impresalavoro
Una condotta inaccettabile
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Davide Giacalone
Mettiamo, per pura ipotesi teorica, che la Ragioneria generale dello Stato abbia avuto ragioni per non “bollinare” la legge di stabilità, non convalidandone le coperture, o che il Quirinale, dopo l’attento esame promesso, ne abbia rilevato le incongruenze e ne chieda la riscrittura. A quel punto il governo italiano dovrebbe ritirare il testo inviato alla Commissione europea, totalizzando una continentale figura barbina. Uscendo dall’ipotetico e dal teorico, quindi, se qualche aggiustamento dovrà essere fatto si dovrà procedere quasi di soppiatto, per evitare di danneggiare l’Italia.
Ciò significa che l’invio temerario, l’esposizione scoppiettante, l’integrazione nelle trasmissioni televisive innescano un pericoloso conflitto istituzionale, mettendo la Ragioneria e il Colle nelle condizioni di dovere rinunciare al proprio ruolo (più la Ragioneria, per la verità, perché questa storia che al Quirinale si debbano sempre rifare i conti e rivedere tutto è fuori dai binari costituzionali, è un allargamento smisurato della prudenza che volle la firma del Colle).
In altre parole, sono con le spalle al muro: o validano o ci espongono a pericoli eccessivi. Proprio per ragioni di convenienza, nel braccio di ferro che si è determinato nell’intera Unione europea, era stato suggerito al governo italiano di anticipare la legge di stabilità. Di presentarla ben prima della scadenza ultima (15 ottobre). Hanno preferito attendere l’ultimo minuto. Per essere precisi, però, lo hanno sforato, perché è vero che il testo è stato spedito entro i termini, ma, come si dimostra, privo dei necessari visti. Senza contare che il dibattito pubblico, da una settimana, si sviluppa senza che esista un testo da leggere e studiare, ma solo slides e interviste da commentare. Non è semplice malcostume. È una condotta inaccettabile.
La Legge di Stabilità
Redazione Correlati, Editoriali davide giacalone, economia, governo, impresalavoro, irap, legge di stabilità, manovra, Matteo Renzi
La Legge di Stabilità – Videocommento di Davide Giacalone
L’Italia ha dato 60 miliardi ai fondi europei
Redazione Scrivono di noi bankitalia, debito pubblico, europa, impresalavoro, libero
Libero
L’Italia è contributore netto degli strumenti di stabilità finanziaria europei per ben 60 miliardi di euro. Lo rivela un’elaborazione del Centro Studi “ImpresaLavoro” su dati Bankitalia. Negli ultimi 4 anni, infatti, il nostro Paese ha contribuito con 60 miliardi di euro alla creazione e all’avvio dell’EFSF (European Financial Stabilty Facilty) e dell’ESM (European Stability Mechanism): tutte iniziative di cui l’Italia non ha mai usufruito, pur essendo uno dei principali soggetti contributori.
In termini concreti questo ha un impatto rilevante sui nostri conti pubblici: al netto di quei contributi, infatti, il nostro Paese avrebbe oggi un debito di 60 miliardi più basso, con ovvie conseguenze per la finanza pubblica. «Oggi l’Europa è chiamata a validare i nostri conti pubblici – osserva il presidente di “ImpresaLavoro” Massimo Blasoni – ma non si può ignorare il fatto che l’Italia stia contribuendo più che proporzionalmente rispetto alle sue possibilità a strumenti di solidarietà economica tra Paesi da cui non ricava nessun beneficio».
Rapporto Debito/Pil: sui nostri conti pesano i 60 miliardi di contributi dati all’Europa per la stabilità finanziaria degli altri Paesi
Redazione Studi bankitalia, debito pubblico, europa, impresalavoro, pil
NOTA
L’Italia è contributore netto degli strumenti di stabilità finanziaria europei per ben 60 miliardi di euro. Lo rivela un’elaborazione del Centro Studi “ImpresaLavoro” su dati Bankitalia. Negli ultimi 4 anni, infatti, il nostro Paese ha contribuito con 60 miliardi di euro alla creazione e all’avvio dell’EFSF (European Financial Stabilty Facilty) e dell’ESM (European Stability Mechanism): tutte iniziative di cui l’Italia non ha mai usufruito, pur essendo uno dei principali soggetti contributori.
