innovazione

I rebus della politica industriale

I rebus della politica industriale

Franco Debenedetti – Il Sole 24 Ore

Per riformare «non basta dire no» ai no – a eliminare l’articolo 18, a ridimensionare l’obbligatorietà dell’azione penale, a privatizzare i servizi dei comuni. Bisogna ottenere il sì di chi chiede interventi che valgano a farci uscire dalla stagnazione. E per il riformatore può perfino essere più facile isolare i no che prospettano i disastri che altrimenti si produrrebbero, che rispondere ai sì, e ottenere i miracolosi risultati che ci si aspetta dall’adozione di certe politiche. Tra queste una delle favorite è la «politica industriale».

In passato, si dice, siamo riusciti ad agganciare i paradigmi industriali: la macchina a vapore applicata da Sommeiler alle pompe per far passare treni sotto i monti, il motore asincrono con Ferraris, quello a scoppio con la Fiat, la radio con Marconi, il polipropilene con Natta. In questa carrellata non manca mai il richiamo all’Olivetti, ed è perlopiù sbagliato: il culmine del successo l’Olivetti lo raggiunse con la Divisumma che, con un primo costo variabile sotto le 30.000 lire, veniva venduta a un prezzo vicino a quello di una 500. Tanti si arrovellano sulle ragioni per cui il mainframe Elea non riuscì a battere IBM, ma pochi ricordano che non ci riuscì nessuno in Europa, né ICL, né Philips, né Bull, né Siemens: tutti errori di «politica industriale»? In Germania c’è un leader mondiale del software (la SAP) e in Italia no: nessuno lo ricorda ma ha i suoi perché, e hanno a che fare anch’essi con la «politica industriale».

Essa si regge su un presupposto teorico: che il futuro dell’innovazione tecnologica sia conoscibile ex ante, che esista la ricetta per il successo. Una contraddizione in termini, perché è proprio dall’imprevedibilità che viene la spinta a innovare, dall’aleatorietà quella a investire, dalla molteplicità dei modi per organizzare la produzione quella di sperimentarne di nuovi. Non c’è neppure un modo unico di scoprire ex post le ragioni dei successi, e di generalizzare le regole che li favoriscono: come dimostra l’esistenza di molte società di consulenza, in concorrenza tra loro.

Tolto dalla scena l’imprenditore schumpeteriano, diventa però necessario sostituirlo con qualcuno che abbia (innate?) le conoscenze e la preveggenza per identificare i settori che potranno contribuire allo sviluppo del Paese. Nessuno vi ha investito in modo adeguato? «Fallimento di mercato», è evidente, a cui rimediare con sovvenzioni dello Stato e protezione dalla concorrenza «selvaggia». D’altra parte l’innovazione la può fare solo lo Stato, in tutto il mondo è sempre stato così, se non c’era lo Stato, l’iPhone Steve Jobs manco se lo sognava, parola di Mariana Mazzucato – come? non avete ancora letto «Lo stato innovatore»? C’è un’inevitabile consequenzialità nel succedersi dei passaggi, tutto discende dalla decisione iniziale, di identificare i settori. Che poi, a ben vedere, prima non è: infatti chi avrà il potere di identificare l’identificatore? La «politica industriale» presuppone una fiducia mistica nel processo di selezione democratica.

Molti pensano che Mario Draghi a Jackson Hole avesse in mente il surplus di bilancio tedesco quando ha proposto di usare tutta la flessibilità consentita dai trattati. Se pure Angela Merkel lo vorrà leggere in tal modo, c’è da scommettere che anche in Germania si alzerà la voce di chi quel surplus vorrà spenderlo non, ad esempio, riducendo le imposte, ma mostrando i muscoli della «politica industriale». Anche il piano di investimenti infrastrutturali da 300 mld di euro enunciato dal presidente Jean-Claude Juncker, ha lo scopo dichiarato di stimolare la domanda aggregata, ma di fatto è anch’esso un piano «politica industriale». Come tale soggetto alle inevitabili contraddizioni: come stimolare il mercato senza lasciare spazio alla sua capacità di scoperta, come farlo crescere senza le virtù e i difetti dell’imprenditore, come selezionare senza la concorrenza; nel caso specifico poi, come districare il groviglio di problemi di ripartizione e di coordinamento tra Paesi.

