mercati

Fili non elastici

Fili non elastici

Davide Giacalone – Libero

Moneta, politica e anche giustizia. Studiare con attenzione come s’annodano questi tre fili serve ad evitare di coltivare inutili illusioni. Come capita, credo, a proposito dell’esultanza italiana per la (s’immagina) conquistata elasticità nell’esame dei conti economici. Capisco le ragioni della propaganda, che ha anche effetti sul comportamento dei consumatori. Purché non diventi inganno. O, peggio ancora, autoinganno.

Cominciamo dall’elasticità. Più si canta vittoria più si rischia di prendere stecche. Nella sostanza si tratta di un accordo circa la correzione strutturale dei conti, destinata a ridurre il debito pubblico, limitata a 0,25 punti di prodotto interno lordo, contro lo 0,5 chiesto dalla Commissione europea. In termini assoluti: fra i 4 e i 5 miliardi di euro. Questa sarebbe la conquista. Ma si basa sul presupposto che il deficit del 2014 sia entro il 3%, mentre l’ultimo dato disponibile è quello relativo ai primi nove mesi, quando quotava 3,7. Mettiamo (e speriamo) che sia totalmente rientrato e i conti tornino, abbiamo qualche miliardo in più da spendere? Tuttalpiù abbiamo meno conti da correggere, perché la “conquista” vale solo per il 2015 e si basa sul fatto, certo non festeggiabile, che siamo i soli rimasti in recessione. Con il debito che cresce. Poi c’è l’altra faccia della flessibilità: non contabilizzare gli investimenti nel deficit. Ma, al momento, è fuffa legata al piano Junker, a sua volta dotato di scarso realismo.

Sospendiamo un attimo la riflessione e prendiamo il filo della giustizia: la Corte europea non ha emesso alcuna sentenza, ma l’avvocato generale ha sostenuto essere legittimo l’operato della Banca centrale europea. Perché se ne occupano e cosa significa? Se ne occupano perché la Corte costituzionale tedesca rimise a loro il quesito che le era stato sottoposto. Fortunatamente lo fece, perché se la Corte di un Paese avesse potuto decidere per tutti gli altri la storia dell’euro sarebbe già finita. Dice l’avvocato generale: l’Omt e il Qe (ovvero lo scudo anti spread e l’acquisto di titoli da parte della banca centrale) sono da considerarsi legittimi perché la Bce ha strumenti di analisi che noi non abbiamo e non c’è motivo di dubitare che abbia agito correttamente, ma sono legittimi in quanto rispettano e rispettino un principio cardine dei trattati: niente trasferimenti di ricchezza da uno Stato all’altro (e la proporzionalità). Bene. Mario Draghi è più forte, ma il limite oltre il quale non può spingersi si avvicina.

Qui arriva il terzo filo, la moneta. La classe dirigente italiana farebbe bene a imparare a memoria l’intervista rilasciata da Draghi a Die Zeit. Sembra concepita per difendersi dalle critiche tedesche, ma lancia messaggi inequivocabili. Il primo: la Bce agisce sul piano monetario perché non ha legittimità a fare altro, ma non basta (lo ha detto cento volte), non è fra i suoi compiti valutare l’effettività delle riforme strutturali necessarie, in alcuni paesi e segnatamente in Italia, ma altri dovranno farlo. Chiaro? Non basta la parola, insomma. Il secondo: l’Italia perde competitività da prima dell’euro, mentre i bassi tassi d’interesse hanno sostenuto l’economia e i consumi facendo crescere l’indebitamento. Così non si va da nessuna parte, ergo il rigore nell’amministrare il bilancio pubblico è necessario. Il terzo: non è nell’interesse dei contribuenti e risparmiatori tedeschi lasciare affondare chi s’è appesantito, ma è autolesionista e insostenibile che questi ultimi non si alleggeriscano.

