innovazione

Ecco come salvare l’Italia

Ecco come salvare l’Italia

di Massimo Blasoni – Libero

«È maggiore il nostro Pil o quello russo? Molti propenderebbero per Mosca. Non è così, il nostro è superiore, a leggere i dati dell’FMI, e pur sempre siamo gli ottavi al mondo. Questo per dire che siamo abituati alla nostra sottorappresentazione, con ovvi effetti negativi. Dunque prima cosa crederci» dice Massimo Blasoni, imprenditore e presidente del Centro studi ImpresaLavoro. «Secondo: dobbiamo investire in innovazione e digitalizzazione. Siamo 25esimi su 28 in Europa, dietro di noi solo Grecia, Bulgaria e Romania. Il mondo, velocissimo, sta cambiando: si stima che nei prossimi vent’anni metà delle attuali professioni saranno sostituite dall’automazione. Perderemo milioni di posti di lavoro ma ne nasceranno altri, nuovi, tecnologici. Un’opportunità per un Paese con scarse materie prime. Occorre però investire e aprirsi alle novità. Terzo: è difficile fare impresa in Italia. Siamo tra i peggiori quanto a tempi per i permessi di costruzione e il nostro mercato del lavoro si occupa troppo di forme e garanzie e poco di occupabilità. Serve un cambiamento radicale. Quarto: occorre ridurre il debito e dunque la spesa pubblica che non è solo eccessiva ma soprattutto è mal distribuita. Continuiamo a diminuire gli investimenti e avremmo invece bisogno di nuove infrastrutture fisiche e digitali, mentre cresce inarrestabilmente la spesa corrente. Quinto: è necessario ridurre le tasse, ovvio. Non potendo abbattere genericamente il carico fiscale bisogna, in modo mirato, tradurre la detassazione in uno sprone agli investimenti. Ad esempio rafforzando i super ammortamenti per l’acquisto di beni aziendali o reintroducendo misure come il decreto Tremonti del 1994 che consentiva alle startup giovani per tre anni di non pagare tasse azzerando pure tutti gli adempimenti burocratici. Funzionò? Con me sì, oggi la mia azienda occupa 2.300 persone».

La nostra crescita è prigioniera della burocrazia

La nostra crescita è prigioniera della burocrazia

di Massimo Blasoni – Il Giornale

Non è un caso che nel luogo al mondo dove vi è più innovazione, la California, quando un’azienda vuole introdurre un nuovo prodotto o un nuovo servizio non si usano le vecchie regole: se ne scrivono di nuove. E queste regole vengono scritte insieme, dall’azienda e dall’autorità pubblica. In Italia non è così: il nostro è un sistema costruito sulla gestione dell’esistente.

La regola prevale sull’innovazione e spesso ne blocca lo sviluppo. Legge elettorale e riforme costituzionali rappresentano temi rilevanti per il Paese ma – non lo si ripete mai abbastanza – i problemi fondamentali restano quelli del lavoro e dell’economia. Questioni tutt’altro che risolte, come purtroppo certificano gli ultimi dati sulla disoccupazione giovanile che è tornata a crescere sino a un preoccupante 39,4%. Posto che non vi è la possibilità di far ripartire l’occupazione incrementando la spesa pubblica (molti lo vorrebbero ma con questo debito è impensabile), non resta che convincersi che l’unica strada per far ripartire crescita e lavoro è sostenere lo sviluppo delle nostre imprese. E qui il tema si complica perché parte dei partiti e degli imprenditori hanno sempre interpretato questo sostegno come l’elargizione di contributi. Una policy che ha dimostrato di non funzionare. Servono piuttosto opportunità per lo sviluppo che però troppo spesso vengono negate agli imprenditori da una burocrazia asfissiante e dall’inadeguatezza delle infrastrutture. Secondo i dati del report Doing Business una concessione edilizia in Italia richiede 227 giorni e servono a un medio imprenditore 240 ore solo per pagare le tasse: quasi due mesi sottratti alla produzione. Ben diversa la situazione in Francia o Inghilterra, dove per gli stessi adempimenti si deve invece dedicare la metà del tempo.

