germania

Pil: Italia sotto la media europea per 14 anni consecutivi

Pil: Italia sotto la media europea per 14 anni consecutivi

Per il 14° anno consecutivo, il Pil italiano è cresciuto a un ritmo inferiore rispetto alla media europea. È questo il risultato più significativo di una ricerca elaborata dal centro studi ImpresaLavoro su dati OCSE. Dall’introduzione della moneta unica ad oggi, questa differenza di ritmo di crescita (o di decrescita) è oscillata tra il minimo del 2010 (0,4%) al massimo del 2012 (2,3%), anno nel quale – a fronte del -2,8% fatto registrare dal Prodotto interno lordo nel nostro Paese – la media Ue si è fermata al -0,5%.

PIL1_def

Comparando invece l’andamento del Pil italiano con quello tedesco, è interessante notare come, negli anni immediatamente successivi all’introduzione dell’Euro, l’Italia sia cresciuta a un ritmo più sostenuto della Germania. Dopo una serie di riforme strutturali coraggiose (ed efficaci) messe in campo dal governo di Berlino, però, la tendenza si è bruscamente invertita. E dal 2006 ad oggi l’andamento del Pil tedesco è stato nettamente superiore a quello del nostro Paese, con la sola eccezione del 2009 (Italia -5,5%; Germania -5,6%). Negli ultimi dieci anni, mentre l’Italia ha perso in media 4 punti decimali di Pil all’anno, la Germania ha fatto registrare un più che dignitoso +1,4%.

PIL2_def

Con un ritmo di crescita del Prodotto interno lordo come quello degli ultimi anni, la strada per far tornare l’Italia ai livelli pre-crisi sembra ancora molto lunga e incerta. Fatto 100 il Pil reale delle economie occidentali più avanzate nell’ultimo trimestre del 2007, solo Italia e Spagna sono ancora al di sotto dei livelli precedenti al terremoto finanziario. Francia e Germania sono “emerse” già nel primo trimestre del 2011; nel penultimo trimestre dello stesso anno è arrivato il turno degli Stati Uniti; mentre il Regno Unito ha dovuto aspettare fino al secondo trimestre del 2013. Mancano all’appello, dunque, solo Italia e Spagna. Ma quest’ultima negli ultimi due anni sembra avere decisamente invertito la tendenza negativa, per tornare a crescere a ritmi molto più sostenuti di quelli italiani. Tanto che, nell’ultimo trimestre del 2015, il Pil reale spagnolo ha ormai raggiunto il 95,8% di quello pre-crisi, mentre nel nostro paese siamo ancora fermi al 91,8%, più o meno la stessa percentuale a cui siamo inchiodati dal primo trimestre del 2013 (quando la Spagna era al 91,2%).

Ci aspetta dunque una strada lunga e in salita. Ma quanto lunga? Dipenderà, naturalmente, dal tasso di crescita del nostro Pil nel prossimo futuro. Con una crescita annua dello 0,8%, come quella del 2015, l’Italia dovrà aspettare fino al 2026. Crescendo invece a ritmi compresi tra l’1,3% e l’1,6%, con numeri analoghi a quelli delle previsioni – molto ottimiste – elaborate dal governo italiano, l’economia italiana tornerebbe ai livelli pre-crisi tra il 2021 e il 2022. Ma sulle previsioni dei governi, è cosa nota, bisogna sempre procedere con estrema cautela.

