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Saranno droga, prostituzione e mafia a salvare i conti del 2014

Saranno droga, prostituzione e mafia a salvare i conti del 2014

Sergio Soave – Italia Oggi

Matteo Renzi ironizza sulla discussione agostana sulle intenzioni «segrete» dell’esecutivo e in particolare sulle ipotesi che circolano di riduzione delle pensioni o di aumento delle tasse, come se si trattasse soltanto di elucubrazioni giornalistiche prive di fondamento o magari animate da ostilità politica. In questo caso, però, il sarcasmo del premier non è giustificato. Renzi ha ammesso che la crescita prevista per quest’anno non ci sarà, ha insistito a garantire che l’Italia manterrà gli impegni sul deficit, e questi due elementi dicono che mancano almeno cinque miliardi. Se si aggiunge che già la legge di Stabilità in vigore prevede che nel caso in cui non si raggiungano gli obiettivi si ricorrerà a un abbattimento lineare delle detrazioni (cioè a un aumento della tassazione) si vede che l’attesa di nuove tasse, che può essere surrogata solo da riduzioni di spesa che incidono sui grandi aggregati, l’unico dei quali che si può aggredire in tempo per ottenere un effetto sul bilancio dell’anno in corso è la previdenza, è tutt’altro che campata per aria.

D’altra parte, se le cose stanno davvero come dice il premier, il suo obiettivo polemico dovrebbero essere i membri del governo che si sono spesi per spiegare che una riduzione delle pensioni chiamate d’oro (ma che sarebbero quelle superiori a 2 mila euro) sarebbe tutto sommato equa. Renzi spiega che invece i risparmi ci saranno e saranno riduzioni di spesa pubblica, ma è lecito dubitare che queste, se non riguardano la previdenza, possano produrre effetti contabilizzabili nell’ultimo trimestre dell’anno. Probabilmente quello su cui il governo conta è l’effetto del mutamento della base statistica su cui si calcola il prodotto interno e quindi ovviamente la percentuale di deficit. Se in questo modo si aumenta il pil formalizzato si può aumentare il deficit mantenendolo all’interno dei vincoli europei, ma questo artificio si può applicare una volta sola e il problema si riproporrà, aggravato, nell’anno prossimo, nel quale peraltro, dovrebbe cominciare a operare la tagliola infernale del fiscal compact. Sarebbe ingeneroso attribuire al governo la responsabilità della situazione deflattiva che si è creata e che coinvolge quasi tutta l’Europa. Ma è altrettanto ingiusto accusare di strumentalità chi, facendo quattro conti, chiede al governo di spiegare come intende fronteggiare le conseguenze negative di un ciclo che non corrisponde alle previsioni troppo ottimistiche. E se si fa uso di troppa fantasia è anche perchè da parte del governo non si eccede certamente in chiarezza.

Il sommerso nel Pil non ci riporta a galla

Il sommerso nel Pil non ci riporta a galla

Francesco Forte – Il Giornale

La rivalutazione del Pil dell’Italia, che l’Istat farà fra circa un mese, costituisce, per Renzi che si dibatte fra cattive statistiche, un piccolo ma non trascurabile aiuto. Il nuovo calcolo farà scendere la pressione fiscale ufficiale anche se i contribuenti pagheranno le cifre esorbitanti di prima. Anche la spesa pubblica risulterà più bassa sul Pil, anche l’importo rimane eguale. E il rapporto del debito pubblico col Pil scenderà. Un buon aiutino arriverà a Renzi per il deficit in percentuale sul Pil. Se – in ipotesi – per il 2015, prima delle manovre correttive, il deficit è stimato in 48 miliardi, su un Pil di 1.600 miliardi, esso risulta il 3%. L’aumento del 2% del Pil porterà quest’ultimo a 1.632 miliardi, farà scenderà il deficit al 2,94%: 0,6 punti in meno, risparmiando 9,6 miliardi alla manovra correttiva. Questa rivalutazione del Pil dell’Italia avverrà, provvidenzialmente per Renzi, a ridosso della legge di bilancio per il triennio 2015-2017. Essa però non è una escogitazione né del premier fiorentino né dell’Istat. Deriva da una decisione dell’Unione europea per tutti i Paesi membri, che nasce dalla necessità di adeguare il calcolo europeo del Pil ai criteri degli Stati Uniti e altri Paesi. La rivalutazione comporta di includere nel Pil i proventi di attività, che in Italia (e in qualche Stato europeo) sono vietate o semi legalizzate come i traffici di droghe e di prostituzione, che altrove sono invece ampiamente legalizzati. Ma l’impatto sarà limitato anche perché le prostitute e prostituti a volte si chiamano «escort»; i traffici di droghe sono in parte già inclusi nell’economia sommersa, che in Italia viene valutata con indicatori presuntivi (per difetto) al 18%. Soprattutto, verranno incluse nel Pil le spese di ricerca, che in Italia sono considerate costi senza utile e quelle per gli investimenti per la difesa, che per l’Unione europea, per una scelta ideologica adesso non sono veri investimenti. Il calcolo del Pil in più è scivoloso. Per la «prostituzione», concetto labile, e per la droga, di cui si hanno vaghe stime, l’Istat intende fare una correzione del Pil molto limitata. La ricerca scientifica (difficile da definire) può dar luogo a una rivalutazione più consistente. Fra gli investimenti nella difesa verranno inclusi solo quelli fatti con beni comprati all’estero.

I beni nazionali sono già compresi nel prodotto delle imprese italiane. Si pensa che, con questa rivalutazione, il nostro Pil si accresca di circa 1/2 punti che vanno considerati anche per gli anni passati. Dunque se il Pil è, in ipotesi, 1.600 miliardi, col 2% in più, diventerà 1.632. La pressione fiscale di 704 miliardi su 1.600 di Pil è il 44%. Su 1.632 sarebbe 43,03. Se le spese pubbliche sono 784 miliardi scenderanno dal 49% al 47,98% del Pil. Il debito pubblico di 2.160 miliardi scenderà dal 135 al 132,35% del Pil. La rivalutazione del Pil non riduce di un euro il sacrificio fiscale che, per ogni famiglia e impresa, rimane quello di prima. E Renzi è pregato di non prendere il giro il contribuente. Prostituzione e droga, non pagano le imposte ora e non le pagheranno con la rivalutazione. Per la ricerca, il regime fiscale non muta.