Quanto alle infrastrutture, si pensi non solo a quelle fisiche (strade, aeroporti, ferrovie…) ma soprattutto a quelle digitali. Siamo tra gli ultimi in Europa per velocità e diffusione della banda ultra larga e in fondo alla classifica per rapidità del download. Non si tratta solo di statistiche. Purtroppo, in un’economia dominata dalla velocità, procedere più lentamente ha un prezzo rilevante. Così proliferano tre fenomeni: aziende che chiudono, altre che se ne vanno e altre ancora che vengono acquistate da gruppi stranieri. La lista delle imprese italiane cedute all’estero è lunghissima. In un’economia globale il fenomeno non è di per sé negativo. Colpisce però lo sbilanciamento e la minor penetrazione dei nostri imprenditori all’estero. Siamo troppo piccoli: la Borsa di Milano non solo è anni luce distante da quella di Wall Street, ma con i suoi 522 miliardi di capitalizzazione è un terzo di quella di Francoforte e Parigi. Tra l’altro, banche e Fondi di investimento che potrebbero accompagnare lo sviluppo hanno da noi dimensioni molto più contenute. Ovviamente vi sono molte responsabilità degli imprenditori. Tuttavia in Italia – e questa è una colpa dello Stato – vige un modello tortuoso, formalista, burocratico, fatto di bolli e autorizzazioni con una produzione legislativa eccessiva o superata dall’evoluzione dei rapporti sociali che limita fortemente la crescita e qualche volta la sussistenza stessa delle aziende. E non dimentichiamo la debolezza del nostro governo.

Certo, siamo in Europa ma la competizione tra Stati resta evidente e la capacità francese o tedesca di difendere le proprie esportazioni mette ancora più in luce la nostra fragilità. Il cahiers de doléances sarebbe ancora molto lungo. Basti ricordare l’incredibile lentezza della giustizia civile e la complessità delle cause di lavoro: due veri deterrenti agli investimenti. Oppure il nodo irrisolto delle liberalizzazioni e privatizzazioni. Il punto è chiedersi perché vi sia una scarsa propensione del mondo politico ad affrontare questi temi. Le risposte sono molte ma certo tra esse vi sta anche la scarsa presenza di imprenditori e partite Iva nelle istituzioni. Eppure non investire in innovazione e continuare a nutrire le mille inefficienze della PA rappresenta un danno enorme per tutti i cittadini. Occorre porre i temi liberali di nuovo al primo punto dell’agenda politica. I nostri irrisolti problemi sono ancora lì a suggerircelo.

Tra le molte note dolenti chiudo con una positiva. Il numero di giovani imprenditori è in forte crescita; per desiderio di intraprendenza e realizzazione prima ancora che per motivi economici. Sono 120mila le nuove imprese aperte da under 35 nel 2015: più della metà sono sopravvissute. Pagano tasse e creano occupazione. Per farne crescere il numero non ci vorrebbe poi molto. C’è necessità di opportunità più che di aiuti, quelle che gli ultimi governi non hanno saputo offrire.

Presentazione del libro: “La politica italiana per l’innovazione”

Presentazione del libro: “La politica italiana per l’innovazione”

Martedì 17 gennaio alle ore 17:30 nella sede della Fondazione Einaudi in Largo dei Fiorentini, 1 a Roma Salvatore Zecchini presenterà il suo libro “La Politica Italiana per l’Innovazione: criticità e confronti”. Discuteranno con l’autore, Giuseppe Pennisi e Antonio Marzano.

Il volume, edito dal Centro Studi ImpresaLavoro, parte dalla valutazione per cui  malgrado i numerosi sostegni introdotti, negli ultimi anni, dai Governi italiani per accrescere ricerca ed innovazione, il nostro Paese non è riuscito a ridurre il divario che lo separa dalle economie più innovative dell’Unione Europea. Al tempo stesso, l’attività di innovazione, particolarmente tra le piccole e medie imprese, non è riuscita a svolgere quella funzione di motore dello sviluppo economico che si auspicava sia negli anni della recessione economica, sia negli anni pre-crisi. Nasce da queste considerazioni lo spunto che ha spinto Salvatore Zecchini – già Direttore del Servizio Studi della Banca d’Italia, Executive Director del Fondo Monetario Internazionale e Vice Segretario Generale dell’Ocse – a esaminare l’insieme degli interventi messi in atto dai Governi italiani, confrontandoli, da un lato con la realtà del fare innovazione in Italia, e dall’altro lato con le politiche e strategie disegnate ed attuate dai Paesi di maggior successo nella ricerca ed innovazione.

 

 

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La politica croce e delizia di chi innova

La politica croce e delizia di chi innova

di Giuseppe Pennisi – Avvenire

L’inchiesta sulle “idee per riaccendere l’Italia” e sull’innovazione e le vere e proprie eccellenze, inducono a chiedersi se e come “la politica industriale” possa contribuire ad accelerare il rinnovamento. Per decenni, una linea di pensiero ha ritenuto che l’intervento dello Stato potesse non incoraggiare ma addirittura frenare l ‘innovazione: in un volume del 1972 ( “Il Governo dell’industria in Italia”, il Mulino 1972) definiva la pubblica amministrazione in supporto dell’innovazione «impicciona» e «pasticciona». A un giudizio quasi analogo si giunge dalla lettura di un recente volume di Franco Debenedetti. Il titolo è eloquente: “Scegliere i vincitori, salvare i perdenti: l’insana idea della politica industriale” (Marsilio, 2016).

