massimo blasoni

Massimo Blasoni a Tagadà – La7

Massimo Blasoni a Tagadà – La7

Il presidente del Centro Studi ImpresaLavoro, Massimo Blasoni, è intervenuto a “Tagadà”, su La7, ospite di Tiziana Panella. In studio, insieme a lui, Alessandro Cecchi Paone, Filippo Civati e Ferruccio De Bortoli.

Il rischio che i giovani vadano in pensione con cifre miserevoli è purtroppo fondato. Non solo, l’età della pensione…

Posted by Massimo Blasoni on Friday, March 18, 2016

Lo spirito d’impresa? Accettare le sfide

Lo spirito d’impresa? Accettare le sfide

Massimo Blasoni – Metro

In che misura il coraggio di affrontare sfide nuove e dall’esito (anche occupazionale) non scontato sono utili per la produttività? Senza troppo filosofeggiare, credo sia inconfutabile l’assunto per cui non c’è impresa senza rischio. L’esigenza di competere per sopravvivere o per sviluppare è un fattore stimolante. Non è bene essere temerari, però nemmeno il restare statici. Il mercato genera selezione, obbliga a competere. E l’imprenditore deve essere veloce, per lui il fattore tempo è tutto. Non è così nella Pubblica Amministrazione, che governa la politica più che esserne governata. In questo settore è maturato nei decenni un approccio ai temi che non è quello dei mercati e che in sanità si definisce col termine “medicina difensiva”: la verifica di regolarità diventa ossessiva e l’obiettivo di chi deve produrre l’atto amministrativo non è la tempestività della risposta ma l’autotutela.

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Blasoni: “Un fondo di garanzia per stimolare le imprese”

Blasoni: “Un fondo di garanzia per stimolare le imprese”

Massimo Blasoni – Libero

Alla luce dei nuovi interventi della Banca Centrale Europea ad incrementare la già rilevantissima liquidità immessa da oltre un anno nell’economia, forse le cose potranno cambiare. Ad oggi però in Italia gli effetti, con riferimento all’erogazione del credito alle famiglie e soprattutto alle imprese, sono stati modesti. Un dato confermato da Bankitalia anche a gennaio: si è registrata a inizio 2016 una variazione percentuale negativa, seppur minima, su base annua, dello 0,1%.

Nel report dell’istituto di Palazzo Koch è interessante la scomposizione con riferimento alle rilevazioni sui prestiti alle famiglie e a quelli alle società non finanziarie, in altre parole le nostre imprese. L’erogazione del credito alle famiglie a gennaio è cresciuta dello 0,8% su base annua. È ben diversa la situazione per le società non finanziarie. Come succede ormai da più di un quinquennio, l’anno è iniziato con un -0,9% che fa riflettere su quanto sia difficile per le nostre imprese ottenere credito. Va molto meglio alle attività produttive dei principali competitor europei.

I motivi del perdurare del credit crunch in Italia sono in parte imputabili alla debolezza delle nostre banche. Queste, il dato è di gennaio, hanno bruciato capitalizzazione in borsa per oltre 185 miliardi rispetto ai livelli pre-crisi e sono condizionate da più di 200 miliardi di sofferenze lorde. Certo non possiamo chiedere alle nostre banche di finanziare imprese prive dei necessari requisiti. Tuttavia non è differibile l’obiettivo di garantire nuova liquidità al sistema produttivo. Vi è grande sfiducia nelle obbligazioni e la nostra borsa non pare un’alternativa per garantire sufficiente sviluppo al sistema imprenditoriale. Soprattutto alle aziende di non grandi dimensioni. Sono solo 356 le imprese quotate alla Borsa Italiana ed è difficile pronosticare a breve un esponenziale allargamento di questa platea.

Perché allora non ipotizzare un fondo di garanzia nazionale per gli investimenti delle imprese? Il bail in impedisce i salvataggi di Stato, non altre forme di partecipazione. Certo si tratta di un’operazione complessa e i vincoli europei e di debito non sono pochi. È necessario però tentare. Le imprese italiane sono già gravate da costi dell’energia, imposizione fiscale e deficit di infrastrutture che ne condizionano la competitività. Senza credito per nuovi investimenti non ci saranno né ripresa né nuova occupazione.