Gli acquisti dall’estero di beni d’investimento per la difesa produrranno, come ora, reddito fiscale all’estero. Sembrerà che noi abbiano meno debiti. Ma gli interessi e i rimborsi futuri sono gli stessi. E il deficit produrrà tanto nuovo debito come prima. Per finire, la rivalutazione del Pil non farà aumentare il misero trend della crescita italiana. Infatti le rivalutazioni accresceranno il Pil passato e futuro d’analoghe percentuali. Perciò i rapporti fra tali Pil non mutano. I disoccupati rimarranno una cifra enorme. Questo ritocco non è un alibi per rimandare le riforme.

Prodotto interno lurido? Allora legalizziamo prostituzione e spinelli

Prodotto interno lurido? Allora legalizziamo prostituzione e spinelli

Gianluigi Paragone – Libero

Scusate, ma se parte dei proventi delle attività illecite vanno bene per gonfiare un po’ di pil europeo e quindi ritarare il debito (soliti trucchetti da pezzenti…), domando: perché non vogliamo aprire gli occhi su droga e prostituzione? Perché alcol, sigarette e gioco d’azzardo possono rientrare nell’elenco dei buoni, mentre droga e mignotte no? O meglio, no con qualche se e qualche ma perché resta sempre vero che il denaro non puzza. Il ricalcolo del pil italiano non può essere liquidato come tema ragionieristico, varrebbe la pena (e qui lo faccio) di finirla con questo finto perbenismo tutto italiano e di legalizzare prostituzione e droghe leggere. Sulla prostituzione soprattutto sarebbe ora di 1) abrogare la legge Merlin; 2) legalizzare l’esercizio sessuale in casa; 3) creare quartieri a luci rosse; 4) tassare l’attività delle lucciole. Ci sarebbe un quinto che però appartiene al costume: la libertà sessuale.
Quando ne parlo mi sento ripetere che uno stato magnaccia sarebbe inopportuno. A parte che ormai se lo stato fosse solo magnaccia sarebbe il minore dei mali, ma spiegatemi perché il gioco d’azzardo sì, l’alcol sì, il tabacco sì e le droghe leggere (cannabis) e la prostituzione no. La prostituzione è nella pelle delle nostre città ma nel controllo quasi totale di organizzazioni criminali. Inoltre chiudiamo gli occhi sull’esercizio della prostituzione in casa, pubblicizzata su giornali e siti internet: ci vuole nulla per farsi una trombata in santa pace.

C’è un mercato enorme su scambi e offerte di prestazioni che non capisco il motivo per cui debba stare sommerso e oscuro. Per non dire dei vari giocattoli e attrezzi sessuali che fanno la felicità di venditori e produttori. Insomma,il sesso ci circonda e siccome quello a pagamento si consuma sotto i nostri occhi (farisaicamente chiusi) forse è il caso di fare i conti con l’oste.

L’errore più grossolano che si commette ogni volta che si affronta l’argomento è condizionarlo a un registro morale. Sapete che vi dico? Chissenefrega della morale! Piantiamola. Insisto, se c’è un’attività che non conosce crisi è quella legata al sesso, quindi – siccome fa meno male dell’alcol e del gioco d’azzardo – sbrighiamoci a uscire dalla Merlin. Il sesso straborda in ogni luogo, reale e virtuale: insomma non c’è una sola ragione per non legalizzare la prostituzione e non far godere così anche il gettito fiscale. A meno che non si voglia darla vinta ai bacchettoni in mutandone.

Infine non mi sta affatto bene che per sistemare la contabilità si debbano inserire proventi in mano alla criminalità; se quel denaro non puzza allora cerchiamo di sottrarlo ai criminali. Vale per la prostituzione così come per alcune droghe. Quelle leggere. La cannabis, almeno. Perché non si può vendere in appositi coffee shop? In America si è aperto un dibattito politico, prima ancora che giuridico, sull’uso della marjuana. Ci sono Paesi dove la vendita e il consumo sono leciti senza tanti alambicchi normativi. Aggiungo che nemmeno sullo spaccio hanno senso alcune osservazioni critiche visto che ogni volta che si debbono fare i conti con colpi di spugna gli spacciatori sono i primi a fare festa.

Un’ultima considerazione. Spendo alcune righe sul fatto che la cannabis è una droga ormai superata, poco attrattiva tra i giovani i quali “debuttano” spesso con le droghe sintetiche assolutamente più dannose del vecchio spinello. Lo dico per abituarci all’idea che anche le sfide che ci pongono le nuove generazioni sulle tossicodipendenze sono già più avanti del dibattito politico.

Per chiudere. Se puttane e droga valgono bene un’aggiustatina dei conti economici, allora, cari politici, giù la maschera. Legalizziamo.

Economia criminale, così la stima

Economia criminale, così la stima

Riccardo Puglisi – Corriere della Sera

Ieri il Tesoro ha annunciato che l?aggiornamento del Def sulla base del peggiore andamento del Pil viene posticipato all’inizio di ottobre, in modo tale da potersi basare sulle nuove stime del Pil stesso da parte dell’Istat, che da settembre devono anche includere le attività illegali. Non si tratta naturalmente di un vezzo dell’Istat, ma dell?adeguamento alla normativa europea (Sec 2010), che impone di includere nel Pil non solo l’economia sommersa, cioè le attività che sfuggono al pagamento di imposte e contributi (e che già da tempo sono incluse nel calcolo del Pil), ma anche la cosiddetta economia criminale, cioè le attività illegali. Le stime preliminari annunciate da Eurostat (l’agenzia statistica europea) prevedono per l’Italia una revisione del Pil spostato verso l’alto tra l’uno e il 2%, ovvero tra i 15 e i 30 miliardi. Personalmente, non mi stupirei di una revisione ancora maggiore.