Rimettiamo assieme i fili. Quello giudiziario è sciolto, sebbene in modo condizionato. Quello monetario è stato gestito egregiamente (dalla Bce) nel far scendere gli spread e bloccare la febbre speculativa, ma ora che si tratta di spingere l’economia si ricordi che: a. non abbiamo mezzi infiniti; b. non ne abbiamo di autosufficienti. Quello politico è ammatassato, con capi di governo che fanno finta di non capire. Noi italiani, ad esempio, siamo a un solo gradino dai titoli spazzatura, uno solo. È ingiusto, ma è così. Se lo scendiamo la Bce non potrà più accettare i nostri titoli in garanzia. Una tragedia. Per risalirlo, però, non servono 5 miliardi di spesa statale in più, ma molti punti di riconquistata produttività, il che significa meno tasse, meno burocrazia, più intrapresa. La festeggiata elasticità non ci serve a nulla. A vigilare questo processo dovrebbe essere la Commissione europea, che, però, ondeggia sia sotto le pressioni dei singoli governi, sia spaventata dagli umori delle opinioni pubbliche, che cercano sempre altrove il colpevole di quel che vivono. Quest’anno si vota non solo in Grecia (fra due settimane), ma anche in altri sette paesi, fra i quali Regno Unito, Portogallo e Spagna.

Se per aiutare i governi si molla la presa sui conti, poi arriva la mazzata dei mercati. Se si stringe troppo sui conti vanno al governo i parolai arruffapopolo. È questo il fronte più pericoloso, quello politico. Esserne consapevoli dovrebbe aiutare a non farsi abbindolare dai ridanciani o dagli sbuffanti, recuperando un po’ di consapevolezza e serietà.

Più Stato più mercato

Più Stato più mercato

Enrico Cisnetto – Il Foglio

Più stato meno mercato (D’Alema). No alla disintermediazione delle rappresentanze, alla delegittimazione degli enti e dei soggetti intermedi, alla rottamazione delle varie forme di concertazione (De Rita)! Dopo un periodo in cui il dibattito politico si è limitato a osservare la prevalenza delle “emergenze”, ora, pur senza essere ancora usciti dalle tenebre della crisi, si torna finalmente a ragionare con un minimo di logica prospettica. La discussione, purtroppo, è inquinata dalla lotta in atto tra Renzi e il resto d’Italia (inteso come somma di tutti i vecchi poteri), ma ciò non toglie che sia il caso – depurandola – di prenderla sul serio. Anzi, il primo che dovrebbe farlo è proprio il presidente del Consiglio, specie se vuole portare fino in fondo il lavoro che ha intrapreso – sempre al netto delle guerre interne – di riconversione culturale (stavo per scrivere ideologica) del Pd.

Credo che non si possano affrontare le questioni sollevate dall’intervista di D’Alema e dall’intervento di De Rita (entrambi sul Corriere della Sera) se non si parte dai molti fallimenti di cui stiamo pagando, tutti insieme, il prezzo. Il primo è quello, generale, dell’Italia, intesa come economia assistita dalla spesa pubblica (improduttiva), come società (fallimento delle élite e più in generale della borghesia) e come sistema politico-istituzionale (la Seconda Repubblica). Il secondo, più specifico, è il default del federalismo, cioè del mantra più ripetuto negli ultimi due decenni, e cioè che la soluzione dei nostri problemi sarebbe consistita nello svuotare lo Stato centrale decentrandone i poteri in una iper ramificata struttura di amministrazioni locali. Il terzo è un fallimento planetario – ma che in Italia ha trovato la sua massima espressione, per via delle nostre contraddizioni – ed è quello del turbo-liberismo, cioè la (sana) cultura liberale del mercato ridotta a ideologia (sì allo stato minimo, no alla politica industriale) e messa al servizio della delegittimazione della politica e delle istituzioni. Siamo riusciti nell’impossibile impresa di predicare il liberismo più sfrenato e di praticare il collettivismo più becero. Abbiamo costruito i mostri del socialismo asociale, dello statalismo antistatale e del satanismo fiscale. Ma lo abbiamo fatto – e la sinistra più di altri, dovendosi purificare per essere stata comunista fino alla caduta del Muro – negando la necessità di investimenti pubblici e la legittimità di scelte di politica industriale.

