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Quasi 21.500 euro a famiglia, ecco gli affari d’oro sulle case

Quasi 21.500 euro a famiglia, ecco gli affari d’oro sulle case

Carlantonio Solimene – Il Tempo

Quasi 21.500 euro l’anno. Per la precisione 21.439,66. Tanto spende il Comune di Roma per ognuna delle 1.931 famiglie vittime dell’emergenza abitativa nella Capitale e ospitate nei C.A.A.T.: Centri di Assistenza Abitativa Temporanea. Praticamente, le suddette famiglie potrebbero permettersi un affitto da quasi 1.800 euro al mese. Un superattico a Prati, per dire.

La realtà è molto diversa. Perché gran parte di quei soldi resta «impigliata» nel sistema delle cooperative che gestiscono i residence. Solo a Roma si parla di 31 coop. Le più importanti? La Eriches 29 – tra le tante che erano riconducibili a Salvatore Buzzi – che intasca circa 5,2 milioni di euro; la San Vitaliano Srl, che sfiora i 4 milioni; la New Esquilino Spa, che ne riceve quasi 3,8. Sono i dati forniti dal prefetto di Roma, Giuseppe Pecoraro, nell’audizione in commissioni riunite, Affari Costituzionali e Bilancio alla Camera, sul decreto Milleproroghe. Il caso è noto. Nel dl licenziato settimane fa, non era stata prevista la proroga della sospensione degli sfratti. Una decisione, quella del governo, che aveva provocato le proteste di associazioni ed enti locali, convinti che si sarebbe andati incontro a una vera e propria emergenza sociale. Aspetto non trascurabile: il Piano casa promosso dal ministro Maurizio Lupi, nonostante sia ufficialmente entrato in vigore nel maggio 2014, è in realtà ancora monco. In particolare, i soldi che dovrebbero costituire il fondo per arginare le emergenze non sono ancora nella piena disponibilità degli enti locali.

E così la discussione in Parlamento sul Milleproroghe si è trasformata in uno scontro tra chi chiedeva di sospendere l’esecuzione degli sfratti, e chi invece difendeva le ragioni dei proprietari. Anche perché, sottolineavano questi ultimi, è difficile distinguere tra chi si trova realmente in difficoltà e i cosiddetti «furbetti». Tra i «morosi incolpevoli» – coloro che hanno sempre pagato e ora sono in difficoltà a causa di perdita di lavoro o grave malattia – e quelli che, invece, approfittano illegittimamente della «generosità» dello Stato. Per vederci chiaro, le Commissioni riunite Affari Costituzionali e Bilancio della Camera hanno convocato Pecoraro. Una scelta determinata dalla situazione particolare della Capitale, la città che più di tutte in Italia soffre dell’emergenza abitativa. Ma anche dal fatto che molti dei parlamentari che invocavano una proroga degli sfratti erano di Roma. Gli echi di Mafia Capitale e dei torbidi legami tra politica e cooperative rosse hanno fatto il resto.

Il dossier fornito ai deputati da Pecoraro è esplosivo. Si ribadisce un quadro dai contorni drammatici – nella Provincia di Roma viene sfrattata una famiglia ogni 246 nuclei residenti, in Italia la media è di una ogni 353 – ma al tempo stesso si evidenzia come la spesa sostenuta dal Comune per tamponare l’emergenza sia totalmente sproporzionata rispetto alle reali necessità. Il passaggio «incriminato» è nell’ultima delle cinque pagine dell’«Appunto sull’emergenza abitativa a Roma e Provincia». Si legge: «I C.A.A.T. (Centri di Assistenza Abitativa Temporanea) a oggi in essere sul territorio di Roma sono 31: questi ospitano complessivamente ben 1.931 nuclei familiari per una spesa annua sostenuta nel 2014 pari a circa 41,5 milioni di euro». Dividendo la somma per il numero delle famiglie aiutate, si arriva per l’appunto ai 21.500 euro annui citati. Se il Comune di Roma versasse questi soldi direttamente ai nuclei, ne basterebbe la metà. Ma, in realtà, gran parte di quella cifra resta impigliata nel sistema delle cooperative, ognuna con le sue strutture, ognuna con i suoi tanti dipendenti da pagare. E così alle famiglie non restano che le briciole, non resta che vivere in sovrannumero in abitazioni minuscole sotto gli standard minimi di decenza.