Quali attività vanno incluse nel conto dell’economia illegale? Come spiegato da Centorrino, David e Gangemi su lavoce.info, la regola condivisa a livello internazionale è che deve esservi accordo tra le parti nello scambio illegale, quindi sono inclusi i mercati della droga, la prostituzione e il contrabbando. Deve essere invece esclusa l’estorsione, in quanto – con buona approssimazione- manca l’accordo tra chi chiede e chi paga il “pizzo”. Questa revisione presumibilmente sostanziosa del nostro Pil è nel contempo una cattiva notizia e una semi-buona notizia: è cattiva perché se ne desume che questi mercati illegali in Italia hanno dimensioni ragguardevoli. Dall’altro lato, la notizia semi-buona è che nostri mali connessi alla finanza pubblica sembrano più piccoli. Ad esempio il rapporto tra debito pubblico e Pil matematicamente diminuisce nella stessa misura percentuale.Qualcuno potrebbe spingersi oltre nell’ottimismo e ritenere che il futuro della nostra economia diventi più roseo grazie a questa revisione del Pil, in quanto i criteri del Fiscal Compact su deficit e debito diventano meno stringenti dopo il ricalcolo. Il dato di fatto è che questa revisione statistica rischia di fare «pari e patta» con l’imprevisto calo del Pil del secondo trimestre, che necessariamente peggiora i conti pubblici 2014. Guai a pensare che con questo pari e patta le riforme strutturali diventino meno urgenti.

Il paradosso delle ricette possibili

Il paradosso delle ricette possibili

Stefano Lepri – La Stampa

Mal comune mezzo gaudio? Purtroppo no, perché l’economia tedesca è molto diversa dalla nostra, e il Prodotto lordo del secondo trimestre in negativo lì fa indicare rimedi assai diversi da quelli più popolari in Italia. Tuttavia, l’occasione può essere colta per una azione comune: i dati di ieri mostrano logore, consunte, le ricette sia degli uni sia degli altri. Guai a intestardirsi, guai a cercare certezze nel passato: siamo in una situazione nuova, dove il declino dell’Europa (tutta, non solo l’area euro) è una assai verosimile prospettiva. L’area dell’euro soffre maggiormente perché, avendo con la moneta unica fatto una più ardita scommessa, ha trovato maggiori difficoltà a proseguirla nella crisi mondiale ancora in corso.

Le tensioni con la Russia sono reali e pesano sulla Germania più che su altri Paesi. Tolto questo fattore, i tedeschi dovrebbero evitare di dare la colpa soltanto ad altri – al resto dell’area euro che non funziona – o a fattori transitori. Così come noi dovremmo evitare di inveire contro l’austerità imposta da fuori nel 2011, dato che da quindici anni l’Italia non va. Non c’è però una simmetria. Il modello tedesco ha funzionato bene fino a ieri; si mostra ora insufficiente tanto a garantire una ripresa energica quanto a fornire certezze per il futuro (gli imprenditori investono poco pur avendone i mezzi). L’Italia, invece, proprio non va più; altro che correggerla, bisogna rifarla.

Per converso, sono le idee prevalenti in Germania e in altri Paesi nordici quelle che più fanno ostacolo a una efficace azione anticrisi. La banca centrale europea non ha potuto ancora risolversi ad attuare i rimedi eccezionali adottati dalla Federal Reserve americana, dalla Banca d’Inghilterra e dalla Banca del Giappone. Non è detto che siano risolutivi, ma sarebbe meglio provare.

Di nuovo Mario Draghi, alla sua prossima conferenza stampa il 4 settembre, dirà che la Bce resta pronta ad agire (con una massiccia espansione monetaria) in caso di pericolo, ma che il momento non è ancora venuto. Possono sbloccare questo stallo solo azioni incisive da parte dei governi di Roma e di Parigi.

Le obsolete certezze dell’establishment tedesco possono essere incrinate solo se Italia e Francia si dimostreranno capaci di far respirare nuova aria ai loro cittadini e alle loro imprese. E’ troppo sperare che alla successiva riunione del consiglio Bce, il 2 ottobre (per combinazione a Napoli anziché a Francoforte) Draghi possa riconoscere che il processo di riforma ha preso vigore?

In questo senso, in questo soltanto, la debole Italia può avere un ruolo di traino. I dati di ieri spazzano via ogni rischio che la Commissione europea ci chieda una manovra aggiuntiva nel 2014. Per il 2015 la Francia si è risolta ad annunciare che violerà gli obiettivi, come già tutti prevedevano. L’Italia può aprire il discorso nella maniera contorta propria dell’Unione: solo una legge di stabilità rigorosa ci potrà guadagnare un allentamento del rigore (restare appena sotto il 3% di deficit invece di scendere). Solo se sapremo eliminare sprechi e inefficienze noi, potremo rinfacciare al governo tedesco di aver rimesso a posto i suoi bilanci grazie ai guai altrui (120 miliardi di euro dall’inizio della crisi ad oggi in minori interessi sul debito, grazie allo spread con i Paesi deboli dell’euro).

Più difficile sarà risolvere il paradosso delle dottrine. In Italia molti sollecitano investimenti pubblici nonostante il debito; abbiamo soprattutto bisogno di creare condizioni più favorevoli per l’iniziativa privata. Al contrario in Germania, dove la spesa pubblica suscita diffidenza, occorrerebbero più investimenti di Stato e Regioni; gli industriali se ne sono accorti, può essere un inizio.