Un punto di vista differente è quello di Salvatore Zecchini, presidente del Comitato Piccole e Medie Imprese dell’Ocse e vice segretario generale Ocse, nonché direttore esecutivo del Fondo monetario: “La politica per l’innovazione in Italia: criticità e confronti” (Centro Studi ImpresaLavoro, 2016). Il volume confronta gli interventi, da un lato con la realtà del fare innovazione in Italia, e dall’altro lato con le politiche e strategie attuate dai Paesi di maggior successo ed indica misure specifiche per chiudere le falle: a) dare al pubblico il ruolo di coordinatore e facilitatore; b) stimolare ricerca e innovazione in azienda; c) creare un contesto favorevole all’innovazione; d) sviluppare la domanda di R&I sia privata sia pubblica; e) rendere più efficaci le modalità d’intervento e di finanziamento; f) potenziare la valutazione economica degli interventi. Per ciascuno di questi temi vengono declinati provvedimenti puntali che saranno presto oggetto di un dibattito a Roma.

“La politica italiana per l’innovazione”: il libro di Salvatore Zecchini edito da ImpresaLavoro

“La politica italiana per l’innovazione”: il libro di Salvatore Zecchini edito da ImpresaLavoro

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IL LIBRO

Malgrado i numerosi sostegni introdotti, negli ultimi anni, dai Governi italiani per accrescere ricerca ed innovazione, il nostro Paese non è riuscito a ridurre il divario che lo separa dalle economie più innovative dell’Unione Europea. Al tempo stesso, l’attività di innovazione, particolarmente tra le piccole e medie imprese, non è riuscita a svolgere quella funzione di motore dello sviluppo economico che si auspicava sia negli anni della recessione economica, sia negli anni pre-crisi.  Nasce da queste considerazioni lo spunto che ha spinto Salvatore Zecchini – già Direttore del Servizio Studi della Banca d’Italia, Executive Director del Fondo Monetario Internazionale e Vice Segretario Generale dell’Ocse – a esaminare l’insieme degli interventi messi in atto dai Governi italiani, confrontandoli, da un lato con la realtà del fare innovazione in Italia, e dall’altro lato con le politiche e strategie disegnate ed attuate dai Paesi di maggior successo nella ricerca ed innovazione.

“La politica italiana per l’innovazione. Criticità e confronti”, disponibile su Amazon in versione cartacea e digitale e arricchito da un Poscritto di Giuseppe Pennisi (Presidente del board scientifico di ImpresaLavoro) sulla strategia di politica industriale in Italia e nei maggiori Paesi europei, è stato pubblicato nella collana “Biblioteca di ImpresaLavoro” curata dal centro studi presieduto da Massimo Blasoni e diretto da Simone Bressan. Si tratta di un lavoro essenziale per individuare le pecche nel sistema italiano provare a correggerle, traendo indicazioni da misure attuate all’estero e riadattabili al nostro caso.

Il lavoro condensa in una visione d’insieme una miriade di misure e strumenti che sono stati impiegati da diversi ministeri ed autorità sul territorio italiano, e disseminati in innumerevoli provvedimenti ad iniziare dagli ultimi anni del primo decennio. Nelle conclusioni, infine, si formula un insieme di proposte per il miglioramento della politica italiana sul tema, auspicando un maggiore coordinamento  tra le diverse componenti del Governo nella programmazione di obiettivi e strumenti, in congiunzione con l’incremento della quota di PIL destinata a R&I. L’aumento delle risorse non sarebbe però sufficiente  senza un profondo cambiamento della cultura sociale in tutte le sue articolazioni per renderla ben disposta al cambiamento, all’innovazione e alla competizione.

