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Contributi alle imprese: dalle Regioni ogni anno circa 6 miliardi di euro

Contributi alle imprese: dalle Regioni ogni anno circa 6 miliardi di euro

ANALISI

Tra trasferimenti correnti e contributi in conto capitale ogni anno le Regioni italiane trasferiscono al sistema delle imprese circa 6 miliardi di euro, suddivisi tra contributi erogati ad aziende private e trasferimenti concessi ad aziende pubbliche. Una cifra consistente, pari allo 0,36% del Pil nazionale. Lo rivela una ricerca del Centro studi “ImpresaLavoro”, che ha elaborato i dati più recenti contenuti in SIOPE, il Sistema informativo sulle operazioni degli enti pubblici del Ministero delle Finanze. Gli ultimi dati disponibili certificano infatti che nel 2013 le Regioni italiane hanno trasferito complessivamente 3,3 miliardi di euro a imprese private (1 miliardo in trasferimenti correnti e 2,3 miliardi in contributi in conto capitale) e 2,5 miliardi di euro a imprese pubbliche (1,1 miliardi in trasferimenti correnti e 1,4 miliardi in conto capitale) .
Dal punto di vista regionale, a fare la parte del leone è il Trentino Alto Adige, che trasferisce annualmente al suo sistema delle imprese circa 762 milioni di euro. Seguono la Sicilia con 683 milioni e la Puglia con 591 milioni.
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Elaborazione ImpresaLavoro su dati Siope e Istat
Il dato assunto in mero valore assoluto rischia però di essere fuorviante, considerato che si paragonano regioni molto diverse sia per popolazione che per Prodotto interno lordo. Dal punto di vista dei contributi che ogni regione eroga rapportati alla popolazione, il Trentino Alto Adige risulta ancora di gran lunga il territorio più generoso: con 736 euro di contributo per ogni cittadino residente quasi doppia la Valle d’Aosta che si classifica al secondo posto. Terza la Basilicata con 200 euro a cittadino e quarta un’altra Regione autonoma, il Friuli Venezia Giulia, che trasferisce ogni anno alle sue imprese 186 euro per cittadino residente. Molto meno generose sono la Toscana (37 euro), la Lombardia (41 euro) e il Lazio (42 euro).
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Elaborazione ImpresaLavoro su dati Siope e Istat
Anche con riferimento al Pil Trentino Alto Adige, Valle d’Aosta e Basilicata si confermano le regioni in cui vengono erogati più contributi alle imprese: nelle province di Trento e Bolzano, infatti, la contribuzione regionale ad aziende pubbliche e private raggiunge i 2 punti di Pil: il doppio di quanto avviene in Valle d’Aosta e Basilicata e 20 volte l’impatto che queste misure hanno in regioni importanti come Lombardia, Toscana, Lazio e Veneto.
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Elaborazione ImpresaLavoro su dati Siope e Istat
Le singole Regioni si differenziano non solo in termini quantitativi: particolarmente curioso è analizzare la composizione dei contributi al sistema delle imprese diviso tra quanto finisce in tasca ad aziende private e quanto invece va a foraggiare il sistema delle imprese pubbliche. Liguria ed Emilia Romagna, ad esempio, scelgono di erogare larghissima parte dei loro contributi ad aziende di proprietà dello Stato, delle Regioni o degli Enti Locali. In Liguria quasi il 93% dei contributi erogati finisce al pubblico mentre in Emilia-Romagna le aziende di stato si portano a casa l’82% del totale stanziato a favore dell’economia reale. Terza in questa speciale classifica di attenzione alle società pubbliche è la Puglia con il 64% dei contributi erogati, seguita dalla Campania cn il 63,5% e dalla Sardegna con il 54,1%.
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Elaborazione ImpresaLavoro su dati Siope e Istat
Al contrario, si dimostrano particolarmente attente al sistema delle aziende private Molise, Campania e Sicilia che stanziano a loro favore rispettivamente il 94,4%, il 90,7% e l’86% delle risorse disponibili per contributi alle imprese.
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Elaborazione ImpresaLavoro su dati Siope e Istat
 