Taglio da 200 miliardi al debito pubblico in tre mosse

Taglio da 200 miliardi al debito pubblico in tre mosse

Isabella Bufacchi – Il Sole 24 Ore

Nel maggio 2005, in tempi non sospetti e un debito/Pil al 105,8%, Il Sole 24 Ore ruppe il ghiaccio con un’intervista al Prof. Guarino che ipotizzava una “sforbiciata” del debito pubblico da 400 miliardi: l’idea destò scalpore. Oggi trasferire immobili, crediti o partecipazioni in holding fuori dal perimetro della pa è un’operazione che affascina, allo studio su molti tavoli. Lo scorso marzo Il Sole 24 Ore ha rilanciato una proposta in tre mosse da 200 miliardi per ridurre il debito: il mattone-bond da 60 miliardi, un ritocco contabile su Efsf-bond da 45 miliardi, privatizzazioni e calo strutturale con avanzo primario per 100 miliardi.

Poter ridurre il debito pubblico dall’oggi al domani per riportarlo in un solo colpo dal 135% almeno sotto il 100% (all’epoca Guarino intendeva passare dal 105% al 70%) è un sogno nel cassetto di tutti i Governi che si sono succeduti negli ultimi vent’anni, compreso quello attuale. L’obiettivo appare alla portata perché il patrimonio dello Stato, tra asset immobiliari, crediti e partecipazioni, è estremamente ricco e variegato, senza contare ovviamente in questo calcolo il patrimonio dei beni culturali.

Sono proprio le dimensioni elefantiache dello stock del debito e la complessità degli asset da dismettere o da valorizzare a non consentire scatti da gazzella. Ecco perché il Sole-24 Ore ha proposto un pacchetto di interventi articolato in tre mosse, categoricamente all’interno del quadro di una gestione dei conti pubblici virtuosa (ma estremamente lenta) che fa leva sull’avanzo primario e l’azzeramento del deficit.

Il primo passo è la privatizzazione concentrata soprattutto nel mondo delle municipalizzate. Un processo che attiverebbe anche risparmi da 800 milioni l’anno. Il secondo intervento è sugli immobili. Il Tesoro ha creato Invimit, una Sgr immobiliare dello Stato: si tratta di uno strumento di mercato dal quale non ci si possono aspettare scatti felini perché la matassa da sbrogliare è quella degli enti locali. Per velocizzare la riduzione del debito, il mattone-bond (proposto dal Sole-24 Ore già nel maggio del 2013) sarebbe realizzabile in tempi ragionevoli, purché circoscritto a un portafoglio di immobili dello Stato smobilizzabili con modalità relativamente semplici, come quelli a solo uso governativo.

Si tratta di trasferire a una società-veicolo questi asset per 60 miliardi: la spv colloca al risparmiatore privato (e forse anche agli investitori istituzionali) quote o azioni (con un trattamento fiscale agevolato o un premio per chi acquista al collocamento e detiene fino a scadenza come nel caso del BTp Italia) e utilizza l’incasso per acquistare gli immobili riducendo il debito pubblico per questa entità.

La remunerazione delle quote o delle azioni verrebbe garantita dal pagamento dell’affitto che lo Stato andrebbe a pagare sugli immobili. Il taglio del debito pubblico non verrebbe abbinato a una contestuale riduzione degli interessi che si pagano ora sul debito: questo deriva dalla formula del “sale-and-lease back” e di tutte le operazioni che mirano a sostituire un BTp con un qualsiasi bond o quota di un fondo o altro strumento d’investimento emesso da una società posta fuori dal perimetro della pubblica amministrazione e non contabilizzata nel debito pubblico: a qualsiasi prodotto finanziario innovativo deve corrispondere un rendimento appetibile, immediato e sicuro per invogliare lo scambio con i BTp. I rendimenti dei titoli di Stato in questo momento sono estremamente bassi e l’investitore privato è a caccia di investimenti sicuri con una remunerazione più elevata rispetto ai BoT e BTp: è un buon momento per proporre alternative, ma lasciare il certo (la cedola di un titolo di Stato) per l’incerto (il dividendo o il coupon di una spv) è un passo da gigante per il risparmiatore.

La terza operazione taglia-debito proposta dal Sole è di natura puramente contabile e vale almeno una quarantina di miliardi: si tratta di trasferire all’Esm le passività dell’Efsf in quanto i bond di quest’ultimo (per una regola Eurostat) gravano sui debiti pubblici nazionali a differenza di quelli del meccanismo di stabilità. La quota degli Efsf bond e dei prestiti bilaterali alla Grecia ammonta ora a 45,6 miliardi per l’Italia. Per consentire questo trasferimento, l’Esm non deve avere bisogno di un aumento di capitale (questo graverebbe sui conti pubblici degli Stati azionisti): in alternativa si possono trasferire asset a garanzia. Nel contesto di questo maquillage, l’Europa potrebbe decidere di utilizzare l’Esm – veicolo per ora mirato al salvataggio degli Stati in crisi e in prospettiva alle ricapitalizzazioni delle banche – anche per finanziare con una sorta di “eurobond” le infrastrutture e gli investimenti per la crescita: e questo avrebbe un impatto indiretto sui conti pubblici nazionali, alleviandoli in parte dal costo delle spese produttive.

Il Sole-24 Ore ha rilanciato altre proposte taglia-debito a firma di Paolo Savona e gli EuroUnionBond ideati da Romano Prodi e Alberto Quadrio Curzio. Un’operazione di peso per il debito pubblico porta la firma di Renato Brunetta, alla quale hanno collaborato Paolo Romani, Luigi Casero e Guido Crosetto e i professori Francesco Forte, Rainer Masera e Paolo Savona che arriva a tagliare fino a 400 miliardi in cinque anni (partendo da 100 miliardi dalla vendita di beni pubblici (15-20 miliardi l’anno); 40-50 miliardi dalla costituzione e cessione di società per le concessioni demaniali; 25-35 miliardi dalla tassazione ordinaria delle attività finanziarie detenute in Svizzera. Il tutto con l’emissione di speciali obbligazioni con durata 5/10 anni e una opzione (warrant). Non da ultimo, Mediobanca ha proposto anche il trasferimento di asset alla Cassa depositi e prestiti (50 miliardi) e l’uso delle riserve auree della Banca d’Italia.