Allora, è solo partendo da questo tragico consuntivo che si puo valutare la “ropture” di Renzi. E appare assolutamente indispensabile. Forse potrà non essere sufficiente, e certamente lui finora non ha mostrato la necessaria capacità di tradurla gestionalmente e calarla nell’amministrazione, né la sua azione politica (molto politicista) è innestata su un solido impianto teorico e programmatico. È probabile, insomma, che Renzi incarni solo la fase destruens, e che quella costruens sia di là da venire. Ma tutto questo non toglie nulla al fatto che “rompere con il passato” sia un’esigenza assoluta e improrogabile. Nello stesso tempo, è evidente che se fin d’ora si riesce a dare un po’ di ordine concettuale al pensiero ricostruttivo, tanto di guadagnato.

Da parte mia, offro alla riflessione quella che io chiamo la ricetta “liberal-keynesiana”, chiarendo agli scettici che le due definizioni non sono in contraddizione. Perché, da un lato, la componente “liberal” significa avere l’obiettivo di sconfiggere quella modalità burocratica che rende il mercato e l’economia italiana assolutamente arretrati, tagliando i viveri all’assistenzialismo, che genera incapacità a competere e costi economici e sociali alti, per restituire ossigeno a quella parte, purtroppo minoritaria, dell’economia, che ha fatto numeri straordinari nelle esportazioni. Ma, dall’altro lato, è pacifico quanto siano necessari tanto gli investimenti pubblici – che nessun “pensiero unico” cancella, considerato che non si è mai vista una ripresa per decreto o solo grazie ai consumi – quanto la valenza strategica della politica industriale, visto che abbiamo l’assoluta necessità di ricostruire un capitalismo italiano frantumato.

Più Stato e più mercato è dunque la ricetta giusta – che poi sia la “terza via” di vecchia memoria o di nuovo conio, poco importa – all’interno di un progetto che torna a rivalutare lo stato centrale, anche in funzione di una progressiva cessione di sovranità in sede europea che speriamo si metta in moto al più presto (Draghi docet), e asciuga il decentramento improduttivo. Si tratta poi di definire, dentro questo schema, quale ruolo si debba assegnare alle rappresentanze degli interessi e che modalità sia più utile per mediarli in chiave di interesse generale. Qui la fase destruens renziana prevede necessariamente un forte tasso di disintermediazione. Ma non c’è dubbio che il ponte diretto gente-leader produce solo alti livelli di populismo e amplifica le pulsioni di uomini e soluzioni forti, da sempre presenti nella società italiana e da cui occorre rifuggire. Quindi occorre lavorare alla ridefinizione della politica e delle rappresentanze. Domani leggetevi il rapporto Censis e troverete qualche prima risposta.

I mercati chiusi che bloccano la nostra crescita

I mercati chiusi che bloccano la nostra crescita

Daniele Manca – Corriere Economia

I tempi non sono più quelli nei quali mercati aperti, libero movimento di capitali e merci, garantivano sviluppo e crescita. Anzi, ogni Paese sembra richiudersi in se stesso tentando di trovare al proprio interno – e a spese dei partner – una propria via di difesa dalla crisi. Niente di più sbagliato. Il mercato delle telecomunicazioni ha permesso all’Europa una leadership, poi perduta, grazie a innovazione, concorrenza e massima apertura.

Lo stesso non si può dire dell’energia. Vale per l’Italia come anche per l’intero Vecchio Continente. Scambiare energia tra i vari Paesi dell’Unione è tutt’altro che facile (il gas poi fa caso a parte). Succede così che la produzione in eccesso, soprattutto da fonti rinnovabili che proviene da Paesi come la Spagna, ma anche da tutta la zona scandinava e dalla Norvegia, non possa arrivare in nazioni che ne hanno bisogno. Energia che viene dispersa. Come può essere efficiente un mercato quando il peso della tasse tra Germania e Danimarca e tra il 50% e il 60% del prezzo finale mentre in Gran Bretagna la percentuale scende al 5%?

