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Efficienza del mercato del lavoro: Italia terz’ultima in Europa

Efficienza del mercato del lavoro: Italia terz’ultima in Europa

Il mercato del lavoro italiano è terz’ultimo per efficienza tra i 28 membri dell’Unione europea e 90esimo su 141 Paesi censiti nel mondo. Nell’ultimo anno perde ben 11 posizioni nella graduatoria internazionale e una in quella europea, ma soprattutto in termini di efficienza ed efficacia si colloca ancora dietro a quello di Paesi come Nigeria, Perù e Uruguay. Lo rivela un’elaborazione del Centro Studi ImpresaLavoro sulla base dei dati contenuti nel recentissimo “Global Competitiveness Report 2019-2020” pubblicato dal World Economic Forum.
L’indicatore dell’efficienza è un aggregato di più voci che bene evidenziano le difficoltà che il nostro mercato del lavoro attraversa. I principali indicatori analizzati ci pongono ormai da anni agli ultimi posti per efficacia nel mondo e, quasi sempre, nelle retrovie della classifica europea.

Per quanto concerne ad esempio la collaborazione nelle relazioni tra lavoratori e datore di lavoro siamo al 114esimo posto al mondo e penultimi tra i Paesi dell’Europa a 28 (ai primi tre posti ci sono Danimarca, Paesi Bassi e Lussemburgo). Nella classifica europea perdiamo quindi una posizione rispetto all’anno precedente. Siamo invece al 135esimo posto al mondo e diventiamo penultimi in Europa (perdendo anche qui una posizione rispetto all’anno precedente) per flessibilità nella determinazione dei salari, intendendo con questo che a prevalere è ancora una contrattazione centralizzata a discapito di un modello che incentiva maggiormente impresa e lavoratore ad accordarsi. E proprio in tema di retribuzioni rimaniamo anche quest’anno il peggior Paese europeo (nonché 130esimo nel mondo) per capacità di legare lo stipendio all’effettiva produttività. Dati questi che vanno letti assieme a quelli sugli effetti dell’alta tassazione sul lavoro: in Europa siamo 20esimi (ma 130esimi nel mondo) per quanto riguarda l’effetto della pressione fiscale sul lavoro (facciamo molto peggio di Paesi come la Danimarca, il Regno Unito e la Slovenia). Su questo indicatore il peggioramento rispetto all’anno precedente è netto: in Europa scendiamo verso il basso infatti di altre 8 posizioni rispetto al 2018. Anche la scarsa efficienza nelle modalità di assunzione e licenziamento mette in luce l’arretratezza del nostro Paese: per quanto riguarda questo aspetto siamo 127esimi al mondo e perdiamo ben due posizioni in Europa (adesso siamo terz’ultimi). Infine, un altro indicatore da considerare è quello che riguarda l’efficienza e l’efficacia delle politiche attive per il lavoro, dove ci collochiamo addirittura all’ultimo posto in Europa (99esimi al mondo).

«Il nostro mercato del lavoro – commenta l’imprenditore Massimo Blasoni, presidente del Centro studi ImpresaLavoro – contiene difetti strutturali che possono essere risolti solo con politiche di medio-lungo periodo. Occorre favorire un processo di innovazione sul versante della contrattazione e della produttività, incoraggiando contratti di prossimità e un maggior rapporto tra salari e produttività, anche e soprattutto attraverso regimi fiscali di favore nei confronti di accordi che premiano risultati ed efficienza».

Debiti PA: stock a 53 miliardi, in Europa siamo i terz’ultimi per tempi di pagamento (67 giorni di attesa)

Debiti PA: stock a 53 miliardi, in Europa siamo i terz’ultimi per tempi di pagamento (67 giorni di attesa)

I tempi di pagamento

L’edizione più recente dell’European Payment Report di Intrum Justitia rivela che in Italia il tempo medio di pagamento da parte del settore pubblico nell’ultimo anno si è attestato a 67 giorni, 25 giorni in più rispetto al valore medio europeo. Il calo rispetto ai 104 giorni medi dell’anno precedente è imputabile in gran parte alla fatturazione elettronica. Tempi di pagamento così lunghi si ripercuotono negativamente soprattutto sulle piccole e medie imprese, costrette ad accettare termini di pagamento troppo dilazionati e spesso imposti dalle imprese più grandi. Il dato di quest’anno ci colloca al terz’ultimo posto in Europa, dopo Grecia (115 giorni) e Portogallo (75 giorni). Il nostro valore attualmente supera di un giorno quello della Spagna, di 19 quello della Francia, di 39 giorni quello del Regno Unito e di 40 giorni quello della Germania.