In termini concreti questo ha un impatto rilevante sui nostri conti pubblici: al netto di quei contributi, infatti, il nostro Paese avrebbe oggi un debito di 60 miliardi più basso, con ovvie conseguenze per la finanza pubblica. Innanzitutto un miglior rapporto tra Debito e Pil, che passerebbe dal 131.6% al 127.9% e in secondo luogo un miglioramento del rapporto tra Deficit e Pil che si assesterebbe al 2.9% allontanandosi dalla soglia limite del 3%.
Non si tratta di un mero esercizio contabile perché gli investitori e gli osservatori internazionali guardano il dato numerico del nostro debito e dei suoi rapporti con il Prodotto Interno Lordo e non analizzano la “bontà” di quel debito e la natura che lo ha generato. Senza considerare che, volendo lasciare invariato l’equilibrio tra disavanzo e prodotto interno lordo, si libererebbero 2,16 miliardi di risorse disponibili derivanti da minore spesa per interessi da destinare ad altre finalità.
«Oggi l’Europa è chiamata a validare i nostri conti pubblici – osserva il presidente di “ImpresaLavoro” Massimo Blasoni – ma sarebbe altrettanto importante che, al rigore necessario, si applicasse una buona dose di buonsenso: non si può ignorare il fatto che l’Italia, con un debito pubblico consistente e una ripresa difficile da agganciare, stia contribuendo più che proporzionalmente rispetto alle sue possibilità a strumenti di solidarietà economica tra Paesi da cui non ricava nessun beneficio».
Rassegna Stampa:
Libero
Imprenditorialità, Italia ultima in Ue
Redazione Scrivono di noi Global Entrepreneurship Monitor, imprend, imprenditorialità, impresa, impresalavoro, metronews
Metronews
L’Italia non è un Paese per imprenditori. Lo conferma la ricerca che il Centro Studi “ImpresaLavoro” ha effettuato elaborando i dati raccolti nell’ultimo Global Entrepreneurship Monitor (GEM), il monitoraggio dell’imprenditoria nelle principali economie avanzate che a partire dal 1999 viene condotto ogni anno sotto la guida della London Business School and Babson College.
L’indice misura il dinamismo e la propensione a fare impresa di ogni singolo paese, premiando quei territori in cui gli imprenditori percepiscono migliori possibilità nell’intraprendere e ottengono migliori risultati. Ne esce purtroppo un quadro a tinte fosche: nel 2013 l’Italia è il fanalino di coda della classifica europea e perde il confronto con tutti i principali competitor: Irlanda (settima), Portogallo (decimo), Gran Bretagna (16esima), Germania (18esima), Spagna (19esima), Grecia (20esima) e Francia (21esima). Svettano economie in grande crescita come Lettonia, Lituania o Polonia.
Per quanto riguarda l’indicatore che misura la percentuale dei soggetti dai 18 ai 64 anni che sono nuovi imprenditori, nel 2013 il nostro Paese si è collocato al 23esimo della classifica europea col 2,4%, perdendo il confronto con tutti i principali competitor: Irlanda (decima), Portogallo (14esimo), Gran Bretagna (16esima), Grecia (17esima), Germania (19esima), Spagna (20esima) e Francia (22esima).
Tagliamo le imposte, ma per tutti
Redazione Correlati, Editoriali carlo lottieri, fisco, imposte, impresalavoro, imprese, Matteo Renzi, tasse
Carlo Lottieri
La proposta avanzata da Matteo Renzi in tema di fisco, con il progetto di ridurre per tre anni le imposte azzerando i contributi a chi assuma nuovi dipendenti, sta riscuotendo successo: anche in ambienti culturali lontani dalla maggioranza di centro-sinistra oggi al governo. C’è però da chiedersi se non vi sia qualche falla in questa maniera di procedere.
Un punto è chiaro e fuori e discussione: le imposte vanno ridotte. È necessario che lo Stato si ritragga, tagliando le spese, e che in tal modo sia possibile abbassare la pressione fiscale senza sfasciare ancor più i conti pubblici con altro debito. Ma è giustificabile una politica che privilegi, in questo caso, le aziende che decidono di assumere nuovi dipendenti a scapito delle altre?