Blasoni: “Ma senza vera ripresa non riparte l’occupazione”

Blasoni: “Ma senza vera ripresa non riparte l’occupazione”

di Massimo Blasoni*

Alla luce dello studio di ImpresaLavoro appena pubblicato, l’analisi dell’andamento degli occupati in Italia segnala come non vi sia stato un incremento sensibile dei nuovi posti di lavoro e come la decontribuzione abbia favorito l’attivazione di nuovi contratti a tempo indeterminato perché molto vantaggiosi e la trasformazione di rapporti di lavoro a termine o atipici. Un obbiettivo perseguito dal governo con l’impiego di risorse consistenti.

I numeri dell’occupazione, però,  confermano come sia complesso slegare l’andamento del mercato del lavoro da quello dell’economia più in generale: con una crescita economica così debole, anche in presenza di incentivi molto vantaggiosi, si avranno riflessi occupazionali limitati.

*Presidente del centro studi ImpresaLavoro

Senza credito niente impresa

Senza credito niente impresa

Massimo Blasoni – Metro

L’erogazione del credito in Italia resta modesta. Il Quantitative Easing varato dalla Bce ha calmierato lo spread del debito sovrano ma non è riuscito a incrementare il trasferimento di risorse alle famiglie e soprattutto alle imprese. La stretta creditizia è confermata da Bankitalia, che ha registrato a fine 2015 una variazione percentuale negativa su base annua dello 0,3%. Scomponendo il dato si scopre che a dicembre i prestiti alle famiglie erano cresciuti dello 0,8% su base annua: un aumento impercettibile. Ben diversa la situazione per le società non finanziarie. Come succede ormai da più di un quinquennio, il 2015 si è infatti si è concluso con un -0,7% che fa riflettere su quanto sia difficile per le nostre imprese ottenere credito. I dati Bce ci dicono che nello stesso anno la situazione è invece migliorata sia in Francia (+1,6%) sia in Germania (+3,3%).

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Privatizzare, prima di tutto. Due chiacchiere con Massimo Blasoni

Privatizzare, prima di tutto. Due chiacchiere con Massimo Blasoni

Antonluca Cuoco – Strade

Proviamo per un attimo a immaginare di vivere in un’altra Italia, dove i cittadini possono decidere cosa fare dei soldi delle proprie pensioni senza essere obbligati a consegnarli agli sprechi dell’Inps, dove i diritti dei lavoratori pubblici e privati sono uguali, tutte le Tv sono private, in competizione e senza canone obbligatorio e dove non esistono partecipazioni pubbliche in società inutili (clamorosi sono i casi di quelle con più consiglieri d’amministrazione che dipendenti).

Nell’Italia dove invece viviamo per davvero, la pressione fiscale riconducibile alle amministrazioni locali è al massimo storico, come evidenziato dai dati della ricerca “La legge di stabilità 2016 e le prospettive della tassazione locale in Italia”, realizzata dal Cer in collaborazione con Confcommercio. 
Negli ultimi venti anni (1995-2015) le tasse locali sono passate da 30 a 103 miliardi di euro (+248%), mentre nello stesso periodo di tempo le tasse centrali sono cresciute del 72% da 228 miliardi a 393 miliardi. Di più: se nel 1998 meno del 9% dell’imposizione diretta era riconducibile alle Amministrazioni locali a fine 2014 tale quota è salita al 15%.

I dati evidenziano inoltre una marcata dicotomia tra nord e sud d’Italia sul fronte della tassazione. Focalizzando l’analisi sul Mezzogiorno, è amaro sottolineare quanto il Sud sia tra i maggiori pagatori a causa delle inefficienze del sistema. C’è uno scarto di 3-4 punti percentuali, una differenza analoga a quella che vediamo tra il nostro paese e la Germania. A Sud ci sono meno servizi e più imposte, e ancora più che nel resto d’Italia è evidente come le aliquote siano del tutto scollegate dai servizi resi in cambio. Immaginiamo un contribuente tipo con un imponibile Irap o un imponibile Irpef di 50 mila euro. A Roma la pressione Irap più Irpef arriva al 38% seguita da Campobasso e Napoli con il 37,4 e il 37,2%. Seguono Catanzaro, Palermo e L’Aquila con 36,8%. Le città più convenienti dal punto di vista fiscale sono Cagliari (34,8%), Bolzano (34%) e Trento (33,5%).