Rassegna stampa
La Gazzetta del Mezzogiorno
Il Messaggero Veneto
 
 
Imprese e fisco, così proprio non va

Imprese e fisco, così proprio non va

Massimo Blasoni – Metro

Dopo il QE (Quantitative Easing) un nuovo acronimo si aggira per l’Europa: TTR, ovvero Total Tax Rate. Si tratta in soldoni (letteralmente) della percentuale sul fatturato che ciascuna impresa devolve ogni anno allo Stato sotto forma di tasse. Non illudetevi: che in questo settore l’Italia resti purtroppo la matrigna d’Europa lo dimostrano le recenti elaborazioni che abbiamo svolto sui dati riferiti al 2014 contenuti nel rapporto “Doing Business 2015” della Banca Mondiale.
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I profitti, la morale e il ruolo sociale delle imprese

I profitti, la morale e il ruolo sociale delle imprese

Carlo Lottieri

Da qualche anno domina una retorica che pretende di alterare il normale operare delle imprese in nome della morale e di valori più elevati. Per molti, in effetti, le imprese dovrebbero abbandonare la logica del profitto e dirigersi verso altri e maggiormente nobili obiettivi: la protezione della natura, la solidarietà, la riduzione delle diseguglianze tra Nord e Sud del mondo, e via dicendo. È questo ad esempio il tema della cosiddetta “banca etica”, che investe adottando criteri morali ben precisi e, di conseguenza, rigettando tutta una serie di settori. C’è però da chiedersi se sia davvero tutto oro quello che luccica, dato che questa “corporate social responsibility” può condurre in varie direzioni e può essere letta entro prospettive assai differenti.
Non c’è dubbio che per molte aziende la melassa buonista a base di richiami all’etica è solo parte di una ben precisa strategia di marketing. Il politicamente corretto serve essenzialmente a costruire nicchie di mercato che sfruttano la pubblicità costantemente garantita dai gruppi militanti di carattere umanitario, ambientalista, solidale, legalista e via dicendo. Qui si assiste a un abile utilizzo di alcune parole associate all’etica, anche se in senso assai strumentale. A questo riguardo il caso più classico è il riferimento alla natura, alla retorica anti-industriale e al biologico in un numero crescente di prodotti del settore alimentare. In questo caso, è chiaro che le aziende continuano a perseguire la logica di sempre – l’aumento dei profitti – con altri mezzi.
Non è certo la cosa peggiore che possa accadere. Quando infatti la ricerca dell’utile è proprio rigettata, è lecito domandarsi se questo sia corretto nei riguardi degli azionisti.Proviamo infatti a ipotizzare che, nel nome di un buonismo volto a soccorrere i deboli, un’azienda decida di rifornirsi da produttori in difficoltà che vendono beni di scarsa qualità e alto prezzo, invece che ricorrere ad alternative vantaggiose. Fare beneficienza a danno di chi ha investito nell’impresa non è un comportamento facile da giustificare, anche perché in questa maniera non si persegue quella corretta gestione su cui si basa il rapporto di fiducia tra gli azionisti e il management. Oltre a ciò, l’adozione di queste regole redistributive impedisce al mercato di premiare i migliori fornitori a scapito di quelli di minore qualità.
Di conseguenza, le cattive imprese potrebbero anche sopravanzare le buone, a danno dei consumatori e dell’economia nel suo insieme. Con questo non si vuole negare l’importanza della solidarietà, della filantropia e della beneficienza. Non siamo isole e siamo chiamati a farci carico di chi ha bisogno. Per giunta, una società libera non può reggere se non sa sviluppare una fitta rete di associazioni, fondazioni, attività non profit e via dicendo, in grado di soccorrere i più deboli.
La retorica della “corporate social responsibility” è però tutt’altro. Se un azionista vuole aiutare qualcuno lo può sempre fare, liberamente, utilizzando i propri profitti personali: senza dover scoprire nelle pieghe di un bilancio consuntivo che i suoi soldi sono stati usati per perseguire “nobili” obiettivi. Per giunta, com’è facile comprendere, quando si ammette che una gestione aziendale possa perseguire obiettivi “etici” e non più solo “economici” si finisce per consegnare agli amministratori un’ampia libertà d’azione, che essi possono utilizzare per realizzare i loro più disparati obiettivi.
È chiaro che un amministratore è in primo luogo un uomo, e quindi ha criteri morali da rispettare: non può essere disonesto, investire in aziende criminali, imbrogliare dipendenti o clienti, minacciare, e via dicendo. Ma questi criteri etici sono molto più definiti e ristretti rispetto a quelli suggeriti da chi vorrebbe estendere alle aziende i principi morali che devono guidare i singoli nella loro ricerca di una vita “retta”. Identificando questi ultimi principi, per giunta, con alcune parole d’ordine del politically correct.
Ultimo punto. Non di radio queste imprese “etiche” – quale che sia il loro settore – sono assai impegnate a ottenere norme di favore, che attribuiscano loro una posizione di privilegio. Tanta retorica su etica e morale finisce spesso per convertirsi in azioni di lobbying che danneggiano i concorrenti e/o i consumatori. Un esito davvero paradossale.
Ma da solo il QE non può bastare