L’intenzione è positiva, perché non c’è dubbio che rimanere senza lavoro è qualcosa di tragico ed è giusto fare il possibile perché chiunque abbia una vera chance di essere produttivo: di mettersi al servizio dei bisogni degli altri. Nondimeno una simile misura suscita qualche perplessità.
In primo luogo, essa è discriminatoria. L’impresa che ha assunto un anno fa non godrà del beneficio tributario riconosciuto a quanti si sono presi in azienda altri dipendenti dopo l’approvazione della norma: e questo comporta due conseguenze. Una sul piano della giustizia (perché due aziende sono trattate in maniera differente solo perché una ha assunto prima e l’altra dopo) e l’altro sul piano della competitività, dal momento che l’azienda che assume solo all’indomani dell’approvazione della norma può fare prezzi inferiori a quella che aveva assunto in precedenza.
In secondo luogo, questa scelta può modificare il comportamento degli amministratori delle aziende, ad esempio portandoli ad assumere invece che a rinnovare i macchinari, e non è detto che sia una scelta economicamente ragionevole (capace, insomma, di soddisfare al meglio i consumatori). Se vi sono norme che mi inducono ad assumere invece che utilizzare altrimenti le mie risorse, è possibile che io assuma anche quando altre iniziative sarebbero state migliori.
In fondo, tutto si riassume nella pretesa dei governanti di “indirizzare” le scelte delle imprese private. Ma non è in questo modo che cresce un’economia libera. Sarebbe allora molto meglio che la riduzione del prelievo fiscale, se mai si farà, sia fatta senza dividere tra figli e figliastri: senza aiutare chi investe e chi non, chi assume e chi non, chi esporta e chi produce per il mercato interno, e così via.
Un ordine economico di libero mercato non nasce dalla programmazione di politici che orientano le scelte degli individui, ma quale risultante delle decisioni di quanti (imprenditori, dipendenti, consumatori, ecc.) sono in condizione di poter decidere della propria vita e dei propri beni. Ben venga quindi un vero taglio al prelievo fiscale e, assieme a questo, anche un dimagrimento dell’apparato pubblico. Ma se si riuscisse a togliere ogni elemento dirigistico (e con esso l’illusione che la politica possa creare occupazione) sarebbe molto meglio.
Imprenditorialità: Italia ultima nella classifica europea elaborata da ImpresaLavoro su dati 2013 del Global Entrepreneurship Monitor (GEM)
Redazione Studi Global Entrepreneurship Monitor, imprenditorialità, impresa, impresalavoro, imprese
NOTA
L’Italia non è un Paese per imprenditori, nonostante la confermata vocazione all’imprenditorialità dei suoi abitanti. Lo conferma la ricerca che il Centro Studi “ImpresaLavoro” ha effettuato elaborando i dati raccolti nell’ultimo Global Entrepreneurship Monitor (GEM), il monitoraggio dello stato dell’imprenditoria nelle principali economie avanzate che a partire dal 1999 viene condotto ogni anno sotto la guida della London Business School and Babson College. Si tratta di un’analisi puntuale effettuata da quasi un centinaio di Istituti di ricerca e che riesce a mappare il comportamento e le condizioni in cui agiscono gli imprenditori con riferimento al 75% della popolazione e all’89% del prodotto interno mondiale. L’analisi e l’aggregazione dei 19 indicatori misurati da GEM ha permesso a Centro Studi “ImpresaLavoro” di elaborare un suo “Indice dell’Imprenditorialità” che analizza lo stato dell’imprenditorialità nei 23 principali paesi dell’Europa a 28. Ne esce purtroppo un quadro a tinte fosche: nel 2013 l’Italia è il fanalino di coda della classifica europea e perde il confronto con tutti i principali competitor: Irlanda (settima), Portogallo (decimo), Gran Bretagna (16esima), Germania (18esima), Spagna (19esima), Grecia (20esima) e Francia (21esima). L’indice misura il dinamismo e la propensione a fare impresa di ogni singolo paese, premiando quei territori in cui gli imprenditori percepiscono migliori possibilità nell’intraprendere e ottengono migliori risultati. Svettano economie in grande crescita come Lettonia, Lituania o Polonia ma fanno segnare ottime performance anche paesi con economie mature quali Olanda, Portogallo o Irlanda.
