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Sì ai giochi a Roma ma solo a tre condizioni

Sì ai giochi a Roma ma solo a tre condizioni

Davide Giacalone – Libero

Il motto di De Coubertain vale solo per gli atleti. Per chi organizza le olimpiadi l’importante è vincere. Impossibile se ci si abbandona alle due opposte suggestioni: a) sarà l’immagine dell’Italia e la campana della riscossa (l’ho già sentita, a proposito dell’Expo); b) sara l’orgia della corruzione e delle tangenti. La prima suggestione è il più sicuro viatico per l’inverarsi della seconda. Sebbene a fatica e controcorrente, la faccenda deve essere ricondotta su un piano razionale. Il primo punto da tenere presente è che questo genere di appuntamenti globali non sono un buon affare in sé. La settimana scorsa ero a Nanchino (Cina), per lavoro, il cui traffico pazzesco era stato ulteriormente sconvolto, per un paio d’anni, dalla preparazione delle olimpiadi giovanili, tenutesi nell’agosto scorso. Ho domandato: ci avete guadagnato? Risposta: ci abbiamo perso. Questo è il primo punto: se il conto economico si limita ai giochi è difficile vincere. La scommessa italiana non può essere sbandierata come certamente vittoriosa, ma neanche come sicuramente nefanda. Tutto sta ad avere le idee chiare e a trarre qualche insegnamento dai non pochi errori compiuti. Sono tre le questioni decisive.

1) Il prodotto da vendere non sono i giochi, ma l’Italia. Fin da subito, quindi, si deve togliere la gestione del turismo alle Regioni (responsabilità della sinistra e della folle riforma costituzionale) e capire che non è la Calabria che fa la concorrenza al Piemonte, ma l’Italia alla Spagna o alla Francia. Noi restiamo la prima meta scelta dai turisti che vengono da fuori l’Ue, siamo già un prodotto forte. Le olimpiadi hanno un senso se servono a mettere il turbo in un motore che, invece, perde quote nel mercato interno europeo. Ciò comporta anche un piano trasporti e un piano aeroportuale non concepiti per soddisfare le pulsioni municipali, ma coerenti con la necessità di rendere l’intera Italia raggiungibile da chi vi metta piede.

2) Una partita simile è meglio non cominciarla neanche se non si stabilisce prima chi comanda (e ne risponde). La scena dei terreni Expo, il conflitto fra l’acquisto o l’affitto, lo scornacchiarsi di Regione e Comune, sono la certezza dell’insuccesso. La tendenza italica è quella di darsi regole dissennate, salvo derogarle quando si deve fare qualche cosa. Non funziona e genera corruzione. Alle olimpiadi è lecito pensare solo se il meccanismo decisionale non verrà concepito come un’eccezione, ma come la regola. Nuova e per tutti. Nella regola deve essere compreso il fatto che chi gestisce all’inizio continua a farlo rispondendo del risultato, senza chiedere aumenti del budget. Ma non basta, deve essere diverso il rapporto con i privati, chiamati ai lavori e sanamente desiderosi di far profitto: entra chi offre le condizioni migliori e condivide il progetto. Non possono esserci revisioni prezzi in corso d’opera. Chi partecipa ai lavori garantisce patrimonialmente la loro realizzazione, alle condizioni pattuite. Le incompiute o gli insuccessi comportano la perdita del patrimonio messo a garanzia. Onori, ma anche oneri.

3) Sbagliato creare un’autoiità di garanzia. Peggio ancora una specie di commissario all’onestà. Solo dove la disonestà è l’unico sistema funzionante si adottano simili ricette. Anche in questo campo non si deve creare l’eccezione, ma adottare una regola razionale. E farla rispettare. Gli organi di garanzia giurisdizionale sono quelli esistenti (vanno riformati, ma è questione non affrontabile qui). Il di più deve consistere nel riprodurre il funzionamento dell’audit (controllo) utilizzato nei grandi gruppi e nelle multinazionali: verifica costante dell’allineamento fra preventivo e spesa, nonché dell’avanzamento lavori. Chi bara o rallenta paga, rimettendoci soldi. Sicché eviterà di farlo per arricchirsi. Se bara l’audit ne risponde, patrimonialmente e penalmente. Ci sono affari che riescono bene e altri che falliscono, dipende dalla capacità d’individuare prima quale è il valore che si vuole vendere e dalla serietà nell’esecuzione. Se si parte dal principio che tutti gli affari divengono malaffari si può essere certi solo del disfacimento.