La conseguenza principale di questa situazione è il fenomeno delle occupazioni abusive. «Ad oggi – si legge ancora nel documento presentato dalla Prefettura – nella sola Capitale sono state segnalate alla Questura 109 occupazioni abusive di immobili (…). Nello specifico, n. 2 immobili sono stati occupati nel 2014, n.23 nel 2013, n. 9 nel 2012, n.5 nel 2011 e circa 70 negli anni precedenti». E se nel 2014 il fenomeno ha subìto un rallentamento, è solo grazie all’«efficace lavoro realizzato dalla Prefettura e dalla Questura per attuare tempestivi interventi finalizzati alla rapida risoluzione di tentativi di operare nuove occupazioni». C’è spazio, ovviamente, anche per le rivendicazioni dei proprietari, «che hanno lamentato gravi danni derivanti dal perdurare di occupazioni abusive di immobili di loro proprietà» e di alcune imprese che «a causa di tali occupazioni spesso di durata pluriennale, sono impossibilitate a trarre reddito sull’immobile di loro proprietà per il quale però sono obbligate a corrispondere le relative imposte». Tra condizioni abitative disperanti e legittime rivendicazioni dei proprietari, a ridere sono solo i C.A.A.T., che nell’emergenza hanno trovato lavoro e soldi. Tanti soldi.

Fisco meno caro ma non per tutti

Fisco meno caro ma non per tutti

Alessandro Barbera – La Stampa

L’anno volge al termine e per l’italiano è giunta l’ora di porsi la ferale domanda: nel 2015 pagherò più tasse? Negli ultimi cinque anni la risposta è stata sempre la stessa. Quest’anno le cose andranno diversamente. Non per tutti però. Partiamo dal dato più importante, la cosiddetta pressione fiscale. Il documento di economia e finanza dice che nel 2015 sarà lievemente più alta: il 43,4, appena un decimale in più di quest’anno. Le apparenze non traggano in inganno: l’aumento è dovuto al fatto che le regole contabili europee non contabilizzano il bonus Irpef da ottanta euro come una riduzione fiscale. Nonostante il tentativo di superarlo, il governo si è trovato costretto a confermare un meccanismo perverso che tramuta quei dieci miliardi di minori tasse in maggiori spese. Nella pressione fiscale sono invece calcolati il taglio dell’Irap alle imprese, la decontribuzione per i nuovi assunti, l’aumento delle tasse sui fondi pensione che va ad aggiungersi a quello già previsto quest’anno per depositi bancari e titoli. Il governo Renzi ha scelto di aumentare le tasse sulle rendite (erano mediamente più basse che nel resto dell’Ue) per abbassare quelle sul lavoro. Gli ultimi dati disponibili (Istat 2012) dicono che se un dipendente italiano costava mediamente all’imprenditore 41 mila euro, al lavoratore andavano meno di trentamila: peggio di noi in Europa facevano solo Danimarca, Germania e Francia. In ogni caso nel 2015 la somma di dare e avere sarà positiva: nel complesso le tasse scenderanno. Ma «complessivamente» non significa necessariamente per tutti. La manovra di Renzi è «di sinistra» molto più di quanto, a sinistra, non si voglia ammettere.

Casa, niente sorprese
Tasi e Imu non riserveranno sorprese grazie al tetto che bloccherà il tetto massimo per le tasse sulle casa. Con un però: i Comuni potranno aumentare l’aliquota Tasi fino allo 0,8 per cento se suddivisa fra prima casa e altri immobili. Chi ha molti investimenti nel mattone ha buone probabilità di pagare di più. In alcune Regioni le brutte sorprese per i più ricchi arriveranno in ogni caso dalle addizionali Irpef. Attenzione alle cronache locali, non c’è momento migliore del Natale per far passare lievemente le cattive notizie. Il Lazio di Nicola Zingaretti ha già messo a bilancio un aumento dell’addizionale dall’1,73 al 2,33 per cento ai redditi sopra i 28mila euro. Per inciso, l’esenzione dagli aumenti ancora non c’è: la maggioranza ha promesso una legge entro aprile. Per i più ricchi in Piemonte si prepara un salasso: aliquota invariata fino a 28mila euro (oggi è del 2,13 per cento), dello 0,44 per cento fino a 55mila, dell’un per cento al di sopra, al quale va poi aggiunto l’aumento del bollo auto. L’addizionale salirà anche in Liguria, con una fascia di esenzione uguale a quella promessa dal Lazio: 28 mila euro annui. In ossequio al federalismo fiscale che c’è, i toscani non avranno di che lamentarsi: invece di aumentare le aliquote il presidente Rossi ha preferito il taglio delle partecipate.

