivi per lasciare più risorse per investimenti, salari e future generazioni.
Nella riduzione dei trattamenti, non appare equo tendere a perequare tagliando genericamente tutte le pensioni medie ed alte. La pensione, infatti, rappresenta, anche per la Consulta, reddito differito del lavoratore, ovvero risparmio forzoso accumulato per fini previdenziali a copertura di consumi differiti al tempo in cui il lavoratore rimane inattivo per motivi di età o altra valida inabilità. Manovre di redistribuzione fatte con le risorse pensionistiche e non con le imposte sono la negazione del principio di previdenza. Si ritiene, invece, che il Governo debba usare come metro dei tagli la differenza esistente tra il montante dei contributi versati dal soggetto e quello delle pensioni che gli vengono corrisposte nell’intero arco della vita residua. È proprio su coloro che godono maggiormente di questa eccedenza che dovrebbero incidere i tagli che sono necessari per finanziare una nuova azione di stimolo alla crescita del Paese.
Le fabbriche delle pensioni

Le fabbriche delle pensioni

Giuseppe Guttadauro – Seminario “Previdenza, agire per tempo”

L’obiettivo del mio intervento è di stimolare una riflessione sulla situazione del sistema previdenziale italiano ripercorrendo brevemente le tappe principali che hanno portato alla riforma del 2011, conosciuta come riforma Fornero e cercherò di farlo analizzando in modo particolare quanto di buono sia stato fatto, al contrario del pensiero di molti, per mettere il sistema in sicurezza ma quanto ancora si debba fare.
Attualmente siamo in un sistema a ripartizione nel quale se le entrate contributive non sono sufficienti, la spesa pensionistica è garantita con trasferimenti dalla fiscalità generale. Nel 2013 l’Inps ha evidenziato un buco di 25 miliardi di euro nonostante la “gallina dalle uova d’oro” rappresentata dalla Gestione Separata dove il numero dei pensionati è di gran lunga inferiore ai lavoratori attivi e nel 2014 le cose non sono andate meglio per la perdita di quasi un milione di posizioni attive. E’ del tutto evidente allora che la salute del sistema previdenziale deve obbligatoriamente passare attraverso una seria politica di incentivazione all’occupazione per aumentare il numero dei lavoratori e di conseguenza delle entrate contributive..
Le riforme che si sono succedute a partire dal 1992 hanno messo mano a un sistema che per decenni non ha saputo controllare la spesa pensionistica che è cresciuta anno dopo anno sino a raggiungere nel 2014 il 16,3% del PIL. Abbiamo persone che percepiscono la pensione da quando avevano 40 anni di età, abbiamo importi di pensione completamente slegati dai contributi realmente versati, abbiamo avuto fino a pochi anni fa gestioni pensionistiche che garantivano trattamenti di favore a molte categorie di lavoratori dipendenti generando pensionati di serie A e di serie B. Tutto questo è stato pagato a caro prezzo con interventi sempre più restrittivi introdotti dalle principali riforme, Amato, Dini e Maroni mentre il saldo, probabilmente, è stato versato con la recente riforma Fornero definitivamente approvata con la legge 22 dicembre 2011 n. 204. Una riforma approvata a larga maggioranza dalle forze politiche che sostenevano il governo Monti e con il sostegno delle parti sociali, una riforma resa necessaria per dare un’immagine di credibilità e di tenuta del nostro Paese all’interno della U.E.
Suona davvero strano che da più parti (Governo, Parlamento, Sindacati) vengono annunci o si assumono iniziative per attuare una sorta di “contro riforma” in modo particolare per quanto riguarda l’età pensionabile le cui regole sono considerate troppo elevate e rigide, suona strano perché queste iniziative sono portate avanti proprio dagli stessi partiti che qualche anno prima avevano approvato la riforma, tutto questo non sembra proprio una garanzia di serietà. In ogni caso qualche giorno fa un risultato devastante per le casse dello Stato e, di conseguenza per le tasche degli italiani, è stato raggiunto: una sentenza della Consulta che ha sbloccato l’adeguamento al costo della vita per le pensioni di importo superiore a tre volte il trattamento minimo (1.443,00 euro mensili) nel periodo 2012 – 2013, dichiarando incostituzionale il blocco attuato dalla riforma Fornero..