L’AUTORE

Salvatore Zecchini. Completati gli studi di economia presso le università Columbia University (MBA) e Wharton School of Finance, Department of Economics (PhD program), ha lavorato come economista presso il Servizio studi della Banca d’Italia, fino a divenirne uno dei Direttori. Ha partecipato ai lavori del Comitato Monetario e del Comitato di Politica Economica della CEE, collaborando in particolare alla costruzione tecnica del Sistema Monetario Europeo. Nominato Executive Director del Fondo Monetario Internazionale, si è occupato della crisi debitoria internazionale e della riforma della sorveglianza multilaterale. È stato successivamente all’OCSE, divenendo direttore del programma di assistenza di politica economica ai paesi post-comunisti e Vice Segretario Generale. Quindi Consigliere economico del Ministro del Tesoro-Bilancio, consulente del Ministro delle Attività Produttive e del Ministro dello Sviluppo Economico, presidente del GME e dell’Istituto per la Politica Industriale. Presidente del OECD Working Party on SME and Entrepreneurship e del suo Steering Group on SME finance. Docente all’Università di Roma Tor Vergata ed autore di saggi, libri ed editoriali nella stampa.

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Per ulteriori informazioni è possibile contattare la Sede di Roma del Centro Studi ImpresaLavoro:
Via dei Prefetti, 30 – tel. 06 62280527 – info@impresalavoro.org

Bonus ricerca&innovazione, Renzi ha fatto meno di Letta

Bonus ricerca&innovazione, Renzi ha fatto meno di Letta

Edoardo Narduzzi – Italia Oggi

Dopo tanti annunci e tante promesse la montagna della legge di Stabilità ha partorito meno di un topolino. Il governo Renzi è tornato indietro perfino rispetto a quanto prodotto dall’esecutivo Letta in materia di credito di imposta per la ricerca. Così da un biennio l’Italia, in piena crisi da mancanza di investimenti privati e da competitività dell’offerta, non ha una bonus che incentiva gli investimenti in ricerca ed in innovazione.

L’ultimo intervento in materia è stato quello del governo Berlusconi che aveva introdotto una vera discontinuità per l’Italia: un credito di imposta pari al 90% degli investimenti fatti nel biennio 2011-2012 con università o enti di ricerca, recuperabile per quote paritetiche in tre anni. I 155 milioni di euro a suo tempo stanziati in bilancio non sono stati neppure tutti utilizzati dal mondo produttivo, a riprova che i timori della Ragioneria spesso cozzano con la realtà della recessione. Prima il bonus fiscale, sempre deciso dal governo Berlusconi, era stato commisurato al valore complessivo degli investimenti fatti dalle imprese: il 10%.

A fine 2013 Enrico Letta vara un credito di imposta pari al 50% delle spese incrementali in ricerca a partire dall’esercizio 2014. La burocrazia ha lasciato la norma inattuata e così le imprese che hanno creduto nella serietà della Repubblica italiana e hanno fatto nel corso del 2014 investimenti in ricerca confidando nel credito di imposta si ritrovano oggi con un deficit di cash flow da dover finanziare. In pieno credit crunch non è un gap facile da chiudere attingendo al credito bancario.

Ora la legge di Stabilità cambia nuovamente le carte in tavola: credito di imposta dimezzato al 25%, sempre solo per gli investimenti incrementali e con effetti che si produrranno, ragionevolmente, solo a partire dalla seconda parte del 2016 quando i bilanci saranno stati depositati. Sarebbe stato molto più serio, onde evitare di impattare nuovamente sulle aspettative delle imprese, lasciare la norma Letta invariata e non eliminare il 2014, esercizio ormai chiuso e quindi con effetti risibili sui conti pubblici, dall’applicazione della norma. In questo modo si potevano premiare in pochi mesi le imprese che, nel corso del 2014, hanno avuto il coraggio di investire mentre il pil crollava e la deflazione prendeva il largo, cioè già il prossimo maggio.

In Francia per il triennio 2013-2015 il Cir, il credito di imposta per la ricerca francese, varato nel 1983, è stato dotato di un fondo annuo di 5 miliardi di euro perché raddoppiato dal presidente François Hollande. La legge di Stabilità di Renzi è stata coraggiosa sull’Irap e sugli 80 euro ma troppo timida sulla ricerca.

Stato imprenditore nella Silicon Valley

Stato imprenditore nella Silicon Valley

Edoardo Segantini – Corriere della Sera

Capita spesso di ascoltare opinioni autorevolmente superficiali sull’innovazione tecnologica «made in Usa», giudizi che sembrano attribuirne il successo a un’ondata recente di imprenditori geniali. È questo un quadro pop fatto di distruzione creativa, sregolatezza regolata e start-up rivoluzionarie. E lo Stato? Non esiste. Dalla nuova retorica non è rimasto immune neppure il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, al suo ritorno dalla California. Chi conosce quei posti sa bene invece che le cose non stanno così. La Silicon Valley, cuore dell’innovazione americana, è ben altro: nasce da settant’anni di investimenti pubblici e militari nella tecnologia. Trae origine da una politica industriale lungimirante, concepita da uomini come il presidente Franklin Delano Roosevelt, Vannevar Bush e Jcr Licklider. Ora, negli Stati Uniti, esce un bel libro di Walter Isaacson, l’autore della biografia di Steve Jobs, tradotta da Mondadori nel 2011, che ha il merito di spiegare l’«innesto» degli innovatori di oggi nell’albero degli innovatori di ieri. Si intitola, per l’appunto, The Innovators.