Lo stock di debiti della PA

Sono passati più di cinque anni dal 13 marzo 2014, quando l’ex premier Matteo Renzi promise in tv agli italiani che il 21 settembre di quell’anno avrebbe fatto un pellegrinaggio al santuario di Monte Senario in occasione del proprio onomastico se il suo Governo non avesse pagato tutti i debiti che la Pubblica Amministrazione aveva contratto fino al 2013. Da allora la situazione è rimasta sostanzialmente invariata. La relazione annuale presentata a fine maggio dalla Banca d’Italia certifica infatti che nel 2018 lo stock dei debiti accumulati dalla PA ammonta ancora a 53 miliardi di euro, appena 4 miliardi in meno rispetto all’anno precedente. Questo dato conferma quanto abbiamo denunciato a più riprese: i debiti commerciali si rigenerano con frequenza, dal momento che beni e servizi vengono forniti di continuo. Pertanto liquidare solo in parte con operazioni spot i debiti pregressi di per sé non riduce affatto lo stock complessivo: questo può avvenire soltanto nel caso in cui i nuovi debiti creatisi nel frattempo risultino inferiori a quelli oggetto di liquidazione.

I costi per le imprese

Per l’imprenditore Massimo Blasoni, presidente di ImpresaLavoro, «si riducono i tempi di pagamento ma restiamo tristemente terz’ultimi in Europa, dopo di noi solo Portogallo e Grecia. Lo stock di debito resta enorme, lo Stato deve alle imprese 53 miliardi. Questo ritardo sistematico è costato loro la bellezza di 3,7 miliardi di euro, cifra generata dagli interessi passivi dovuti per anticipare il credito necessario a pagare i propri dipendenti e onorare gli impegni presi. La stima è stata effettuata prendendo come riferimento il dato fornito da Bankitalia sullo stock complessivo e il costo medio del capitale (pari al 7,043% su base annua) che le imprese hanno dovuto sostenere per far fronte al relativo fabbisogno finanziario generato dai mancati pagamenti».

Attività finanziarie famiglie: Italia sesta in Europa in rapporto al Pil ma terz’ultima per tasso di crescita negli ultimi dieci anni

Attività finanziarie famiglie: Italia sesta in Europa in rapporto al Pil ma terz’ultima per tasso di crescita negli ultimi dieci anni

Dopo un periodo di stagnazione, le attività finanziarie delle famiglie italiane (depositi, investimenti in titoli, azioni e obbligazioni) hanno finalmente recuperato e superato il livello che avevano nel 2008, alla vigilia della grande crisi economica. Negli ultimi dieci anni sono infatti cresciute del 16% (passando da 3.677 a 4.270 miliardi di euro), per un valore complessivo che ci colloca al terz’ultimo posto in Europa. Se rapportate invece al nostro Pil, queste registrano invece uno dei valori più alti d’Europa (249%), collocando l’Italia al sesto posto della graduatoria. Sono questi i principali risultati di un’analisi del Centro studi ImpresaLavoro su elaborazione di dati Eurostat.

Confrontando i dati delle attività finanziarie delle famiglie italiane con quelle negli altri Paesi europei si nota come negli ultimi dieci anni soltanto a Cipro sia stata registrata una crescita percentuale inferiore alla nostra (+4%). In Grecia, invece, la ricchezza finanziaria delle famiglie è tuttora inferiore al periodo pre-crisi: -13% (-37,7 miliardi di euro). Sempre dal 2008 al 2018, le famiglie di alcuni Paesi dell’Europa dell’Est hanno invece raddoppiato i volumi della loro ricchezza – come è avvenuto in Bulgaria (+133%) e in Polonia (+112%) – mentre quelle residenti in economie più mature hanno registrato incrementi netti inferiori ma comunque considerevoli. Rispetto a dieci anni fa le famiglie britanniche sono ad esempio più ricche di 3.071 miliardi (+68%), quelle francesi di 1.838 miliardi (+51%) e quelle tedesche di 1.840 miliardi (+44%). L’incremento in termini relativi risulta molto rilevante anche in alcuni Paesi del Nord Europa come Svezia (+120%, pari a +739 miliardi) e Danimarca (+72%, ovvero +370 miliardi).