Il confronto con gli Stati Uniti è drammatico in termini di prezzo dell’elettricità rispetto a quello in Europa. È la conseguenza di scelte che hanno portato ad avviare la ricerca dello shale gas, da noi osteggiato per motivi ambientali. Ma anche di quello che è a tutti gli effetti un mercato unico. Che significa interconnessione delle reti nazionali e convergenza dei prezzi. In tempi di crisi la strada è ancora più difficile. Ma nel dopoguerra la situazione non era certo meno complicata. Eppure, la lungimiranza di capire che andavano superati i confini nazionali, se quello che si cercava era un futuro più prospero, non è mai mancata. Oggi quella consapevolezza dove è finita?

Aprirsi ai commerci, ridimensionare il potere. In Cina come in Occidente

Aprirsi ai commerci, ridimensionare il potere. In Cina come in Occidente

Carlo Lottieri

Entro questa Europa che sta avvitandosi su se stessa, l’unica vera strategia può consistere nell’allargare gli spazi di libertà. Solo una fuoriuscita dal mito dallo Stato e, di conseguenza, dall’interventismo pubblico può ridare una chance alle popolazioni europee. E in questo senso, una spinta nella direzione giusta potrebbe venire dal TTIP, ossia da quel “Transatlantic Trade and Investment Partnership” (trattato transatlantico per il commercio e gli investimenti) che dovrebbe unificare le economie di Stati Uniti ed Europa.
De negoziati in atti, però, si parla assai poco e questo in promo luogo perché ben pochi credono che ampliare gli scambi sia un atto di civiltà e una scelta che favorisce la prosperità. In questo senso dovremmo imparare da chi, negli ultimi decenni (per giunta partendo da una situazione ben peggiore della nostra), ha saputo imboccare la strada giusta. Al riguardo può essere molto utile quanto scrissero Ning Wang e Ronald Coase – quest’ultimo scomparso lo scorso anno – in uno straordinario volume (il libro è stato tradotto in italiano da IBL Libri) volto a spiegare come e perché la Cina sia riuscita a diventare un Paese capitalista. Com’è successo che uno dei Paesi più statici, piegati dallo statalismo e distrutto da progetti folli quali la Rivoluzione Culturale e il Grande Balzo in Avanti abbia saputo mettersi sui giusti binari, tanto da crescere al ritmo del 10% all’anno? Mentre Europa e Nord America vanno perdendo sempre più dinamismo, com’è possibile che la Cina abbia invece imboccato la strada opposta?
Wang e Coase insistono su vari punti, ma in particolare su due. In primo luogo, essi sottolineano il carattere altamente decentrato della Cina, che è un autentico continente e che nel corso dei secoli non è mai stato gestito direttamente da Pechino, poiché nessun regime ha mai preteso tanto. Per giunta, lo stesso Mao evitò ogni dirigismo economico sovietico (basato su piani economici quinquennali) perché riteneva che una struttura di quel tipo avrebbe rafforzato i luogotenenti politici e avrebbe quindi rappresentato un pericolo per la sua leadership. Avere tanti capetti di livello locale era probabilmente meglio che non dotarsi di una tecnostruttura che disponeva dell’economia cinese.
Mao non aveva alcuna delle preoccupazioni che gli studiosi liberali hanno di fronte alla al dirigismo, ma perseguendo in modo assai machiavellico i suoi calcoli bloccò ogni eccessiva concentrazione del potere economico in poche mani. L’altra questione su cui gli autori insistono è il ruolo che hanno avuto i cambiamenti “ai margini”. In definitiva la Cina collettivizzata da Mao si è trovata a dover affrontare una povertà terribile e una disoccupazione di grandi dimensioni. In questo quadro drammatico e, spesso, a migliaia di chilometri dalla capitale, in varie circostanze quella che ebbe luogo fu una privatizzazione di fatto dei terreni che produsse ottimi risultati e poi venne presentata dal regime come l’effetto di una scelta strategia.
Anche nelle città, la nascita di imprese private ebbe luogo nell’illegalità. Non solo il regime comunista non organizzò in alcun modo i primi passi del sistema privato, ma neppure creò un quadro giuridico che favorisse tutto questo. L’afflusso nelle città di masse di disoccupati obbligò però molti ad arrangiarsi: e anche stavolta il Pcc si attribuirà i buoni risultati conseguenti. Il regime subì i cambiamenti, anche se ebbe la furbizia di non ostacolarli una volta che le cose ebbero avuto luogo e, anzi, si attribuì le trasformazioni quali effetti di decisioni “lungimiranti”.
Spesso s’insiste sul pragmatismo di cui diedero prova i comunisti cinesi e, in particolare, Deng Xia-ping, cui poco interessava se fosse meglio adottare Stato o mercato, perché l’importante era che l’economia crescesse. Questo è cruciale per capire l’apertura al mercato della Cina, ma anche Deng avrebbe potuto fare ben poco se – lontano dai centri potere – non ci fosse stata la coraggiosa iniziativa di chi ha osato, sfidando i pregiudizi e gli interessi consolidati. E oggi la partita cinese è assai più aperta – anche sotto il profilo politico – proprio grazie all’espansione di imprese che sfidano il mercato invece che rispondere a esigenze politiche.
Non lo si dice quasi mai, ma l’esperienza cinese è soprattutto quella di un potere che, un po’ alla volta, si è ridimensionato e ha finito per perdere il monopolio sulla società. Oggi – nonostante i molti problemi che persistono: dal partito unico alla situazione tibetana – la libertà individuale in Cina è assai più rispettata e il potere meno ramificato, perché le forze del mercato hanno creato spazi di autonomia e sparigliato le carte.
Se il coraggio d’intraprendere ha condotto entro un ordine capitalistico pure la Cina del marxismo in salsa maoista, perché non dovrebbe poter succedere lo stesso anche nella nostra Europa dominata da iper-regolamentazione, tassazione e redistribuzione? E se l’apertura del mercato cinese ha tanto aiutato quella società, perché mai questo non dovrebbe succedere anche sulle due coste dell’Atlantico?
Il pericolo dell’infarto finanziario