E’ necessario condurre una riflessione approfondita sulla presenza della mano pubblica nell’economia e nella società. Urge intraprendere un drastico processo di privatizzazione dei beni, immobili e mobili, e di liberalizzazione dei servizi pubblici. Bisogna privatizzare e contemporaneamente, laddove sussiste una situazione di monopolio od oligopolio protetto da barriere all’entrata, liberalizzare. Se da un lato privatizzando è possibile ridurre spesa e debito pubblico, e favorire lo sviluppo di un’economia più efficiente e meno gravata di imposte, dall’altro va ricordato che l’obiettivo fondamentale delle privatizzazioni deve essere quello di allargare gli spazi di libertà.

Di quest’altra Italia necessaria, più snella, aperta e competitiva, parliamo con chi in questo paese vive e fa impresa da oltre 20 anni; è Il presidente del Centro Studi Impresa Lavoro, Massimo Blasoni, che offre ottimi spunti di riflessione nel suo libro “Privatizziamo!

Volendo sintetizzare in un tweet gli argomenti svolti potremmo dire: meno Stato e più privato, così l’Italia riparte?

Sì, senza dubbio. Speso gli italiani restano perplessi di fronte a ipotesi di radicale contrazione degli spazi di intervento dello Stato nelle nostre vite. È comprensibile, perché a lungo si è dato per scontato che alcune funzioni pubbliche dovessero essere garantite, erogate e controllate da esso. E che quasi ogni atto dovessero soggiacere a una autorizzazione pubblica, concessa paternalisticamente o autoritariamente. Allo stesso modo ci si è abituati al fatto che lo Stato dovesse intervenire nei campi più disparati, occupandosi non solo di regolare, ma anche di produrre e vendere beni e servizi finanziati da tariffe o imposte. Ma è possibile ipotizzare in una società organizzata diversamente, con meno Stato e più ampi spazi per le attività private di imprese e famiglie. È un’ipotesi che pone l’accento su aspetti di libertà e, a ben pensarci, anche di giustizia sociale.

Per costruire il futuro, bisogna anzitutto studiare il passato: cioè la prima ondata italiana di privatizzazioni, tra il 1993 e il 2005. Come non ripetere gli errori?

Nel nostro Paese si è privatizzato poco e, soprattutto, male. Il fine non è stato migliorare la competitività di quelle imprese, ma piuttosto quello di cedere una parte delle azioni, per fare cassa, ben attenti a mantenere il controllo e il potere direttivo. Così è stato per Enel, Fincantieri, Finmeccanica e via dicendo. Il resto è storia recente. Consideriamo la privatizzazione delle Poste. L’azienda verrà venduta senza separare il servizio postale tradizionale dal Banco Posta, cosicché i profitti del secondo continueranno a sostenere il servizio core e in modo certo non trasparente. Esattamente l’opposto di ciò che ha fatto Google quando ha creato Alphabet. E la privatizzazione delle Poste non è certo sostanziale, visto che il Tesoro manterrà il 60% delle azioni e imporrà, per il residuo, un tetto del 5% al possesso azionario. Malgrado tutto ciò, grazie alle privatizzazioni lo Stato ha comunque incassato 127 miliardi di euro, anche se non ne ha approfittato per riconvertire e modernizzare l’economia italiana, o ridurre il debito pubblico. Resta moltissimo da fare, ma bisogna partire dal convincimento che lo Stato non deve gestire le imprese. Non ci sono poi solo le società del Tesoro, ma anche le migliaia di partecipate di comuni, province e regioni. Talvolta sono inutili o sono nate per dare una veste solo formalmente privata – vantaggiosa per maneggi politici – e andrebbero semplicemente chiuse. Negli altri casi è d’uopo privatizzarle: sono costate alla collettività 26 miliardi (relazione Corte dei Conti) nel 2014, pur rendendo servizi spesso inefficienti. Privatizzare correttamente non vuol dire creare nuovi monopoli, ancorché privati. Privatizzazioni e liberalizzazioni debbono procedere di pari passo. La concorrenza è altrettanto fondamentale per raggiungere i risultati che vorremmo in tema di qualità dei servizi e minor costo per i cittadini.

Siamo abituati a pensare che sia ovvio e normale che uffici pubblici, scuola, sanità, pensioni, acqua, siano attività gestite direttamente dallo stato. In che modo “Privatizziamo!” dimostra che un diverso modello è possibile e migliora la vita di famiglie e imprese?