Dal 2008 al 2013 sono emigrati più di mezzo milione di italiani

Dal 2008 al 2013 sono emigrati più di mezzo milione di italiani

ANALISI
Il perdurare della crisi economica costringe un numero crescente di nostri connazionali a trasferirsi stabilmente oltre confine alla ricerca di migliori condizioni di vita e di lavoro. Dal 2008 al 2013 gli emigrati italiani sono stati complessivamente 554.727, di cui 125.735 soltanto nel 2013 con una crescita rispetto al 2008 del 55% su base annua. Il 39% di questi italiani (214.251, di cui 47.048 soltanto nel 2013) sono giovani di età compresa tra i 15 e 34 anni. Anche in questo caso si segnala un trend in rapida crescita: rispetto al 2008 i giovani che hanno scelto di trasferirsi oltre confine sono aumentati del 40%. Lo rivela una ricerca del Centro studi ImpresaLavoro su elaborazione dei dati Eurostat.
TABELLA IMMIGRAZIONE
In questi ultimi sei anni la destinazione più gradita è stata la Germania (che ha accolto 59.470 nostri connazionali, di cui 13.798 solo nel 2013), seguita dal Regno Unito (51.577 emigrati, di cui 14.056 solo nel 2013), dalla Svizzera (44.218 emigrati, di cui 10.537 solo nel 2013), dalla Francia (38.925 emigrati, di cui 9.514 solo nel 2013) e dalla Spagna (25.349 emigrati, di cui 4.537 solo nel 2013). Fra i giovani di età compresa tra i 15 e 34 anni la meta preferita è diventata invece il Regno Unito (27.263 emigrati, pari al 53% del totale), che precede in questa classifica la Germania (24.445, pari al 41% del totale), la Svizzera (16.653), la Francia (14.682) e la Spagna (11.377).
Nello stesso periodo di tempo molti altri nostri connazionali hanno invece preferito stabilirsi negli Stati Uniti: 26.072 italiani (fra questi 9.104 giovani), di cui 5.560 soltanto nel 2013. Sempre dal 2008 al 2013, altre mete di destinazione dei nostri emigrati sono state nell’ordine il Belgio (12.064 connazionali, di cui 4.457 giovani), l’Albania (9.470, di cui 3.442 giovani) e la Slovenia (1.629, di cui 351 giovani).
Tabella emigrazioneper paese
[clicca per ingrandire]
“I nostri emigranti – ha spiegato Massimo Blasoni, presidente del Centro Studi ImpresaLavoro – scelgono in larghissima parte di continuare a vivere all’interno dell’Unione europea, spostandosi in Paesi che garantiscono loro un sistema formativo e un mercato del lavoro decisamente superiori a quelli italiani”.

 

 

Le colpe della Germania

Le colpe della Germania

Vincenzo Visco – Il Sole 24 Ore

Il conflitto tra debitori e creditori segna l’intera storia della umanità fin dai tempi più antichi. Esso tende a coincidere o a sovrapporsi a quello tra poveri e ricchi, tra sfruttati e sfruttatori, tra vinti e vincitori. La condizione di debitore insolvente poteva comportare oltre alla confisca dei beni, la vendita di moglie e figli, e la messa in schiavitù. Per oltre 500 anni i debitori nel Regno Unito potevano essere condannati alla prigione. È evidente quindi che gli interessi dei creditori sono stati storicamente ben rappresentati.

I debitori dal canto loro hanno sempre aspirato alla cancellazione o all’alleggerimento dei loro debiti sostenuti spesso (fin dai tempi di Roma o di Atene) da politici “democratici” o populisti in cerca di consenso. Da sempre le principali religioni sono schierate a favore dei debitori e contro l’”usura”, cioè il prestito con interesse: «rimetti a noi i nostri debiti». I testi religiosi (Bibbia) prevedevano la ricorrenza di giubilei per il debito che dovevano verificarsi ogni 7 anni. La condizione di debitore ha comportato lotte, rivolte, e anche provocato guerre. Le esose condizioni imposte a Versailles alla Germania furono tra le cause che determinarono l’ascesa al potere di Hitler e la II guerra mondiale. Al contrario la cancellazione del 50% dei debiti di guerra tedeschi nel 1953 da parte di ben 21 paesi (di cui 14 europei) consentì il successivo formidabile sviluppo economico della Germania.

L’accordo prevedeva anche la rinegoziazione del patto in caso di riunificazione delle due Germanie, ma Kohl riuscì ad ottenere un altro condono. La più recente campagna a favore della cancellazione dei debiti fu quella lanciata in occasione del Giubileo del 2000 a favore dei Paesi in via di sviluppo. In sostanza la gestione di situazioni di alto debito appare particolarmente difficile anche perché non è agevole separare e ponderare le ragioni dei creditori e dei debitori; essa comunque richiederebbe rispetto, equilibrio e lungimiranza che non sembra vengano esercitati nel dibattito in corso sui debiti europei. Infatti il problema non riguarda solo la Grecia ma l’intera zona euro, Germania inclusa.