Il pericolo dell’infarto finanziario

Mario Deaglio – La Stampa

Meno 4,4 per cento; meno 1,21 per cento; più 3,42 per cento. Queste cifre mostrano la variazione del Ftse Mib, il principale indice della Borsa di Milano nelle ultime tre sedute della settimana scorsa e ripetono, un poco amplificati, gli andamenti delle Borse di tutto il mondo. Variazioni di queste dimensioni, per di più senza una direzione precisa, escono dai limiti della normalità, soprattutto se si tien conto che, in questi giorni, nell’economia reale non è cambiato pressoché nulla, con l’Europa sull’orlo di una recessione – che potrebbe anche non arrivare o essere molto lieve – e gli Stati Uniti impegnati in una ripresa non del tutto convincente (nella prima metà dell’anno la crescita americana è risultata di poco superiore all’1 per cento, meno dell’aumento della popolazione).

Siamo quindi di fronte a una fibrillazione dei mercati. Potrebbe derivarne un infarto? Perché? Perché proprio ora? Il pericolo di un infarto finanziario deriva dal fatto che la trasparenza e la regolazione dei grandi mercati mondiali non hanno compiuto molti passi avanti dal 2007-08 anche se non c’è oggi una specifica categoria di titoli ma a rischio, come erano allora i famigerati americani mutui «subprime». Una parte importante della risposta va cercata nella politica mondiale. Inforcando le lenti della politica occorre guardare al paese che vanta il maggior mercato finanziario globale nonché (ancora per poco, ossia finché non sarà superato dalla Cina, probabilmente nel 2015) il maggior sistema economico del pianeta.