La troika non ha aiutato i Paesi in crisi ma ha solo risolto i problemi tedeschi

La troika non ha aiutato i Paesi in crisi ma ha solo risolto i problemi tedeschi

Tino Oldani – Italia Oggi

I tedeschi sono convinti che la Germania ha già pagato troppo per aiutare i paesi in difficoltà dell’eurozona. Per questo dicono «nein» ad altre iniziative europee che, a loro avviso, si configurano come aiuti per i vicini spendaccioni, primo fra tutti il quantitative easing proposto da Mario Draghi, presidente della Bce. Contrastare ulteriori finanzia- menti ai paesi cicala è diventato addirittura il cavallo di battaglia di un partito tedesco euroscettico (Alternative fur Deutschland), che sta erodendo consensi alla Cdu di Angela Merkel. Per questo, la cancelliera non perde occasione per bacchettare quei paesi, come la Francia e l’Italia, che, a suo avviso, non fanno abbastanza per tenere i conti pubblici in ordine. A darle man forte, oltre al ministro delle finanze, Wolfgang Schauble, uno dei più solerti è il presidente della Bundesbank, Jens Weidmann, che in passato è stato il suo principale consigliere economico.

In questo senso, la recente intervista di Weidmann a Repubblica contiene alcune perle di ipocrisia politica che non devono passare sotto silenzio. A suo dire, «se titoli sovrani di basso rating (come sono ora quelli dell’Italia, ndr) venissero acquistati dalla Bce, rischi di politica finanziaria verrebbero messi in comune dalla Banca centrale, aggirando governi e parlamenti». Per questo il «nein» di Weidmann al quantitative easing di Draghi si configura anche come una lezioncina di democrazia. Peccato che finora nessuno in Italia, governo e Banca d’Italia compresi, abbia rispedito al mittente una simile accusa. Se in Europa c’è un vero specialista nell’aggirare governi e parlamenti per fare i propri interessi, questo paese è proprio la Germania. Ciò è vero soprattutto nel settore finanziario, dove, pur di salvare le proprie banche, che erano sull’orlo del fallimento a causa delle folli speculazioni sui derivati, il governo della signora Merkel non ha esitato a servirsi della Troika (Bce, Ue, Fmi) e dei suoi metodi anti-democratici. Le devastazioni sociali compiute dalla Troika in Irlanda, Spagna e Grecia, fatte con il pretesto dei conti pubblici fuori posto, ma con l’obiettivo tacito di salvare proprio le grandi banche tedesche e francesi, sono lì a dimostrarlo.

Premessa. A questi tre paesi, a partire dal 2000 (introduzione dell’euro), le banche tedesche hanno elargito per anni ingenti prestiti, impiegati per finanziare alcune grandi iniziative immobiliari, oltre all’importazione massiccia di prodotti tedeschi. In questo modo, con una tecnica chiamata «vendor financing», cioè prestando soldi agli acquirenti delle sue esportazioni, la Germania si è autofinanziata in parte il proprio miracolo economico. Ma nel 2008, allo scoppio della crisi dei subprime, le banche tedesche si sono trovate troppo esposte verso i paesi periferici dell’euro, ai quali avevano concesso crediti per 900 miliardi di euro, somma superiore di 2,5 volte il loro stesso capitale.

Come recuperare prestiti così ingenti, dopo che la crisi aveva investito i debiti sovrani dei paesi periferici dell’euro? Come evitare il fallimento? A conti fatti, la Troika è stata il grande alleato delle banche tedesche: i suoi interventi sono stati infatti decisivi per il loro salvataggio, mentre ben poco è rimasto ai paesi «aiutati». Anzi, questi ultimi sono stati costretti a massacrare i loro cittadini con le tasse e con il taglio drastico della spesa pubblica (che ha colpito sanità, pensioni, stipendi e occupati nel pubblico impiego), pur di restituire centinaia di miliardi alle banche tedesche.