Nell’attesa del grande stimolo europeo, il governo Renzi cerca di stimolare la nostra economia con il decreto sblocca Italia. Sarà perché non siamo abbastanza keynesiani, come dice Krugman (che evidentemente di italiano legge solo il blog dell’Istituto Bruno Leoni), sarà perché 140 caratteri sono pochi per complessi progetti costruttivisti, in ogni caso si tratta di provvedimenti sparsi, senza neppure il tentativo di venderli come «politica industriale». Ma hanno lo stesso presupposto ideologico: che «loro» sappiano meglio di «noi» a che fine e come spendere i nostri soldi. Che si tratti di posa di cavi per la banda larga, di porti, di ecobonus o sisma-bonus, di acquistare e affittare immobili ristrutturati, ogni «semplificazione» ha come target il suo interesse rilevante. Non è una nuova «politica industriale»: è la vecchia che non è mai finita.

Caro premier, ecco cosa può fare lo Stato

Caro premier, ecco cosa può fare lo Stato

Mariana Mazzucato – La Repubblica

Caro presidente, ho visto dai giornali che lei ha comprato il mio libro “Lo Stato Innovatore”, questo mi ha suggerito l’idea di scriverle una lettera. L’Italia a crescita bassa è tornata in prima pagina. Una delle tesi del libro è che per tirarsi fuori da questo marasma è indispensabile rendersi conto di dove sta il problema. Il problema non sta in un settore pubblico “burocratico” che in qualche modo ostacola la crescita di un settore privato altrimenti dinamico e innovativo. Il problema è che, in assenza di un settore pubblico dinamico e innovativo, la crescita nel settore privato è impossibile da ottenere.

Partiamo dal contesto: i problemi dell’Italia non derivano da un eccesso di dimensioni e di spesa riferito al settore pubblico, ma dal fatto che questo non è sufficientemente attivo e in realtà non spende quanto i suoi principali concorrenti in tutti gli ambiti fondamentali che determinano la crescita della produttività (e quindi la crescita a lungo termine del Pil), ossia capitale umano, istruzione, ricerca e tecnologia. Il deficit italiano prima della crisi si attestava sotto la media Ue. Ma se la produttività (e quindi il tasso di crescita del Pil) è quasi ferma da 20 anni per l’assenza di investimenti di questo genere, anche con un deficit relativamente basso il quoziente debito/ Pil può continuare ad avere una crescita esponenziale (perché il denominatore è statico).

Che fare? È proprio questo l’oggetto del libro. Cosa intendo per Stato Innovatore? Intendo uno Stato che sia disposto a pensare in grande e capace di farlo, che sappia attirare i migliori cervelli nelle sue varie branche, gettare per primo le basi in nuovi fondamentali comparti ad alto rischio, che solo successivamente attireranno il settore privato. Che sia capace anche di costruire un sano rapporto simbiotico, non parassitario, tra i settori pubblico e privato, così che la crescita conseguente non sia solo “intelligente”, ma anche più inclusiva.

Nel libro ricorro all’esempio dell’iPhone per sfatare i luoghi comuni sulla Silicon Valley. Tutte le tecnologie che rendono così “intelligente” quel telefono sono state finanziate negli Usa dal settore pubblico: Internet, Gps, touch screen e persino la nuova Siri a comando vocale. Lo stesso vale per le biotecnologie, le nanotecnologie e la frattura idraulica (per l’estrazione dello shale gas), tutti settori industriali frutto di decenni di investimenti pubblici che hanno preceduto gli investimenti privati. Steve Jobs era ovviamente un genio, ma al pari di altri imprenditori statunitensi, ha “surfato” le gigantesche onde create dallo Stato. In molti paesi europei oggi non sono i surfisti a mancare, ma l’onda. E l’onda serve non solo nei comparti ad alta tecnologia, ma anche in settori affamati di rinnovamento e trasformazione, come il tessile, l’industria automobilistica e l’agricoltura. Vale anche per l’arte, che diventerà un vero patrimonio nazionale solo quando sarà posta al centro di una strategia di crescita che utilizza i poteri della rivoluzione informatica per diffonderla e divulgarla a livello internazionale.