Naturalmente stiamo parlando degli Stati Uniti dove ogni due anni viene rinnovata gran parte del Congresso. Tra una ventina di giorni, e precisamente il 4 novembre, si terranno negli Stati Uniti le cosiddette «elezioni di metà mandato» ed esiste la possibilità che i democratici del presidente Obama si trovino in minoranza sia al Senato (che attualmente controllano) sia alla Camera dei Rappresentati, dove già oggi sono in netta minoranza.

Se così fosse, Obama diventerebbe ciò che nel gergo politico di quel paese si chiama un’«anatra zoppa», non più in grado di perseguire efficacemente alcuna vera azione politica né interna né internazionale senza il «permesso» dei suoi oppositori repubblicani. La prossimità delle elezioni sta inoltre frenando il possibile intervento militare americano in Siria-Iraq soprattutto perché gli elettori americani sono stanchi di guerre. Ai curdi che difendono accanitamente la città di Kobane arrivano soprattutto le armi mandate dagli alleati europei degli Stati Uniti e l’aiuto di un numero non elevato di incursioni di aerei americani.

Nei prossimi venti giorni, l’incertezza sui risultati elettorali americani potrebbe incidere negativamente sui listini, così come potrebbe avere un impatto negativo una sconfitta dei democratici di Obama proprio per la paralisi governativa che ne deriverebbe. Un possibile vuoto di politica economica potrebbe riguardare anche l’Unione Europea, dove la nuova Commissione muoverà in novembre i suoi primi passi, necessariamente incerti. Non va però trascurata la politica estera.

Il vuoto politico si aggiunge così al vuoto economico, la politica contribuisce, e non poco, a bloccare l’economia. E questo non solo – o non tanto – in Italia dove il processo di approvazione della «manovra» non ha la rapidità auspicata dal presidente del Consiglio, ma comunque procede molto più celermente che in passato; ma anche, e soprattutto, a livello mondiale. Alle Borse non rimane altro che guardare alle relazioni trimestrali delle imprese e alle previsioni di crescita dei diversi settori e quel che vi possono scorgere non è precisamente entusiasmante: a livello mondiale, sono dati molto variegati mentre la Fed parla di crescita complessivamente «moderata» o «modesta». E Janet Yellen, da pochi mesi a capo della Fed, sottolinea la crescente diseguaglianza della ricchezza e dei redditi negli Stati Uniti come motivo di preoccupazione perché costituisce un blocco alla ripresa.

Ai pazienti a rischio d’infarto i medici prescrivono spesso una serie di pillole e suggeriscono di cambiare stile di vita. Alle economie ricche (e ai ricchi mercati finanziari) a rischio d’infarto è necessario proporre qualche pillola di nuova liquidità e un cambiamento di politica economica che introduca qualche modificazione nella distribuzione dei redditi in modo da incoraggiare, quanto meno nel breve periodo, un certo rilancio dei consumi interni. Spesso il malato non segue i buoni consigli e la Signora Merkel non ha, nelle ultime settimane, dato prova di quel pragmatismo, di quel «buon senso» del quale l’Europa e l’intera economia mondiale hanno disperatamente bisogno. C’è da sperare che l’aria di Milano, dove si è svolto un inedito incontro Europa-Asia la convinca (e convinca i suoi ministri economici) che economia e ragioneria sono due discipline diverse e che la politica economica non si fa contando i decimali di – eventuale – sforamento del tre per cento del rapporto deficit/prodotto lordo.