Gli eroi di questa storia, esaltante e attuale, sono personaggi straordinari come il Nobel Jack Kilby, autore del primo circuito integrato con Robert Noyce, William Shockley, protagonista dello sviluppo del transistor, e Alan Turing, il leggendario crittografo e informatico inglese del progetto Enigma, che morì suicida. Ma emergono anche altre figure come Doug Engelbart, pioniere dell’interazione uomo-macchina, e Stewart Brand, il futurologo che fece i primi esperimenti con l’Lsd e contribuì a iniettare nella Silicon Valley quella cultura hippie che l’ha resa famosa. Le stelle di oggi – da Page a Bezos, da Jimmy Wales (Wikipedia) a Evan Williams, cofondatore di Twitter – possono brillare, oltre che per indiscussi meriti propri, grazie alla potente luce accesa anni fa da uomini come Fred Terman, il «padre» della Silicon Valley insieme a Shockley, e Vannevar Bush. Quest’ultimo svolse un ruolo chiave nel sistema innovativo a stelle e strisce. Un sistema in cui il talento individuale trova un terreno fertilissimo negli investimenti pubblici e militari in ricerca, nella finanza e nella politica industriale. Direttore del Mit di Boston negli anni Trenta, Vannevar Bush durante la Seconda guerra mondiale è messo da Roosevelt a capo dell’Office of Scientific and Research Development (Osrd) per coordinare seimila scienziati nello sforzo bellico.

Il «trasferimento tecnologico», quel nastro veloce che trasporta il sapere dai laboratori fino alle applicazioni, nasce da uomini e da istituzioni come questi, e sarà, da allora in poi, alla base della potenza innovativa – militare e civile – dell’America. Ed è a una nuova agenzia pilotata da Bush – il National Defense Research Committee – che verrà assegnato il compito di far lavorare insieme il governo, le forze armate, le aziende e le università. Una sinergia che verrà resa permanente con risultati formidabili. L’innovazione «Made in Usa» ha poi un altro, illustre antenato nel National Inventors Council, istituito con l’obiettivo di raccogliere e selezionare le invenzioni utili per la difesa nazionale. L’agenzia è voluta, ancora una volta, dal presidente Roosevelt che ne affida la responsabilità a Charles Kettering, direttore della ricerca alla General Motors, uno dei più eminenti inventori del ventesimo secolo, cui si devono l’invenzione del motorino di avviamento e del frigorifero elettrico. Il ruolo degli investimenti pubblici e militari resta fondamentale anche oggi, in piena epoca di app, accanto a quello delle imprese e del capitale finanziario. Non ci sarebbero gli innovatori di oggi senza i loro antenati di ieri, nei laboratori e nelle aziende, ma anche al Pentagono e alla Casa Bianca. Crearono un «tavolo» in cui i singoli talenti diedero – danno – luogo a un sistema Paese, coordinato dalla politica. I politici di oggi dovrebbero ricordarsene.

L’innovazione può aprire nuove opportunità

L’innovazione può aprire nuove opportunità

Giuliano Noci – Il Sole 24 Ore

Chiunque lavori con il mondo industriale italiano rileva, in questi ultimi anni, un crescente interesse per la Cina, invocata come investitore risolutivo dei problemi di casa nostra e come mercato capace di risolvere i problemi della nostra domanda interna. Il mercato cinese è per molte categorie merceologiche il primo al mondo, per i numeri della sua popolazione e di una classe media che ormai veleggia verso i 200 milioni di persone (con proiezioni di raddoppio nei prossimi dieci anni). In verità, le nostre imprese hanno colto solo in parte questo potenziale; competitivi nel fashion e in alcuni specifici comparti dell’automazione, abbiamo ancora molto da migliorare (e imparare) nei settori a più alto contenuto di tecnologia. Esportiamo in Cina un terzo di quanto fa la Germania (13 miliardi di dollari) e il 20% in meno della Francia per quanto riguarda i macchinari elettrici. Anche in un’eccellenza “nascosta” come il biomedicale i dati potrebbero essere migliori: esportiamo più di 750 milioni di dollari contro i 2,4 miliardi della Germania e i 5 del Giappone; siamo meglio di Francia e Spagna, ma esportiamo meno della Russia (1,2 miliardi). Vanno meglio le cose nei macchinari per l’agroalimentare: nel 2013 le nostre imprese hanno esportato macchinari per il food processing per oltre 40 milioni di dollari, contro i 130 milioni della Germania, ma più di Francia, Spagna e Regno Unito. È però emblematico che la Germania esporti in Cina oltre 30 milioni di dollari in macchinari per la produzione di spaghetti e prodotti da forno, mentre noi solo 7 milioni.

