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La carica delle slot 2.0, raccolgono soldi in Italia e pagano le tasse all’estero

La carica delle slot 2.0, raccolgono soldi in Italia e pagano le tasse all’estero

Alessandro Barbera – La Stampa

A Bolzano, dove il gioco l’hanno dichiarato illegale tout court con una grida di stampo manzoniano, nei bar si trovano ormai solo quelli. Si chiamano «totem», e somigliano in tutto per tutto a bancomat per il prelievo di contante. All’ultima fiera del settore, a Roma, sono andati a ruba. Ne vendevano di ogni tipo: neri o colorati, multitouch, con distributore di gettoni o ricariche per cellulare. Per quanto tentino di camuffarle, altro non sono che macchine per il gioco on line: poker, gratta e vinci, scommesse sportive. Non sono le slot machine tradizionali, quelle macchine protagoniste di una querelle iniziata ai tempi di Vincenzo Visco su quanto dovessero versare al fisco. I «totem» non sono collegati alla rete dei Monopoli, non sono gestiti dai concessionari italiani, non pagano le tasse in Italia. I totem sono collegati a internet, e pagano le tasse dove sta il concessionario che le gestisce. Poco importa se in un paradiso fiscale, in Gran Bretagna o a Malta. Un ordine del giorno presentato alla Camera pochi giorni fa ha chiesto al governo di «rafforzare gli interventi repressivi», nel timore che finiscano per far crollare il gettito dei concessionari italiani.

Per capire il perché di questa esplosione occorre leggere un passaggio dell’articolo 44 della legge di Stabilità, quello che aumenta per quasi un miliardo il prelievo sulle slot machine dei concessionari italiani. «In attesa del riordino della disciplina in materia di giochi pubblici» e «per assicurare parità di condizione fra imprese che offrono scommesse per conto dello Stato e persone che offrono comunque scommesse con vincite in denaro»›…segue una lunga lista di disposizioni. In sintesi: i totem non sono autorizzati, ma nemmeno del tutto illegali. Basta scorrere la lunga serie di dissequestri avvenuti negli ultimi mesi: a Bolzano, a Venezia, Roma, Castel di Sangro, Catania. La Guardia di Finanza chiude i centri, il giudice non convalida. La ratio è la stessa che già nel 2012 aveva permesso il dissequestro di un centro scommesse di Stanleybet, la multinazionale inglese con sede a Liverpool. In quel caso il giudice sottolineò l’«assoluto dispregio delle regole comunitarie nella distribuzione delle concessioni».

Nel settore dei giochi, come già è accaduto nel caso di Google, tracciare il confine fra ciò che è italiano e ciò che non lo è a fini fiscali è sempre più difficile. Lo dimostra la soluzione kafkiana scelta dall’articolo 44 per una delle sanzioni da infliggere a chi installa un totem: non è pagata per l’apparecchio cosiddetto «abusivo», ma per ciascuno degli apparecchi installati e dotati di regolare concessione. La norma sembra folle ma non lo é: serve a dissuadere i gestori delle macchine dal far installare apparecchi «legali» negli stessi spazi dei totem.

Fino a che lo Stato non riuscirà a farsi pagare le tasse dai gestori stranieri non resta che farne pagare di più a chi ha una concessione in Italia. L’articolo 44 aumenta la tassa a carico delle vincite fino al 9 per cento per le videolotterie (oggi è al 5 per cento, tre anni fa era del 2), al 17 per cento (oggi è del 12 per cento) per le altre macchine come ad esempio il videpoker: per i concessionari italiani significherebbe azzerare o quasi i margini. Per limitare l’impatto dell’aumento, il governo propone di abbassare la vincita a chi gioca, riducendo la percentuale minima dal 75 al 70 per cento. C’è un ma: la revisione delle quote significa intervenire sul software di ciascuna slot. Secondo Fabio Schiavolin di Cogetech per adeguare le macchine sono necessari «da un anno a un anno e mezzo»: il rischio è quello di un nuovo maxicontenzioso. Confindustria stima che nel frattempo saranno stati persi 75mila posti di lavoro e fino a un quarto del gettito fiscale. Non un grande affare.

La lunga marcia del fisco semplice

La lunga marcia del fisco semplice

Primo Ceppellini e Roberto Lugano – Il Sole 24 Ore

La legge delega per la riforma fiscale ha prodotto il primo risultato: il Consiglio dei ministri ha varato in via definitiva il decreto legislativo sulle semplificazioni. Dall’esame dei trentasette articoli del provvedimento si capisce subito che è stato seguito un approccio minimalista: sono poche le questioni veramente importanti che sono state toccate, mentre si è scelto di “limare” alcuni adempimenti per alleggerire (leggermente) la vita delle imprese e dei professionisti.

In estrema sintesi, possiamo classificare gli interventi in tre grandi aree. Innanzi tutto, ci sono le disposizioni che incidono (in meglio) sul complesso rapporto con il fisco: sono le norme sulle società in perdita sistematica e quelle sui compensi dei professionisti. Un secondo lotto di misure è volto a rendere più snelli, senza però sopprimerli, alcuni adempimenti: si va dalle regole sui rimborsi Iva alle opzioni per i regimi fiscali alternativi, per arrivare agli elenchi intrastat, alle comunicazioni dei costi black list e alla gestione delle lettere di intento. Il terzo gruppo di novità ruota intorno alla dichiarazione dei redditi precompilata per i lavoratori dipendenti e gli assimilati: è il tema meno tecnico, visto che impatta in modo marginale sul mondo dell’impresa.