Chi ottiene di più
A questo punto si può tracciare l’identikit di chi con certezza l’anno prossimo pagherà meno tasse: è un lavoratore dipendente, ha uno stipendio di circa 1400 euro al mese e ha al massimo una casa di proprietà. Sopra quella soglia tutto dipenderà da cosa possiede, quante persone ha a carico e soprattutto da dove vive: se possiede più di una casa, ha risparmi, non ha figli a carico e vive nel Lazio o in Piemonte ha ottime probabilità di pagarne di più. Lo scenario si farebbe ancora più cupo se nel frattempo il governo non riuscisse a tagliare la spesa nei numeri promessi. In quel caso – il primo gennaio 2016 – scatterebbero le clausole di salvaguardia previste dalla legge di Stabilità: l’aliquota media Iva salirebbe dal 10 al 12 per cento, quella più alta dal 22 al 24, più un ritocco sulla benzina. La regola aurea del nuovo fisco nei Paesi occidentali è «dalla persona alla cosa». La speranza è di schivarle entrambe.

La Local Tax è rimasta un annuncio, così nel 2015 la Tasi raddoppierà

La Local Tax è rimasta un annuncio, così nel 2015 la Tasi raddoppierà

Sandro Iacometti – Libero

La stangata sulla casa è assicurata anche per il 2015. Mentre l’Europa continua a prenderci a sberle ogni giorno (ieri è stato il turno di Draghi e di Juncker, che ha rincarato la dose), inchiodandoci alla prospettiva di una manovra bis, il governo sembra aver deciso che il prossimo anno non solo resterà la Tasi, ma sarà pure più salata. La piacevole prospettiva è emersa nel corso di un vertice tecnico di mercoledì pomeriggio nel corso del quale, secondo quanto riportato dal Sole 24 Ore e da alcune fonti parlamentari, gli esperti governativi si sarebbero scontrati con le difficoltà di portare avanti il progetto frettolosamente, e incautamente, annunciato da Matteo Renzi della local tax.

La grande rivoluzione del fisco locale, tutte le tasse riunite in una sola gabella, sembrava da settimane lì lì per arrivare. All’inizio sembrava dovesse addirittura entrare nella legge di stabilità alla Camera. Poi si è detto che sarebbe stata introdotta al Senato. Un paio di giorni fa il viceministro dell’Economia, Enrico Morando, ci ha spiegato che per la local tax il governo avrebbe usato provvedimenti diversi dalla legge di stabilità, ma comunque entro la fine dell’anno. Infine si è ipotizzato un intervento nei primi mesi del 2015. L’ultima versione, di fronte all’inevitabile complessità di un riordino generale dell’imposizione locale, è che non si esclude uno slittamento al 2016.

Ipotesi catastrofica per le tasche degli italiani. Il prossimo anno, infatti, non resterà tutto così com’è. Il simpatico vizio degli ultimi governi di prevedere clausole, cavilli e gradualità delle misure ha infatti spinto lo scorso anno l’allora ministro dell’Economia, Fabrizio Saccomanni, e l’allora premier Enrico Letta ad inserire nella legge sulla Tasi una devastante bomba a tempo. Il tetto massimo dell’aliquota per la prima casa è fissato al 2,5 per mille (poi diventato 3,3 per mille con l’aggiunta della quota da destinare alle detrazioni), ma solo per il 2014. Dal 2015 l’asticella si allinea a quella prevista dalla vecchia Imu, ovvero il 6 per mille. In più, saranno tolte anche le detrazioni. Considerato che pure la legge che ha previsto l’aliquota aggiuntiva, spalmata sulla prima e sugli altri immobili, vale solo per il 2014.

La Cgia di Mestre si è fatta due conti. I Comuni che hanno applicato quest’anno l’aliquota massima del 3,3 per mille hanno incassato mediamente 347 euro per un’abitazione di tipo civile A2. Con il 6 per mille il conto sale a 631 euro, praticamente quasi il doppio. La stessa cosa si verificherà per un’abitazione di tipo economico A3: dai 233 euro di quest’anno si arriva a 424 euro nel 2015. Molto peggio andrà per chi ha pagato con aliquote inferiori al 3,3 per mille. Alla luce del fatto che la media applicata quest’anno è stata del 2,3 per mille, l’eventuale incremento al 6 per mille farebbe schizzare il gettito riferito ad un’abitazione A2 da 242 euro pagati a 631 euro (variazione +160%). Per un A3, invece, si passerebbe da 134 a 424 euro (variazione +2l6,4%).