Il vero incubo adesso è il debito

Il vero incubo adesso è il debito

Massimo Riva – La Repubblica

A preoccupare non è tanto che Moody’s tagli le sue stime sul Pil di quest’anno: ormai lo sanno anche a Palazzo Chigi che il previsto più 0,8 per cento è diventato un obiettivo irraggiungibile. Quel che più dovrebbe allarmare è l’effetto che i giudizi negativi sulla lentezza delle riforme possono avere sui mercati finanziari. Le agenzie di rating – ormai questi anni di crisi ce l’hanno insegnato – non sono né arbitri distaccati da interessi concreti né istituti di beneficenza. Il loro ruolo è quello di orientare gli operatori mercantili ed è un compito che ne alimenta il reddito e il successo soltanto nella misura in cui le annunciate profezie si avverino.

Occorre, dunque, maneggiare con cura questa sortita di Moody’s perché essa potrebbe facilmente trasformarsi in un nuovo segnale di attacco sul fronte più fragile delle tante nostre oggettive difficoltà. In particolare, quello del finanziamento del debito pubblico che in questi mesi è riuscito a reggere con il vento in poppa di una costante e significativa discesa dei tassi d’interesse. È chiaro a tutti, infatti, che un brusco rincaro del servizio del debito non solo priverebbe il governo di risorse utili a misure di stimolo all’economia ma metterebbe a rischio anche quel rispetto del fatidico 3 per cento di deficit che è condizione importante per poter fare la voce grossa in Europa.

Il nodo cruciale attorno al quale ruotano i giudizi negativi dell’agenzia americana riguarda soprattutto la lentezza con cui l’Italia procede sul terreno delle riforme strutturali. Dunque, la stessa questione sollevata appena qualche giorno fa dal presidente della Bce, Mario Draghi. A quest’ultimo il presidente del Consiglio ha risposto in termini al tempo stesso consenzienti e infastiditi. Da un lato, ha detto di essere anche lui consapevole della necessità di attuare le attese riforme. Dall’altro lato, ha tenuto a ricordare che la scelta sulle riforme da fare spetta al governo italiano e non alla Bce o alla Commissione di Bruxelles, tanto meno alla troika fra i due e il Fondo monetario.

Una rivendicazione di sovranità formalmente legittima e per certi versi oggi anche ovvia sul piano istituzionale. Ma che per non avere un senso di battuta occasionale ed estemporanea avrà bisogno di essere seguita da comportamenti e azioni all’altezza dei problemi del momento su due tavoli principali, interno ed esterno.

In primo luogo, evidentemente, si tratterà di realizzare le attese riforme in tempi che evitino al Paese il rischio di quel discredito sui mercati che potrebbe essere alimentato da iniziative come quelle di Moody’s. In secondo luogo, si tratterà di muoversi con più cautela sul piano europeo proprio per quanto riguarda i rapporti di potere all’interno dell’Unione, laddove sempre Moody’s (non a caso) preconizza forti tensioni fra Italia e Germania.

Nel reclamare cessioni di sovranità dai governi nazionali alle istituzioni comunitarie, Mario Draghi ha posto il dito sulla piaga più dolente di un impianto europeo dove ogni spinta in senso federale è regolarmente bloccata dall’esercizio della legge del più forte. Come dimostra l’impotenza dei paesi favorevoli a una politica economica espansiva a far cadere il muro dell’austerità contabile a qualunque costo costruito dalla Germania. Perciò Matteo Renzi, tanto più nel corso del semestre italiano di presidenza, dovrà fare non poca attenzione alle controindicazioni implicite nella sua rivendicazione di sovranità. Quello che può oggi sembrare un punto di forza a Roma facilmente può diventare un fattore di debolezza a Bruxelles perché fornirebbe alibi potenti ai governi che intendono l’Europa come poco più di un’unione doganale.

Le inattese avvisaglie di stagnazione che si profilano all’orizzonte della grande Germania stanno facendo capire anche ai tedeschi che la crescita in un Paese solo è oggi una pura illusione. Berlino ha bisogno dell’Europa non meno di quanto l’Europa di Berlino. Figuriamoci, quindi, quanto più questa equazione possa essere valida per l’Italia. A maggior ragione in una fase nella quale lo scenario internazionale – dall’Ucraina alla Libia passando per il Medio Oriente – solleva nubi minacciose anche sui rifornimenti energetici.

L’inverno non è così lontano e tutto l’Italia può permettersi fuorché trovarsi nella tenaglia di rincari congiunti dei tassi d’interesse e di gas e petrolio. Coraggio, perciò, presidente Renzi mandi in porto le riforme “sovrane” che vuole ma lo faccia presto. Anche perché solo su questa strada troverà i titoli politici per promuovere una svolta nella politica economica europea. Ci sono treni, in politica e nella vita, che passano una sola volta.

Un’agenda ragionevole

Un’agenda ragionevole

Francesco Giavazzi – Corriere della Sera

È evidente che Matteo Renzi considera il Pil (prodotto interno lordo) un oggetto un po’ noioso, e comunque la conseguenza, non il faro dell’azione politica. Egli ritiene – in questo seguendo uno dei migliori filoni della recente teoria economica, vedi ad esempio Daron Acemoglu e James Robinson, Perché le nazioni falliscono, Saggiatore 2013 – che il successo di un Paese dipenda dalle sue regole istituzionali e giuridiche. Senza buone regole crescere è impossibile. Di qui il suo impegno per superare il bicameralismo perfetto e soprattutto per riformare il Titolo V della Costituzione limitando l’autonomia irresponsabile delle Regioni. E tuttavia, se pur la sequenza è quella giusta, la differenza fra i tempi che Renzi si è prefisso per le riforme costituzionali e per quelle economiche, poche settimane le prime, mille giorni le seconde, fa sorgere il dubbio che egli sottovaluti la situazione del Paese.