A qualcuno potrebbe venire in mente che questo deficit di competitività commerciale non sia tutto sommato così penalizzante. Al contrario: la Cina si sta trasformando in modo molto significativo: in particolare, ha un enorme bisogno di aumentare la sua produttività (i costi del lavoro non sono più competitivi con quelli di Indonesia, Thailandia eccetera), di investire in tecnologie ambientali – per far fronte ai gravi danni arrecati in questi decenni all’eco-sistema locale -, deve realizzare un piano energetico in grado di far fronte all’enorme crescita dei consumi interni e molto altro. Si aprono, dunque, nuove prospettive e mercati per il nostro export proprio per l’attenzione che la Cina sta dedicando al tema dell’innovazione.

Se l’Italia vuole allora sperare di poter annoverare il mercato cinese tra quelli di riferimento – e lo deve fare – deve cambiare passo per colmare quel gap di competitività commerciale che caratterizza i nostri settori a più alto contenuto tecnologico. Politica e mondo industriale debbono viaggiare sempre di più a braccetto; fare business in certi settori in Cina (l’energia, per esempio) richiede in primo luogo che il Governo “apra la strada” dal punto di vista politico alle nostre imprese. È necessario, nella logica di focalizzazione degli sforzi, che si individuino le priorità: tecnologie agro-alimentari, aerospazio, ambiente ed energia, design, architettura, sanità e tecnologie per l’automazione industriale. È ugualmente importante che la politica investa sulle università italiane assegnando a quelle meritevoli il ruolo di ambasciatori delle nostre tecnologie: da oltre quarant’anni la Germania ha aperto centri di ricerca e università in partnership con i cinesi e ora molti laureati dell’ex Impero di Mezzo comprano tecnologia tedesca.

Occorre, infine, tener presente che in Cina non funziona la politica dei piccoli progetti; occorre pensare in grande ed essere ambiziosi, facendo leva sulle eccellenze industriali e tecnologiche che il nostro Paese riesce a esprimere. Il Governo cinese ha varato un piano da 400 miliardi di dollari sulle smart grid; l’Italia deve proporsi come partner tecnologico per la progettazione e realizzazione di queste reti intelligenti. Pensando al tema ambientale, deve portare le sue esperienze di trattamento dell’aria e di gestione dei rifiuti per contribuire ad affermare un nuovo modello di urbanizzazione sostenibile, molto importante per i cinesi.

Ce la possiamo fare? Ritengo di sì; negli ultimi mesi il ministero degli Affari esteri, d’intesa con il Miur e sotto la regia del Governo, ha avviato un tavolo con le università italiane per la redazione della strategia nazionale di cooperazione scientifica e tecnologica con la Cina, nella prospettiva di generare ricadute industriali al nostro sistema. Una ripartenza che verrà suggellata il 16 ottobre al Forum dell’Innovazione che si terrà al Politecnico di Milano e vedrà la presenza del presidente del Consiglio, Matteo Renzi, e del primo ministro cinese, Li Keqiang. Occorre, ora, non mollare la presa.

Quanto stato c’è nella Silicon Valley

Quanto stato c’è nella Silicon Valley

Mariana Mazzucato – La Repubblica

Renzi il mese scorso ha visitato la Silicon Valley con lo scopo dichiarato di portare in Italia innovazione, concorrenza e dinamismo. Il presidente del Consiglio fa bene a fissare questi obiettivi come priorità, se si pensa allo scarsissimo dinamismo che ha caratterizzato l’economia italiana negli ultimi vent’anni, a causa della stagnazione della produttività e conseguentemente della crescita. Purtroppo, però, invece di imparare da quello che è successo veramente nella Silicon Valley, sembra aver sposato gli slogan e i miti che circondano quell’esperienza, in particolare il mito che attribuisce il fenomeno della Silicon Valley all’impulso di imprenditori geniali, finanzieri disposti a prendersi grossi rischi e uno Stato che si dedica a ridurre i vari tipi di «impedimenti» che ostacolano questi risktakers. E infatti la riforma del lavoro che Renzi sta patrocinando in questo momento punta proprio a rimuovere tali impedimenti.