L’elenco più impressionante, però, è quello degli aspetti che non sono stati presi in considerazione dal decreto legislativo, anche se previsti dagli articoli 7 e 11 della legge delega. Nelle novità, che nella maggior parte dei casi si applicheranno dal 2015, mancano infatti la nuova Iri (l’imposizione sugli utili di imprese individuali e società di persone), la revisione della tassazione separata, la definizione dei requisiti per l’esclusione da Irap, la semplificazione delle regole per gli ammortamenti e per i costi parzialmente indeducibili, le modifiche alla tassazione delle operazioni frontaliere, la revisione della tassazione delle cessioni di azienda. Per non parlare di altri aspetti, come la riorganizzazione dei regimi contabili, che sono stati dirottati in altri provvedimenti, come il disegno di legge per la stabilità. Insomma, la conclusione è facile: la “polpa” delle semplificazioni è rimasta pacificamente fuori da questo provvedimento. Se poi ricordiamo che le altre norme di delega, a tutt’oggi ben lontane dall’attuazione, riguardano i temi ancora più complessi e importanti dell’abuso del diritto, del sistema sanzionatorio amministrativo e penale, del Catasto e dei giochi, il quadro che ne esce è piuttosto desolante.

Abbiamo fatto riferimento ad alcuni aspetti particolarmente positivi del decreto; questi meritano un approfondimento, non tanto sui dettagli tecnici, quanto piuttosto per le scelte di fondo che sono state adottate. In primo luogo, è stato rivisto il periodo di osservazione per le società in perdita sistematica: non bisogna più fare riferimento al triennio, bensì al quinquennio precedente. Ovviamente, sarà più facile trovare un periodo con un reddito positivo e superiore a quello minimo, quindi diminuiranno le ipotesi di società non operative, di interpelli da presentare, di accertamenti e di contenziosi. Ebbene, su questo aspetto è stata fatta la scelta di applicare immediatamente la novità: dopo un corretto richiamo allo Statuto del contribuente, infatti, l’articolo 18 applica la novità al periodo di imposta in corso alla data di entrata in vigore del decreto legislativo. Questo dimostra che, quando si vuole, è possibile semplificare da subito, cioè con effetti immediati.

Il secondo esempio virtuoso riguarda le norme sui professionisti, e dimostra che quando una norma è assurda può essere abrogata. Si tratta delle spese che le aziende sostengono per vitto e alloggio di professionisti esterni: oggi le aziende, dopo avere sostenuto la spesa, devono comunicarla al professionista, e questo deve esporla nuovamente nella sua fattura di consulenza; un “giro” di documenti e di adempimenti privo di qualsiasi effetto se non aumentare costi e rischi per tuti i soggetti coinvolti. Dal 2015 si torna alla normalità: l’impresa sostiene il costo e se lo deduce, e non comunica nulla al lavoratore autonomo, che rimane sollevato da assurde duplicazioni di adempimenti.

La domanda finale è ovvia: ma ci volevano tutti questi anni, una legge delega e un decreto legislativo di semplificazione per fare semplicemente “marcia indietro” ed eliminare un chiaro errore? Speriamo almeno che da questa vicenda si possa trarre un insegnamento concreto. Per esempio, proprio mentre si discuteva di soppressione di adempimenti inutili, è stata istituita la nuova comunicazione (in scadenza pochi giorni fa) per i beni concessi in godimento ai soci. È un altro caso di regola scritta male, complicata da applicare e inutile (visto che i dati possono essere richiesti semplicemente dalla dichiarazione dei redditi). C’è da augurarsi che non serva un’altra delega per cancellare anche questo.

Fisco, a novembre 221 adempimenti

Fisco, a novembre 221 adempimenti

Isidoro Trovato – Corriere della Sera

Quali sono i due periodi dell’anno in cui si sente parlare di ingorghi? Estate e vacanze natalizie. E il Fisco si adegua. Il groviglio di scadenze che ha agitato le notti di imprese, professionisti e contribuenti in estate si ripresenta (con ammirevole coerenza) anche in quest’ultimo scorcio di 2014. Saranno oltre 400 gli adempimenti che attendono i contribuenti in questa parte finale di anno. Una concentrazione di adempimenti tale da mandare in tilt le aziende e gli studi professionali. Il paradosso, poi, sta anche nel fatto che un paio di giorni fa il Consiglio dei ministri ha approvato definitivamente il decreto legislativo sulle semplificazioni in attuazione della delega fiscale.

E così succede che, al di là delle (buone) intenzioni di velocizzazione manifestate dal governo, sono 221 le scadenze che attendono i contribuenti nel mese di novembre, come è rilevabile dal prezioso servizio presente nel sito internet dell’Agenzia delle Entrate sulle scadenze dei contribuenti. Si tratta di 221 tra versamenti, comunicazioni, dichiarazioni, adempimenti di varia natura. «Lo avevamo chiesto già in estate – afferma Rosario De Luca, presidente Fondazione Studi Consulenti del Lavoro -. Auspichiamo una vera razionalizzazione del calendario fiscale e interventi mirati ad evitare errori formali e l’applicazione del conseguente regime sanzionatorio».

Si parte con i versamenti mensili di ritenute fiscali, rate di Unico e Iva periodica fissati per il 17 novembre. Ma dicembre non sarà da meno, considerando che il giorno 1 scadranno gli anticipi delle imposte in acconto per il 2014. Acconti che vanno per l’Ires dal 101,5% fino al 130% per banche e assicurazioni, e al 100% per l’Irpef. E così, oltre ai consueti adempimenti mensili, nel mese di dicembre scadranno i termini per il versamento dei tributi comunali sugli immobili. I contribuenti infatti saranno chiamati alla cassa il 16 dicembre per il saldo dell’Imu e della Tasi. E il 27 dicembre, mentre ci si avvicina a Capodanno, arriva l’oneroso versamento dell’acconto dell’Iva.