Il settore pubblico, ovviamente, non può fare da solo. Serve un settore privato altrettanto impegnato. Oltre ad avere uno dei tassi più bassi di spesa pubblica in R&S; (riferito al Pil) l’Italia registra anche uno dei livelli più bassi di spesa privata nel settore. La responsabilità non è imputabile alla “normativa”, ma all’assenza di una sana tensione tra Stato e imprese. Un valido esempio? La Fiat attualmente non investe in motori ibridi in Italia, ma lo fa negli Stati Uniti perché Obama lo ha posto come condizione per il salvataggio dell’industria automobilistica. Ecco un altro mito che va a farsi benedire: gli Stati Uniti, la patria del libero mercato, che impongono le politiche industriali al settore privato. E non è certo un caso unico. Il mitico Bell Labs, uno dei laboratori di ricerca privata più innovativi, al centro della rivoluzione informatica, nacque da un teso negoziato tra lo stato e At&t;, all’epoca un monopolio, in cui lo stato esigeva che gli utili privati fossero reinvestiti nell’economia “reale”, in aree che creassero beni pubblici.

Anche se il libro non si incentra sulle società a capitale pubblico, bensì sul rapporto tra i settori pubblico e privato, esamina con occhio critico il genere di strategie che portarono alla nascita dell’Eni e dell’Iri, che ebbero effettivamente un ruolo chiave negli anni d’oro dell’Italia, quando agivano in accordo con la loro missione e attiravano manager di massimo livello. Da pubbliche, ma indipendenti e guidate da esperti, furono un successo. Una volta divenute semplice appendice dei partiti politici smisero di funzionare – diventando il problema, non la soluzione. In realtà, ironicamente, fustigando lo Stato e spacciando la privatizzazione come panacea sarà estremamente difficile attrarre le competenze che queste istituzioni pubbliche richiedono, oggi come allora. A capo del Dipartimento dell’Energia degli Stati Uniti poco tempo fa c’era un fisico premio Nobel, Steven Chu. Ha fondato Arpa-e a cui ha dato l’incarico di promuovere e finanziare la ricerca e lo sviluppo delle energie rinnovabili, come fece a suo tempo la Darpa per Internet. Anche la Germania oggi cresce non perché “tira la cinghia” ma perché ha una banca pubblica strategica, la KfW, che offre capitale paziente alle imprese e ai settori più innovativi- e di istituzioni finanziate dallo Stato come la Fraunhofer, che creano le connessioni tra scienza e industria mancanti in Italia.

Spero che queste riflessioni la incoraggino a cambiare il modo di parlare di politica economica in Italia, abbandonando i soliti discorsi che si trascinano pigri, come se il problema stesse solo nel togliere la burocrazia, nelle riforme del mercato del lavoro, e del fisco. Per arrivare invece a un dibattito nuovo che sproni i settori pubblico e privato ad un maggiore impegno mirato agli investimenti e alla crescita guidata dall’innovazione. Il bonus di 80 euro al mese è indubbiamente utile a molte famiglie in condizioni difficili, ma per una crescita a lungo termine dei redditi, che abbia effetti decisivi sulla domanda dei beni di consumo e sul tenore di vita, è necessaria una strategia di innovazione industriale che porti più posti di lavoro, e soprattutto ne migliori la qualità.

Continuano a chiamarla competitività

Continuano a chiamarla competitività

Il Foglio

Dopo riunioni intense e lavori in notturna, è arrivato in Aula al Senato il decreto competitività su cui il governo ha posto la fiducia. Si tratta di un maxiemendamento che tocca gli argomenti più disparati, dall’Ilva all’anatocismo, dalle bollette ai debiti della Pa, il cui scopo è rilanciare la capacità di produrre ricchezza. Quanto però il paese sia resiliente al cambiamento e all’innovazione lo si vede non da ciò che nel decreto c’è ma da ciò che manca. Un esempio su tutti sono gli emendamenti bocciati in commissione che abbozzavano una leggera liberalizzazione nel settore del trasporto pubblico non di linea. Niente di rivoluzionario, solo la rimozione di qualche barriera anacronistica che differenzia il servizio taxi dal noleggio con conducente (Ncc). Non si tratta di ridisegnare il sistema sul modello di concorrenza assoluta perseguito da Trevis Kalanick, il fondatore di Uber che ama “distruggere i monopoli”, ma semplicemente, come ricorda in un recente studio sul tema l’Istituto Bruno Leoni, di seguire le proposte che da almeno un decennio segnala l’Antitrust: eliminare barriere all’ingresso, tariffe minime e distorsioni concorrenziali. «È necessario abolire gli elementi di discriminazione competitiva tra taxi e Ncc in una prospettiva di piena sostituibilità dei due servizi – scriveva pochi giorni fa l’Authority nella sua segnalazione annuale – anche in considerazione delle nuove possibilità offerte dall’innovazione tecnologica (leggi Uber, ndr) che consente un miglioramento dell’offerta in termini sia di qualità sia di prezzi». E invece si respinge l’innovazione e ignora la realtà. Pare il pensiero di un vecchio tassinaro.