Per mitigare la batosta il governo sta valutando l’ipotesi di prorogare le detrazioni. Il problema è che nel 2014 sono stati stanziati allo scopo 625 milioni che oggi non ci sono. I Comuni ieri sono stati chiari: «Il governo deve garantirci nel 2015 le stesse risorse». Se non lo farà, gli aumenti sono sicuri. Nell’attesa, martedì si paga di nuovo: Tasi, Imu e qualsiasi altra cosa vi venga in mente.

Local tax, il rischio di pagare gli errori del passato

Local tax, il rischio di pagare gli errori del passato

Gianni Trovati – Il Sole 24 Ore

Dopo tre anni in cui il Fisco sul mattone ha visto crescere a passo di carica il caos delle regole e soprattutto il conto a carico dei cittadini, ogni novità su parametri e aliquote tocca un nervo scoperto. In questo quadro, i nuovi indicatori della «tassa locale» non passeranno certo inosservati, soprattutto nel capitolo dedicato a seconde case e altri immobili, per i quali l’aliquota massima sale fino al 12 per mille invece dell’11,4 attuale. Uno scarto piccolo, rivolto però a proprietari che oggi pagano dal 100 al 200% in più di quello che versavano tre anni fa, mentre il loro immobile perde valore schiacciato dalla crisi e dalle tasse.

Il fatto è che nel Fisco gli errori si pagano, e nel travaglio eterno della Tasi di errori ne sono stati fatti parecchi. Dopo un continuo lavorio sulle norme per mettere una pezza a questo o quel difetto del nuovo tributo, il debutto effettivo della Tasi è stato accompagnato da un fondo statale di 625 milioni. L’aiuto è stato pensato per permettere a molti Comuni di far quadrare i conti e di riservare anche qualche detrazione sulle abitazioni principali, nel tentativo di attenuare il drastico effetto regressivo (aumenti per le case più “povere”, sconti per quelle più ricche) del nuovo sistema. Questo assegno statale, però, ha solo rimandato il problema di un anno, perché ora altri 625 milioni non ci sono (o il Governo non è disposto a metterli) e la leva fiscale potenziale dei Comuni sale.

Non solo: la nuova spending review resta un boccone amaro per i sindaci, e una quota (minoritaria) viene compensata con una maggiore libertà di aliquote. Il caos dellaTasi, poi, si pagherà anche in termini di polemiche sull’abitazione principale: il tributo sui servizi indivisibili ha colpito le case di valore più basso, il nuovo meccanismo, grazie alla detrazione fissa, redistribuisce il carico verso l’alto, ma in questa altalena continua c’è chi perde e chi guadagna e il dibattito è servito.

Come se ne esce? Il Governo punta su «autonomia» e «semplificazione», per costruire una tassa locale che sia comprensibile da chi la paga (certe delibere Tasi con decine di parametri bizantini fanno più male dei modelli di versamento in fatto di consenso da parte dei cittadini) e sia davvero tutta comunale, cancellando il paradosso dell’imposta «municipale» nel nome ma statale a metà nei fatti. È una strada corretta, come saggia è stata la rinuncia all’idea iniziale di accorpare nella tassa locale anche i tributi minori, con una mossa che avrebbe fatto pagare a tutti una quota del miliardo versato ogni anno sui cartelloni pubblicitari o l’occupazione di suolo pubblico. Gli scogli da superare, però, restano parecchi e per non finire incagliati serve che la semplificazione sia vera e l’autonomia effettiva. E serve, va aggiunto, che questa riforma sia l’ultima: perché imporre ai contribuenti un corso accelerato tre volte all’anno per pagare le tasse sulla casa non è un’abitudine civile.