Sempre a dicembre, altri due appuntamenti importanti: rispettivamente entro il 29 ed il 18 dicembre, scadranno i termini per le presentazioni tardive dei modelli Unico e dei 770. Ma prima che la mezzanotte del 31 dicembre porti via il 2014, gli obbligati alla tenuta delle scritture contabili ai fini fiscali dovranno procedere con la stampa dei registri relativi al periodo di imposta 2013. Volendo avere un visione d’insieme dettagliata per categoria il panorama non è certo più confortante. Interessati dal calendario fiscale sono tutti i contribuenti ma soprattutto i titolari di partita Iva. Nel dettaglio: imprenditori, artigiani, commercianti si troveranno di fronte 119 scadenze. Va un po’ meglio ai professionisti: ne avranno 117. Per le società di capitali ne sono previsti 100, mentre dipendenti e pensionati che se la caveranno con «soltanto» 51 scadenze.

Ma non finisce qui. Non bisogna dimenticare infatti che gli stessi contribuenti dovranno anche fare i conti con altre scadenze non fiscali, dunque non ricomprese nell’elenco pubblicato nel sito dell’Agenzia delle Entrate. Basti ricordare il versamento dei contributi previdenziali per lavoratori dipendenti, artigiani, commercianti, collaboratori, lavoratori domestici in scadenza il 16 novembre e il 16 dicembre. Dunque mettetevi una mano sul cuore (e una sul portafoglio) e preparatevi a un sereno fine anno con il Fisco.

Col 730 a casa meno rimborsi fiscali

Col 730 a casa meno rimborsi fiscali

Antonio Castro – Libero

Una dichiarazione dei redditi semplificata per 20 milioni di contribuenti? Non proprio, visto che – stimano preoccupati commercialisti, consulenti del lavoro, tributaristi e Caf – circa l’85% delle dichiarazioni che l’Agenzia delle Entrate (non) preparerà dovranno essere integrate. E qui salta fuori il dubbio: l’innovazione della dichiarazione precompilata, fortemente voluta dal governo, quest’anno non prevederà tutta una serie di detrazioni e deduzioni che contribuiscono (al 19% delle spese sostenute), ad alleggerire il carico fiscale. Ogni anno (dati relazione Vieri Ceriani sull’Erosione fiscale), ben 14.150mila contribuenti (circa uno su tre dei 40 milioni di contribuenti censiti), portano al commercialista, al consulente o ai Caf spese mediche e sanitarie. Ebbene quest’anno (2015, redditi 2014), queste spese non saranno calcolate dal fisco ai fini di conteggiare l’eventuale detrazione che spetta ad ognuno di noi.

In media ogni anno ciascun italiano – inserendo nella dichiarazione dei redditi scontrini di farmaci, visite mediche e fatture per prestazioni sanitarie – ottiene uno sconto di 166 euro. Un rimborso fiscale esiguo, certo, che però moltiplicato per 14 milioni e rotti di contribuenti fa la bellezza di oltre 2,3 miliardi che l’Erario non in cassa (e che il sostituto d’imposta il luglio successivo deve restituire). Il governo ha spiegato che quest’anno, visto che il 730 precompilato è stato lanciato con cosi poco preavviso, non saranno calcolate le eventuali detrazioni spettanti per spese mediche e sanitarie, spese funerarie e erogazioni a onlus e associazioni benefiche. Il grande fratello fiscale non sarebbe in grado di calcolare l’esatto ammontare delle detrazioni spettanti perché se è vero che conosce dalle farmacie (scontrino elettronico farmaceutico) i nostri acquisti con codice fiscale, non ha invece una banca dati delle altre spese sanitarie. Visite specialistiche, terapie odontoiatriche, presidi medici (occhiali o protesi), non vengono censiti anche se fatturate elettronicamente e quindi l’incrocio telematico di dati non è oggi possibile. Se è vero che la fattura del cardiologo o del dentista non è quasi mai telematica, gli scontrini della farmacia però risultano all’Agenzia, che monitorizza (con Sogei) tramite il codice fiscale l’andamento della spesa, salvo poi tirarsi indietro quando si tratta calcolare e riconoscere automaticamente le detrazioni spettanti (l9% di quanto speso), al contribuente.

Ma c’è dell’altro: l’introduzione della precompilata prevede che il contribuente che accetta, senza modificare o integrazioni, la dichiarazione abbia una sorta di immunità. Insomma, chi accetta quanto scrive l’Agenzia non verrà sottoposto a eventuali controlli e accertamenti ex post. Chi invece volesse integrare la dichiarazione rientrerà nel potenziale bacino dei controlli automatici. Se invece si accetterà la dichiarazione ma si apporteranno delle modifiche «che incidono sulla determinazione del reddito o dell’imposta, il contribuente non beneficierà dell’esclusione dai controlli». Tradotto: se si accetta per buono la dichiarazione delle Entrate, si ha “l’immunità fiscale”. Se invece si integra, magari chiedendo la detrazione del 19% delle spese me- diche sostenute, il fisco continuerà a controllare. Considerando il rimborso fiscale medio – 166 euro, stimato dal ministero dell’Economia – c’è da chiedersi quanti saranno gli italiani che per pochi spiccioli rinunceranno a chiedere il rimborso pur di evitare di finire nel calderone dei controlli postumi.