La classifica però cambia notevolmente se prendiamo in considerazione il rapporto tra le attività finanziarie delle famiglie e il Pil del loro Paese. In questo caso l’Italia si colloca al sesto posto, con un dato pari al 249%: uno dei valori più alti d’Europa, inferiore solamente a quelli registrati in Regno Unito (322%), Paesi Bassi (321%), Danimarca (297%), Svezia (+291%) e Belgio (288%). Le famiglie italiane, in rapporto al reddito nazionale, possiedono quindi più attività finanziarie della Francia (237%) e della Germania (185%). Molto più bassi sono invece i valori dei Paesi dell’Est Europa, la maggior parte dei quali riporta un dato inferiore al 120% come ad esempio Repubblica Ceca (116%), Polonia (98%), Slovacchia (83%) e Romania (66%).

«La ricchezza finanziaria delle famiglie italiane, pari a 4.270 miliardi, in rapporto al Pil è una delle più consistenti d’Europa. Se a questa si aggiungono le attività reali detenute dalle famiglie, pari circa a 6mila miliardi, la ricchezza totale dei nuclei familiari al netto delle passività finanziarie sfiora ormai i 10mila miliardi di euro» osserva l’imprenditore Massimo Blasoni, presidente del Centro studi ImpresaLavoro. «Si tratta di un bel tesoretto che surclassa nei numeri l’enorme debito pubblico italiano ma che allo stesso tempo non dovrebbe essere trattato dallo Stato come un bancomat al quale attingere, spesso e volentieri, quando non si sa dove altro reperire le risorse».

Dipendenti PA: è record in Valle d’Aosta, Calabria e Sicilia ma in rapporto al totale degli occupati sono tra i meno numerosi in Europa

Dipendenti PA: è record in Valle d’Aosta, Calabria e Sicilia ma in rapporto al totale degli occupati sono tra i meno numerosi in Europa

In rapporto al totale degli occupati, i 3 milioni e 219mila dipendenti pubblici italiani non si distribuiscono in modo omogeneo sul territorio nazionale, nemmeno rispetto al numero dei residenti. Contrariamente a quello che si potrebbe pensare e sempre con riferimento al totale degli occupati, risultano però inferiori a quelli della maggior parte delle altre economie europee. Sono questi i dati più significativi che emergono da una ricerca del Centro studi ImpresaLavoro su elaborazione di dati Istat, Eurostat e Ministero dell’Economia e delle Finanze.

I più recenti dati Eurostat certificano che, con un valore di dipendenti pubblici in rapporto al numero degli occupati pari al 14%, l’Italia è il quarto Paese con il valore più basso d’Europa. Tra tutti i Paesi UE considerati nell’analisi, solamente Paesi Bassi (13%), Lussemburgo (12%) e Germania (10%) hanno meno dipendenti pubblici dell’Italia in rapporto agli occupati. La media italiana risulta più bassa di quella di Spagna (15%), Regno Unito (16%), e Francia (22%) e molto inferiore rispetto ai valori di Paesi nordici come la Svezia (29%), la Danimarca (28%) e la Finlandia (25%).

Per quanto riguarda le regioni italiane, se si prende in esame il rapporto tra il numero dei dipendenti pubblici e quello degli occupati, più di un occupato su cinque è dipendente della PA in Valle d’Aosta (21,6%), Calabria (21,4%) e Sicilia (20%). In cima a questa classifica compaiono principalmente le regioni del Mezzogiorno, con un’incidenza dell’impiego pubblico di gran lunga superiore alla media nazionale (14%): oltre alle regioni già citate troviamo Sardegna (19,4%), Basilicata (17,8%), Molise (17,5%), Puglia (17,2%) e Campania (16,9%). A distanza ravvicinata seguono due regioni del Nord ma a Statuto speciale: Trentino Alto Adige (16,8%) e Friuli Venezia Giulia (16,5%). In coda alla classifica troviamo invece Veneto (10,5%), Emilia-Romagna (11,6%) e Piemonte (11,9%). Va poi sottolineato come il 9,3% della Lombardia nel numero dei dipendenti pubblici in rapporto agli occupati sia addirittura inferiore al 10% registrato in Germania.