Il doppio azzardo del premier

Il doppio azzardo del premier

Luca Ricolfi – La Stampa

Sono stato fin troppo facile profeta, tre giorni fa, quando ho provato a insinuare il dubbio che i mercati finanziari non l’avrebbero bevuta. Che i mercati, cioè, non avrebbero apprezzato affatto una manovra che, anziché tentare di risanare i conti pubblici, li sfascia ulteriormente, pianificando un aumento del deficit di ben 11 miliardi di euro. E così è stato, purtroppo: fra ieri e l’altro ieri lo spread dell’Italia rispetto alla Germania è tornato a salire. Si potrebbe pensare che questo peggioramento non sia dovuto a un deterioramento del giudizio dei mercati sui conti pubblici dell’Italia, ma al cattivo momento dell’economia europea e alle preoccupazioni sullo stato patrimoniale delle banche greche, ma purtroppo questa interpretazione, vagamente autoconsolatoria, si scontra con la pietosa realtà dei dati.

I dati: lo spread dell’Italia non è aumentato solo rispetto alla Germania, ma anche rispetto alla Francia, al Belgio alla Spagna, all’Irlanda, ed è migliorato solo rispetto all’inguaiatissima Grecia e al Portogallo. Si potrebbe pensare (e sperare) che nel giro di qualche giorno questa situazione di pericolo per i nostri conti pubblici rientri, e che i mercati si auto-tranquillizzino, o vengano tranquillizzati dal solito «aiutino» di Mario Draghi, o da una improvvisa conversione keynesiana di Angela Merkel. Il punto, però, è che anche nel più ottimistico degli scenari possibili, con l’Europa che ci lascia fare deficit e i mercati che continuano a prestarci denaro a basso costo, la manovra da 36 miliardi resta ad alto rischio. Ed è un vero peccato, perché la filosofia della manovra è più che giusta.

L’idea di fondo è di modificare la struttura dei conti pubblici facendo diminuire l’interposizione della Pubblica amministrazione (meno tasse e meno spese) e di farlo più dal lato delle entrate che da quello delle uscite, in modo da far respirare l’economia: se i numeri della manovra venissero rispettati, a fine 2015 avremmo sì più deficit pubblico, ma gli italiani si troverebbero ad aver pagato meno tasse. E altrettanto condivisibile è l’idea che, per far ripartire l’occupazione, si debbano ridurre i contributi sociali a carico del lavoro dipendente. Dov’è dunque il problema?

Il problema si annida in due passaggi assai delicati della manovra. Il primo riguarda la spending review: 15 miliardi di tagli delle spese improduttive, di cui circa 3 sulla sanità, sono facili da annunciare ma molto difficili da attuare, e questo per un mix di cattive e di buone ragioni: la resistenza della casta burocratica, ma anche la mancanza di piani di riduzione degli sprechi così analitici e così ben fatti da consentire riduzioni di spesa senza riduzione dei servizi. Lo scenario più probabile è un negoziato di Renzi e Padoan con gli Enti locali (e con i ministri!) per ridimensionare i tagli, seguito da un aumento della tasse locali. La reazione irritata del governatore del Piemonte, il renziano Chiamparino, all’annuncio dei tagli prelude precisamente a uno scenario del genere.

Ancora più delicato è il secondo passaggio, quello in cui si annuncia l’azzeramento dei contributi per le imprese che assumono. Qui molta enfasi è stata posta sul fatto che un’impresa risparmierà circa 9 mila euro per ogni assunzione a tempo indeterminato, ma si sta dimenticando che se i miliardi a disposizione sono solo 1.9, le assunzioni a contributi zero potranno essere appena 200 mila, ossia molte di meno delle assunzioni a tempo indeterminato totali (oltre 1 milione). Ma non si tratta solo di questo, ovvero della ridotta ampiezza della «platea» dei beneficiari. Il problema è che in una situazione in cui c’è molta capacità produttiva inutilizzata, gli sgravi contributivi si limitano ad alleggerire i conti delle imprese (più profitti, o meno perdite), ma difficilmente generano nuova occupazione perché per soddisfare i pochi ordinativi che le imprese ricevono quasi sempre basta e avanza la forza lavoro già occupata. Se anche nel 2015, nonostante lo stimolo del deficit, la domanda aggregata sarà debole, e il Pil resterà quindi stagnante (come il Governo stesso ammette), non vi sono motivi per pensare che l’occupazione totale possa crescere in modo apprezzabile: perché si abbia un aumento degli occupati, il Pil nel 2015 dovrebbe crescere almeno del 2%, eventualità che tutti gli osservatori escludono.