Ogni anno l’Agenzia delle Entrate invia ben 900mila richieste di chiarimento in merito alle dichiarazioni dei redditi consegnate da altrettanti contribuenti. La precompilata dovrebbe servire per abbattere questo carteggio. O meglio: le richieste di chiarimento giungerebbero solo ai professionisti e ai Centri di assistenza fiscale. Ma nel caso in cui non si accettasse la dichiarazione compilata dal fisco, allora resterebbe valida la facoltà di controllo. Sorge il sospetto che escludere l’automatismo di calcolo per le spese mediche (così come per quelle funebri, le donazioni o le spese di istruzione), e introducendo contestualmente “l’immunità dai controlli” per chi accetta passivamente la dichiarazione preparata dall’Agenzia delle Entrate, sia un modo per contenere e ridurre le richieste di rimborso, vista anche l’esiguità degli importi. E così lo Stato eviterebbe di restituire – nel luglio dell’anno successivo – le eventuali maggiorazioni d’imposta già pagate. Il vantaggio per le casse dello Stato sarebbe più che simbolico. Milioni di contribuenti che non reclamano rimborsi si traducono in miliardi di maggiore disponibilità per il bilancio pubblico. Non è proprio un taglio delle detrazioni vigenti – come ipotizzato già nel 2013 – ma gli assomiglia molto…

L’addizionale Irpef ci stende: pesa più delle tasse sulla casa

L’addizionale Irpef ci stende: pesa più delle tasse sulla casa

Fabrizio Ravoni – Il Giornale

Regioni e Comuni come Ugolino della Gherardesca. A lui, Dante fa dire: più del dolor potè il digiuno. Per i contribuenti vale la regola analoga: più della Tasi poterono le addizionali. Secondo uno studio degli artigiani di Mestre, gli italiani pagano più di addizionali comunali e regionali che di tasse sulla casa. E la situazione può soltanto peggiorare, visto l’impegno del governo a concedere autonomia fiscale ai Comuni per compensare il taglio dei trasferimenti.

Tra il 2010 e il 2015 le addizionali comunali e regionali aumenteranno in maniera esponenziale, in relazione al reddito. In media, per un impiegato saliranno del 35 per cento; per un operaio e un lavoratore autonomo del 36 per cento; per un quadro del 38 per cento e per un dirigente del 41 per cento. Il loro peso economico è superiore a quello di Tari e Tasi messe assieme. Una famiglia di tre persone pagherà al Comune sotto forma di tasse sulla casa e sui servizi intorno ai 500 euro all’anno. Dalla sua busta paga, però, il combinato disposto di addizionali regionali e comunali ridurrà il potere d’acquisto di un impiegato di 732 euro; quello di un lavoratore autonomo scenderà per le addizionali di 924 euro; quello di un quadro di 1.405 euro. Mentre un dirigente verserà nelle casse degli enti locali 3.583 euro. Solo un operaio pagherà più di Tasi e Tari che di addizionali: 500 euro contro 430.

Gli artigiani di Mestre hanno anche fatto le simulazioni categoria per categoria. Eccole. Un operaio con uno stipendio mensile netto pari di quasi 1.290 euro, ha visto aumentare in questi ultimi 5 anni il carico fiscale delle addizionali di 114 euro (+36%). Nel 2015 pagherà 429 euro (- 1 euro rispetto al 2014). Un impiegato con uno stipendio netto di poco superiore ai 1.800 euro al mese, tra il 2010 e il 2015 versa 195 euro in più, pari a un aumento del 35%. L’anno prossimo pagherà 747 euro (+ 15 euro rispetto al 2014). Un lavoratore autonomo con un reddito annuo di 40mila euro ha subito un incremento di imposta di 253 euro (+36%). Nel 2015 il peso delle addizionali sarà pari a 747 euro (+ 15 rispetto al 2014). Un quadro con uno stipendio mensile netto di circa 3mila euro al mese, ha subìto, invece, un aggravio di 403 euro (+38%). L’anno prossimo verserà 1.455 euro (+ 50 euro rispetto al 2014). Un dirigente, infine, con uno stipendio di quasi 7mila euro netti al mese ha visto aumentare il peso delle addizionali di 1.094 euro (+41%). Nel 2015 le addizionali peseranno per un importo complessivo di 3.753 euro (+ 170 euro rispetto l’anno prima).

Secondo Giuseppe Bortolussi, segretario degli artigiani di Mestre, il fenomeno è da mettere in relazione al fatto che «negli ultimi anni le addizionali Irpef hanno subito dei forti incrementi, sia per compensare i tagli dei trasferimenti statali, sia per fronteggiare gli effetti della crisi che hanno messo a dura prova i bilanci delle Regioni e dei Comuni». Eppure contro l’aumento delle addizionali non c’è stata la protesta politica e non, come sulle tasse sulla casa. «La ragione di questo paradosso va ricercata – spiega Bortolussi – nelle modalità di pagamento di queste imposte. Le addizionali Irpef vengono prelevate mensilmente alla fonte, di conseguenza il contribuente non ha la percezione di quanto gli viene decurtato lo stipendio o la pensione. Per il pagamento della Tasi e della Tari, invece, i cittadini devono mettere mano al portafogli per onorare le scadenze e recarsi fisicamente in banca o alle Poste. Operazioni che psicologicamente rimangono ben impresse nella mente di ciascuno». Senza contare il fatto che le tasse sulla casa, in tre anni, sono passate da un gettito di 10 miliardi a uno di 31 miliardi.