Le posizioni nella classifica italiana cambiano invece molto se il numero dei dipendenti pubblici viene rapportato a quello dei residenti (bambini e anziani inclusi). A fronte di una media italiana del 5,3%, le regioni con la maggior concentrazione di dipendenti pubblici rispetto alla popolazione residente sono infatti quelle a Statuto speciale. A guidare la classifica è infatti la Valle d’Aosta (11.826 dipendenti, pari al 9,3% dei residenti) davanti a Trentino Alto Adige (82.090 dipendenti, 7,7%), Friuli Venezia Giulia (83.413 dipendenti, 6,8%) e Sardegna (109.123 dipendenti, 6,6%). L’unica eccezione in tal senso è costituita dal terzo posto del Lazio, regione che però sconta l’elevato numero di sedi istituzionali presenti a Roma (407.141 dipendenti, 6,9%). In fondo a questa particolare classifica si collocano invece regioni più popolate ed economicamente più sviluppate come Lombardia (410.923 dipendenti, 4,1%) e Veneto (223.336 dipendenti, 4,6%). Al di sotto della media nazionale troviamo anche Campania (282.048 dipendenti, 4,8%), Piemonte (216.810 dipendenti, 4,9%), Puglia (205.885 dipendenti, 5,1%) ed Emilia Romagna (228.306 dipendenti, 5,1%).

«Stipendio e posto di lavoro dei dipendenti nelle aziende private dipendono dalla loro produttività e dall’effettiva capacità di stare sul mercato. Quelli dei dipendenti pubblici, invece, sono garantiti a prescindere dai risultati ottenuti» osserva l’imprenditore Massimo Blasoni, presidente di ImpresaLavoro. «La presenza disomogenea di questi lavoratori sul territorio nazionale suggerisce peraltro come in determinate regioni italiane l’impiego pubblico sia stato e continui a essere considerato un efficace ammortizzatore sociale».

Carburanti: diesel italiano il più caro in Europa, benzina al quarto posto

Carburanti: diesel italiano il più caro in Europa, benzina al quarto posto

Il diesel acquistato in Italia è in assoluto il più caro in Europa mentre il prezzo della nostra benzina è il quarto più alto di quelli acquistabili nei Paesi dell’UE. A renderlo noto è una ricerca del Centro Studi ImpresaLavoro, realizzata su dati MEF e Commissione Europea.

Con 1,599 euro al litro, il costo del nostro carburante è dell’11,1% più alto di quello della media europea: il pieno in Italia costa il 4,5% in più rispetto alla Francia, l’11,4% in più rispetto alla Germania e addirittura il 26,3% in più rispetto all’Austria. Peggio di noi in Europa fanno soltanto Paesi Bassi, Grecia e Danimarca con un costo al litro rispettivamente di 1,681, 1,629 e 1,620 euro.

Il prezzo pagato dai consumatori finali risente fortemente della componente relativa a tasse e accise. Nel nostro Paese il prelievo statale rappresenta il 63,5% del prezzo finale contro il 60,2% della media europea, il 61,8% della Francia, il 61,6% della Germania e il 52,9% della Spagna.

Il diesel acquistato in Italia risulta essere invece il più caro in assoluto tra i Paesi dell’UE. Il costo al litro è infatti pari a 1,487 euro, superando di molto la media europea (pari a 1,329 euro), la Germania (1,242 euro) e la Spagna (1,213 euro).

Anche in questo caso l’incidenza delle tasse sul prezzo finale è molto alta: il 59,6% del prezzo finale è costituito da tasse, contro una media europea pari al 54,9%. Peggio di noi fa solo il Regno Unito, con un valore pari al 60,5%.

Attualmente incidono sul prezzo del carburante ben 17 diverse accise, deliberate dal 1935 ad oggi. Paghiamo con la benzina le voci di spesa più disparate: dalla Guerra di Etiopia all’acquisto di autobus ecologici; dal Rinnovo del contratto degli autoferrotranvieri del 2004 all’emergenza migranti causata dalla crisi libica. Senza dimenticare che attraverso l’aumento delle accise si sono affrontate le principali emergenze italiane: dal terremoto in Emilia (2012) fino ai terremoti in Friuli (1976) e Irpinia (1980) o alle alluvioni di Firenze (1966) e Liguria (2011). In molti casi si tratta chiaramente di voci di emergenze concluse ma su cui comunque continuiamo a versare allo stato importanti risorse ogni qualvolta facciamo il pieno di benzina alla nostra auto.

Il gettito totale per accise nel nostro Paese nel suo complesso è aumentato di 5,2 miliardi negli ultimi dieci anni. Le accise su prodotti energetici, loro derivati e prodotti analoghi garantivano alle casse dello stato 20,3 miliardi nel 2008. Gli aumenti successivi hanno fatto crescere questa cifra del 25,6% in dieci anni portando il gettito del 2018 a 25,5 miliardi di euro, una cifra sostanzialmente stabile negli ultimi anni (25,4 miliardi nel 2016, 25,7 miliardi nel 2017).