Ecco di seguito la situazione italiana nel contesto europeo misurata sulla base di alcuni dei 19 indicatori misurati da GEM.
PERCENTUALE NUOVI IMPRENDITORI
Questo indicatore misura la percentuale dei soggetti dai 18 ai 64 anni che sono nuovi imprenditori, vale a dire che sono coinvolti nella fondazione di un nuove imprese dei quali saranno proprietari o co-proprietari; i titolari di queste imprese non pagano salari, stipendi o altre forme di retribuzione da più di tre mesi. Nel 2013 il nostro Paese si è collocato al 23esimo della classifica europea col 2,4%, perdendo il confronto con tutti i principali competitor: Irlanda (al 10esimo posto col 5,5%), Portogallo (al 14esimo posto col 4,2%), Gran Bretagna (al 16esimo posto col 3,6%), Grecia (al 17esimo posto col 3,3%), Germania (al 19esimo posto col 3,1%), Spagna (al 20esimo posto col 3,1%) e Francia (al 22esimo posto col 2,7%).
INTENZIONE DI FARE IMPRESA
Questo indicatore misura la percentuale dei soggetti dai 18 ai 64 anni (esclusi gli individui coinvolti in qualsiasi fase di un’attività imprenditoriale) che intendono avviare un’impresa nei prossimi tre anni. Nel 2013 il nostro Paese si è collocato al 15esimo posto della classifica europea col 9,8%, vincendo il confronto con diversi principali competitor: Grecia (al 18esimo posto coll’8,8%), Spagna (al 19esimo posto coll’8,4%), Gran Bretagna (al 22esimo posto col 7,2%) e Germania (al 23esimo posto col 6,8%). Meglio dell’Italia sono riusciti a fare solo Portogallo (all’11esimo posto con 13,2%) nonché Francia e Irlanda (entrambe al 12esimo posto col 12,6%).
OPPORTUNITA’ PERCEPITE
Questo indicatore misura la percentuale dei soggetti dai 18 ai 64 anni che vedono buone opportunità di avviamento di un’impresa nell’area nella quale vivono. Nel 2013 il nostro Paese si è collocato al 19esimo posto della classifica europea col 17%, perdendo il confronto con quasi tutti i principali competitor: Gran Bretagna (al quinto posto col 36%), Germania (al nono posto col 31%), Irlanda (al 12esimo posto col 28%) e Francia (al 15esimo posto col 23%) e Portogallo (al 16esimo posto col 20%). Peggio dell’Italia sono riusciti a fare solo Spagna (al 22esimo posto col 16%) e Grecia (al 23esimo posto col 14%).
ASPETTATIVE DI CRESCITA
Questo indicatore misura la percentuale delle nuove attività imprenditoriali che si aspettano di assumere almeno 5 impiegati nei prossimo 5 anni. Nel 2013 il nostro Paese si colloca al 22esimo posto della classifica europea col 12%, perdendo il confronto con quasi tutti i principali competitor: Irlanda (al quinto posto col 35%), Portogallo (al 12esimo posto col 27%), Gran Bretagna (al 13esimo posto col 24%), Germania (al 14esimo posto col 22%), Francia (al 17esimo posto col 21%) e Spagna (al 20esimo posto col 15%). Peggio dell’Italia fa solo la Grecia, collocandosi al 23esimo posto coll’8%.
TASSO DI INTERNAZIONALIZZAZIONE
Questo indicatore misura la percentuale delle nuove attività imprenditoriali che dichiarano che almeno il 25% dei clienti viene da un Paese estero. Nel 2013 il nostro Paese si è collocato, a pari merito con la Gran Bretagna, al 15esimo posto della classifica europea col 17%, vincendo il confronto con diversi principali competitor: Germania (al 18esimo posto col 15%), Grecia (al 21esimo posto col 13%) e Spagna (al 23esimo posto col 9%). Meglio dell’Italia sono riusciti a fare solo Portogallo (al quinto posto col 30%) e Francia (al 14esimo posto col 19%).