Aprire un’impresa è più facile ma il fisco resta un labirinto

Aprire un’impresa è più facile ma il fisco resta un labirinto

Alessandro Barbera – La Stampa

Nel dibattito italiano, quello nel quale le parole prendono spesso il sopravvento su fatti e numeri, le cause della crisi sembrano essersi trasformate in una variabile indipendente. La domanda non riparte, gli imprenditori non investono, e capita di sentir dire che la responsabilità è tutta degli austeri tedeschi, della gabbia dell’euro, dei burocrati di Bruxelles. Poi arrivano le classifiche internazionali, quelle che periodicamente costringono a riportare la realtà alla sua rappresentazione più semplice e noiosa.

Ad esempio: quante ore deve dedicare agli adempimenti fiscali un imprenditore? Domanda cruciale per chi fa impresa, piccola o grande che sia: più salgono le ore, più aumentano i costi dei consulenti, più è difficile fare previsioni sulle percentuale di utili o perdite alla fine dell’anno. Ebbene, in Italia ci vogliono ancora 269 ore l’anno, in Germania 218, in Spagna 167. Nella Francia di François Hollande, non propriamente un bengodi per gli investitori, ne bastano la metà: 137. In Gran Bretagna scendiamo a 110. Ancora: quanti pagamenti fiscali deve fare mediamente un imprenditore italiano rispetto ad un collega europeo? Fra tasse locali, addizionali, Irap, Ires si arriva a quindici l’anno. In Germania ne sono sufficienti nove, in Francia, Spagna e Gran Bretagna otto. In passato la classifica «Doing Business» della Banca Mondiale è stata oggetto di critiche per quel «total tax rate» che calcola la pressione fiscale delle imprese italiane fino al 65,4 per cento dei profitti; poco di meno della Francia (al 66,6 per cento), diciassette punti in più della Germania (48,8 per cento), il doppio della Gran Bretagna, ferma al 33 per cento. Ad alcuni sembrano numeri spropositati, se non altro perché la pressione fiscale calcolata dagli istituti di statistica è più bassa. Ma quel dato riguarda il peso della tassazione sui profitti d’impresa, che è cosa diversa dalla pressione fiscale nel suo complesso. In ogni caso «Doing Business» è ormai lo strumento più completo per chi vuole confrontare il fare impresa in giro per il mondo.

L’ultimo rapporto conferma i mali italiani ma offre anche alcune speranze. I tempi per avviare una nuova attività, ad esempio: nel giro di due anni l’Italia ha recuperato 44 posizioni e si è classificata 46esima su 189 Paesi. Merito fra gli altri – così dice l’Ordine dei Notai – della trasmissione telematica degli atti. O ancora la tutela degli azionisti di minoranza nelle società di capitali: l’anno scorso la Banca Mondiale ci ha classificati 21esimi, trenta posizioni sopra la Germania.

Le buone nuove finiscono qui. Il resto conferma le peggior impressioni, basti un rapido confronto sull’asse Roma-Berlino. Prendiamo le formalità burocratiche da espletare per una licenza edilizia: l’Italia si classifica al 116 posto, la Germania all’ottavo. Per chiudere una pratica in Italia sono necessari mediamente 233 giorni, in Germania ne bastano 96. Accesso all’energia elettrica: l’Italia è 102esima, la Germania terza. Se per un allaccio una impresa italiana aspetta mediamente 124 giorni, chi vuole aprire uno stabilimento nelle pianure tedesche avrà il sì in 28. Accesso al credito: Italia 89esima, Germania 23esima. Trasferimento della proprietà immobiliare: Germania 41esima, Italia 89esima. Quando il piazzamento italiano non è pessimo, i tedeschi svettano. È il caso della voce «apertura e chiusura delle procedure fallimentari»: in Italia sono necessari mediamente un anno e otto mesi (29esimi), in Germania un anno e due mesi (terza nel ranking). Come tutte le classifiche «Doing Business» ha i suoi limiti. Scoprire che la grande malata d’Europa – la Francia – sia l’unico dei grandi Paesi europei a risalire la classifica (dal 33esimo al 31esimo posto) può sembrare strano. Le classifiche valgono per quel che offrono, ma constatare che l’Italia è 56esima, quattro posti più in basso del 2014 fra Turchia e Bielorussia, non è incoraggiante.

Le mani sui risparmi

Le mani sui risparmi

Vittorio Malagutti – L’Espresso

Mettere le mani nelle tasche degli italiani passando dalla porta di servizio del loro conto in banca. Matteo Renzi e il suo governo hanno scelto di celebrare così la “Giornata mondiale del risparmio”, che cade, come ogni anno, il 31 ottobre. C’è poco da festeggiare, in effetti. Conti correnti e depositi vincolati, fondi d’investimento e gestioni patrimoniali, obbligazioni e dividendi. Con l’eccezione dei titoli di Stato e dei buoni postali, la legge di stabilità appena annunciata dall’esecutivo ha il suono sgradevole di una litania di nuove tasse per tutte le forme d’investimento. Nella storia repubblicana non si ricorda un’altra stangata di queste dimensioni al risparmio delle famiglie, se si esclude il prelievo sui depositi bancari varato nel 1992 dal governo di Giuliano Amato. Quella, però, fu un’operazione straordinaria, un intervento una tantum. Questa volta, invece, la manovra riscrive per intero la tassazione delle rendite finanziarie.

La tagliola finirà per colpite anche la previdenza. con una sorprendente inversione di marcia rispetto al passato. Ricordate gli inviti ad accantonare risorse in vista di un avvenire sempre più incerto? Niente da fare, adesso il governo vuole aumentare il prelievo fiscale anche sui fondi pensione. Perfino la rivalutazione del trattamento di fine rapporto (Tfr), cioè la parte di futura liquidazione che il lavoratore sceglie di lasciare in azienda, sarà tassata come mai prima d’ora.