I numeri parlano chiaro. L’Irlanda, a partire dal 2010, ha ricevuto dalla Troika 67,5 miliardi di prestiti (soldi di tutti gli europei e non solo dei tedeschi), a fronte dei quali ha poi trasferito 89,5 miliardi al settore finanziario, dei quali 55,8 miliardi sono finiti alle banche creditrici straniere, tutte tedesche e francesi. In Spagna, nel 2012, le banche locali avevano un’esposizione verso le banche tedesche per 40 miliardi. Sommandoli al debito totale del paese verso le banche tedesche, si arrivava a 100 miliardi. Per fare fronte a questi debiti, la Spagna ha chiesto e ottenuto dalla Troika un prestito di 100 miliardi, in cambio di riforme drastiche. Un’operazione che la rivista International Financing Review ha definito «un salvataggio nascosto delle banche tedesche».

In Grecia, la gran parte dei 240 miliardi del «piano di salvataggio» finanziato dalla Ue e dal Fmi è stato dirottato dalla Troika alle banche creditrici, per lo più tedesche e francesi, per circa 160 miliardi. Così il 77% degli aiuti ricevuti sono andati alle banche straniere, mentre alla Grecia sono rimasti solo 46 miliardi per ridurre il proprio debito pubblico, che tuttora ha un buco di 2,5 miliardi nonostante il governo abbia pagato 34 miliardi di soli interessi sul debito, imponendo sacrifici enormi alla popolazione. In pratica, come hanno rivelato i verbali segreti di una riunione del Fmi pubblicati dal Wall Street Journal, il salvataggio della Grecia «è stato concepito solo per salvare i creditori», cioè le banche tedesche. Il tutto, riducendo governo e parlamento greci a tappetini. Che ora Weidmann venga a dare lezioni di democrazia è davvero il colmo!

Il diluvio fiscale

Il diluvio fiscale

Il Foglio

Ieri proprietari e inquilini hanno pagato la seconda rata dell’Imu sulle seconde case e sugli immobili in affitto (o sfitti ma abitabili) e la Tasi sull’abitazione principale. Se hanno la partita Iva hanno pagato la rata in scadenza, mentre entro il 29 dicembre verseranno l’acconto per il periodo seguente. Da poco hanno pagato il conguaglio dell’Irpef. Insomma sono tempi di diluvio fiscale. Il ministero dell’Economia si attende un gettito di 23,7 miliardi per quest’anno derivante soltanto dalle tasse sugli immobili (Imu più Tasi). Quest’ultima è la porzione più onerosa perché si aggiunge a una imposta personale sul reddito che ha una pressione che si colloca al vertice di quelle della zona euro.

In questo quadro, c’è quantomeno la necessità di rendere semplice, chiaro e certo l’onere tributario. Attualmente fra Imu e Tasi ci sono quattro pagamenti semestrali, due di acconto e due a conguaglio, con aliquote incerte e complicate. L’introduzione di una local tax, con l’accorpamento di Imu e Tasi entro il 2015, è stata rimandata: la legge di stabilità ha congelato le forchette delle aliquote dei due tributi, ma ciò non scongiura nuovi aumenti. Infatti potranno deciderli i Comuni che non hanno ancora adottato le aliquote massime. La crisi dell’industria delle costruzioni deriva in buona parte dall’aumento della pressione fiscale immobiliare in un periodo già critico. Il gettito che inizialmente doveva essere destinato alla riduzione del disavanzo fiscale del bilancio pubblico complessivo ora è tutto destinato alla finanza municipale. E ciò concorre spesso a sostenere una spesa comunale troppo elevata in relazione ai servizi resi quotidianamente ai cittadini.