Il rapporto tra creditori e debitori è asimmetrico a favore dei primi, anche se in apparenza la responsabilità di un contratto di credito dovrebbe coinvolgere in modo paritario ambedue le parti. Ma di solito è il debitore che viene considerato, e si sente, colpevole e anche indifeso. In verità qui si confrontano due diversi principi etici: il primo è quello in base al quale «i debiti vanno pagati e i crediti ottenuti rimborsati»; l’altro riguarda il rifiuto di vessare economicamente, perseguitare, umiliare chi si trova in condizione di bisogno o di disperazione, indipendentemente dalle sue responsabilità. Quale dei due imperativi etici debbono oggi prevalere in Europa è compito della politica dirimere.

La contrapposizione manichea tra paesi virtuosi e lassisti è tuttavia priva di senso. Oggi in Europa nessuno è innocente. Non lo è la Grecia, ma non lo è nemmeno la Germania. Tutti hanno violato la lettera e soprattutto lo spirito del trattato di Maastricht delle sue condizioni e della sua ispirazione, e la vigilanza della Commissione è stata carente, male indirizzata e poco consapevole. Se poi si guarda a come sono stati gestiti i cosiddetti “aiuti” alla Grecia c’è di che vergognarsi: dei 230-240 miliardi investiti dall’Unione solo il 25% circa è andato a beneficio diretto o indiretto del popolo greco. Il resto è servito ad evitare che le banche tedesche e francesi che avevano generosamente finanziato la Grecia subissero delle perdite, ed assicurare che Fmi, Bce e banche centrali di Francia e Germania ottenessero il rimborso pieno dei prestiti ottenuti. In questa operazione si è perfino ottenuto che Paesi come l’Italia e la Spagna che all’inizio della crisi greca avevano una esposizione molto modesta nei confronti del debito pubblico del Paese pari rispettivamente a 1,7 e a 2 miliardi, oggi si trovino esposti nei confronti della Grecia di 36 e 26 miliardi! I soldi dei contribuenti di Spagna e Italia sono stati di fatto utilizzati a favore di chi improvvidamente aveva finanziato lo sviluppo drogato dell’economia greca.

Di questa situazione bisogna assumere consapevolezza piena. Nessuno è innocente, lo ripeto, tutti sono colpevoli, creditori e debitori. È quindi necessaria una iniziativa politica di alto livello in grado di fare il punto sulla situazione attuale, verificare gli errori compiuti, porvi rimedio e rilanciare lo sviluppo, superare e seppellire i rancori che intossicano i rapporti tra i popoli europei. Perché ciò possa avvenire occorre superare l’ottuso nazionalismo che oggi caratterizza gran parte dei governi europei, e che rifletta pregiudizi vecchi e nuovi.

Sarebbe altresì un errore cercare solo una soluzione valida per la Grecia, perché, essa sì, potrebbe metter in moto un effetto domino, mentre è necessario ridisegnare la prospettiva e le strategie europee. E da questo punto la questione del debito pubblico europeo diventa centrale. Occorre innanzitutto riconoscere che gli alti debiti attuali sono l’effetto della crisi (recessione, fallimento delle banche) e non la sua causa e che essi vanno ridotti mediante un intervento congiunto dei Paesi. Le proposte in proposito esistono. Vi è quella che chi scrive avanzò oltre 4 anni fa e che ha il pregio di essere molto simile a quella prospettata pressoché contestualmente, anche dai “saggi” che fungono da consulenti al governo tedesco. Ve ne sono altre. Quello che non si può fare è continuare ad aspettare. Si approfitti della crisi greca non per fare concessioni ai greci, ma per rilanciare il progetto europeo. Sono necessarie iniziativa politica e autonomia di giudizio e di proposta. E va superato l’attuale perbenismo europeista che paralizza l’autonoma iniziativa degli Stati appiattendo i governi sugli interessi tedeschi che non sono oggi quelli dell’intera Europa.