I provvedimenti messi nero su bianco nella legge di stabilità rischiano di avere un primo, paradossale effetto sul piano psicologico. In una fase d’incertezza senza precedenti, tra recessione e disoccupazione, le nuove imposte vanno ad amplificare i timori per il futuro prossimo venturo perché colpiscono il gruzzolo, grande o piccolo che sia, messo da parte dalle famiglie per fronteggiare gli imprevisti. E se aumenta l’insicurezza è difficile che gli italiani riprendano a spendere. Gli acquisti vengono rimandati in attesa di tempi migliori. Addio crescita economica, allora. Il motore del Pil non riparte e la recessione si trasforma in stagnazione, con il corollario del calo dei prezzi, cioè la deflazione. Tutto il contrario, insomma, di quanto va predicando il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, che nello stimolo ai consumi vede l’antidoto migliore alla crisi.

«Bisogna spostare il peso del Fisco dal lavoro alle rendite». Questo il mantra dei renziani, che hanno sbandierato per mesi il taglio dell’Irap alle imprese annunciato dal governo e in buona parte rinviato a tempi migliori nell’ultima stesura della legge di stabilità. Il premier non ha perso tempo. La scorsa primavera, da poco insediato a Palazzo Chigi, Renzi aveva già provveduto a smantellare la riforma della tassazione del risparmio varata a fine 2011 dal governo di Mario Monti. Allora la parola d’ordine era «semplificare». E così le aliquote. con l’eccezione di titoli di Stato e fondi pensione, furono unificate a quota 20 per cento. Non mancarono le correzioni al ribasso: l’imposta sui rendimenti dei conti correnti e dei depositi vincolati passò dal 27 al 20 per cento. Renzi invece ha di nuovo alzato l’asticella fino al 26 per cento. Con il risultato che, se la legge di stabilità verrà approvata nella versione attuale, alcune forme di risparmio, come i fondi d’investimento e le gestioni patrimoniali, subiranno un prelievo più che raddoppiato rispetto a due anni fa, quando andava al Fisco il 12,5 per cento dei proventi.

Stangata? Dipende dai punti di vista. Davide Serra, il finanziere grande sponsor e consigliere del presidente del Consiglio, in passato si è più volte espresso a favore di un giro di vite ancora più pesante sulle rendite finanziarie. «L’aliquota andrebbe portata dal 20 al 30-35 per cento», ha dichiarato l`anno scorso in un’intervista il gestore del fondo Algebris, con base a Londra. Il governo per ora si è fermato a mezza strada, a quota 26 per cento. L’obiettivo dichiarato è quello di rastrellare almeno 3,6 miliardi di entrate supplementari nel 2015. Questa almeno è la cifra che compare nei documenti presentati dall’esecutivo.

Costretto a trovare nuove fonti di gettito per finanziare voci di spesa supplementari come gli 80 euro di sgravi Irpef, il ministro Padoan ha pensato bene di attingere a un serbatoio di risorse che la crisi ha fin qui intaccato solo marginalmente. Anzi, secondo lo studio più aggiornato della Banca d’Italia, a fine 2012 le attività finanziarie di proprietà delle famiglie italiane, pari a 3.670 miliardi di euro, erano addirittura cresciute del 4,5 percento rispetto all’anno precedente. Lo stesso non si può dire dei salari oppure dei profitti societari, che invece sono diminuiti per effetto del rallentamento dell’economia. Di conseguenza sono calati anche i proventi del prelievo fiscale su queste due categorie di redditi.

Va detto che negli ultimi anni la geografia del risparmio degli italiani è profondamente cambiata. I titoli di Stato, che offrono rendimenti ridotti ai minimi termini, ormai rappresentano poco meno del 5 per cento del portafoglio complessivo delle famiglie, contro il 20 per cento di una ventina di anni fa. D’altra parte, i fondi d`investimento hanno visto crescere a gran velocità la raccolta. Nei primi nove mesi del 2014 le nuove sottoscrizioni hanno raggiunto i 97 miliardi, quasi il doppio rispetto ai 55 miliardi dell’anno precedente. Secondo i calcoli della società di ricerche Prometeia, da inizio 2012 al primo trimestre 2014 le famiglie italiane hanno riversato circa 95 miliardi su fondi, polizze assicurative e prodotti previdenziali, riducendo di oltre 100 miliardi le loro attività sotto forma di Bot, Cct e Btp.

Non basta. Il boom delle Borse, almeno fino a settembre, ha anche garantito guadagni importanti ai risparmiatori che hanno puntato sulle azioni, direttamente oppure tramite i fondi. Festeggiano gli investitori, ma anche il Fisco, perché le plusvalenze della compravendita di titoli si trasformeranno in un gettito supplementare per l’Erario. E con il rialzo dell’imposta dal 20 al 26 per cento previsto dalla legge di stabilità i proventi per le casse dello Stato saranno ancora maggiori. Tutto questo, ovviamente, a condizione che i mercati non si avvitino al ribasso e che la manovra proposta dal governo Renzi arrivi al traguardo dell’approvazione parlamentare senza perdere per strada il previsto aumento delle aliquote.

Molto più ridotto, invece, sarà l’incasso garantito dal prelievo sui rendimenti dei conti in banca. I tradizionali depositi ormai offrono interessi su base annuale di molto inferiori all’uno per cento. Secondo una simulazione della Cgia di Mestre (Associazione artigiani e piccole imprese) l’aumento d’imposta dal 20 al 26 per cento si dovrebbe tradurre in un aggravio pari nella media a 93 centesimi, per un conto di 12 mila euro. Briciole, rispetto alle nuove tasse sui ricchi proventi del trading azionario o di quote di fondi comuni.