Il vizio di torturare gli italiani sulla casa

Il vizio di torturare gli italiani sulla casa

Francesco Forte – Il Giornale

Il Catasto patrimoniale degli immobili, che il governo vara mediante un’apposita Commissione, non è, come si vuole far credere, un puro strumento tecnico di aggiornamento dei valori catastali, ma un nuovo strumento di tortura del contribuente. C’è, in questa idea del Catasto, un messaggio ideologico politico pericoloso: la tassazione dei patrimoni, anche indipendentemente dal reddito che se ne trae in denaro o con l’uso. Non c’è, sino ad ora, la tassazione dei patrimoni azionari o di quadri e gioielli, o di titoli a reddito fisso e depositi bancari, ma il principio generale è decollato partendo dagli immobili.

Si dà per ovvio che il Catasto edilizio debba essere sul valore patrimoniale di mercato. Ma non lo è. Infatti, il Catasto agricolo rimane basato sul reddito medio ordinario dei terreni. L’imposta principale sui fabbricati è attualmente l’Imu, a cui verrà unificata la Tasi. Poiché l’Imu è commisurata al valore patrimoniale degli immobili si dice che è ovvio che il Catasto accerti il loro valore di mercato. Ma ciò è errato. Infatti, in Italia c’è il principio che la tassazione deve basarsi sulla capacità contributiva, la Repubblica tutela il risparmio in tutte le sue forme e l’iniziativa privata è libera, salvo per i vincoli dell’utilità sociale. Da ciò viene che le imposte, che riguardano i patrimoni, li devono tassare in base al loro reddito: se non si tiene conto del diverso rendimento, ciò può dare luogo a tassazioni che intaccano il risparmio e il capitale. Dunque, il Catasto patrimoniale è contrario alla giustizia tributaria e alle regole fiscali dell’economia di mercato.

E c’è di peggio. Infatti, il nuovo Catasto non si baserà più sui vani, ma sulla superficie. Ciò darà luogo a distorsioni dannose per il nostro patrimonio immobiliare storico-artistico. E questo in quanto ci sono molte abitazioni, uffici e botteghe con spazi per corridoi e ingressi che nelle ultime costruzioni non si usano più. Non è facile modificare le case di una volta, sia per i costi che ciò comporta sia perché ciò contrasta con la loro tutela. Si afferma che l’aggiornamento del Catasto si farà con invarianza di pressione fiscale: qualche unità immobiliare pagherebbe di più, altre di meno, perché ciò è scritto nella Legge delega. Ma la norma sulla invarianza di gettito si può togliere, con un semplice decreto, dopo fatta la revisione. Anche con Matteo Renzi, il governo a guida Pd ha, come vessillo, la tassazione patrimoniale diffusa.

C’è un terzo pericolo: la Commissione che dirigerà le nuove valutazioni lo farà secondo una formula che non viene resa nota.Ciò non è accettabile.La collettività e il contribuente hanno diritto di conoscere la formula con cui viene accertata la capacità contributiva, onde sapere se è rispettata. Il sistema fiscale in democrazia deve essere certo trasparente, non imprevedibile e incomprensibile.

Patrimoniali nascoste sulla casa

Patrimoniali nascoste sulla casa

Massimo Fracaro e Nicola Saldutti – Corriere della Sera

A pensarci bene, è un bersaglio molto facile da centrare. Non può muoversi, non può cambiare Paese, non può rifugiarsi in un paradiso fiscale. Stiamo parlando della casa. Forse è per questo che il Fisco negli ultimi anni l’ha presa di mira. Quasi tutti gli esecutivi che si sono succeduti hanno puntato sugli immobili per aumentare il gettito statale e locale. Così è avvenuto con il passaggio dall’Ici all’Imu. Poi, una mini tregua, con l’esonero per le abitazioni principali. Ma il risparmio è stato in parte (se non completamente) compensato dall’arrivo della Tasi, la tassa sui servizi. Il tutto in un continuo cambiamento di norme, regole e scadenze che hanno disorientato i contributi. E l’incertezza sulle tasse da pagare è il nemico peggiore per un Paese che deve ritrovare soprattutto fiducia.

Speriamo che questo copione non si ripeta con l’operazione avviata in questi giorni. Vale a dire la nomina delle commissioni censuarie, primo passo perla Grande riforma (incompiuta) del sistema tributario: quella del Catasto. Il valore delle case non verrà più determinato in base alle rendite, ma con un mix tra superficie e valori di mercato. E, nell’epoca dei Big Data, anche il Fisco si convertirà agli algoritmi perché userà proprio un algoritmo per elaborare valutazioni corrette. Speriamo sia una formula efficiente come quella che ha fatto la fortuna di Google e Facebook. Rivedere il valore degli immobili è una decisione giusta, perché le attuali valutazioni non corrispondono alla realtà e, soprattutto, sono sperequate. I centri cittadini sono pieni di immobili di pregio che, per i ritardi del Catasto, continuano a pagare le tasse come beni di poco pregio. Mentre i bilocali nuovi nelle periferie hanno valutazioni vicine a quelle di mercato. E tasse altrettanto elevate.