“Questi numeri preoccupano soprattutto perché non sono state ancora individuate le risorse per disinnescare le clausole di salvaguardia” osserva l’imprenditore Massimo Blasoni, presidente del Centro Studi ImpresaLavoro. “In assenza di coperture alternative, esse scatterebbero dal primo gennaio 2020 facendo aumentare l’Iva (dal 22% al 25,2% quella ordinaria e dal 10% al 13% quella agevolata) e le accise sui carburanti per un valore pari a 400 milioni di euro l’anno. Al momento il 63,5% del prezzo finale della benzina è costituito da tasse e non dimentichiamo che l’Iva si applica anche sulle accise”.

Bolletta energetica: negli ultimi otto anni quella delle famiglie è cresciuta dell’8,8%. Il 36,1% del prezzo finale è costituito da tasse e imposte.

Bolletta energetica: negli ultimi otto anni quella delle famiglie è cresciuta dell’8,8%. Il 36,1% del prezzo finale è costituito da tasse e imposte.

Dal 2010 al 2018 le famiglie italiane hanno visto crescere dell’8,8% i costi per l’utilizzo dell’energia elettrica a fini domestici: è questo il risultato di una ricerca del Centro Studi ImpresaLavoro, che ha analizzato l’andamento dei prezzi medi dell’energia elettrica per uso domestico fornita in questo periodo di tempo alle famiglie in tutta Europa.

Dalla rielaborazione dei dati Eurostat emerge che rispetto a otto anni fa tra i 28 Paesi oggetto del monitoraggio solo in 6 nazioni il prezzo dell’energia domestica è diminuito: Lussemburgo (-3,2%), Paesi Bassi (-4,0%), Slovacchia (-4,1%), Lituania (-7,5%), Malta (-21,5%) e Ungheria (-31,6%). In tutti gli altri casi la bolletta elettrica delle famiglie è cresciuta con aumenti anche consistenti: +45,1% in Lettonia, +44,2% in Belgio, +40,1% in Estonia e +39,7% in Portogallo. Tra le grandi economie cresce l’onere per le famiglie anche in Regno Unito (+38,0%), in Spagna (+35,8%), in Francia (+34,7%), in Germania (+24,4%) e, come detto, Italia (+8,8%).

Nel nostro Paese, quindi, il costo per l’energia elettrica domestica (tasse incluse) è passato da 0,1943 euro per kWh nel 2010 a 0,2114 euro per kWh nel 2018. Stimando nel 2018 un consumo medio annuo per famiglia di 3.000 kWh si ottiene un costo a carico di ogni famiglia per la sola bolletta elettrica di 634 euro su base annua. A livello europeo solo in Danimarca, Germania, Belgio, Irlanda, Spagna e Portogallo l’energia costa di più che nel nostro Paese. Se la stessa famiglia, infatti, si trovasse a vivere in Francia risparmierebbe 102 euro su base annua, 122 se vivesse nei Paesi Bassi, 146 euro se vivesse in Slovenia, 239 euro se vivesse in Croazia. In Germania, invece, il conto sarebbe più elevato: +264 euro.

Si tratta di costi comprensivi di tasse e accise che nel nostro Paese rappresentano il 36,1% del prezzo finale. L’incidenza delle imposte è più elevata che da noi soltanto in Danimarca (66%), Portogallo (55,2%), Germania (54%), Slovacchia (40,9%) e Austria (37,2%). Il fisco pesa meno nella bolletta delle famiglie in altre economie continentali: Francia (35,1%), Regno Unito (29,7%) e Spagna (21,4%).

A meno di ulteriori rinvii, dal 1° luglio dell’anno prossimo sono previsti il passaggio obbligatorio al mercato libero e la fine del regime della maggior tutela per quanti avranno mantenuto il proprio storico fornitore di energia. «Si tratta in realtà di una spada di Damocle» osserva l’imprenditore Massimo Blasoni, presidente del Centro studi ImpresaLavoro. «Coloro che entro quella data non avranno provveduto autonomamente al passaggio a un fornitore sul libero mercato potrebbero infatti confluire nel cosiddetto “servizio di salvaguardia” che già oggi prevede costi maggiori di quelli praticati in regime di maggior tutela».

 

Stranieri in Italia: 66,4 miliardi di euro di rimesse dal 2008 al 2018. Bangladesh, Romania e Filippine i principali Paesi di destinazione.

Stranieri in Italia: 66,4 miliardi di euro di rimesse dal 2008 al 2018. Bangladesh, Romania e Filippine i principali Paesi di destinazione.