Abbiamo (dati Istat per il mese di giugno) tre milioni e 153 mila disoccupati, 26 mila in più di un anno fa. Fra costoro 700 mila giovani di età compresa fra i 15 e i 24 anni. I giovani che non lavorano in realtà sono molti di più: 700 mila sono quelli che hanno deciso di mettersi presto a lavorare ma, pur cercando attivamente, non trovano nulla. Mentre nel resto dell’eurozona il tasso complessivo di disoccupazione ha cominciato a scendere, in Italia continua a rimanere sopra il 12 per cento (era poco sopra il 6% prima della crisi). Per abbattere la disoccupazione bisogna agire al tempo stesso sull’offerta e sulla domanda. Dal lato dell’offerta il provvedimento principe è la sostituzione dei contratti a tempo determinato e indeterminato con un contratto di lavoro unico a tutele crescenti: il Jobs Act di Renzi. Quel disegno di legge delega è stato presentato al Parlamento quattro mesi fa. Se si è completata la prima lettura di una riforma costituzionale in poche settimane, non si capisce perché il Jobs Act non possa essere approvato da Camera e Senato entro metà settembre, in modo da consentire al governo di emanare i decreti delegati insieme alla legge di Stabilità il 20 ottobre.

Sempre dal lato dell’offerta, la grande risorsa sprecata sono le donne. La loro partecipazione al mercato del lavoro è di dieci punti sotto la media europea. E non è solo colpa del Mezzogiorno: vi è la medesima differenza fra Lombardia e Baviera. Inoltre, quando una donna italiana lavora, la probabilità che dopo un parto ella riprenda a lavorare è solo del 50%. Marco Leonardi e Carlo Fiorio (www.lavoce.info) propongono di incentivare il lavoro femminile sostituendo le detrazioni per il coniuge a carico (che costano circa 3,5 miliardi di euro l’anno e non hanno alcun effetto sul lavoro femminile) con un assegno pagato direttamente alle donne con figli che lavorano, magari proporzionale al numero dei figli. Il Parlamento ha approvato, l’11 marzo scorso, una legge delega che consente al governo di ridisegnare da zero il nostro sistema fiscale (anche riprendendo l’idea, sperimentata per la prima volta durante il governo Monti, di una tassazione differenziata a favore delle donne). L’attuazione della delega è un’operazione delicata perché muterà gli incentivi a lavorare e a investire. Ma il fatto che sia delicata non significa che richieda tempi eterni.

Il governo potrebbe nominare già la prossima settimana una Commissione tecnica (sul modello della Commissione Visentini che ridisegnò il nostro sistema fiscale all’inizio degli anni Settanta) e chiedere proposte entro metà settembre. Anche in questo caso i decreti delegati potrebbero essere varati entro il 20 ottobre. Per un presidente del Consiglio che quattro mesi fa ci ha promesso una riforma al mese, non sono tempi impossibili.

Liberare l’offerta è condizione necessaria, ma non sufficiente. Occorre che riprenda la domanda. Le esportazioni vanno bene, ma da sole non riescono a sostenere l’intera economia. Deve crescere la domanda interna, cioè i consumi delle famiglie. Affinché ciò avvenga bisogna abbattere la pressione fiscale come ha suggerito giovedì anche il presidente della Banca centrale europea. Gli 80 euro di maggio vanno nella direzione giusta. Fino ad ora non si sono riflessi in un aumento dei consumi perché le famiglie, io penso, temono si tratti di una riduzione solo temporanea delle tasse. Vanno resi permanenti ed estesi ad un numero maggiore di cittadini. Gli 80 euro costano 10 miliardi l’anno, lo 0,6% del Pil. Affinché una riduzione permanente delle tasse abbia effetti significativi sui consumi (considerando il livello da cui parte la pressione fiscale oggi sopportata dalle famiglie) servirebbero almeno 2 punti di Pil, cioé circa 30 miliardi. Dopo la «vicenda Cottarelli», Matteo Renzi ha detto (giustamente) che i tagli di spesa sono una scelta politica e se ne è assunto la responsabilità. Cottarelli stima possibili tagli per 30 miliardi sull’arco di un triennio. Il presidente del Consiglio dovrebbe far suo quell’impegno e al tempo stesso varare, con la legge di Stabilità, una immediata riduzione delle tasse della medesima entità. Una riduzione-choc della pressione fiscale di 30 miliardi (come Alberto Alesina ed io ripetiamo su queste colonne da un paio d’anni) ci porterebbe temporaneamente oltre il limite del 3% nel rapporto fra deficit e Pil. Ma se preceduta dalle riforme istituzionali e dall’approvazione definitiva degli interventi su lavoro e spese, è una proposta che a Bruxelles si può, e a mio parere si deve, portare. La strada più pericolosa è darsi mille giorni e nel frattempo aspettare, magari ricorrendo in ottobre ad un aumento mascherato della pressione fiscale per far quadrare i conti. Matteo Renzi deve aver chiaro che quella strada porterebbe lui al fallimento e l’Italia dritto ad un default sul debito pubblico.

Un confine tra passato di crisi e futuro di ripresa

Un confine tra passato di crisi e futuro di ripresa

 Alberto Quadrio Curzio – Il Sole 24 Ore

Il calo del Pil italiano del secondo trimestre conferma una discesa che prosegue dal terzo trimestre del 2011. L’attenuazione del calo sui dati tendenziali trimestrali non basta a tranquillizzare e quindi bisogna che il Governo sia in Italia che in Europa (e con il supporto di tutte le forze produttive) tracci un confine netto tra un passato di crisi e un futuro di ripresa.

Il Pil trimestrale. Un calo dello 0,2% sul trimestre precedente e dello 0,3% sul corrispondente trimestre del 2013 (con “calo acquisito” del Pil per il 2014 dello 0,3%) è preoccupante, anche perché riguarda tutti e tre macro-settori dell’economia (agricoltura, industria, servizi). La variazione delle domanda interna è nulla mentre la componente estera è negativa per gli effetti della crisi Russia-Ucraina che intaccherà anche i prossimi dati tedeschi. Meglio è andata la produzione industriale che è cresciuta in giugno su maggio e nel primo semestre 2014 sul corrispondente del 2013 ma che non ha compensato i cali del Pil.