La riforma del Catasto deve essere improntata all’equità e non diventare l’ennesima occasione per battere cassa. Secondo alcune stime i rincari, senza correttivi, arriverebbero anche al 200%. È vero che viene prevista una clausola di salvaguardia, ma solo a livello comunale. Spesso quando si decide di tassare le ricchezze, invece di colpire evasori e grandi patrimoni immobiliari si è finito per pesare soprattutto su chi possiede una sola abitazione, quella in cui vive, e sulla quale magari paga anche il mutuo. Sugli immobili gravano già oggi due/tre patrimoniali mascherate. Non aggiungiamoci anche quella del nuovo Catasto. Ricordiamo che le case a chi ci abita non danno reddito. Mentre il Fisco il reddito dalle case lo pretende. Eccome. Ogni anno. E in denaro contante.

Gettito casa

Gettito casa

Davide Giacalone – Libero

Ci sono le premesse per una nuova tregenda fiscale sulla casa. Solo che i demoni tributari non si danno convegno di notte, come quando ancora si celavano, ma sfilano in pieno giorno, esibendosi e pretendendo di passare per giulive innovazioni. Nella riforma del catasto trovo un concetto, quello dell’“invarianza di gettito”, che tradisce presenze stregonesche.

Il catasto è vecchio e va riformato. Giusto. I valori catastali vanno aggiornati e portati verso quelli di mercato. Bene. Il governo, con un decreto legislativo, ha varato la riforma, subito rilanciata dai giornali. No, questo è esagerato: ha riattivato le commissioni censuarie, che ci vorrà molto tempo perché si compongano e inizino a lavorare (uno o due anni), e ancor di più perché finiscano di censire e valutare (cinque anni). Il tempo per correggere gli errori c’è, dunque. Il rischio è che aumentando le rendite catastali si possano raddoppiare e triplicare le tasse sulla casa facendo finta di lasciarle invariate. Perché cresce la base imponibile. L’antidoto a questa macumba dovrebbe essere l’invarianza di gettito, prevista nella legge. Ma non mi convince. Per due ragioni.

La prima è che se i valori fiscalizzati tendono a seguire quelli di mercato non si vede perché si debba stabilire l’invarianza, laddove, invece, il gettito fiscale dovrebbe diminuire al decrescere del valore di mercato di un immobile. Se non varia il gettito non si capisce perché far variare il valore. È bene che si voglia evitare il rischio prima ricordato, del raddoppio e della triplicazione, ma allora si deve scrivere che il gettito non deve crescere, non che deve restare fisso.

La seconda ragione per cui non mi convince è che due sono i tratti distintivi della riforma: a. l’imposizione sarà (almeno in parte) stabilita dai Comuni; b. la rivalutazione degli estimi porterà alcuni a pagare di più, ma altri a pagare di meno. Domanda: se le aliquote vengono fissate da 8.000 comuni e se sappiamo in partenza che ciascuno potrà vedere cambiare quel che deve al fisco, come si fa a sapere prima che il gettito sarà invariato? Risposta: non si può, è impossibile. Lo sapremo solo dopo, a tasse esatte. Ma siccome esiste un preciso vincolo di legge, che sarà quasi impossibile non violare, ciò metterà in moto la più rodata macchina nazionale, quella del ricorso: i singoli proprietari di casa potranno attivarsi, in autotutela, contestando le nuove rendite presso gli uffici delle entrate, salvo, ove si sentano dare torto, fare ricorso alle commissioni tributarie, e senza escludere il ricorso al Tar, per gli aspetti di legittimità. Se parte un tale inferno altro che cinque, ci metteremo cinquanta anni, per venirne a capo.