L’incubo del tax-day e il fisco da cambiare

L’incubo del tax-day e il fisco da cambiare

Salvatore Padula – Il Sole 24 Ore

Il tax-day delle imposte sugli immobili – entro oggi almeno 30 milioni di proprietari e inquilini devono chiudere i conti con il saldo di Imu e Tasi per il 2014 – restituisce l’istantanea di una delle stagioni più buie del nostro sistema fiscale. Una stagione di caos e grandi complicazioni che non sta risparmiando nessuno e che purtroppo ripropone il vecchio copione dell’ingorgo di scadenze e di versamenti, delle norme retroattive, delle proroghe sul filo di lana, dei controlli di fine anno, redditometro compreso. Una stagione anche di grandi aspettative, che purtroppo, per l’ennesima volta, conferma quanto sia ancora lungo il cammino verso quel “fisco dal volto umano” che continua ad affermarsi solo tra i buoni propositi, con una riforma fiscale che fatica a trovare lo slancio per la sua effettiva attuazione e un livello del prelievo, tra balzelli vecchi e nuovi, che non accenna affatto a diminuire.

La vicenda delle tasse sulla casa è, in questo senso, emblematica. E concentra al suo interno proprio due tra i principali peccati originali del sistema: complicazioni, da un lato; pressione fiscale elevata, dall’altro. Molti contribuenti, in queste ore, hanno toccato con mano non solo che le tasse immobiliari sono più pesanti rispetto al passato ma anche che le difficoltà per trovare aliquote, eventuali esenzioni o detrazioni, codici tributo, modelli per i pagamenti ecc ecc., sono ancor più insidiose dello scorso anno (quando in molti avevano giustamente pensato di aver toccato il fondo). La stessa Rossella Orlandi, durante una delle sue prime uscite pubbliche dopo la nomina alla guida dell’agenzia delle Entrate la scorsa estate, confessò candidamente di aver impiegato un intero pomeriggio per capire come calcolare l’Imu della sua abitazione. Benvenuta tra noi, verrebbe da dire al direttore delle Entrate. Benvenuta tra chi ogni giorno deve fare i conti non solo con il peso del fisco ma anche con le sue regole non sempre trasparenti, con i suoi criteri non sempre limpidi, tanto per non voler infierire. E qui non stiamo più parlando solo di tasse immobiliari. Gli operatori, le imprese, i professionisti sanno bene a quali acrobazie li costringa il fisco, al di là dell’Imu e della Tasi. È appena arrivato un decreto sulle semplificazioni che, a sentire gli addetti ai lavori, risolve solo una parte infinitesimale delle quotidiane difficoltà tributarie. Per il resto poco è cambiato.

Certo, i problemi non finiscono qui. Nonostante le promesse, il nostro paese continua ad avere un sistema fiscale poco orientato alla crescita, che non premia chi investe e chi scommette sull’innovazione e sulla ricerca. È un sistema dove persino il contenzioso tributario non brilla certo per trasparenza e dove manca una reale parità in giudizio tra amministrazione e contribuenti. Il tutto appesantito da livelli di prelievo sempre più insostenibili, con una pressione fiscale sul Pil che raggiunge il 44%, che supera il 50% se si esclude l’economia sommersa (che per definizione non paga tasse) e che totalizza un prelievo reale sulle Pmi pari a 68 euro ogni 100 euro di utili. Sono numeri che conosciamo bene ma che vale sempre la pena di ricordare.

Se questa è la fotografia, che cosa dobbiamo aspettarci per il 2015? Sulla casa, come sappiamo, c’è poco da stare allegri. Il 2015 riproporrà il binomio Imu-Tasi (la local tax sembra destinata a slittare al 2016) e con esso tutte le criticità che abbiamo visto in questi mesi. Con il rischio che nei prossimi mesi si ripresenterà il copione che ha portato alla lievitazione delle tasse locali, con il governo che taglia le risorse ai sindaci e i sindaci che alle riduzioni di spesa rispondono con l’aumento di tasse e tariffe, vuoi per comodità vuoi per effettiva impossibilità a comprimere ulteriormente le spese. Qualche buona notizia arriverà con la legge di stabilità che potrà offrire una prima boccata d’ossigeno alle imprese, grazie al taglio della componente lavoro dall’Irap, e con la conferma del bonus da 80 euro per i dipendenti con reddito medio basso. Ma certamente con maggiore coraggio sui tagli alla spesa i risultati avrebbero potuto essere ben altri.