Il vero salasso a carico dei risparmiatori è un altro. Si chiama imposta di bollo, una sorta di mini patrimoniale sulle attività finanziarie. È stata introdotta nel 2012 sotto forma di un prelievo pari allo 0,1 per cento del valore di tutte le attività finanziarie (esclusi i conti correnti bancari) di proprietà di ogni singolo contribuente. L’aliquota è poi stata ritoccata due volte.Dapprima è salita allo 0,15 per cento (nel 2013) per poi raggiungere la soglia dello 0,2 per cento dall’inizio del 2014. Come dire che un portafoglio del valore di 50mila euro subirà un prelievo di 100 euro, il doppio rispetto a due anni fa. A questa somma vanno poi aggiunte le tasse da pagare sui rendimenti o sui guadagni realizzati con la compravendita di prodotti finanziari.

Particolare importante: l’imposta di bollo e sulle rendite finanziarie non si applicano in modo proporzionale al reddito del contribuente o al valore del suo patrimonio. Chi possiede titoli per 10mila euro, con rendimenti per poche decine di euro, è sottoposto ad aliquote identiche a chi amministra un portafoglio milionario di attività. All’estero non funziona cosi. In alcuni Paesi, come la Francia o la Spagna, l’imposizione è progressiva per scaglioni sulla base dei guadagni realizzati. In Gran Bretagna, invece, le rendite finanziarie vengono inserite nella dichiarazione annuale dei redditi, tassati secondo aliquote via via più alte al crescere delle entrate del contribuente. Da tempo molti esperti segnalano che allinearsi a questi modelli stranieri porterebbe maggiore equità nel sistema italiano, che finisce per favorire i più ricchi. Ma per cambiare serve tempo e invece il governo ha una fretta terribile di far cassa. Tutto rinviato, allora. E più tasse per tutti.

Mammellone fiscale

Mammellone fiscale

Davide Giacalone – Libero

Chiamare gli italiani con i redditi più alti a contribuire straordinariamente, per abbattere parte del debito pubblico, ma farlo senza che questa sia una patrimoniale, bensì volontariamente. Dato che la volontà va incentivata, aggiunge Paolo Cirino Pomicino, ideatore della proposta, a chi vorrà versare si garantiscano quattro anni senza accertamenti fiscali, sempre che il loro reddito cresca dell’1,5% ogni anno. Mi convince. Non mi piace. Integro.

Il ragionamento è convincente perché (come qui si è cento volte ripetuto, facendo riferimento alla dismissione di patrimonio pubblico) far scendere d’un colpo, significativamente, il debito pubblico ne diminuisce l’enorme costo in interessi. Quindi non solo libera dal debito (in parte), ma libera risorse altrimenti impiegabili. Convincente. Non mi piace, però, il riferimento esclusivo alla sospensione dei controlli fiscali, per la semplice ragione che, automaticamente, escluderebbe me, e molti altri, da quanti potrebbero contribuire. Mi rifiuto, infatti, di sborsare un solo centesimo per prendermi pure il certificato di evasore fiscale. Avendo pagato sempre tutto, quindi già troppo.

Propongo un doppio binario: su uno viaggia il convoglio Pomicino; sull’altro si offra un patto al contribuente che se lo può permettere: tu anticipi, per due anni, una parte del gettito fiscale e lo Stato, in cambio, ti fa uno sconto più che proporzionale sull’aliquota che dovrai pagare, nei due anni successivi. È un patto virtuoso, perché da entrambe le parti si scommette sulla crescita: lo Stato risparmiando sugli oneri del debito, il contribuente contando che la ripresa porti con sé un aumento del reddito, quindi un buon affare fiscale. Ci si guadagna tutti.

La domanda cruciale, però, è: cosa si fa con i soldi risparmiati abbattendo il debito? Questa è la vera questione politica. Credo si debbano fare due cose: a. diminuire la pressione fiscale; b. innescare investimenti pubblici infrastrutturali. Paolo Cirino Pomicino dice che gli son cadute le braccia quando ha letto, nella legge di stabilità, che ci si accontenta di previsioni minimali circa la crescita del prodotto interno lordo. Non so cosa possa cadergli, a consuntivo. A me erano cadute prima, con gli 80 euro. Poi replicati. Mi son cadute perché l’idea che gli italiani siano poppanti e che il problema sia la quantità di latte erogabile, tramite il mammellone statale, non è solo sbagliata: è letale. Questa roba è un incrocio, bastardo, fra il keynesismo senza Keynes e il liberismo senza mercato. Fra la convinzione che il mercato possa riprendere velocità solo grazie alla spesa pubblica e il diffidare degli investimenti pubblici, supponendo migliori i consumi decisi dai privati. In questo modo, temo, si fa crescere il debito senza spingere la ricchezza. In altre parole, è un gesto che arricchisce elettoralmente e impoverisce economicamente.

Tale mutazione genetica, tale illegittima filiazione del fanfanismo e del reaganismo, entrambe presunti, è confermata dal fatto che a occuparsi dei grandi investimenti pubblici hanno messo un magistrato. Li guardano con sospetto, se non con un certo schifo. Non che i sospetti non siano fondati, ma se continuo a mettere gli spiccioli in tasca alle persone, senza corrispettivo di produttività, quelli li utilizzeranno in tre modi: a. pagare gli aumenti delle bollette; b. risparmiare il possibile, non fidandosi; c. comprare merce a basso costo, magari prodotta, importata e venduta illegalmente. Nulla che spinga la ricchezza. Gli investimenti pubblici, quindi, sono il giusto contrappeso degli sgravi fiscali e dei tagli alla spesa improduttiva. Resi possibili dall’abbattimento del debito. Altrimenti il solo “ismo” che prende corpo è il laurismo. A quel punto entrambe i binari, quello di Cirino Pomicino e il mio, sono da considerarsi morti. Nel senso che i soldi, chi li ha e può, li porta velocemente via.