Sarebbe saggio dribblare fin da subito l’accusa di volontaria e consapevole violazione della legge, da parte dello stesso Stato che la emana, stabilendo che potendo sapere solo l’anno successivo se il gettito è cresciuto, l’eccedenza sarà restituita, per quota parte, a tutti quei contribuenti che si sono trovati a pagare più dell’anno precedente. Anzi: autorizzandoli a calcolare la differenza e detrarla dai tributi futuri. Questo sempre che si stia giocano un’onesta partita di riforma del catasto e non una disonesta trappola per spremere più soldi dalle case. Anche perché rappresentano la grande parte del patrimonio degli italiani, il cui valore ci rende esemplari nel rapporto con l’indebitamento aggregato (pubblico più privato). Continuare a farlo scendere, mediante fisco mefistofelico, è da sciocchi, ma assatanati di liquidi altrui.

Rivoluzione catastale: abitazioni rivalutate in futuro anche del 180 per cento

Rivoluzione catastale: abitazioni rivalutate in futuro anche del 180 per cento

Roberto Petrini – La Repubblica

Scatta l’operazione catasto, una vera e propria rivoluzione, attesa da anni, che porterà alla revisione delle rendite catastali di oltre 60 milioni di immobili. Al taglio del traguardo, tra circa cinque anni, i valori catastali potrebbero subire rivalutazioni dal 30 al 180 per cento, ma l’obiettivo è quello di colpire soprattutto chi fino ad oggi ha pagato di meno per case di maggior prestigio. Il decreto legislativo varato ieri definitivamente dal consiglio dei ministri, dopo l’esame del Parlamento, avvia il primo passo. Ripartono le nuove «commissioni censuarie» provinciali: 106 organismi composti da membri dell’Agenzia delle entrate, dell’Anci e dei professionisti (geometri, fiscalisti, ingegneri ecc.) che avranno il compito nei prossimi cinque anni di stimare casa per casa, capannone per capannone, le nuove rendite catastali, misura cruciale per calcolare l’imponibile sul quale si pagano Imu, Tasi e Irpef. Da segnalare che il decreto prevede che non saranno corrisposti gettoni di presenza.

Il decreto varato ieri è tuttavia solo il primo passo, importante perché le Commissioni erano di fatto congelate dal 1989, che crea l’infrastruttura decisionale dell’intera operazione. Il secondo, che si attende prima di marzo del prossimo anno quando scadranno i termini per l’esercizio della delega, fornirà i nuovi meccanismi di calcolo che terranno conto del valore di mercato mandando in pensione i vecchi estimi calcolati in base ad «ingessate» zone censuarie e categorie catastali (le famose A1, A2 ecc). Al posto del sistema archiviato ne arriverà uno nuovo che si articolerà in tre classi principali: abitazioni, attività produttive e immobili ad uso sociale. Il calcolo si baserà sui metri quadrati e non più sui vani, ma terrà conto di una serie di variabili in grado di definire il reale valore dell’immobile avvicinandolo al prezzo di mercato: si valuterà per definire il nuovo «algoritmo» della presenza di scale, dell’anno di costruzione, del piano, dell’esposizione e della localizzazione.

Naturalmente le rendite catastali e gli imponibili fiscali non potranno che lievitare, ma la legge delega assicura l’invarianza di gettito: dunque ci sarà da aspettarsi un intervento selettivo. Al traguardo gli immobili situati nelle zone di prestigio o residenziali, con vecchie rendite catastali che consentono un peso fiscale ancora relativamente basso, pagheranno di più rispetto ad immobili periferici della stessa categoria. «La riforma dovrà sanare gli squilibri che oggi esistono, squilibri per cui due case molto simili, se non uguali, pagano tasse differenti in virtù delle diverse collocazioni catastali. Pur con l’invarianza di gettito appare quindi ovvio che, domani, ci sarà chi pagherà più rispetto ad oggi e chi meno. Ieri pagava molto chi aveva poco e pagava poco chi aveva molto», spiega Mirco Mion, presidente dell’Agefis, l’associazione dei geometri fiscalisti. Secondo un recente studio della voce.info l’applicazione dei nuovi criteri per la determinazione della rendita determina un aumento significativo e generalizzato della base imponibile delle imposte immobiliari, a testimonianza della distanza tra le tariffe d’estimo e i valori di mercato. Nelle grandi città il rapporto tra le due rendite potrebbe variare in un intervallo compreso tra 4 e 7.