Sullo sfondo, resta il complicato cammino della delega fiscale. Ieri, su questo giornale, abbiamo messo in luce come a 100 giorni dal termine per l’attuazione della legge delega, i lavori stiano procedendo davvero a rilento (tra l’altro, in un paese in cui si proroga tutto, non sarebbe certo uno scandalo una norma finalizzata a dare più tempo al governo per emanare i decreti legislativi per la riforma, come hanno proposto alcuni parlamentari, tra i quali anche il presidente della commissione Finanze della Camera, Daniele Capezzone). L’attuazione della delega non cambierà probabilmente il volto (e il peso) del nostro sistema fiscale. Ma condurla in porto sarà comunque un segnale importante che, una volta tanto, sarebbe bene non farsi sfuggire.

Il ritardo sulle liberalizzazioni

Il ritardo sulle liberalizzazioni

Alessandro De Nicola – La Repubblica

Ormai da qualche settimana è stato pubblicato l’Indice delle liberalizzazioni curato dall’Istituto Bruno Leoni. Si tratta di un lavoro utile perché dà la percezione di dove potrebbe essere l’economia italiana e di quali benefici potrebbero godere i consumatori se solo il nostro Paese imitasse non Hong Kong o il Texas, ma alcuni Paesi europei di dimensioni paragonabili al nostro. Lo studio mette a confronto le economie dei 15 ‘vecchi’ Paesi Ue assegnando un punteggio di 100 alla nazione più liberalizzata nei 10 settori presi in considerazione (poste, ferrovie, trasporto aereo, mercato elettrico, telecomunicazioni, lavoro, televisione, carburanti, gas naturale, assicurazioni) e uno inferiore alle altre a seconda della distanza dalla prima. 100 non rappresenta un mercato ‘ideale’ , semplicemente il più concorrenziale tra i 15, fornendo così parametri concreti.

Come se la cava l’Italia? Malino, siamo i terzultimi davanti al Lussemburgo (che in realtà è un’economia aperta salvo per i servizi a rete, viste le dimensioni del Paese, e per trasporto aereo e ferroviario) e alla solita Grecia. Primo in classifica è da anni il Regno Unito con punteggio di 94 e il gruppetto di testa comprende Olanda, Spagna e Svezia seconde a pari merito con 79. La Francia condivide con noi il terzultimo posto col 66. Quali sono le caratteristiche di un mercato liberalizzato? L’Indice adotta una metodologia classica e sensata: rappresentano impedimenti alla concorrenza tutti gli ostacoli normativi, regolamentari, fiscali o parafiscali che limitino la libertà di ingresso di nuovi concorrenti (licenze o numeri chiusi), l’esercizio dell’attività imprenditoriale (basti pensare ad una rigida normativa giuslavoristca) e l’uscita dal mercato (ad esempio il salvataggio di carrozzoni decotti che si configura come concorrenza sleale nei confronti degli altri attori).

Dov’è più debole l’Italia? Purtroppo non eccelliamo in nessun settore, ma siamo particolarmente scarsi in termini assoluti nella distribuzione dei carburanti, poste e ferrovie e in termini relativi nel mercato della televisione (ultimi) e del lavoro (penultimi davanti ai poveri ellenici). Prevedibilmente, per la scarsa competitività del settore carburanti la colpa è dell’alta pressione fiscale e delle normative che richiedono ai nuovi entranti servizi obbligatori (tipo le pompe per l’idrogeno) per poter aprire. Lo Stato protegge gli incumbent.

Interessanti i casi di ferrovie e poste. Per il trasporto su rotaia, che pure è migliorato grazie a un concorrente nell’Alta Velocità, uno degli elementi che favoriscono l’apertura del mercato è la separazione tra la società dei trasporti e quella proprietaria della rete. Inoltre, più in generale, le imprese che gestiscono infrastrutture o reti quando sono possedute dallo Stato godono di vantaggi sia nell’erogazione di fondi che nei rapporti col regolatore. Questo dovrebbe far riflettere il governo che sembra invece intenzionato a privatizzare parzialmente FS, mantenendone il controllo, e tenendo unite Trenitalia e Rfi: due mosse contrarie ad una politica liberalizzatrice. Diversa la situazione delle Poste che godono di un limitato monopolio nella notificazione di atti giudiziari e multe (chissà perché). Elementi distorsivi sono anche la modalità di compensazione dell’onere di servizio universale, il regime dei titoli abilitativi e la probabile esistenza di sussidi incrociati con i servizi bancari ed assicurativi.