La lunga crisi italiana. Per varie ragioni (politiche,economiche,fiscali) siamo rimasti più esposti alla crisi di altri grandi Paesi della Eurozona anche perché la nostra non-crescita ha una storia lunga. Limitandoci agli ultimi 10 anni, dal 2005 abbiamo avuto una crescita media annua molto più bassa dell’Eurozona. Nel quinquennio 2005-09 abbiamo avuto un calo medio annuo di circa lo 0,4% mentre la Uem è cresciuta dello 0,7%. Dunque una differenza di 1,1 punti percentuali in media annua. Sul 2010-14 l’Italia è calata circa dello 0,3% medio annuo mentre la Uem è cresciuta dello 0,7%. Dunque una differenza di 1 punto percentuale annuo. Non sono differenze da poco.

Le cause di questo divario sono state analizzate dall’Fmi, dall’Ocse, dalla Commissione Europea, dalla Banca d’Italia e anche nel Def del Governo presentato alla Commissione europea in aprile. Consideriamo solo tre temi italo-europei interrelati e relativi alle istituzioni e agli apparati, all’economia e agli investimenti, all’Europa e alla crescita.

Le istituzioni e gli apparati. Dal 2005, in 10 anni, abbiamo avuto sei governi (Berlusconi, Prodi, Berlusconi, Monti, Letta, Renzi) mentre negli altri tre grandi Paesi europei (Germania, Francia, Spagna) le successioni sono state quelle delle legislature. Ha ragione Padoan nel ritenere che le riforme costituzionali e istituzionali possono avere un impatto sull’economia dando certezza di durata ai Governi e semplificando i processi legislative. Ma questo non basta perché certezza e fiducia vanno di pari passo con le riforme, purchè siano quelle necessarie. Il che, stando alle osservazioni degli organismi internazionali, non è accaduto in Italia anche se nel decennio 2001-2011 c’è stata una sostanziale continuità dei Governi Berlusconi, salvo la parentesi di Prodi 2006-2008. In Italia troppe riforme epocali sono state solo annunciate, altre buone insabbiate, altre infine sbagliate. È mancata quella continuità realizzatrice che antepone l’interesse nazionale alla partigianeria politica (forte persino dentro i singoli partiti) e alla critica fine a se stessa ma è anche mancato un forte supporto tecnico degli apparati pubblici. Perciò la riforma degli apparati pubblici è essenziale come ci chiede l’Europa per arrivare alla certezza, stabilità e semplicità delle norme, alla rapidità della giustizia, allo snellimento della burocrazia. È infatti evidente che la nostra “macchina pubblica” non è efficiente (anche se ci sono non pochi tecnocrati capaci) causando costi diretti in termini di spesa pubblica e costi indiretti sui cittadini e le imprese. In queste riforme il Presidente del Consiglio Renzi deve mettere molta determinazione utilizzando anche le competenze necessarie per correggere evitando di distruggere.

L’economia e gli investimenti. Le urgenze dell’economia richiedono anche alcune, poche e chiare, accelerazioni. Tutti sanno che l’Italia ha limitatissimi spazi di finanza pubblica a causa dei vincoli europei. Tutti sanno anche che la manifattura italiana esportatrice è stata la rete d’acciaio che ha tenuto insieme la nostra economia (e anche di più) durante la crisi. Non sempre si ricorda però che gli investimenti totali (pubblici e privati) sul Pil (per di più calante!) sono scesi dal 22% del 2007 al 17% del 2013 e che le previsioni indicano una ripresa così lenta che solo nel 2019 ritorneranno al 20%. Cruciale è perciò il rilancio degli investimenti sia nel partenariato pubblico privato sia nelle imprese per creare innovazione, reti e crescita dimensionale delle imprese, infrastrutture. Il Governo, così come quello Letta, ha messo in campo varie misure per l’economia reale (dalla nuova Sabatini, allo sblocca-Italia, alla riduzione del cuneo fiscale, al potenziamento dell’Ace) ma non basta. Per questo ci vuole presso la presidenza del Consiglio una task force di raccordo tra i ministri dello Sviluppo e delle Infrastutture, la Cassa Depositi e prestiti, il sistema imprenditoriale e bancario per massimizzare l’uso delle risorse della Bei e del Quadro Finanziario poliennale della Ue. E anche per orientare agli investimenti delle imprese la liquidità che da settembre verrà dal Tltro della Bce.

L’Europa e la crescita. Padoan ha rassicurato che il limite del 3% del deficit sul Pil non verrà superato senza bisogno di una manovra aggiuntiva. Speriamo che sia così ma in ogni caso riteniamo che si debbano scegliere delle priorità per la crescita che riguardano l’Italia e l’Europa. La nostra priorità è la spending review dove il programma Cottarelli è già ben definito. Forse non si potranno avere i risparmi lordi annui di 7 miliardi nel 2014, di 18 nel 2015, di 34 nel 2016. Basterebbe la metà dei risparmi, purché certa, da riallocare in parte agli investimenti. Poi bisogna passare con la stessa logica a valorizzare i tanti patrimoni pubblici anche per ridurre il debito senza danneggiare il Pil. Sugli investimenti il Presidente del Consiglio deve mettere tutto il suo peso politico sul presidente della Commissione europea Juncker non solo per spostare almeno al 2017 il nostro pareggio strutturale di bilancio (ce lo meriteremmo perché, come documenta Fortis, siamo i campioni europei degli avanzi primari a danno della nostra crescita) come sarà di certo per Francia e Spagna. Bisogna anche spingere (come chiede persino l’Fmi) l’Europa ad una politica espansiva con gli investimenti infrastrutturali e mettere la Germania di fronte alle responsabilità del suo eccesso di risparmio e di vari surplus dovuti non solo alla sue virtù ma anche alla sua miopia.