La Ue non può avere la Germania contro

La Ue non può avere la Germania contro

Lucrezia Reichlin – Corriere della Sera

La decisione assunta giovedì scorso dalla Banca centrale europea è stata coraggiosa. Ed è una buona notizia. Ce n’è anche una cattiva, però: ed è che il coraggio della Bce non sembra, per ora, essere accompagnato da un’azione altrettanto decisa da parte di Bruxelles e dei governi nazionali su debito, investimenti e politica fiscale: azione che invece è un indispensabile complemento della politica monetaria. Se l’economia dovesse deludere anche nel 2015 e la Bce fosse lasciata sola a fornire gli stimoli necessari, le tensioni all’interno del Consiglio dell’istituto sarebbero difficilmente gestibili e l’Unione non sopravvivrebbe ad un governo della politica monetaria che vede la Germania in sistematica opposizione.

Acquistare titoli sovrani (il cosiddetto Quantitative easing) fino al raggiungimento dell’obiettivo di inflazione — cioè finché i prezzi non torneranno a crescere ad un passo al di sotto, ma vicino al 2 per cento annuo — resta un avvenimento di rilevanza storica, con importanti conseguenze per il futuro del governo economico dell’Unione. L’avvenimento è storico perché il Qe combina, sempre, aspetti di pura politica monetaria (l’iniezione di liquidità sostiene i prezzi e spinge quindi al consumo) a aspetti cosiddetti fiscali. Metterlo in atto nell’eurozona, dove la moneta è comune ma l’autorità di bilancio (il «ministero del Tesoro») non è condivisa, è un esperienza per quanto necessaria, potenzialmente divisiva. L’acquisto, da parte della Bce, di titoli di debito sovrano diminuisce infatti il costo di rifinanziamento dello Stato e potenzialmente limita la disciplina esercitata dal mercato nei confronti dei Paesi con alto debito pubblico. Il problema – al centro delle preoccupazioni tedesche – è particolarmente rilevante nella situazione di oggi, in cui molti Paesi non solo della periferia dell’Unione, ma anche del suo «nocciolo» come la Francia, hanno un debito pubblico che continua a crescere in rapporto al prodotto interno lordo.

Se il debito di questi Paesi dovesse continuare ad espandersi, in quella che viene definita una «dinamica negativa», gli scenari possibili sarebbero due. Nel primo, la Bce continuerebbe ad acquistare titoli, sostituendosi così al mercato: questo genererebbe però un aumento incontrollato dell’inflazione e la perdita di credibilità della Banca centrale. Nel secondo scenario, invece, la Bce interromperebbe gli acquisti per non violare il suo obiettivo di inflazione e permetterebbe il default dei Paesi a rischio. In questo secondo caso, però, la Bce si troverebbe a pagare un prezzo elevato, particolarmente difficile da digerire per chi, tra i suoi azionisti, si trova nella condizione di creditore.

Il primo scenario è improbabile, date le attuali condizioni macroeconomiche e il vincolo posto dai Trattati sul limite dell’inflazione. Il secondo, cioè il caso di bancarotta di un Paese dell’Unione, pur essendo estremo, non è da escludere. Il problema è stato già sperimentato con la Grecia in passato, e una nuova discussione sulla rinegoziazione del debito e sullo stato della Bce come creditore ufficiale ritornerà sicuramente sul tavolo dopo la vittoria di Tsipras. Proprio per rispondere al problema posto dal secondo scenario, il Qe della Bce prevede che le banche centrali nazionali assumano una gran parte del rischio relativo agli acquisti. In altre parole, se uno Stato fallisse, il bilancio della sua banca centrale sarebbe colpito; e nel caso estremo in cui il capitale non fosse sufficiente, lo Stato dovrebbe intervenire, mettendo dunque i suoi cittadini nella condizione, di fatto, di «pagare il conto».

Questo aspetto del programma è stato criticato perché, limitando la condivisione del rischio, potrebbe far sorgere dubbi sull’impegno di tutti gli Stati a salvaguardare l’Unione. Ma in realtà questa è una discussione molto astratta. Il problema è un altro. Se a dover ristrutturare fossero più Paesi (o anche uno solo, ma con un grande debito) la sopravvivenza stessa dell’euro sarebbe a rischio e Francoforte dovrebbe intervenire per evitare il peggio. In caso contrario i costi sarebbero enormi: molto maggiori di quelli di cui si parla in relazione al Qe. La crisi ci ha insegnato che i Trattati portano a un paradosso: da una parte pongono molti limiti all’azione della Bce per evitare la monetizzazione del debito; dall’altra, quando l’euro è in pericolo, rendono inevitabile il suo intervento per assicurarne la sopravvivenza, rendendola implicitamente garante del debito di tutti e generando dunque un irrealistico appiattimento dello spread.