Sfortunatamente, i piani di privatizzazione di cui si discute non sembrano occuparsi di tutto questo. Il ministro Guidi, quando ha presentato l’Indice, ha ricordato che grazie alle liberalizzazioni il Pil italiano potrebbe aumentare del 4% in cinque anni e dell’8% nel lungo termine. Ha promesso inoltre l’approvazione del disegno di legge sulla concorrenza. Bene, sembra che nel governo ci sia dunque consapevolezza del problema che comprende anche gli ostacoli normativi e regolamentari che favoriscono le imprese di proprietà statale.

Intervenire su questi snodi sarebbe un segno che qualcosa sta cambiando: purtroppo qualche giorno dopo la pubblicazione dell’Indice il ministro dell’Economia Padoan ha frenato sul processo di privatizzazione delle proprietà pubbliche menzionando in modo sibillino il fatto che rendere efficienti le aziende statali potrebbe avere conseguenze sull’occupazione. Il problema è che non risanandole, si dilaziona lo scioglimento dei nodi fino a farli diventare inestricabili. Poi si è sentito dire che il governo si appresterebbe a varare il decreto per la valorizzazione e la successiva quotazione delle Ferrovie. Sarà. Per ora atti concreti non se ne vedono e la legge sulla concorrenza è ancora in corsia di attesa: non un bel vedere per il “governo delle riforme”.

Le false vittorie del governo

Le false vittorie del governo

Davide Giacalone – Libero

44 miliardi escono oggi dalle tasche degli italiani e si lanciano nel dirupo delle casse erariali. A salutare il loro precipitare hanno trovato la fanfara di due annunci: nel 2015 non aumenteranno né le tasse sulla casa né il canone Rai. Ma non basta, perché ad accompagnare il volo c’è anche un fatto: solo il 15% della delega fiscale ha fin qui trovato attuazione, scadendo il prossimo 27 marzo. E fra le cose che si dicono imminenti c’è 1’ennesima ridefinizione dell’abuso di diritto. Che è uno strazio del diritto.

Andiamo con ordine. Le imposte legate alla casa non aumenteranno. Che bello. La verità è più prosaica: il governo aveva annunciato che il 2015 sarebbe stato l’anno della “local tax”, sicché una sola tassa che le avrebbe ricomprese tutte, e invece s’è arreso, lasciando tutto com’è. Questa è la notizia. E veniamo al canone Rai: non aumenterà. Evviva. Scusate, ma non doveva dimezzarsi? L’annuncio era: si pagherà la metà e lo si farà con la bolletta elettrica. La notizia è che l’operazione governativa è abortita. Tutto il capitolo della semplificazione fiscale, del resto, dovrebbe essere compitato entro la fine di marzo, dando attuazione alla delega fiscale. Fin qui siamo a carissimo amico.

Dicono in arrivo la parte relativa all’abuso di diritto. Leggo le anticipazioni e inorridisco. Dunque: non sarebbe più reato, ma il fisco può continuare a contestare non violazioni della legge, non evasioni fiscali, ma elusioni fondate sull’applicazione della legge. Non ha alcun senso supporre che il rispetto di una legge possa essere un abuso. Se lo è, ciò discende dal fatto che la legge è scritta male. La riscrivano. Comunque: equiparato all’elusione, l’abuso continuerà ad essere contestato. A quel punto il contribuente dovrà dimostrare di avere agito con finalità non malevole. Quindi: il fisco contesta e il contribuente deve dimostrare di non essere in peccato. Manco il tribunale dell’inquisizione. Il contribuente, però, può prevenire il problema: quando dovrà applicare una legge, potendo scegliere fra quella e un’altra, potrà evitare d’incorrere in tentazione chiedendo prima al fisco cosa sua signoria suggerisce di fare. Appena oltre il confine, se scegli con attenzione, si paga meno ed è tutto più semplice. Se vai in Lussemburgo al funzionario non chiedi quale leggi applicare, ma tratti quale aliquota ti applica, se vai a fargli compagnia. Ecco, se siete di buon carattere, diciamo che tali notizie potrebbero allietarvi le feste, strappando un sorriso. Se già malmostosi, c’è solo da sperare che vi distraiate.