Il peso dello Stato frena tutta l’economia. Il governo di David Cameron ha ridotto tra il 2010 e il 2013 la spesa di una quantità che, tradotta in termini italiani, equivale a 16 miliardi di euro l’anno. In un triennio sono quasi 50 miliardi di spese minori. E oggi l’economia britannica, nonostante sia stata colpita da una crisi finanziaria più grave di quella che ha investito l’Italia, cresce tra il 2 e il 3% annuo. Da noi la spending review è rimasta nel cassetto. Se solo fossimo riusciti ad un andamento della spesa primaria pari a quello della media della zona euro dal 2010 a oggi, il risparmio sarebbe quest’anno di una trentina di miliardi. Ma perché in Italia è tanto difficile ridurre la spesa? Il vero motivo risiede nel grande spazio che Stato, regioni e comuni, in una parola la politica, occupano nell’economia nazionale. Fintanto che quello spazio non verrà drasticamente ridotto, la spesa potrà essere contenuta, ma non scenderà abbastanza da consentire un taglio significativo delle tasse. Lo Stato che spende non brilla affatto per oculatezza e se la spesa è improduttiva non genera effetti moltiplicatori. Quegli stessi denari in mano a famiglie e imprese, di norma, sarebbero invece un volano per l’economia perché spesi meglio e più rapidamente.

Se avessimo la stessa la pressione fiscale spagnola, noi italiani pagheremmo 145 miliardi di euro in meno; anche questo è spread e penalizza pesantemente tutto il ceto produttivo della penisola: sbaglio o è un miracolo se siamo ancora in piedi?

Le tasse in Italia sono passate dal 25% del pil nel 1975 al 50% di oggi perché lo Stato e i suoi apparati sono enormemente cresciuti, e questo frena tutto il Paese. Ma per chi si ostina a fare impresa la situazione è ancora più drammatica. Il nostro costo del lavoro è alto: è noto. Ma il problema più rilevante è che una parte eccessiva di quei denari non finisce in tasca ai lavoratori, ma in tasse. Esattamente il 48,2% nel 2014, contro una media Ocse del 36%. Una percentuale molto più alta che in Giappone o Usa, entrambi intorno al 30%, o in Spagna (41%) e Olanda (38%). Quanto alla total tax rate, cioè al carico fiscale complessivo di ogni tributo compreso che grava sui profitti delle imprese, vale la pena di citare qualche dato. In Italia è il 65,4% (fonte Doing Business 2015), in Germania è il 48,8%, nel Regno Unito il 33,7%, in Irlanda il 25,9%. Un peso obiettivamente eccessivo, che disincentiva l’intrapresa in Italia e gli investimenti esteri.

Se lavori vieni pagato, se lavori molto bene vieni pagato di più, se non lavori vieni licenziato: cosa deve accadere perché questo sogno meritocratico diventi realtà?

Sindacato, magistratura e università rappresentano ruoli e funzioni imprescindibili nella società. La tutela dei lavoratori, la garanzia di una giustizia basata sulla terzietà di chi l’amministra e la conoscenza aperta a larghi strati della popolazione sono conquiste relativamente recenti, sicuramente irrinunciabili. Ciò malgrado, oggi in Italia percepiamo, non del tutto a torto, questi ambiti anche come centri di potere, qualche volta autoreferenziali e certo poco inclini a vedere riformato il proprio ruolo in considerazione del mutare dei tempi. Per crescere le nostre aziende hanno bisogno di un mercato del lavoro flessibile, di elasticità contrattuale e di un sindacato non necessariamente antagonista. Possiamo girarci in tondo ed edulcorare il concetto, ma vi sono situazioni in cui è necessario licenziare, premiare il merito (sempre) o lavorare di più (talvolta). La lentezza della giustizia, soprattutto civile, ci fa perdere un punto percentuale di pil all’anno e ci posiziona al 147esimo posto su 183 Paesi in quanto a tempi ed efficacia nella risoluzione dei contratti civili. E se dei tempi della giustizia soffrono tutti i cittadini, per le imprese è forse ancora peggio. Infine, che senso ha un sapere accademico che rischia di essere solo preservazione del passato se non diventa opportunità di lavoro e risorsa per il mondo produttivo?

Privatizziamo! non sembra voler essere un pamphlet contro la politica. Non è pensabile una società senza regole e senza democrazia ma i tempi che viviamo ci pongono sfide nuove e complicate: come attrezzarsi e con quali strumenti vincerle?