Dal 2008 al 2018 (ultimo dato disponibile) le rimesse dei lavoratori stranieri in Italia ai loro Paesi di origine hanno raggiunto la cifra considerevole di 66,410 miliardi di euro. Lo rivela un’analisi del Centro Studi ImpresaLavoro su elaborazione dei recenti dati Banca d’Italia.

Dalla ripartizione per anno emerge che le rimesse sono cresciute nel periodo 2008-2011 passando da 6.376,9 al pacco massimo di 7.394,4 milioni di euro per poi contrarsi fino a toccare i valori minimi di 5.073,6 milioni di euro nel 2016 e di 5.081,1 milioni di euro nel 2017. Nell’ultimo anno però si è verificata una consistente ripresa delle somme inviate da questi lavoratori alle loro famiglie di origine: si è arrivati infatti a 6.201 milioni di euro (+22% sull’anno precedente). Stime prudenziali contenute in alcuni paper pubblicati dalla Banca d’Italia sembrano suggerire che a queste cifre che transitano via intermediari ufficiali (money transfer, banche, poste) vadano aggiunti circa 700 milioni l’anno di rimesse che sarebbero inviate all’estero tramite canali “informali”.

Limitatamente a quest’ultimo anno, l’analisi del Centro studi presieduto dall’imprenditore Massimo Blasoni osserva inoltre come i lavoratori stranieri che hanno trasferito in patria il maggior quantitativo di denaro siano stati quelli residenti in Lombardia (1 miliardo e 460,1 milioni, pari al 23,5% del totale), nel Lazio (953,1 milioni, 15,4% del totale), in Emilia Romagna (571,7 milioni, 9,2% del totale), in Veneto (530,4 milioni, 8,6% del totale), in Toscana (515,8 milioni, 8,3% del totale) e in Campania (418 milioni, 6,7% del totale).

Quanto alle diverse nazionalità, nella classifica stilata da ImpresaLavoro risulta che nel 2018 i lavoratori stranieri in Italia che hanno trasferito in patria il maggior quantitativo di denaro sono i bengalesi (730,7 milioni), i romeni (718,2 milioni), i filippini (451,1 milioni), i pakistani (408,7 milioni) e senegalesi (389,4 milioni). A seguire si collocano quelli provenienti dall’India (342,7 milioni), dal Marocco (330,6 milioni), dallo Sri Lanka (308,7 milioni), dal Perù (228,5 milioni), dalla Georgia (207,3 milioni) e dall’Ucraina (172,8 milioni). La Cina, che fino a pochi anni fa era uno dei tre principali Paesi di destinazione, è invece scivolata nel 2018 al 38esimo posto con un valore pari a soli 21,4 milioni di euro.

In Italia nel 2018 solo il 36% dei cittadini ha effettuato acquisti online, contro l’84% della Danimarca e l’83% del Regno Unito.

In Italia nel 2018 solo il 36% dei cittadini ha effettuato acquisti online, contro l’84% della Danimarca e l’83% del Regno Unito.

Negli ultimi 12 mesi solo il 36% dei cittadini italiani ha effettuato online l’acquisto di almeno un bene o servizio. Il nostro Paese si colloca così al quint’ultimo posto di questa particolare classifica europea, al pari della Grecia e appena sopra la Croazia (35%), Cipro (32%), la Bulgaria (21%) e la Romania (20%). Ai vertici della graduatoria 2018 si collocano invece i consumatori di Danimarca (84%), Regno Unito (83%), Paesi Bassi (80%), Svezia (78%) e Germania (77%). Lo rivela una ricerca del Centro studi ImpresaLavoro, realizzata su elaborazione di dati Eurostat.

In Italia i consumatori più attivi online risultano essere i giovanissimi tra i 16 e i 24 anni (il 51% ha acquistato beni o servizi online nell’ultimo anno) e quelli di età compresa tra i 25 e i 34 anni (52%). Col progredire dell’età aumentano invece in proporzione la diffidenza e il digital divide, tanto che a comprare online sono soltanto il 22% dei cittadini di età tra i 55 e i 64 anni, il 10% dei cittadini di età tra i 65 e i 74 anni e solamente il 2% degli over75.

Analizzando le scelte di questi consumatori negli ultimi 3 mesi, si osserva poi come resti bassissima la frequenza degli acquisti (quasi sempre uno o due acquisti a testa, solo l’8% ne ha effettuati da 3 a 5) e comunque per importi che non superano quasi mai la soglia dei 500 euro.