Banche esose con i prestiti

Banche esose con i prestiti

Massimo Blasoni – Metro

Dal sistema bancario arrivano frequenti dichiarazioni sull’incremento del credito reso disponibile a famiglie e aziende ma la rielaborazione dei dati Bankitalia realizzata dal nostro Centro studi sembra dimostrare il contrario. Da gennaio a ottobre di quest’anno il volume complessivo dei prestiti si è infatti addirittura ridotto di ulteriori 29 miliardi (-1,2%), passando da 2.309,6 a 2.280,8 miliardi di euro. Questa stretta ha colpito tanto le imprese – passando da 837,9 a 819,4 miliardi (-2,2%) – quanto le famiglie, passando da 601,8 a 596,8 miliardi (-0,8%). Rispetto al gennaio 2011, il volume complessivo dei prestiti risulta poi essersi complessivamente ridotto di 61 miliardi di euro, passando da 2.341,6 a 2.280,8 miliardi di euro (-2,6%). In questo arco di tempo le banche hanno ridotto il loro sostegno soprattutto alle imprese (-7,9%, pari a -70,7 miliardi di euro) e si sono dimostrate avare anche nei confronti delle famiglie (-0,2%, pari a -1,3 miliardi di euro). Al contrario si è registrato un sensibile aumento dei prestiti tra banche e altre istituzioni finanziarie (+ 2,1%, pari a +12,6 miliardi di euro).
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Pochi vantaggi, tanta burocrazia: l’apprendistato rischia di sparire

Pochi vantaggi, tanta burocrazia: l’apprendistato rischia di sparire

Walter Passerini – La Stampa

Ha sessant’anni e li dimostra tutti. L’apprendistato, che trae le origini della sua attuale sistemazione normativa nella legge 25 del 1955, è l’unica forma di contratto di lavoro a fini formativi. Nato nelle botteghe artigiane rinascimentali, l’istituto ha subito diverse modifiche nel tempo, per arrivare al Testo unico del 2011, che così lo definisce: un contratto di lavoro a tempo indeterminato finalizzato alla formazione ed all’occupazione dei giovani. L’apprendistato è un contratto a causa mista, nel quale accanto alla causa di scambio (lavoro contro retribuzione), tipica del contratto di lavoro dipendente, si aggiunge la finalità formativa (D.Lgs. 14 settembre 2011, n.167). L’ultima modifica è il Decreto Poletti (D.l. 20 marzo 2014, n. 34, convertito in Legge 16 maggio 2014, n. 78).

Negli ultimi anni il contratto di apprendistato è stato definito il canale privilegiato per l’ingresso dei giovani nel mercato del lavoro, ma il suo successo nel frattempo ò colato a picco. Negli anni d’oro è arrivato a superare una media di oltre 600mila contratti l’anno. Tra il 2010 e il 2012 è passato da 528.183 contratti a 469.855, per crollare subito dopo l’entrata in vigore del Testo unico ai suoi minimi: nel 2013 ci sono stati 240mila contratti di apprendistato, nel 2014 meno di 200 mila nei primi nove mesi, che dovrebbero portare il numero finale di quest’anno sotto quota 300 mila.

Come mai questo dimezzamento di contratti mentre la normativa e la politiche del lavoro tendono a sostenerlo? Ci sono tante ragioni. La presenza di un pacchetto di ore di formazione ha sempre ottenuto tiepidi consensi da parte delle imprese, quando non vere opposizioni: il decreto Poletti di quest’anno ha alleggerito il problema, ma non basta. I vantaggi economici per le imprese sono tanti: decontribuzione totale per tre anni per le imprese sotto i nove dipendenti; al 10% per le altre. Anche il vincolo di stabilizzazione è stato abbassato dal decreto Poletti: la quota di stabilizzazioni prima di assumere altri apprendisti è passata dal 50% al 20%. Ma anche questo evidentemente non è sufficiente. Nelle ultime settimane sembra poi che le aziende intenzionate ad assumere giovani si siano fermate, in attesa dei nuovi provvedimenti previsti dal Jobs Act.