Giustizia sociale, democrazia, libertà e diritto sono più facilmente garantiti in una società che cresce e produce ricchezza. Non perché l’economia sia l’antecedente della politica, come credono, ad esempio, i marxisti, e tutto si risolva nell’ambito delle relazioni economiche tra gli uomini. Ma perché il lavoro, un’equa retribuzione o sistemi pensionistici e sanitari, universali ed efficienti, non sono garantiti per decreto, ma sono il prodotto di un’economia libera e di produttori messi nella condizione di creare ricchezza. Occorre creare le condizioni perché ciò avvenga, non dirigisticamente o con spese e investimenti pubblici enormi, semmai agevolando le condizioni dello sviluppo. Non un’Italia senza Stato, insomma, ma con uno Stato che legifera e vigila, non che produce e pervasivamente di tutto si occupa.

Leggi l’articolo sul sito di “Strade”

“Lo Stato riduca al minimo il suo raggio d’azione”

“Lo Stato riduca al minimo il suo raggio d’azione”

Intervista di Antonio Signorini (Il Giornale) a Massimo Blasoni

blasoniintLo Stato deve ridurre al minimo il perimetro della sua azione e lasciare al privato quei servizi che il mercato è in grado di rendere più efficienti. Compresa la gestione della pubblica amministrazione. Massimo Blasoni è un imprenditore di prima generazione, ha dato vita al centro studi ImpresaLavoro e ora con il libro “Privatizziamo!” (Rubbettino, 184 pagine, 12 euro) avanza una proposta di riforma radicale.

C’è ancora spazio per idee come la sua?

«Privatizzare è l’unica via per ridurre l’assurdo carico fiscale. Negli anni Settanta la pressione fiscale in Italia era il 22 per cento del Pil, oggi supera il 42,6 per cento e questo è il risultato di un continuo ampliamento del perimetro dello Stato».

A cosa è servito l’aumento della spesa pubblica?

«A creare una burocrazia sempre più invadente che rende difficile il lavoro degli imprenditori. Per fare degli esempi, in Italia per una concessione edilizia bisogna aspettare 227 giorni contro i 96 della Germania ei 105 del Regno Unito. Se fossero privatizzati gli uffici tecnici del Comune e fosse un gruppo di professionisti associati a gestire le concessioni, con remunerazioni legate alla celerità delle risposte, i tempi sarebbero altri. Forse nessun cittadino e imprenditore si sentirebbe rispondere dietro lo sportello, che il funzionario non c’è, che bisogna ripassare dopo le ferie. Secondo me nessuno si scandalizzerebbe nemmeno se fosse esternalizzata l’anagrafe».

Lei propone di privatizzare funzioni della pubblica amministrazione. È un’idea radicale…

«Il libro si chiama Prívitizziamo! Ma non propone solo privatizzazioni di aziende pubbliche. Bisogna essere coscienti che l’organizzazione sociale che conosciamo non è l’unica possibile, siamo solo abituati a pensarlo. Il fatto che uffici pubblici, scuola, sanità, pensioni e acqua siano attività gestite direttamente dallo Stato non è il frutto di un ordine necessario».

L’obiezione che i servizi pubblici perché devono restare a disposizione di tutti…

«A questa obiezione rispondo con i dati delle tariffe telefoniche. Dopo la privatizzazione, in 10 anni, solo calate dell’11,5%, mentre quelle dell’acqua, che è ancora pubblica, sono aumentate del 78,6%. Nel pubblico ci sono costi che il privato non deve sostenere. Poca efficienza, intermediazione politica. Oggi un sindaco fa fatica a decidere. Nel Comune privatizzato, fatti salvi i compiti istituzionali e politici, un primo cittadino potrebbe comportarsi come un imprenditore che premia il merito, assume e licenzia. Tutto questo a beneficio del cittadino».

Ci sono servizi che devono essere comunque garantiti?

«Ci sono funzioni che deve svolgere direttamente lo Stato. La difesa interna ed esterna, la magistratura. Poi ci sono servizi che devono essere completamente liberalizzati con conseguente riduzione delle tasse a carico del cittadino. Sono quelli pubblici, ma che riceviamo in proporzione a quanto paghiamo. È il caso delle pensioni. L’Inps ha avuto uno sbilancio di oltre 12 miliardi l’anno scorso. Perché non lasciare ai cittadini il miglior gestore possibile dei propri denari?».

E i servizi garantiti?