Perciò l’Italia ha bisogno di un Commissario europeo forte all’economia reale che, pur nel rispetto “alla Draghi” del ruolo europeo, supporti l’attuale incisività politica di Renzi per evitare a noi e all’Europa un declino lento ma certo.

 

Gufi e Pil

Gufi e Pil

Enrico Cisnetto – Il Foglio

Anch’io, come l’ottimo Giovanni Orsina, mi domando se Renzi mi abbia inserito nella lista dei “gufi” che da mesi evoca come i suoi veri oppositori (già, gli altri o fanno parte della maggioranza parallela o si sono liquefatti). E temo – pur contando sulla sua amicizia – che l’Elefantino mi voglia schiaffare d’autorità in quella che lui chiama, non senza ragione, «carognesca èlite» perché ho il vizio di badare alla fastidiosa variabile che si chiama andamento (congiunturale e strutturale) dell’economia. Sì, quel viziaccio che mi aveva procurato guai con il facondo Berlusconi (quello dei «ristoranti pieni»), con l’iracondo Tremonti (quello dell’Italia che «sta messa meglio degli altri»), con l’algido Monti (quello del «cresci Italia») e con il cocciuto Letta (quello della «luce in fondo al tunnel»). Tuttavia accetto il rischio e scanso ogni esitazione: l’avevo detto.

Sì, l’avevo detto che delle ripresa non c’era neppure l’ombra, anzi che saremmo tornati in recessione. L’avevo detto che gli 80 euro non si sarebbero tramutati in consumi e che quella non era la misura giusta (se non ai fini elettorali) per far riprendere la nostra economia. L’avevo detto che l’export non sarebbe bastato, intestato com’è a solo 12-15mila imprese, e che la crescita si fa solo con gli investimenti, a loro volta figli di una politica economica e industriale da piano Marshall. Così come avvertito di non dare la colpa a Bruxelles e Berlino – che pure ne hanno – perché sono un alibi a non fare. Come ora è un alibi dire che siamo in recessione perché si è fermata la Germania: il crollo dell’export è stato con i paesi extra Ue. Già, avevo visto meglio del Def (ci vuole poco). Ma non me ne vanto. E non traggo (ancora) conclusioni su Renzi e il suo governo. Insomma, io (come altri) guardavo la realtà, non facevo né il pessimista piagnone né tantomeno tifavo per la conservazione, né quella ideologica né quella in nome di interessi. Ho avuto ragione, ma me ne dolgo.

Non godo affatto nel sentire tornare la parola recessione nel lessico quotidiano. Non mi piace dover mettere in fila ben 17 trimestri con il Pil in rosso sui 28 trascorsi da inizio 2008. Anzi, soffro a vedere che ben 12 degli ultimi 13 trimestri hanno il segno medio davanti (unica eccezione il quarto trimestre 2013). E mi cospargo il capo di cenere. Sinceramente. Chiedo, però, solo una cosa: vorrei che chi ha sbagliato previsioni e scenari almeno avesse la franchezza di ammetterlo. E, soprattutto, che non diventasse recidivo. Eh sì, perché tra Renzi e Padoan non solo autocritica saltami addosso – abbiamo fatto tutto bene, la ripresa è lenta (veramente è la recessione ad essere svelta) ma se perseveriamo arriverà – ma pure giurano che «non c’è bisogno di fare alcuna manovra correttiva». Sicuri? Mi pare improbabile che, con il Pil che scende al denominatore (tre decimi di punto nel primo semestre), il deficit programmato nel Def al 2,6 per cento non sia da ricalcolare. Starà comunque entro il 3 per cento? Forse, ma sappiamo che l’Ue non farà sconti e visto che non ci ha concesso di far slittare il pareggio di bilancio dal 2015 al 2016 potrebbe chiederci di cominciare a limare fin d’ora. Inoltre molti dei provvedimenti del governo, a cominciare dagli 8 euro, sono assolutamente privi di reale copertura – se non si vuole usare la solita presa in giro dei proventi derivanti dalla lotta all’evasione e dalla spending review – e da qualche parte dovranno pur saltar fuori, e i margini di manovra sono stretti, come ha palesato la vicenda dei “quota 96” in cui la maggioranza ha dovuto rimangiarsi quanto promesso. Se infine aggiungiamo che, per effetto della deflazione, gli interessi sul debito ci costeranno altri 17 miliardi, solo parzialmente compensati dai bassi tassi pagati sui titoli di Stato, si capisce come l’intervento correttivo dei conti pubblici – per almeno una ventina di miliardi – sia una necessità e non l’ennesima invenzione dei menagramo. Anzi, rimandare a domani quello che andrebbe fatto oggi provocherà solamente l’acutizzarsi dei problemi e la necessità di intervenire ancor più pesantemente in futuro. No, purtroppo non c’è alcun iperbolico avanzo primario che tenga. La manovra andrà fatta. A meno che…

Ecco, c’è un solo modo per evitare i soliti tagli lineari e le solite tasse più o meno occulte: cambiare completamente registro. Sì, dotarsi di coraggio e dare la scossa che serve al paese attraverso una tripla azione di governo. Da un lato, un’operazione straordinaria sul patrimonio pubblico finalizzata sia all’abbattimento dello stock di debito che a rilanciare gli investimenti pubblici e favorire quelli privati, abbassando le tasse sulle imprese e sul lavoro. Dall’altro come ha suggerito il viceministro Calenda, un piano industriale nazionale che ci consenta di incrementare la quota sul Pil del manifatturiero e dei servizi ad alto valore aggiunto. Infine, avviare riforme strutturali – vere – che siano in grado di tagliare di 7-8 punti sul Pil quella spesa pubblica che, ultimi calcoli, nel 2014 arriverà a superare gli 825 miliardi., 16 in più di quanto programmato e il 7,8 per cento in più del 2013. Lo so, si tratta di politiche impegnative, faticose. Ma, senza, l’esito è già scritto. E ora, se credete, imbalsamatemi e mettetemi pure nella stanza dei gufi. Sic.