Ma da solo il QE non può bastare

Massimo Blasoni – Metro

Molte imprese non trovano credito perché spesso le banche non le ritengono in grado di restituire gli eventuali prestiti accordati. Un atteggiamento in parte comprensibile ma che tra il 2001 e il 2014 ha però comportato una riduzione del credito pari a circa 70 miliardi di euro. Il Quantitative Easing (QE) deciso dalla BCE potrà cambiare radicalmente questo stato di cose? Difficile.
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L’Europa è tornata a Keynes. Aspettiamoci il peggio

L’Europa è tornata a Keynes. Aspettiamoci il peggio

Carlo Lottieri

I tamburi hanno rullato a lungo, annunciando una radicale inversione di tendenza. A seguito della grave finanziaria che dagli Usa (legata ai suprime e alle politiche monetarie) si è presto trasferita in Europa (dove è in relazione piuttosto con gli alti debiti pubblici), hanno finito per avere la meglio quanti hanno voluto rilanciare il ruolo dello Stato nell’economia e moltiplicarne la capacità d’intervento. Non è difficile capire il perché di tutto ciò. C’erano in gioco interessi, certamente, ma anche fattori culturali. Pure in quella remota provincia dell’Impero che è l’Italia, lontana dai centri nevralgici, moltissimi economisti si sono costruiti sulla macroeconomia keynesiana e per anni hanno sofferto in silenzio. Negli anni passati, infatti, ben pochi si erano rivolti a loro per avere indicazioni sul da farsi.
Ora siamo tornati a Keynes e le prospettive politiche dell’Europa – dalla Grecia di Syriza alla Spagna di Podemos – sembrano proprio legate al caratteristico illusionismo di chi pensa che si possa – al tempo stesso – spendere denaro pubblico e costruire un futuro di crescita. Avvisaglie ce n’erano già state e molte, ben prima che la sinistra radicale conquistasse la scena. Negli scorsi anni nel Regno Unito, di fronte alle difficoltà di un settore finanziario nella bufera, il governo londinese non aveva trovato niente di meglio da fare che nazionalizzare (si pensi alla Northern Rock) e anche negli Stati Uniti si sono seguite queste logiche. I maxi-salvataggi sono stati moltissimi e insieme alla volontà di tenere artificiosamente bassi i tassi di interesse – sulla scia di un Giappone che peraltro è in una crisi di cui non si vede la fine – hanno finito per radicalizzare difficoltà che, altrimenti, si sarebbero già superate.
In questi anni, insomma, si sono accantonati tutti i capisaldi dell’economia liberale: iniettando soldi pubblici nei mercati ed evitando il fallimento delle società malgestite. Oltre a ciò, si è pensato di deresponsabilizzare le varie economie, creando meccanismi di stabilizzazione monetaria che nei fatti scaricano sui virtuosi le cattive scelte di chi, invece, dovrebbe pagare il prezzo dei propri errori. Ora ad Atene si annuncia il blocco delle privatizzazioni e si innalza il salario minimo. Una demagogia antiliberale che in questi anni è stata spesso utilizzata anche dalla destra, si pensi a Sarkozy, ora è gestita con maestria dalle forse dell’altermondialismo entrate nella stanza dei bottoni. Non ne verrà nulla di buono.