«Sono quelli per i quali riteniamo non ci debba essere proporzionalità tra quanto diamo e quanto riceviamo. La sanità ad esempio. Deve restare pubblica e finanziata dai contribuenti. Un modello solidale che non significa gestione pubblica. Chiariamoci, non immagino una sanità all’americana, con cittadini più abbienti privilegiati perché possono permettersi un’assicurazione migliore. Nel libro si propone che lo Stato acquisti sul mercato, quindi in regime di concorrenza, beni e servizi da offrire ai contribuenti. La differenza è che quei servizi sarebbero gestiti molto meglio».

Il centrodestra è ancora sensibile a proposte liberali come la sua?

«Occorre una politica con più competenze, ma meno professionale e questo non può che realizzarlo il centrodestra, riprendendo in mano le tesi di una vera rivoluzione liberale. I segnali che arrivano dal governo Renzi non sono certo di una riduzione del peso dello Stato. Il mondo intorno a noi è ben più competitivo che solidale, dunque per rilanciare il nostro Paese servono misure radicali: i posti di lavoro non si creano per decreto, ma favorendo un’economia che funziona. Con meno Stato e più privato».

Caro Renzi, i conti non sono un’opinione

Caro Renzi, i conti non sono un’opinione

Massimo Blasoni – Metro

È proprio vero che la matematica è un’opinione. Almeno per il presidente del Consiglio Matteo Renzi, che l’altro giorno ha esultato per il +0,8% di crescita del Pil italiano nel 2015. Intendiamoci, si tratta pur sempre di un dato positivo perché segna finalmente un’inversione di tendenza rispetto alla decrescita registrata negli ultimi anni: -2,8% del 2012, -1,7% del 2013 e -0,4% nel 2014. Basterebbe però alzare lo sguardo oltre i confini nazionali per decidersi a conservare le bottiglie di champagne per occasioni migliori. L’anno scorso tutti i nostri principali competitor europei hanno infatti registrato una crescita decisamente più marcata del proprio Prodotto interno lordo: +1,2% in Francia, +1,7% in Germania, + 2,2% nel Regno Unito e addirittura +3,2% in Spagna.

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Massimo Blasoni a Radio1 News Economy Magazine

Massimo Blasoni a Radio1 News Economy Magazine

L’intervento del presidente di ImpresaLavoro, Massimo Blasoni, nell’edizione del 27 febbraio di Radio1 News Economy Magazine. Argomento dell’intervista: il nostro studio “Gli extracomunitari nel nostro Paese trovano lavoro più facilmente degli italiani“.

Massimo Blasoni interviene a Radio News Economy (Radio1 Rai)

L'intervento del presidente di ImpresaLavoro, Massimo Blasoni, nell'edizione del 27 febbraio di Radio1 News Economy Magazine: perché gli extracomunitari nel nostro Paese trovano lavoro più facilmente degli italiani?

Posted by ImpresaLavoro on Wednesday, March 2, 2016

A volte anche i friulani si incazzano, e uno di loro vuole privatizzare tutto

A volte anche i friulani si incazzano, e uno di loro vuole privatizzare tutto

Tino Oldani – Italia Oggi

La pressione fiscale era intorno al 15% del pil in epoca fascista, è salita al 18% nel dopoguerra, per attestarsi intorno al 20% nel 1972, quando Bruno Visentini varò una storica riforma tributaria, che introdusse la trattenuta alla fonte sui redditi da lavoro. Da allora, la pressione fiscale è cresciuta di continuo, fino ad attestarsi al 43,7% attuale, con le tasse locali che negli ultimi vent’anni sono cresciute del 248% e quelle nazionali del 72%. È da questi dati che prende le mosse un bel libro («Privatizziamo!»; Rubbettino), scritto da un imprenditore di prima generazione del Nord Est, Massimo Blasoni, 45 anni, che, in base all’esperienza personale (è stato anche in politica), giudica ormai inaccettabile la pervasività asfissiante dello Stato in ogni settore, uno Stato cresciuto troppo, che si nutre di troppe tasse, uno Stato inefficiente e in perenne deficit, che va messo a stecchetto al più presto, con una radicale politica di privatizzazioni, lasciando al settore pubblico soltanto l’esercito, la giustizia e la polizia, oltre al compito di fare le leggi.