Nell’ultimo anno i beni più acquistati online dagli italiani sono stati vestiti e articoli sportivi (16%), articoli casalinghi (13%), viaggi e alloggi per vacanze (10%), libri e abbonamenti a riviste (9%), attrezzatura elettronica (8%), biglietti per eventi (7%), software per il pc (4%), film e musica (4%), servizi di telecomunicazione (banda larga, abbonamenti a canali televisivi, ricarica di carte telefoniche prepagate…) (4%), cibo e generi alimentari (4%). Curiosamente, solo il 2% ha deciso di affidarsi alla Rete per l’acquisto di hardware per computer.

«Questi dati fotografano un ritardo evidente dell’Italia nell’e-commerce, conseguenza anche del ritardo delle nostre infrastrutture informatiche» osserva l’imprenditore Massimo Blasoni, presidente del Centro studi ImpresaLavoro. «Secondo l’indice DESI della Commissione Europea –che misura lo stato di avanzamento dei Paesi membri dell’UE nell’ambito della digitalizzazione dell’economia, del sistema pubblico e della società- l’Italia è 25esima su 28 Paesi. La banda larga non è ancora capillarmente diffusa ma a pesare sul basso punteggio italiano sono soprattutto le scarse competenze digitali. Infine, i limiti e la sostanziale inefficienza della nostra rete infrastrutturale si aggiungono come fattore di freno, per le nostre aziende, per quanto riguarda gli scambi commerciali con il resto del mondo».

Reddito disponibile reale degli italiani: -8,7% dall’inizio della crisi, peggio di noi solo Cipro e Grecia.

Reddito disponibile reale degli italiani: -8,7% dall’inizio della crisi, peggio di noi solo Cipro e Grecia.

Gli italiani dal 2008 al 2017 hanno perso l’8,7% del proprio reddito disponibile reale (o potere d’acquisto), fanno peggio dell’Italia solamente Cipro (-15,4%) e la Grecia (-30,8%). Questo il principale risultato emerso da una ricerca del Centro studi ImpresaLavoro su dati Eurostat.

Il potere d’acquisto, così come definito da Eurostat, rappresenta la quantità di beni e servizi che una persona può acquistare con un determinato reddito in un dato momento, neutralizzando gli effetti dell’inflazione. Solamente in altri sei Paesi dell’Unione Europea su 28 i redditi reali sono tuttora inferiori a quelli del 2008. Si tratta di Portogallo (-0,8%), Irlanda (-1,1%), Belgio (-2,1%), Austria (-3,9%), Croazia (-4,4%) e Spagna (-5,8%). In tutti gli altri Stati europei, invece, sono stati recuperati e addirittura oltrepassati i livelli pre-crisi. Il potere d’acquisto in Regno Unito e Francia, ad esempio, è salito nello stesso periodo di tempo rispettivamente del 2,7% e del 3,4% e in Germania dell’8,5%. Nei Paesi dell’Est Europa, come Bulgaria e Romania, la crescita è stata ancor più significativa e ha superato il 28%. Non si può inoltre trascurare la velocità di questo recupero: i redditi reali degli inglesi e dei francesi sono tornati ai livelli precedenti la crisi nel 2014, mentre quelli dei tedeschi già nel lontano 2010.

In valori assoluti, secondo i dati Istat, le famiglie italiane dall’inizio della crisi ad oggi hanno perso nel complesso 70 miliardi di euro del proprio reddito disponibile. Conseguentemente si sono ridotti consumi e risparmi. I consumi totali sono ancora di 15 miliardi inferiori a quelli del 2008 e la propensione al risparmio – ossia il rapporto tra il risparmio delle famiglie e il loro reddito disponibile- si è ridotta di un terzo nel periodo, passando dall’11,6% al 7,7%.

«Le cause di una performance così negativa da parte dell’Italia sono molteplici. La carenza di investimenti pubblici e l’oppressione fiscale e legislativa deprimono gli sforzi delle aziende e frenano un vero rilancio della nostra economia» commenta l’imprenditore Massimo Blasoni, presidente del Centro Studi ImpresaLavoro. «A farne le spese non sono soltanto quanti, soprattutto giovani, non riescono a entrare nel mondo del lavoro ma pure gli stessi occupati, molto spesso precari. Trovare il nostro Paese agli ultimi posti anche di questa classifica preoccupa, soprattutto perché fotografa l’avvenuto impoverimento degli italiani e spiega la difficile ripresa dei nostri consumi interni. Con questo ritmo di crescita medio, gli italiani recupereranno il potere d’acquisto che avevano prima della crisi economica solamente nel lontano 2026».