Lo statalismo dei moderati (conservatori o laburisti) ha aperto la strada allo statalismo dei radicali: l’estrema sinistra in Spagna e Grecia, e forse l’estrema destra in Francia. E tutto questo mentre Mario Draghi ha deciso di abbandonare ogni politica di rigore monetario e punta di fatto a monetizzare progressivamente i debiti pubblici. Ma è ragionevole ritenere che un’iniezione di denaro pubblico emerso dal nulla possa aiutarci a uscire dal guado? Per nulla. Al contrario, bisogna ripartire dai fondamentali e ricreare quelle condizioni istituzionali che possono rimettere in sesto il mercato. E allora bisogna avere una moneta forte e stabile, una proprietà tutelata, una bassa tassazione, un ordine giuridico che tuteli i contratti e una burocrazia ridotta ai minimi termini. Ma non riusciremo a contenere l’espansione delle regole e dell’intrusione dei funzionari se non ridurremo la pressione fiscale. Poteri che sopravvivono sottraendo il 50% e più della ricchezza devono avere sotto controllo l’intera società. Non ci sarà “sburocratizzazione” dell’Europa senza la fine del fiscalismo selvaggio che oggi domina la scena.
Lasciare Keynes e tornare al mercato, per giunta, significherebbe rimettere in piedi un sistema sanzionatorio. In altre parole, è necessario che chi ha gestito malamente un’azienda fallisca. Ma è pure necessario che la Grecia si faccia carico dei propri errori, che gli italiani si guardino nello specchio. Perché solo se chi sbaglia ne risponde ed esce di scena, il sistema può risanarsi e indurre gli operatori a operare correttamente.
Il problema è che la risposta “più Stato” nasce da un’interpretazione erronea di quanto è successo nell’ultimo decennio. Come per la crisi del ’29, si ritiene di essere dinanzi ad una crollo del capitalismo, ignorando in tal modo il ruolo giocato dalla Fed e dalle politiche pubbliche.
Come hanno evidenziato i commenti successi al quantitative easing della Bce, pochi però sembrano consapevoli che se il costo del denaro non è definito dal mercato, ci sono da attendersi crisi a ripetizione. Qualcuno ricorda la bolla finanziaria, legata non all’immobiliare, ma alle dot-com informatiche? Anche allora si accusarono gli operatori finanziari (certo colpevoli di comportamenti imprevidenti), ma non si puntò il dito contro chi – la banca centrale americana – aveva tenuto una politica iper-espansiva e quindi aveva indotto a compiere quegli investimenti. Di qui all’Atlantico il guaio maggiore sta nel fatto che gli europei si sono innamorati del modello “renano” e del welfare State: dimenticando il micidiale differenziale della crescita che da decenni ci separa dall’America, e questo nonostante lo statalismo e gli errori di Kennedy e Nixon, di Bush e Obama.
L’Europa allora non è un modello, ma invece ha bisogno di ripensarsi alla svelta: ne va della possibilità di avere un futuro.
Senzafiltro: Il governo non mantiene la promessa alle imprese italiane