I calcoli che vengono fatti dall’Agefis, l’associazione dei geometri e fiscalisti, che raffrontano la media degli attuali valori catastali (cioè l’imponibile sul quale si calcolano le tasse da pagare) di categorie A2 e A3 (l’80 per cento del mercato) con le stime dei nuovi valori «agganciati » al mercato, lasciano presagire un rincaro generalizzato: si andrebbe da una media del 30 per cento ad Aosta, fino al 180 per cento a Bolzano e Salerno, passando per un aumento del 150 per cento a Napoli. Prosegue intanto il cammino della legge di Stabilità alla Camera: nel mirino l’anticipo del Tfr in busta paga che è stato oggetto di una serie di emendamenti di tutti i gruppi parlamentari, dal Pd, a Forza Italia a M5S. Il Pd chiede in particolare la neutralità fiscale che chi opta per l’anticipo rispetto a chi arriva a fine percorso, tutti chiedono di eliminare l’aumento della tassazione per fondi pensione e liquidazione, mentre un emendamento del Pd chiede l’estensione della misura anche agli statali.

Tutte le sberle del PD sul mattone

Tutte le sberle del PD sul mattone

Luciano Capone – Libero

Matteo Renzi ha sconvolto i tradizionali schemi politici e dice cose che sono da sempre nelle corde dell’elettorato di centrodestra sul ruolo dei sindacati, sull’articolo 18, sulla burocrazia, sulle riforme istituzionali. Ma qualche differenza forse esiste ancora, ad esempio sul tema fiscale, dove tendenzialmente la destra preferisce tasse più basse rispetto alla sinistra. La conferma arriva dai risultati di uno studio di due economisti italiani che lavorano a Harvard, uno di fama internazionale, Alberto Alesina, e uno giovane, Matteo Paradisi, che hanno analizzato l’effetto dei cicli elettorali sulla scelta dell’aliquota Imu da parte dei Comuni. Dai dati emerge che i Comuni di centrosinistra tassano di più di quelli di centrodestra, o meglio che è più alta la percentuale di Comuni di centrosinistra che hanno alzato l’aliquota Imu.

Il lavoro di Alesina e Paradisi non si occupa delle differenze tra destra e sinistra, ma di vedere se e quanto i Comuni sono influenzati nella scelta dell’imposizione fiscale dalle scadenze elettorali. Gli economisti sono partiti dall’introduzione dell’Imu nel 2011 per vedere come si sono comportate le amministrazioni locali nell’applicazione della parte variabile dell’aliquota Imu. La scelta di studiare l’Imu, nonostante le difficoltà a spiegare il meccanismo dell’imposta al pubblico internazionale, è giustificata per la parziale autonomia di cui dispongono i Comuni nella scelta dell’aliquota, perché è un’imposta con un gettito rilevante (circa 24 miliardi di euro), che interessa un’ampissima fetta di contribuenti (circa 26 milioni), in un Paese in cui oltre il 60% delle famiglie ha una casa di proprietà. La ricerca mostra l’esistenza di un «ciclo elettorale», ovvero la scelta da parte degli amministratori di abbassare le tasse prima delle elezioni per essere riconfermati e questo effetto è più evidente nei piccoli Comuni e nel Sud Italia. Nei piccoli Comuni perché si trovano a gestire problemi meno complessi e quindi l’Imu assume un’importanza più rilevante nel dibattito politico; per quanto riguarda l’Italia meridionale la spiegazione è di tipo culturale: nel Sud c’è minore «coscienza civica», partecipazione alle decisioni pubbliche e controllo sugli amministratori e quindi l’elettorato è più manipolabile dai politici, che basano le loro scelte sulla base del ciclo elettorale.

Ma i dati più interessanti, anche se occupano solo una parte della ricerca, sono quelli sulle differenze tra centrodestra e centrosinistra: al netto del ciclo elettorale, «la sinistra tende a imporre imposte più alte della destra». ll 35% dei Comuni amministrati dal centrosinistra ha scelto aliquote più alte di quella standard, contro il 27,6% del centrodestra. Mentre i pochi Comuni che hanno scelto di abbassare l’aliquota Imu sulla prima casa sono per l’8,4% di centrodestra e per il 6,5% di centrosinistra. E questo, spiegano gli economisti, «è coerente con le due diverse impostazioni ideologiche sulla tassazione della ricchezza». Un solo dato è in controtendenza: il 3% dei Comuni di sinistra ha deciso di abbassare l’aliquota sulle seconde case contro appena lo 0,2% dei Comuni di destra.