La Bce può uscire da questa alternanza tra bastone e carota solo chiedendo agli Stati a rischio un impegno su programmi di riforma. Ma la Grecia insegna che questa via è percorribile solo se le misure non sono eccessivamente punitive e si combinano con altre che favoriscano la crescita. Per questo il Qe è una buona notizia: una politica monetaria fortemente espansiva potrebbe facilitare e non inibire un percorso riformatore. Purché al coraggio della Bce si associ l’azione decisa di Bruxelles. Altrimenti si scaricherebbero sull’istituto di Francoforte le tensioni di una Germania all’opposizione, mettendo a rischio la sopravvivenza della stessa Unione.

Crescita, debito, esportazioni: la moneta comune ha fatto bene solo a Berlino

Crescita, debito, esportazioni: la moneta comune ha fatto bene solo a Berlino

Sergio Patti  – La Notizia

Dall’avvento dell’euro ad oggi tutti i principali indicatori della condizione economica del nostro Paese sono nettamente peggiorati: la disoccupazione è passata dal 9 al 13%, il rapporto tra debito e Pil è cresciuto di più di venti punti percentuali mentre l’Istat ha appena certificato come il rapporto tra deficit e Pil sia ormai arrivato nei primi tre trimestri del 2014 al 3,7%.Volendo fare un irriguardoso paragone calcistico, si potrebbe dire che se si giocasse oggi Italia-Germania non finirebbe certamente 4 a 3 come nell’epico scontro dell’Azteca: i tedeschi, infatti, ci batterebbero 7 a 0. A tanto ammontano gli indicatori che il Centro studi ImpresaLavoro ha analizzato prendendo come base di partenza il 2001 (ultimo anno prima dell’entrata in circolazione dell’euro) e confrontandolo con gli ultimi dati disponibili.

La forbice s’allarga
Ne esce un quadro molto chiaro nella sua drammaticità: l’euro ha fortemente avvantaggiato la Germania, aumentando il divario con l’Italia e le rigidità che ci sono state imposte dalla moneta unica ci hanno impedito la flessibilità necessaria a fare riforme importanti in un tempo di crisi. Veniamo ai numeri: il Pil pro-capite tedesco cresce a valore nominale del 29,5%, il nostro “solo” del 17,1%. Se prima dell’euro tra un cittadino di Roma e uno di Berlino c’era una differenza del 16%, oggi il gap è quasi di un terzo (il 28%). I governi guidati da Schroeder e Merkel hanno visto il deficit passare da una cifra di poco superiore al 3% (3,1%) a un surplus di bilancio dello 0,1. L’Italia, invece, nonostante gli sforzi, è passata dal 3,4% del 2001 al 2,80% del 2013 fino all’attuale 3,7%. Contemporaneamente, rispetto al Pil, il nostro debito è passato dal 104,70 al 127,9% mentre il loro dal 57,5% si è fermato al 76,9%. Dove la moneta unica risulta determinata è però nel settore delle esportazioni. L’export tedesco ha visto salire il suo valore nominare dell’84,3% mentre quello italiano è cresciuto del 32,3%: significa che mentre prima della moneta unica l’export tedesco valeva il doppio di quello italiano, oggi vale quasi tre volte tanto (2,8 volte).

Poche prospettive
Quanto alla disoccupazione, in Germania i senza lavoro sono scesi di 2,2 punti mentre la nostra disoccupazione è salita del 4,4%. Se prima dell’euro il tasso di disoccupazione italiano era del 20% più elevato di quello tedesco, oggi per ogni disoccupato in Germania ce ne sono addirittura tre nel Belpaese. “Dall’adozione della moneta unica – osserva il presidente di ImpresaLavoro Massimo Blasoni – non c’è pertanto un solo indicatore economico che non sia peggiorato nel confronto con i tedeschi. Crescita, debito, bilancia commerciale. Senza inflazione che ridurrebbe il peso del debito e una valuta più debole in grado di aiutare, o quantomeno non penalizzare, le esportazioni delle nostre aziende anche le riforme rischiano di non bastare a far ripartire il Paese”.