Blasoni è a capo di un’azienda che costruisce e gestisce residenze sanitarie per anziani, ha 1.600 dipendenti, e fa buoni utili. In passato è stato consigliere comunale a Udine per Forza Italia, ed è stato poi eletto consigliere regionale in Friuli, risultando il più votato. Ma, di quell’esperienza, non conserva un buon ricordo. Anzi, nel libro racconta la delusione che provò quando propose di istituire un Fondo regionale di garanzia, per dare liquidità alle aziende friulane in crisi, e la burocrazia regionale si mise di traverso. Un superburocrate regionale non trovò di meglio che affossare l’iniziativa con un sorrisetto di scherno: «Eh, voi imprenditori. Gli imprenditori evadono, già facciamo molto per le imprese, bisogna sostenere i lavoratori non le imprese, e la burocrazia ha i suoi tempi”. Purtroppo, tempi vergognosamente lenti: “Da un anno e mezzo”, annota Blasoni, “attendo la concessione di una licenza edilizia in Veneto, e con me tutti i lavoratori impegnati nel progetto, mentre le Asl piemontesi impiegano mediamente dieci mesi per i pagamenti».

Uscito dalla politica, Blasoni ha fondato un proprio centro studi (ImpresaLavoro), che negli ultimi due anni ha messo insieme una montagna di dati sui danni dello statalismo. I confronti con gli altri paesi sono impietosi. Se in Italia ci fosse la stessa pressione fiscale che c’è in Germania (39,4%, contro il nostro 43,7%), pagheremmo 54 miliardi di tasse in meno ogni anno. Andrebbe ancora meglio se da noi ci fosse la pressione fiscale della Spagna (34%): 145 miliardi di tasse in meno. Per rilasciare una concessione edilizia, la burocrazia italiana impiega 233 giorni, contro 96 della Germania e 87 della Gran Bretagna. Lo Stato, in media, paga le forniture private con un ritardo di 144 giorni, mentre la media Ue è di meno di un mese, con il risultato che lo Stato non è ancora riuscito a pagare i debiti che aveva con i fornitori privati, cosa che Matteo Renzi ha dato più volte per fatta. «Come ha certificato la Banca d’Italia, mancano ancora 70 miliardi», sostiene Blasoni.

La scarsa efficienza di tutti i servizi pubblici, dalla sanità agli sportelli comunali, si deve al fatto che lo status dei dipendenti pubblici è tuttora diverso da quello dei privati, un punto sul quale né il Jobs act, né la riforma Madia hanno cambiato una virgola. «Lo so per esperienza diretta», dice Blasoni: «Un sindaco non ha neppure il potere di spostare un impiegato da un ufficio a un altro. E un lavoratore privato, quando deve fare la fila a uno sportello pubblico, è il primo a toccare con mano che i tempi di lavoro dell’impiegato pubblico sono molto diversi da quelli che vigono in ogni azienda privata. Ecco perché serve una riforma vera della burocrazia, che renda paritario lo status dei dipendenti pubblici e privati, ma soprattutto privatizzi tutti quei servizi che i privati svolgerebbero con maggiore efficienza rispetto a Comuni e Regioni».

Lo Stato vuole fare tutto, anche l’immobiliarista, ma lo fa male. «Prendiamo l’Inps: possiede 22.500 immobili, del valore di 3,2 miliardi, ma ci rimette più di 100 milioni ogni anno nella gestione. È il segno che funziona male», sostiene l’imprenditore friulano. «Visto che la riforma Fornero ha reso le pensioni contributive, che senso ha fare gestire ancora i contributi previdenziali a un ente pubblico inefficiente come l’Inps? Una società privata li gestirebbe meglio. Lo Stato, poi, che aspetta a dismettere l’immenso patrimonio immobiliare, visto che lo gestisce così male?».

L’organizzazione del settore pubblico che conosciamo non è l’unica possibile. Siamo solo abituati a pensarlo. Ma non sta scritto da nessuna parte che uffici pubblici, scuola, sanità, trasporti, pensioni e acqua debbano essere gestite direttamente dallo Stato. Tanto più se il costo dell’intermediazione politica (fatta di Cda, assunzioni ingiustificate e gestione non economica degli acquisti) genera costi impropri, che vengono fatti pagare a tutti noi, famiglie e imprese, con una tassazione folle. Contro lo Stato cattivo imprenditore e cattivo immobiliarista, che si è trasformato in un’idrovora fiscale pur di mantenere un apparato burocratico pletorico, a stipendio garantito e ostile all’impresa, c’è un solo rimedio, per Blasoni: privatizzare. Difficile dargli torto.

Leggi l’articolo sul sito di Italia Oggi