Ma se è sbagliata la lettura della storia, sono sbagliate anche le politiche. La Silicon Valley è il risultato di imponenti investimenti pubblici diretti (non sussidi) lungo l’intera catena dell’innovazione, dalla ricerca di base e applicata fino alla fase finale della commercializzazione. Mentre i venture capitalists, mitizzati da Renzi, perseguono profitti nel breve termine e puntano a un’«uscita» rapida dall’investimento attraverso un collocamento in Borsa o l’acquisizione da parte di un’altra società, il Governo degli Stati Uniti ha dimostrato di essere un finanziatore paziente, fornendo (attraverso una rete decentralizzata di organismi pubblici) finanziamenti ad alto rischio ad aziende come la Compaq, l’Intel e la Apple. E oggi fornisce lo stesso genere di finanziamenti a compagnie della green economy di successo come la Tesla, che recentemente ha ricevuto un prestito garantito per 465 milioni di dollari, e meno di successo come la Solyndra, che ha ricevuto un prestito di 500 milioni: nel gioco dell’innovazione qualche volta si vince e qualche volta si perde.

Se Renzi fosse andato alla Apple Inc., avrebbe trovato designer straordinari come sir John Ives che lavorano accanitamente insieme a team di grande talento, ma di ricerca e sviluppo ne avrebbe trovata poca. La ragione è che la Apple storicamente ha messo insieme, con un brillante senso del design e della semplicità, tecnologie già esistenti. Tecnologie finanziate dallo Stato. Nel caso dell’iPhone, Internet, il Gps, il sistema di comando vocale Siri e lo schermo tattile, tutti finanziati dai contribuenti. Naturalmente la Apple non è l’unico esempio di questo tipo: l’algoritmo di Google è stato finanziato dalla National Science Foundation; il settore delle biotecnologie, quello delle nanotecnologie e dei gas di scisto sono tutti nati grazie ai fondi pubblici.

Pretendere che l’innovazione in Italia arriverà semplicemente abbassando le tasse e riducendo la regolamentazione (specie, come è ovvio, intorno al solito bersaglio facile, il mercato del lavoro), significa ignorare questa storia. Il paradosso è che Renzi ha scelto di copiare dagli Stati Uniti una cosa soltanto, il tanto criticato Jobs Act del 2012 (dove Jobs sta per Jumpstart Our Businesses , cioè «mettiamo in moto le nostre imprese»). E non sorprende l’accoglienza che ha ricevuto questa settimana nella City visto che sono proprio questo tipo di politiche a produrre uno degli aspetti più anomali del capitalismo dei giorni nostri: socializzazione dei rischi, privatizzazione dei benefici.

L’obbiettivo del Jobs Act era di ridurre ancora di più il rischio di investimento per venture capitalists già avversi al rischio allentando gli obblighi di rendicontazione finanziaria per le aziende «più piccole» (quelle con meno di 1 miliardo di dollari di ricavi annui). Oltre a questo, il Jobs Act legalizzava il crowdfunding, consentendo ai fondi di venture capital di reclutare una gamma più ampia di investitori (e singoli individui) al momento di quotare le aziende in Borsa. In che modo tutto questo possa generare crescita occupazionale non è dato sapere: sembra anzi fatto su misura per consentire ai venture capitalists di realizzare profitti smisurati con piccole aziende che rivendono tecnologie realizzate con fondi pubblici. In realtà si ingrossa sempre di più l’esercito delle piccole imprese che si lamentano per i danni provocati dall’atteggiamento speculativo e orientato esclusivamente al breve termine dei fondi di venture capital.