Grazie all’euro Berlino ci ha battuti sette a zero

Grazie all’euro Berlino ci ha battuti sette a zero

Libero

Germania-­Italia? Finisce 7 a 0. Non si tratta di uno sfortunato incontro di calcio, ma del confronto tra i due Paesi nei principali indicatori economici dall’introduzione dell’euro (2001) al 2013 (ultimi dati disponibili). L’analisi impietosa è stata realizzata dal Centro studi “ImpresaLavoro” che condensa così lo sconfortante raffronto: in Italia la disoccupazione è passata dal 9 al 13% (a novembre 2014 al 13,5), il rapporto debito/Pil è cresciuto del 23,2%, senza dimenticare che l’Istat ha appena certificato come questo sia ormai arrivato nei primi tre trimestri del 2014 al 3,7%. Insomma, se si trattasse di una sfida calcistica i tedeschi, negli ultimi 12 anni, ci batterebbero 7 a 0. Questo perché l’euro – secondo la ricerca – ha fortemente avvantaggiato la Germania aumentando proprio il divario con l’Italia.

Crisi: ImpresaLavoro, con l’euro sono peggiorati tutti gli indicatori

Crisi: ImpresaLavoro, con l’euro sono peggiorati tutti gli indicatori

Repubblica.it

Dall’avvento dell’euro ad oggi tutti i principali indicatori della condizione economica del nostro Paese sono nettamente peggiorati: la disoccupazione è passata dal 9 al 13%, il rapporto debito/Pil è cresciuto di più di venti punti percentuali mentre l’Istat ha appena certificato come il rapporto deficit/Pil sia ormai arrivato nei primi tre trimestri del 2014 al 3,7%. Ad evidenziarlo il Centro studi di ‘ImpresaLavoro’ che azzarda anche un irriguardoso paragone calcistico: se si giocasse oggi Italia-Germania non finirebbe certamente 4 a 3 come nell’epico scontro dell’Azteca. I tedeschi, infatti, ci batterebbero oggi 7 a 0.

A tanto ammontano gli indicatori che il Centro studi ImpresaLavoro ha analizzato prendendo come base di partenza il 2001 (ultimo anno prima dell’entrata in circolazione dell’euro) e confrontandolo con gli ultimi dati disponibili. Ne esce un quadro chiaro nella sua drammaticità: l’euro – evidenzia l’istituto – ha fortemente avvantaggiato la Germania aumentando il divario con l’Italia e le rigidità che ci sono state imposte dalla moneta unica ci hanno impedito la flessibilità necessaria a fare riforme importanti in un tempo di crisi.

La moneta unica risulta determinante è nelle esportazioni. L’export tedesco ha visto salire il suo valore nominale dell’84,3% mentre quello italiano è cresciuto del 32,3%: mentre prima della moneta unica quindi l’export tedesco valeva il doppio di quello italiano, oggi vale quasi tre volte tanto (2,8 volte).

Quanto alla disoccupazione, in Germania i senza lavoro sono scesi di 2,2 punti mentre la nostra disoccupazione ha fatto segnare un’impennata del 4,4%. Se prima dell’euro il tasso di disoccupazione italiano era del 20% più elevato di quello tedesco, oggi per ogni disoccupato in Germania ce ne sono addirittura tre nel Belpaese.