Ecco perché non sono molto ottimista. La decontribuzione resta un’ottima idea, ma se le risorse ad essa destinate sono così esigue, sarebbe di gran lunga preferibile concentrarle sulle imprese dinamiche. Il che, in concreto, può significare due cose: o riservare gli sgravi alle imprese che esportano, con conseguenti benefici sulla competitività (un’idea di recente lanciata da Oscar Farinetti); oppure riservarli non già ai neoassunti in generale (compresi i lavoratori che ne sostituiscono altri, andati in pensione o licenziati), ma ai lavoratori assunti su nuovi posti di lavoro, ossia ai casi in cui l’impresa incrementa l’occupazione rispetto all’anno precedente (un’idea suggerita dalla Fondazione Hume, con il contratto denominato job-Italia). Il vantaggio sarebbe che, in entrambi i casi, si avrebbe un effetto non trascurabile sul Pil, con benefici nei tre ambiti chiave: competitività, occupazione, entrate dello Stato.

Il premier contro il pessimismo dei mercati

Il premier contro il pessimismo dei mercati

Marcello Sorgi – La Stampa

Convocato nel mercoledì nero del crollo delle borse, con Milano che ha toccato il picco della negatività in Europa, il Consiglio dei ministri ha licenziato la legge di stabilità in un clima diverso da quello di svolta che Renzi avrebbe voluto, e che comunque s’è sforzato di costruire, presentando in serata nei dettagli la manovra da trentasei miliardi, «con il più grande taglio di tasse della storia della Repubblica». In sintesi, Renzi tende a dare un valore contingente al terremoto di ieri sui mercati e a prevedere risultati molto più immediati delle misure appena varate, sia in termini di rilancio dell’occupazione, grazie al drastico taglio dell’Irap e del costo del lavoro, sia in fatto di ripresa dei consumi e di crescita complessiva. Si tratta, com’è evidente, di una visione ottimistica del percorso che l’Italia ha di fronte. Renzi però sostiene che non c’è altra strada.

Qualificati osservatori economici, tuttavia, di quel che è accaduto ieri e del trend delle ultime settimane tratteggiano un quadro diverso e arrivano a conclusioni più preoccupate. L’alibi della Grecia in cui il governo Samaras spingerebbe per liberarsi in anticipo dei vincoli della Trojka non può bastare a spiegare la fuga degli investitori negli ultimi giorni dalla Borsa italiana e il brusco rialzo dello spread, che ieri ha toccato di nuovo quota 170 per assestarsi poi solo qualche punto più sotto. Il ritardo con cui l’agenzia Moodys ha consegnato il suo periodico rapporto (per la verità più positivo, o se si preferisce meno allarmato, del previsto) può aver determinato un’ondata di vendite, ma non fino al punto da provocare un crollo come quello che s’è avuto.

La verità, come ha ricordato giorni fa il presidente della Bce Draghi, è che la crescita globale nell’insieme sta rallentando, e in tale ambito la stagnazione europea non dà segni di movimento e la stessa Germania comincia a mostrare qualche segno di affaticamento. È in questa cornice che la Commissione europea – quella uscente presieduta da Barroso, che ha già spiegato come sia difficile fare sconti, e la nuova guidata da Juncker, con cui Renzi ha avuto una telefonata non del tutto rasserenante martedì – deve decidere se promuovere l’Italia e la manovra varata da Palazzo Chigi, accettando l’ottimismo della volontà di Renzi, o se rimandarla o addirittura bocciarla, abbandonandosi al pessimismo della ragione.