Iva: pressoché inevitabile il suo aumento nel 2015 di almeno un punto percentuale

Iva: pressoché inevitabile il suo aumento nel 2015 di almeno un punto percentuale

NOTA

A meno di improbabili miracoli economici, nel 2015 saremo costretti ad aumentare l’Iva complessivamente di almeno un punto percentuale. Il governo prevede infatti una crescita dello 0,6% del Pil nel 2015, dell’1% nel 2016 e dell’1,3% nel 2017. Sappiamo quanto poco valgano queste professioni di ottimismo (basti ricordare come nel Def il premier Renzi e il ministro dell’Economia Padoan avessero addirittura ipotizzato per quest’anno una crescita del Pil dello 0,8%) ed è quindi purtroppo molto più realistico immaginare che, fermo restando le condizioni attuali dell’economia italiana, anche nel 2015 il nostro Pil rimanga nella migliore delle ipotesi piatto, facendo registrare uno scostamento negativo dello 0,5% tra crescita preventivata e crescita reale.
«Questo dato – osserva il presidente del Centro studi “ImpresaLavoro” Massimo Blasoni – comporterebbe minori entrate fiscali per 4 miliardi su base annua, compensabile solo con un immediato aumento dell’Iva. La clausola di salvaguardia, insomma, rischia di essere applicata in ogni caso, indipendentemente dall’effettiva realizzazione dei tagli di spesa previsti dal Governo Renzi».
In Italia 2 milioni e 300mila famiglie non possono permettersi una casa

In Italia 2 milioni e 300mila famiglie non possono permettersi una casa

Danilo Taino – Corriere della Sera

Sono anni che non si parla più di diritto alla casa, almeno in Occidente. Quasi che il problema fosse risolto. Non lo è: nelle città italiane, per dire, ci sono due milioni e trecentomila famiglie che non sono in grado, per ragioni economiche, di garantirsi un’abitazione minima. Il problema non è risolvibile con i vecchi modelli delle rivendicazioni sociali degli Anni Settanta e Ottanta, o con i piani di edilizia popolare del passato. Ciò nonostante, resta: è un guaio sociale e rimbalza in negativo sui livelli di istruzione e di salute del Paese e pesa sulla crescita complessiva. La società di consulenza McKinsey, attraverso il suo istituto di ricerca MK Global Institute, pubblicherà domani uno studio – globale e articolato per Paese – su questo che è uno dei temi essenziali del momento. E ha elaborato alcune proposte “di mercato” per affrontarlo.

Il gap
Al cuore della ricerca c’è il calcolo di un gap di accessibilità alla casa: in sostanza, quanto salario in più servirebbe a una famiglia media per comprare l’abitazione (nel caso italiano di 60 meri quadrati) senza dovere impegnare più del classico 30% del reddito stesso. Il risultato è che, in Italia, i 2,3 milioni di famiglie in difficoltà avrebbero bisogno di nove miliardi di dollari in più (7,1 miliardi in euro) ogni anno. Il gap maggiore si registra nell’area metropolitana di Milano: quattro miliardi di dollari. Seguono Roma, tre miliardi; Firenze, un miliardo; Torino, 500 milioni; Napoli, 300 milioni e Venezia, 200 milioni. «Due milioni e trecentomila famiglie in condizioni di difficoltà abitativa non sono cosa da poco per un Paese come il nostro. E un gap pari allo 0,5% del Pil è considerevole», dice Stefano Napoletano, il partner di McKinsey che ha seguito lo studio per l’Italia.

Le soluzioni possibili
Per ridurre questo gap di accessibilità alla casa, Napoletano vede quattro possibili interventi applicabili al caso italiano (che ovviamente è diverso da quello di altri Paesi). Vanno di molto ridotti i tempi e i costi della burocrazia per ottenere i permessi, soprattutto di ristrutturazione; il settore delle costruzioni, uno dei più lenti nei guadagni di produttività, va modernizzato; occorre una gestione delle case costruite meno costosa, il che significa introdurre innovazioni sin dalla progettazione, ad esempio nella sostenibilità energetica; vanno abbassati i costi di finanziamento per l’acquisto della casa e resi disponibili, attraverso strumenti di debito ad hoc, anche a chi ha redditi bassi e scarse garanzie da offrire. A livello globale, lo studio calcola che ci siano 330 milioni di famiglie in difficoltà finanziarie quando devono affrontare la questione abitazione. Che, in ragione degli intensi flussi migratori verso le metropoli nei Paesi emergenti, diventeranno 440 milioni nel 2025: almeno un miliardo e trecento milioni di persone coinvolte.

Nel mondo
Nel mondo, il gap di accessibilità alla casa – misurato a seconda delle caratteristiche di ogni Paese – è oggi di 650 miliardi di dollari all’anno: quasi l’uno per cento del Prodotto lordo mondiale. Ai costi attuali, per risolvere il problema occorrerebbe investire tra i novemila e gli 11 mila miliardi di dollari da qui al 2025, che salgono a 16 mila se si aggiungono i costi di acquisizione dei terreni da edificare. Evidente è che la chiave sta nel tagliare i costi: di costruzione, di gestione e di rendita data dalle molte restrizioni regolamentari (questi ultimi all’origine dei prezzi elevati nei centri delle città). McKinsey calcola che si possano ridurre tra il 20 e il 25 per cento.