Economia: dopo 13 anni di euro l’Italia perde 7 a 0 con la Germania

Economia: dopo 13 anni di euro l’Italia perde 7 a 0 con la Germania

ANALISI

Dall’avvento dell’euro ad oggi tutti i principali indicatori della condizione economica del nostro Paese sono nettamente peggiorati: la disoccupazione è passata dal 9 al 13%, il rapporto debito/Pil è cresciuto di più di venti punti percentuali mentre l’Istat ha appena certificato come il rapporto deficit/Pil sia ormai arrivato nei primi tre trimestri del 2014 al 3,7%,
Volendo poi fare un irriguardoso paragone calcistico, potremmo dire che se si giocasse oggi Italia-Germania non finirebbe certamente 4 a 3 come nell’epico scontro dell’Azteca: i tedeschi, infatti, ci batterebbero oggi 7 a 0. A tanto ammontano gli indicatori che il Centro studi “ImpresaLavoro” ha analizzato prendendo come base di partenza il 2001 (ultimo anno prima dell’entrata in circolazione dell’euro) e confrontandolo con gli ultimi dati disponibili. Ne esce un quadro molto chiaro nella sua drammaticità: l’euro ha fortemente avvantaggiato la Germania, aumentando il divario con l’Italia e le rigidità che ci sono state imposte dalla moneta unica ci hanno impedito la flessibilità necessaria a fare riforme importanti in un tempo di crisi.
Veniamo ai numeri: il Pil pro-capite tedesco cresce a valore nominale del 29,5%, il nostro “solo” del 17,1%. Se prima dell’euro tra un cittadino di Roma e uno di Berlino c’era una differenza del 16%, oggi il gap è quasi di un terzo (il 28%).
I governi guidati da Schroeder e Merkel hanno visto il deficit passare da una cifra di poco superiore al 3% (3,1%) a un surplus di bilancio dello 0,1. L’Italia, invece, nonostante gli sforzi, è passata dal 3,4% del 2001 al 2,80% del 2013 fino all’attuale 3,7%. Contemporaneamente, rispetto al Pil, il nostro debito è passato dal 104,70 al 127,9% mentre il loro dal 57,5% si è fermato al 76,9%.
Dove la moneta unica risulta determinata è però nel settore delle esportazioni. L’export tedesco ha visto salire il suo valore nominare dell’84,3% mentre quello italiano è cresciuto del 32,3%: significa che mentre prima della moneta unica l’export tedesco valeva il doppio di quello italiano, oggi vale quasi tre volte tanto (2,8 volte).
Quanto alla disoccupazione, in Germania i senza lavoro sono scesi di 2,2 punti mentre la nostra disoccupazione ha fatto segnare un’impennata del 4,4%. Se prima dell’euro il tasso di disoccupazione italiano era del 20% più elevato di quello tedesco, oggi per ogni disoccupato in Germania ce ne sono addirittura tre nel Belpaese.
«Dall’adozione della moneta unica – osserva il presidente di “ImpresaLavoro” Massimo Blasoni – non c’è pertanto un solo indicatore economico che non sia peggiorato nel confronto con i tedeschi. Crescita, debito, bilancia commerciale. Senza inflazione che ridurrebbe il peso del debito e una valuta più debole in grado di aiutare, o quantomeno non penalizzare, le esportazioni delle nostre aziende anche le riforme di cui si parla da tempo rischiano di non bastare a rilanciare l’economia del nostro paese. Il semestre europeo si è concluso senza risultati apprezzabili e oggi l’euro appare sempre più come una gabbia e sempre meno come un’opportunità».

 

tabelle

 

Rassegna Stampa
Libero
Repubblica.it
La Notizia
La troika non ha aiutato i Paesi in crisi ma ha solo risolto i problemi tedeschi

La troika non ha aiutato i Paesi in crisi ma ha solo risolto i problemi tedeschi

Tino Oldani – Italia Oggi

I tedeschi sono convinti che la Germania ha già pagato troppo per aiutare i paesi in difficoltà dell’eurozona. Per questo dicono «nein» ad altre iniziative europee che, a loro avviso, si configurano come aiuti per i vicini spendaccioni, primo fra tutti il quantitative easing proposto da Mario Draghi, presidente della Bce. Contrastare ulteriori finanzia- menti ai paesi cicala è diventato addirittura il cavallo di battaglia di un partito tedesco euroscettico (Alternative fur Deutschland), che sta erodendo consensi alla Cdu di Angela Merkel. Per questo, la cancelliera non perde occasione per bacchettare quei paesi, come la Francia e l’Italia, che, a suo avviso, non fanno abbastanza per tenere i conti pubblici in ordine. A darle man forte, oltre al ministro delle finanze, Wolfgang Schauble, uno dei più solerti è il presidente della Bundesbank, Jens Weidmann, che in passato è stato il suo principale consigliere economico.