Senzafiltro: Il governo non mantiene la promessa alle imprese italiane

Massimo Blasoni – Senzafiltro

Sappiamo bene come la politica viva di immagini e simboli in grado di far breccia nell’opinione pubblica. Chi governa tende però spesso a esagerare, contrabbandando come successi quelle che purtroppo restano soltanto promesse. Prendiamo il caso del pagamento dei debiti arretrati che la pubblica amministrazione ha con migliaia di imprese private: il premier Matteo Renzi e il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan sostengono di aver onorato la loro promessa di estinguerli ma i fatti purtroppo si incaricano di smentirli. I debiti di cui parlano sono quelli maturati entro il 31 dicembre 2013: solo per questi, infatti, è stato possibile per le imprese chiedere la certificazione e la relativa liquidazione di quanto dovuto. E solo a questi debiti ci si riferisce anche quando si monitorano i risultati al 31 ottobre delle altre iniziative del governo sul tema (garanzia pubblica sulla cessione del credito, deroghe al patto di stabilità, compensazione con alcuni debiti fiscali).
Incrociando il dato della spesa per beni e servizi così come certificata da Eurostat e quello dei tempi medi di pagamento così come monitorati da Intrum Justitia, il Centro studi “ImpresaLavoro” ha stimato uno stock di debiti per il 2013 pari a 74 miliardi di euro. Alle stesse conclusioni è giunto anche l’Ufficio Studi di Bankitalia. Siccome fino ad oggi i debiti rimborsati sono stati solo 34 miliardi (su uno stanziamento complessivo di 40), possiamo affermare che la promessa del governo, a rigor di matematica, non è stata mantenuta.
Nel frattempo si è accumulato nuovo debito e chiunque può comprendere come il suo stock si possa ridurre soltanto se i nuovi debiti risultano inferiori a quelli oggetto di liquidazione. Una condizione che non potrà crearsi fino a quando il livello di spesa pubblica e i suoi tempi medi di pagamento non subiranno una drastica diminuzione. I dati Eurostat ci dicono invece che dall’inizio del 2014 a oggi siano già stati consegnati alla Pa italiana beni e servizi per un valore di circa 113,5 miliardi di euro. Contemporaneamente, l’analisi dei flussi di cassa delle amministrazioni tracciabile attraverso il SIOPE non segnala alcuna diminuzione dei tempi medi di pagamento, che restano con ogni probabilità di circa 170 giorni (altro che i 30 giorni imposti sulla carta dall’Europa!).
Risultato? Il nostro stock di debito è rimasto sostanzialmente invariato, restando così il maggiore a livello europeo sia in termini nominali che relativi. Già dal 2010, l’Italia ha infatti il peggior rapporto tra debiti commerciali e PIL, superando tanto la Spagna quanto la Grecia, le uniche in Europa (a parte l’Italia) a superare il 3% in questo rapporto. Per un’impresa italiana che lavora con la PA, l’incidenza di questi costi sulla singola fornitura risulta così pari al 4,2%: un dato circa 4 volte superiore a quello sostenuto da un’impresa francese (1,2%) e circa 7 volte superiore a quello sostenuto da un’impresa tedesca (0,6%). Le conseguenze di questa situazione sono pesantissime: il ritardo dei pagamenti ai fornitori della PA ha infatti finora determinato un costo del capitale a carico delle imprese italiane di oltre 6 miliardi di euro all’anno, pari a quasi 30 miliardi nel periodo 2009-2013.
L’onere complessivo a carico del sistema grava inoltre sul tessuto produttivo economico fino a coinvolgere imprese subfornitrici e dipendenti. In questi numeri non sono infatti ricompresi gli effetti legati ad altri aspetti comunque rilevanti quali i minori investimenti operati dalle imprese in conseguenza della minore disponibilità di capitale; la riduzione di dipendenti e quindi della distruzione di posti di lavoro; i costi del dissesto delle imprese che, per le conseguenze dei ritardi di pagamento della PA, si sono trovati in una situazione di insolvenza, fino ad arrivare (nei casi più gravi) al fallimento; i costi diretti ed indiretti a carico dei contribuenti. In merito a quest’ultimo aspetto va infatti ricordato che, a partire dal 1° gennaio 2013, il recepimento di una direttiva europea ha obbligato la Pubblica Amministrazione a versare gli interessi di mora sui ritardi, calcolati sulla base del tasso di riferimento BCE maggiorato di 8 punti percentuali su base annua. Tale misura non compensa del tutto il costo del capitale a carico delle imprese italiane ma grava comunque sui cittadini italiani per oltre 3 miliardi di euro all’anno.
Il “bazooka” di Draghi e la saggezza della piccola Svizzera