Ecco le 327 PMI italiane eccellenti

Ecco le 327 PMI italiane eccellenti

Manuel FollisMilano Finanza

Sempre concentrate al Nord, anche se il Nord-est sta dimostrando qualche segnale di sofferenza (come il Sud Italia) e sempre più orientate all’internazionalizzazione. È la fotografia delle Pmi eccellenti che emerge dall’osservatorio 2014 curato come ogni anno da Global Strategy e presentato ieri in Borsa Italiana. All’interno di un universo di circa 8mila Pmi, Global Strategy ha selezionato 327 aziende eccellenti, cioè con tassi di crescita, redditività e solidità superiori rispetto al proprio settore di riferimento. Si tratta di società che crescono a un ritmo 3 volte superiore alla media del settore e che a dispetto della crisi hanno raddoppiato il reddito operativo negli ultimi 5 anni rafforzando la solidità finanziaria. I dati dell’osservatorio sono stati presentati in occasione del convegno “Pmi italiane fra tradizione e innovazione digitale”, organizzato in collaborazione con Borsa Italiana e con il supporto di Schroders Wealth Management e dello Studio Legale Associato Negri-Clementi.

Essendo ormai giunto alla sesta edizione, quest’anno l’osservatorio ha anche operato per la prima volta alcune valutazioni su cosa per le aziende era importante prima e dopo la crisi. Dall’indagine qualitativa della ricerca, che si basa su interviste, è emerso che prima della crisi la «qualità del prodotto» era considerata il fattore più importante del successo di un’impresa (72%), seguito da «reputazione dell’azienda e del marchio» (54%) e da «innovazione del prodotto» (52%). Post crisi la «qualità del prodotto» resta al primo posto e sale addirittura al 91%; quindi è considerata ormai da tutte le aziende il principale fattore di successo. Al secondo posto è salita la «capacità di risposta al mercato/cliente» (42%) mentre la «reputazione dell’azienda» dopo la crisi è scesa all’ultimo gradino (29%).

Dal punto di vista quantitativo, invece, è evidente quanto il lungo periodo di difficoltà dell’economia abbia pesato sulle società. Pre-crisi la crescita media del fatturato delle Pmi eccellenti era doppia rispetto a quella del mercato nel suo complesso mente oggi è tre volte tanto. Quanto invece all’incremento medio del risultato operativo, il valore per le Pmi eccellenti si è praticamente dimezzato, mentre nel loro complesso le società sono passate da una piccola crescita a un decremento. «La ricerca che conduciamo fin dal 2009 evidenzia come in Italia esista un gruppo di aziende che, nonostante operi in settori maturi, abbia scelto da tempo di puntare su innovazione e internazionalizzazione, riuscendo a contrastare gli effetti della crisi grazie alla tenacia degli imprenditori e alla sorprendente flessibilità e dinamicità nel riadattare le strategie operative per raggiungere i propri obiettivi», ha spiegato Antonella Negri-Clementi, presidente e amministratore delegato di Global Strategy. Parte del convegno è stata dedicata alla digitalizzazione delle imprese, la maggior parte delle quali si dichiara pronta a investire su piattaforme digitali il 15% delle risorse destinate a ricerca e sviluppo nei prossimi tre anni. La sensazione delle aziende del settore digitale (come ad esempio Google) è che in realtà la Pmi quando parlano di investimenti in digitale siano ancora legate a vecchi paradigmi (come ad esempio il sito web o l’utilizzo dei social media) e non a innovativi modelli di business.

Le “piccole” che battono la crisi

Le “piccole” che battono la crisi

Andrea Biondi Il Sole 24 Ore

La Nuceria Adesivi (55 milioni di euro ), nata a metà degli anni 80 con sede a Nocera Superiore e attiva nel settore delle etichette e dei nastri adesivi è una delle aziende (che si contano sulle dita di una mano) autorizzate a produrre i bollini ottici farmaceutici. «Abbiamo creato un software che ci permette di dialogare in real time con i programmi dei clienti, che in genere sono multinazionali della cosmesi e della detergenza», spiega il direttore generale Guido Iannone, 30 anni. 