In questo senso, la recente intervista di Weidmann a Repubblica contiene alcune perle di ipocrisia politica che non devono passare sotto silenzio. A suo dire, «se titoli sovrani di basso rating (come sono ora quelli dell’Italia, ndr) venissero acquistati dalla Bce, rischi di politica finanziaria verrebbero messi in comune dalla Banca centrale, aggirando governi e parlamenti». Per questo il «nein» di Weidmann al quantitative easing di Draghi si configura anche come una lezioncina di democrazia. Peccato che finora nessuno in Italia, governo e Banca d’Italia compresi, abbia rispedito al mittente una simile accusa. Se in Europa c’è un vero specialista nell’aggirare governi e parlamenti per fare i propri interessi, questo paese è proprio la Germania. Ciò è vero soprattutto nel settore finanziario, dove, pur di salvare le proprie banche, che erano sull’orlo del fallimento a causa delle folli speculazioni sui derivati, il governo della signora Merkel non ha esitato a servirsi della Troika (Bce, Ue, Fmi) e dei suoi metodi anti-democratici. Le devastazioni sociali compiute dalla Troika in Irlanda, Spagna e Grecia, fatte con il pretesto dei conti pubblici fuori posto, ma con l’obiettivo tacito di salvare proprio le grandi banche tedesche e francesi, sono lì a dimostrarlo.

Premessa. A questi tre paesi, a partire dal 2000 (introduzione dell’euro), le banche tedesche hanno elargito per anni ingenti prestiti, impiegati per finanziare alcune grandi iniziative immobiliari, oltre all’importazione massiccia di prodotti tedeschi. In questo modo, con una tecnica chiamata «vendor financing», cioè prestando soldi agli acquirenti delle sue esportazioni, la Germania si è autofinanziata in parte il proprio miracolo economico. Ma nel 2008, allo scoppio della crisi dei subprime, le banche tedesche si sono trovate troppo esposte verso i paesi periferici dell’euro, ai quali avevano concesso crediti per 900 miliardi di euro, somma superiore di 2,5 volte il loro stesso capitale.

Come recuperare prestiti così ingenti, dopo che la crisi aveva investito i debiti sovrani dei paesi periferici dell’euro? Come evitare il fallimento? A conti fatti, la Troika è stata il grande alleato delle banche tedesche: i suoi interventi sono stati infatti decisivi per il loro salvataggio, mentre ben poco è rimasto ai paesi «aiutati». Anzi, questi ultimi sono stati costretti a massacrare i loro cittadini con le tasse e con il taglio drastico della spesa pubblica (che ha colpito sanità, pensioni, stipendi e occupati nel pubblico impiego), pur di restituire centinaia di miliardi alle banche tedesche.

I numeri parlano chiaro. L’Irlanda, a partire dal 2010, ha ricevuto dalla Troika 67,5 miliardi di prestiti (soldi di tutti gli europei e non solo dei tedeschi), a fronte dei quali ha poi trasferito 89,5 miliardi al settore finanziario, dei quali 55,8 miliardi sono finiti alle banche creditrici straniere, tutte tedesche e francesi. In Spagna, nel 2012, le banche locali avevano un’esposizione verso le banche tedesche per 40 miliardi. Sommandoli al debito totale del paese verso le banche tedesche, si arrivava a 100 miliardi. Per fare fronte a questi debiti, la Spagna ha chiesto e ottenuto dalla Troika un prestito di 100 miliardi, in cambio di riforme drastiche. Un’operazione che la rivista International Financing Review ha definito «un salvataggio nascosto delle banche tedesche».

In Grecia, la gran parte dei 240 miliardi del «piano di salvataggio» finanziato dalla Ue e dal Fmi è stato dirottato dalla Troika alle banche creditrici, per lo più tedesche e francesi, per circa 160 miliardi. Così il 77% degli aiuti ricevuti sono andati alle banche straniere, mentre alla Grecia sono rimasti solo 46 miliardi per ridurre il proprio debito pubblico, che tuttora ha un buco di 2,5 miliardi nonostante il governo abbia pagato 34 miliardi di soli interessi sul debito, imponendo sacrifici enormi alla popolazione. In pratica, come hanno rivelato i verbali segreti di una riunione del Fmi pubblicati dal Wall Street Journal, il salvataggio della Grecia «è stato concepito solo per salvare i creditori», cioè le banche tedesche. Il tutto, riducendo governo e parlamento greci a tappetini. Che ora Weidmann venga a dare lezioni di democrazia è davvero il colmo!