Secondo un’indagine svolta dall’Ordine dei dottori commercialisti di Napoli il risultato di questa sentenza farà sì che un pensionato con 20 mila euro lordi di pensione, si vedrà restituire circa 1.134 euro lordi, con 50 mila euro di pensione il rimborso ammonterà a circa 2.518 euro lordi e infine chi riceve 100 mila euro annui di pensione avrà diritto a una restituzione di circa 4.700 euro lordi. Nulla è invece dovuto al pensionato che percepisce una pensione lorda sino a 19 mila euro annui. L’onere a carico dello Stato è stimato intorno ai cinque miliardi di euro! E’ doveroso anche ricordare che la mancata rivalutazione delle pensioni superiori a 1.450,00 euro mensili ha permesso di evitare il blocco per le più povere e che nel 2007 il governo Prodi attuò il blocco delle rivalutazioni per le pensioni superiori a 3.700,00 euro mensili, senza che la Consulta avesse da obiettare.
Nel 2011, da un punto di vista finanziario, la situazione dell’Italia puntava pericolosamente in direzione della Grecia ed è stato anche grazie alla riforma Fornero che fu possibile evitare il default.
Adesso non è possibile tornare indietro, al di là di tutti gli slogan elettorali non possiamo non fare i conti con una aspettativa di vita media che nel 2014 è stata di 79,40 anni per gli uomini e di 84,82 per le donne e con un debito pubblico tra i più alti in Europa che ha toccato lo scorso anni i 2.167 miliardi, il 132,50% del PIL!
Nel 2007, prima dell’inizio della crisi, l’incidenza della spesa pensionistica sul PIL era di circa il 14%, adesso siamo al 16,3% ma senza quella riforma saremmo ad un livello inaccettabile del 18%, e nel 2060 scenderà al 13,9%.
Qualunque azienda per risanare i conti può agire sul fronte delle entrate e/o delle uscite, la riforma Fornero ha scelto di agire su entrambi, introducendo per tutti il sistema di calcolo contributivo dal 2012 e una novità assoluta per il nostro sistema previdenziale: l’adeguamento dell’età pensionabile e dei coefficienti di trasformazione per il calcolo della pensione alle aspettative della speranza di vita. In futuro il traguardo della pensione sarà sempre più lontano e l’importo della pensione sempre più basso.
Per fare un esempio concreto, nel 2009 a fronte di un montante contributivo pari a 200.000,00 euro maturava una pensione annua lorda di 12.272,00 euro, oggi con lo stesso montante la pensione sarebbe pari a 10.870,00 euro annui, circa il 12% in meno. A quanto ammonterà l’assegno tra 20 anni?
Dobbiamo essere tutti consapevoli che in futuro la pensione dei nostri figli non potrà più essere quella dei nostri genitori.
Una proposta interessante potrebbe sicuramente essere quella di agire sull’età pensionabile che già oggi è per molti giovani fissata in 70 anni e 3 mesi, introducendo una flessibilità in uscita fissando un’età minima e lasciando al lavoratore la possibilità di decidere quando andare in pensione. Il maggior numero di anni pensionabili sarebbe compensato con una riduzione proporzionale del relativo coefficiente di trasformazione senza dover cercare le coperture finanziarie. Una sorta di ritorno alla riforma Dini che appunto questo meccanismo già prevedeva prima che la riforma Maroni lo abolisse.
In ultimo, lo Stato dovrebbe garantire una corretta informazione previdenziale al cittadino, garantendo il decollo definitivo della previdenza complementare, perché essere informati significa avere consapevolezza e la consapevolezza porta alla ricerca di una soluzione.
E desidero chiudere questo intervento facendo qualche riflessione anche sulla previdenza complementare diventata indispensabile per poter garantire un adeguato tenore di vita in età pensionabile, soprattutto dopo l’introduzione del sistema di calcolo contributivo.
In Europa la media di chi ha una pensione complementare è di circa il 91%, in Italia è di circa il 28% (poco più di 6,5 milioni), un differenziale troppo elevato sul quale è necessario riflettere per capire quali errori sono stati fatti.
Un dato su tutti è l’età media degli aderenti: i lavoratori con meno di 35 anni di età rappresentano solo il 18%, il 25% ha un’età compresa tra 36 e 44 anni e oltre il 30% sono quelli tra i 54 e i 64 anni. Un basso numero di adesioni e con età vicine al pensionamento, qualcosa non funziona. Forse l’incentivo fiscale non è la motivazione principale per chi avrebbe invece più bisogno di pensare al proprio futuro pensionistico e non dispone delle risorse necessarie. E chiudo con una provocazione: il risparmio previdenziale in gestione ammonta a circa 126,3 miliardi e la deduzione dei contributi non consente al fisco di incassare ogni anno circa 3,5 miliardi di imposte. Perché non provare a pensare di abolire la deduzione dei contributi e utilizzare questa cifra come incentivo pubblico per i giovani, magari per i primi anni di adesione, che decidono di aderire alla previdenza complementare? Forse che questo potrebbe contribuire al decollo della previdenza complementare per chi ne ha veramente bisogno?