«L’elaborazione degli indicatori relativi allo stato dell’imprenditoria in Italia ci consegnano un quadro abbastanza chiaro» osserva Massimo Blasoni, presidente di “ImpresaLavoro”. «Nonostante gli italiani abbiano, più o meno, la stessa voglia di intraprendere dei colleghi delle principali economie avanzate europee, difficilmente riescono a dar seguito ad iniziative di successo. L’ambiente in cui sono chiamati a muoversi è infatti particolarmente penalizzante rispetto a quello dei competitor europei in tema di tasse, regole, burocrazia. Concretamente questo si traduce in un bassissimo tasso di nuove imprese (siamo ultimi in Europa) e in un dato preoccupante sul fronte occupazionale: solo la Grecia fa peggio di noi in quanto a imprese che hanno intenzione di ampliare la propria base occupazionale nei prossimi cinque anni. In queste settimane – conclude Blasoni – si è a lungo parlato di lavoro: il tema delle regole è certamente importante ma dobbiamo affrontare anche il tema della produzione di posti di lavoro da parte delle imprese. Se non nascono nuove imprese e se quelle esistenti non si sviluppano, rischia di rivelarsi inutile anche un’eventuale semplificazione delle regole: questo indice ci dice con chiarezza che per rimettere in moto il paese occorre rimettere in moto il nostro tessuto imprenditoriale».
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Rassegna Stampa:
Libero
Metronews
Ogni anno di durata dei contenziosi in materia di lavoro costa in media 4,8 punti di disoccupazione
Redazione Studi contenziosi, giustizia, impresalavoro, lavoro
NOTA
La lentezza dei contenziosi in materia di lavoro costa in media 4,8 punti percentuali di disoccupazione per ogni anno di durata. Il dato risulta da una ricerca del Centro Studi “ImpresaLavoro” che approfondisce le interessanti indicazioni emerse in materia di disoccupazione e lunghezza dei processi sul lavoro dallo “Staff Report for the 2014 Article IV Consultation / Italy”, pubblicato in settembre dal Fondo Monetario Internazionale e nel quale si sostiene che un dimezzamento dei tempi dei processi per lavoro in Italia porterebbe a un aumento della probabilità di impiego di circa l’8 per cento. Secondo l’FMI, infatti, il nostro sistema giudiziario è infatti ancora molto lento in confronto alla media europea, e necessiterebbe di misure più opportune rispetto al mero incremento dei costi del giudizio introdotto di recente quali la promozione e l’uso dei sistemi alternativi di risoluzione delle controversie, una razionalizzazione del tipo di cause che trovano accesso al terzo grado di giudizio, l’introduzione di indicatori di performance per tutti i tribunali nonché la condivisione di best practice regionali.
La lunghezza delle cause fino al secondo grado di giudizio (a livello nazionale la media è di 2 anni e 2 mesi) è stimata da “ImpresaLavoro” sulla base dei dati pubblicati dal Ministero della Giustizia e secondo le formule indicate dallo stesso dicastero. Il calcolo dell’indicatore di lunghezza media complessiva è aggiustato sulla base dei suggerimenti provenienti dalla letteratura scientifica, che considerano anche l’effettiva percentuale di cause che si interrompono dopo il primo grado. In particolare, si sono considerate le rilevazioni ufficiali riferite ai 26 distretti giudiziari negli anni 2009-2012: numero di nuovi procedimenti, numero di procedimenti conclusi e numero di procedimenti ancora pendenti. I dati sono stati successivamente incrociati con quelli relativi alla disoccupazione su base territoriale rilevata dall’Istat per l’anno 2013.
L’analisi di “ImpresaLavoro” mostra come ogni anno di lunghezza dei processi di lavoro costi in media ben 4,8 punti di disoccupazione. Il divario tra distretti più e meno virtuosi è ampio a tal punto che si va dai 9 mesi di Torino (con un tasso di disoccupazione dell’11,4%) ai 4 anni e 3 mesi di Messina (con il 21,9% di disoccupazione). A Trento, dove la disoccupazione è più bassa (6,6%) il tempo medio delle cause per lavoro è di 11 mesi, mentre a Napoli (che ha il 25,8% di disoccupazione) è di quasi 3 anni. È importante infine sottolineare che, secondo le ricerche di “ImpresaLavoro”, a incidere in modo così negativo sulla disoccupazione non sarebbe in modo generico la lunghezza dei processi civili nella loro interezza ma bensì, come del resto è comprensibile, in modo specifico proprio quella dei processi per i contenziosi in materia di lavoro.