Ma fra chi ha legato il suo core business a innovazione e digitale un testimonial d’eccellenza è anche la Sigma, attiva nell’automazione industriale, 44 milioni di ricavi, con sede ad Altidona (Fermo), di cui tutti hanno inconsapevolmente contezza quando si avvicinano a bancomat o biglietterie self service (che produce). Altro caso è quello di EidosMedia, numero uno mondiale nel settore dei sistemi editoriali, con sede a Milano che ha fra i maggiori clienti «anche Newscorp », dice Gabriella Franzini, amministratore delegato di questa azienda da 40 milioni di euro di fatturato e 220 dipendenti «a oggi». 
Sono solo tre dei casi di cui si è parlato ieri a Milano durante la presentazione dei risultati dell’Osservatorio Pmi di Global Strategy. “Pmi italiane fra tradizione e innovazione” era il titolo del convegno – organizzato a Milano in collaborazione con Borsa italiana, con il supporto di Schroeders Wealth management e dello studio Negri-Clementi e cui hanno partecipato anche Fabio Vaccarono (Google Italia) e Alberto Baban (Piccola industria di Confindustria) – durante il quale sono stati presentati i dati. «Siamo onorati – dichiara Ugo Formenton, Head of Business Development di Schroders Wealth Management – di sostenere questa iniziativa che mettere in luce le storie di imprenditori che, nonostante le difficoltà, hanno saputo dimostrare di eccellere». La ricerca , spiega Antonella Negri Clementi, presidente e ad di Global Strategy «evidenzia come in Italia esista un gruppo di aziende che, nonostante operi in settori maturi, ha scelto di puntare su innovazione e internazionalizzazione». 
A questa passerella di positività hanno contribuito anche i casi di Elemaster (apparati elettronici), Foscarini (apparecchiature per illuminazione di design), Fabiana Filippi (tessile), per quelle che lo studio ha catalogato come Pmi “eccellenti”: aziende che crescono a un ritmo 3 volte superiore alla media del settore e a dispetto della crisi hanno raddoppiato il loro reddito operativo negli ultimi 5 anni, rafforzando la propria solidità solidità finanziaria, all’interno di un universo di 8mila aziende con fatturaro fra 20 e 250 milioni di euro. 
Nel dettaglio, si tratta di 327 Pmi “eroiche” con tassi di crescita medi annui del fatturato tre volte superiori rispetto all’universo di riferimento (+10% contro +3%) e un reddito operativo che è cresciuto nel periodo 2008-2012 del 19% medio annuo (contro una diminuzione media del 3% da parte delle Pmi “normali”). Si tratta di imprese che operano in settori maturi (oltre il 30% appartiene alla meccanica e alla metallurgia), anche se si assiste a una progressiva affermazione di quelle di servizi principalmente attive nello sviluppo software. In secondo luogo, tre su quattro sono situate nel Nord Italia (73%); solo il 7% in Sud e Isole. E ancora, si tratta di aziende dalla forte vocazione globale: realizzano infatti quasi il 40% del loro fatturato all’estero, e prevedono di incrementare tale quota nei prossimi tre anni mediamente del 9 per cento
L’ospite d’onore ieri è stata però soprattutto l’innovazione digitale. In effetti, le Pmi eccellenti sono fortemente orientate all’innovazione: investono ben il 5% del loro fatturato in ricerca e sviluppo. In particolare, è interessante notare che la maggior parte di questo budget (53%) è ancora destinato al miglioramento del prodotto, mentre gli investimenti in digitalizzazione sono pari al 15 per cento. Il 73% degli imprenditori ritiene poi che l’uso e lo sviluppo di piattaforme digitali potrebbe rappresentare un valido sviluppo alla crescita internazionale.
Se queste sono opportunità da cogliere, ancora ieri da Bruxelles, con un report della commissione Ue, arrivava un richiamo “sulla terra”. Solo per dare un numero: la copertura della banda larga fissa da 144 Kbps in Italia è del 98,5% (media Ue: 97,1%), ma la copertura Nga è del 20,8% (pur se in crescita del 48%), contro una media Ue del 61,8 per cento.