Il “bazooka” di Draghi e la saggezza della piccola Svizzera

Carlo Lottieri

Negli scorsi giorni due avvenimenti, peraltro strettamente collegati, hanno dominato la cronaca economica europea.
Il primo riguarda la Svizzera, dato che la Banca centrale elvetica ha deciso di non difendere più il cambio 1,20 tra euro e franco, con la conseguenza che la seconda valuta si è notevolmente apprezzata fino a raggiungere la parità con la moneta comune europea. La mossa è avvenuta un po’ a sorpresa, ma è pur vero che dal 2012 a oggi erano stati in molti a sostenere che un cambio tanto inadeguato prima o poi si sarebbe dovuto abbandonare. In un mondo caratterizzato da una forte domanda di franchi svizzeri, la difesa di quel livello avrebbe finito per rappresentare un costo troppo elevato per Berna.
Cosa però ha indotto gli svizzeri a cambiare strada? È chiaro che essi avrebbero difeso ancora per un po’ quel cambio del tutto artificioso, cedendo alle pressioni lobbistiche di operatori turistici ed esportatori, se non vi fosse stato l’annuncio di una massiccia azione espansiva da parte della Bce. Dinanzi al cosiddetto “bazooka” di Mario Draghi, che si apprestava a immettere – nel corso del tempo – più di mille miliardi di euro, la Bns ha preso atto della realtà e ha lasciato che il mercato dei cambi facesse il suo corso.
Sull’azione di Draghi si è registrato un (quasi) unanime consenso. Si è detto che – finalmente! – le autorità monetarie prendevano iniziative anti-recessione, che questo denaro fresco avrebbe potuto aiutare gli investimenti e le imprese, che in tal modo gli interessi sul debito pubblico potevano diminuire, con grande beneficio per i conti degli Stati gravati da debiti. E poi si è detto che c’era bisogno di contrastare la deflazione con una “buona” inflazione intorno al 2%. Credo che sia opportuno, invece, essere scettici.
Una buona moneta è una moneta stabile, che facilita gli scambi, permette un’efficace contabilità e viene accumulata in vista di investimenti futuri. Queste sono le funzioni essenziali della moneta, ma nessuna di queste è davvero preservata quando chi la gestisce pretende di manipolarla a piacere. Se nel corso della storia passata il processo evolutivo gestito dagli operatori di mercato ha selezionato l’oro, questo è avvenuto proprio perché si trattava di una moneta non facilmente moltiplicabile con una decisione arbitraria come quella assunta qualche giorno fa da Draghi.
Oltre a ciò, Draghi ha agito – come qualche commentatore tedesco ha evidenziato – a vantaggio dei Paesi meno virtuosi e più indebitati (Italia e Francia, in particolare) e a danno di quelli più virtuosi. Questo “premiare” chi fa debiti non soltanto è ingiusto, ma rappresenta un incentivo ad agire in maniera sconsiderata. Per giunta ora si entra in una fase inflazionistica che, dopo la fiammata iniziale, ci obbligherà a fare i conti con tutte le difficoltà che sono caratteristiche di un’economia con una moneta debole.
L’Europa si può in qualche modo permettere di fare questo, illudendosi che non vi sia un prezzo assai salato da pagare, perché è una grande realtà, che unisce centinaia di milioni di persone. Questo processo sarà distruttivo, ma i nodi verranno al pettine negli anni a venire. Al contrario, la dirigenza della banca centrale elvetica – che pure a lungo non si è mostrata più saggia delle dirigenze delle altre banche centrali (americana, europea, giapponese ecc.) – è stata costretta a invertire la propria direzione dalle limitate dimensioni dell’economia del Paese, che in definitiva conta solo otto milioni di abitanti.
Ancora una volta, la Svizzera ha tratto vantaggio dalla propria “piccolezza”. Se alla fine il buon senso ha prevalso e se ora – di conseguenza – gli svizzeri possono contare su un cambio più affidabile (che può orientare gli attori economici a reimpostare su basi maggiormente solide la loro struttura produttiva) è solo grazie al fatto che non hanno potuto diluire la responsabilità dei propri errori e non hanno potuto proseguire in quella politica monetaria dispendiosa e redistributrice che prima li portava ad acquisire euro.
È questa una buona lezione che, in qualche modo, dovrebbe anche indurci a riflettere maggiormente su cosa sta diventando l’Unione europea e sulle conseguenze negative derivanti dall’espansione del suo potere.