Negli ultimi dieci anni gli occupati stranieri (+764mila) hanno “sostituito” quelli italiani (-640mila)

Negli ultimi dieci anni gli occupati stranieri (+764mila) hanno “sostituito” quelli italiani (-640mila)

Negli ultimi dieci anni gli occupati stranieri hanno “sostituito” quelli italiani. È questo il principale risultato di una ricerca realizzata dal Centro Studi ImpresaLavoro su dati Istat ed Eurostat.

In Italia l’occupazione è in ripresa (+124.601 occupati rispetto al 2008). Suddividendo gli occupati totali per cittadinanza, quindi tra italiani e stranieri (UE ed extra UE), emerge però un effetto “sostituzione”: gli occupati stranieri dal 2008 al 2018 sono infatti aumentati da 1.690.090 a 2.455.003 (+764.913 unità, +45,3%) a fronte della riduzione degli occupati italiani da 21.400.258 a 20.759.946 (-640.312 unità, -3,0%). L’occupazione straniera negli anni della crisi ha quindi “sostituito” quella italiana, consentendo al numero totale di occupati di crescere nuovamente al di sopra dei livelli del 2008. Un ulteriore apporto di cittadini stranieri potrebbe quindi anche rendere più complessa la situazione occupazionale dei cittadini nazionali.

Considerando tra tutti i cittadini stranieri solamente quelli extra UE emerge una questione altrettanto significativa: l’Italia è tra i pochissimi Paesi europei in cui i cittadini stranieri sono occupati più e meglio dei cittadini nazionali. Secondo i più recenti dati Eurostat (anno 2017), il tasso di occupazione dei cittadini italiani tra i 15 e i 64 anni residenti nel nostro Paese è del 57,7%, un dato che si avvicina molto a quello della Croazia (59%) e che risulta nettamente inferiore alla media dell’Unione a 28 membri (68,1%). In tutta Europa soltanto la Grecia (53,6%) ha un mercato del lavoro meno efficiente del nostro. In questa particolare classifica siamo quindi nettamente superati da tutti i nostri principali competitor: Germania (77,3%), Paesi Bassi (76,7%), Regno Unito (74,4%), Portogallo (67,8%), Irlanda (67,1%), Francia (65,8%) e Spagna (61,4%).

Guardando invece solamente alla percentuale di occupati tra i lavoratori extra-Ue residenti in Italia, la posizione in classifica del nostro Paese vola verso l’alto, dal penultimo al quattordicesimo posto: il nostro 59,1% risulta infatti largamente superiore alla media dell’Unione a 28 membri (54,6%).

Si tratta di un dato in netta controtendenza rispetto a quanto avviene abitualmente negli altri Paesi e soprattutto nelle altre economie avanzate del continente. Oltre all’Italia, solo altri tre Paesi europei hanno tassi di occupazione più bassi tra i propri connazionali rispetto a quelli fatti registrare tra i lavoratori extracomunitari: si tratta della Repubblica Ceca (-0,8 punti percentuali), della Slovacchia (-0,9) e di Malta (-2,7). Un dato che stride con la media dell’Unione a 28 membri (+13,5 punti percentuali). In tutto il resto d’Europa la differenza, espressa sempre in punti percentuali, risulta infatti a favore dei cittadini dei Paesi presi in esame: Spagna (+5,7), Irlanda (+6,5), Regno Unito (+13,3), Francia (+20,6), Germania (+25,0) e Paesi Bassi (+26,7).

«Ciò che veramente stupisce è che il recupero del livello occupazionale precedente la crisi sia imputabile solamente ai lavoratori stranieri, mentre gli occupati italiani sono ancora inferiori al livello di dieci anni fa» commenta l’imprenditore Massimo Blasoni, presidente del Centro Studi ImpresaLavoro. «Ed è anche sorprendente riscontrare che il tasso di occupazione dei residenti extra Ue sia superiore a quello dei nostri connazionali. Queste anomalie, almeno in parte, dipendono dalla disponibilità di questi lavoratori ad accettare occupazioni che ormai gli italiani si rifiutano di prendere in considerazione. Ma questo non spiega tutto. Il nostro mercato del lavoro sconta un disallineamento strutturale tra offerta formativa e fabbisogni occupazionali delle aziende. E i nostri giovani sono costretti a percorsi di studio che li portano ad entrare tardi e male nel mercato del lavoro, rimanendo inoccupati per lunghi periodi di tempo».