E allora sì, se Renzi vuole regalare all’Italia innovazione e dinamismo deve rendere il Paese più efficiente, ma deve anche evitare di focalizzarsi unicamente sulle «rigidità». Il dibattito dovrebbe vertere sul tipo di investimenti necessari, sia da parte del settore pubblico che da parte del settore privato, e soprattutto si dovrebbe chiedere alle imprese italiane di mostrarsi all’altezza della situazione: non piegarsi ossequiosamente alla City (e alla finanza italiana) ma chiedere invece al mondo della finanza di smetterla di fare pressioni per abbassare la tassazione dei capital gains, una politica da breve periodo e pretendere invece che co-investa nel lungo periodo in quelle aree che in una crescita trainata dall’innovazione richiederebbe. E smetterla di chiedere sussidi ed elargizioni, smetterla di lamentarsi della burocrazia (che non è tanto maggiore di altre parti d’Europa che stanno crescendo) e decidendosi a investire, in collaborazione con lo Stato, in quelle opportunità in grado di costruire un futuro innovativo per l’Italia. E quando gli economisti di destra gli dicono che tutto quello che deve fare è tagliare le tasse, dovrebbe farlo in modo oculato, riducendo le tasse sulle assunzioni e non sulle plusvalenze. E poi ricordarsi che ai tempi del presidente Eisenhower, repubblicano ed ex generale dell’esercito – non certo un comunista – l’aliquota più alta negli Stati Uniti sfiorava il 90 per cento: e fu sotto di lui che vennero realizzati alcuni dei più importanti investimenti in innovazione. E magari citare anche un altro che non è comunista, uno degli investitori più abili e di successo della storia, Warren Buffett, che al contrario di Renzi sembra aver capito che le pressioni della City hanno distrutto e non creato posti di lavoro: «Sono sessant’anni che lavoro con gli investitori e devo ancora vederne uno, nemmeno nel 1976-1977 quando l’aliquota sulle plusvalenze era al 39,9 per cento, rinunciare a un investimento sensato per via dell’imposizione fiscale sui potenziali guadagni. Le persone investono per fare soldi e le tasse potenziali non le hanno mai scoraggiate. E a quelli che sostengono che aliquote più alte penalizzano la creazione di posti di lavoro faccio notare che tra il 1980 e il 2000 sono stati creati quasi 40 milioni di posti di lavoro in più. Cos’è successo dopo lo sappiamo: aliquote più basse e molta meno creazione di posti di lavoro».

L’innovazione industriale è tutta un flop, i fondi restano nel cassetto

L’innovazione industriale è tutta un flop, i fondi restano nel cassetto

Carmine Gazzanni – La Notizia

Inizialmente il fondo previsto era addirittura di 990 milioni di euro. Tra accantonamenti e tagli vari si è ridotto a 668 milioni. Ma, di questi, concretamente erogati sono poco più di 51. Stiamo parlando del clamoroso flop del fondo, gestito dal ministero dello Sviluppo Economico, creato nel 2007 con la finalità di sostenere e lanciare le imprese indirizzandole verso scenari più competitivi e tecnologici. Non a caso il nome: Progetti di Innovazione Industriale.

Un programma di tutto rispetto che, negli intenti, avrebbe dovuto essere indirizzato a interventi in ben cinque aree tecnologiche considerate strategiche: “efficienza energetica”, “mobilità sostenibile”, “made in Italy”, “tecnologie della vita” e “beni e attività culturali e turistiche”. Il sistema era relativamente semplice: il ministero mette a disposizione i soldi, il privato presenta progetti che la struttura burocratica preposta vaglia, infine viene concesso il finanziamento. Qualcosa, però, non deve aver funzionato. Anzi, più di qualcosa. Cominciamo dal finanziamento. Tramite decreto ministeriale dell’11 luglio 2007, si decide di investire, e tanto, con uno stanziamento da 990 milioni di euro. Una montagna di soldi. Ma ben venga se serve a lanciare l’industria. Peccato però che, causa crisi, il fondo viene drasticamente ridotto. Secondo il rapporto trasmesso proprio in questi giorni dal MiSE al Parlamento, i soldi realmente messi a disposizione sono calati, come detto, a 668 milioni. Poco male, si penserà: parliamo sempre e comunque di un bel gruzzoletto.

Ma ecco il punto: dal 2007, con ben 5 macroaree a disposizione, quante erogazioni effettive saranno state fatte? Il dato emerge dal citato dossier: i soldi concretamente concessi alle imprese private arrivano, nel giro di sette anni, a soli 51 milioni. Briciole, insomma. Basti questo: rispetto al fondo iniziale previsto (990 milioni) parliamo del 5% erogato. Ma non è finita qui. Dei 232 progetti ammessi al fondo, ad oggi, al netto di sospensioni e rinunce, rimangono in vita solo 174. Un po’ pochini. Soprattutto se si considera che, in sette anni, due delle cinque macroaree non sono mai partite: stiamo parlando di “Tecnologie della vita” e “Tecnologie per i beni e le attività culturali e turistiche”. Partiranno prima o poi? Ce lo dice lo stesso rapporto: “permangono fondate perplessità sulla futura concreta attuazione dei due PII non ancora adottati”. Evviva.

Di chi le responsabilità, difficile dirlo. Fatto è che negli anni si sono alternati una serie di enti di controllo: Ipi, Cilea, Invitalia e comitati ministeriali vari. Fino al 2010 (a tanto arriva il rapporto) sono costati 35 milioni. È facile supporre che nel giro di ulteriori 4 anni, i costi di funzione siano perlomeno raddoppiati. Insomma, un fondo bruciato il cui costo di gestione è stato maggiore a quanto erogato. Chiamasi “innovazione industriale”.