Una delle ragioni del rovinoso cammino del contratto di apprendistato consiste proprio nella concorrenza spietata che altre formule di assunzione gli fanno, essendo ritenute più convenienti da parte delle aziende (contratto a termine, in primis). Infine, l’attesa dell’arrivo del nuovo contratto a tutele crescenti ha eroso ulteriore fascino all’apprendistato, e assomiglia a un’eutanasia: strano un contratto a tempo indeterminato che può avere una scadenza, come è l’apprendistato. Non si può escludere che le complessità burocratiche abbiano giocato in ruolo. E forse anche la scarsa conoscenza, per non dire confusione, sulle tre tipologie: apprendistato per la qualifica, professionalizzante o di mestiere, in alta formazione e ricerca. A cui se ne aggiunge una quarta, destinata ai lavoratori in mobilità. È soprattutto la terza tipologia a soffrire: sembra proprio che usare uno stesso nome (apprendistato) per riunire garzoni di officina, impiegati di banca e laureati, masterizzati o dottori di ricerca non sia molto efficace; anche se per realizzare il miracolo di una nuova vita dell’apprendistato non basterà certo un semplice cambio di nome.

Fisco, la fabbrica delle complicazioni

Fisco, la fabbrica delle complicazioni

Paolo Baroni – La Stampa

La fabbrica delle regole e delle complicazioni non si ferma mai. Nonostante gli sforzi del governo, che finalmente iniziano a dare i primi frutti, soprattutto grazie all’operazione del 730 precompilato a domicilio, la pressione burocratica sulle imprese non accenna a scendere. È una vera tela di Penelope: dal 2008 ad oggi, per una norma che semplifica ne sono state emanate 4,3 che complicano la gestione degli adempimenti tributari. È vero che nel 2014 il ritmo delle complicazioni fiscali è rallentato, ma la strada si presenta ancora tutta in salita. Anche perché l’attuazione della delega fiscale, a nove mesi dalla sua approvazione, è in fortissimo ritardo.

I primi 272 giorni di Renzi
Fino ad oggi il governo Renzi, esclusa la legge di Stabilità ancora in fase di costruzione, ha emanato 8 provvedimenti con 87 norme di carattere fiscale di cui 26 (29,9% del totale) semplificano, 12 (13,8%) sono neutre e ben 49 (56,3%) hanno impatto burocratico sulle imprese. II saldo rimane così ancora una volta positivo anche se diminuisce rispetto al passato. Le norme che semplificano sono pressoché interamente concentrate (25 su 26) nel decreto legislativo sulle dichiarazioni precompilate. Negli ultimi 6 anni, il 61% delle 703 nuove norme ha aumentato i costi burocratici. In pratica il fisco si è complicato alla velocità di 1 norma alla settimana.

Il Burofisco Index
Per misurare l’impatto della burocrazia fiscale Confartigianato ha inaugurato il Burofisco Index che sintetizza il saldo tra le norme che semplificano e quelle che complicano la vita degli imprenditori. Nel 2014 l’indice di impatto burocratico ha registrato il calo più vistoso dal 2009, posizionandosi a quota +24, con una diminuzione drastica rispetto al +93 del 2013. «Le nostre rilevazioni – commenta Giorgio Merletti, presidente di Confartigianato – indicano qualche miglioramento, ma siamo ben lontani da un fisco a burocrazia zero per le imprese». «La delega fiscale è inattuata per l’80-90% – spiega Daniele Capezzone (Fi), presidente della Commissione finanze della Camera -. I1 governo, tranne eccezioni individuali, non ne ha affatto compreso il valore strategico. Possibile che nell’attuazione della delega creda di più il rappresentante dell’opposizione, cioè io, che ne sono stato l’estensore ed il relatore, piuttosto che il governo che l’ha ricevuta in regalo?». Secondo Merletti «la strada è ancora lunga. Oltre a snellire gli adempimenti, occorre anche riordinare i regimi contabili semplificati, come previsto dalla delega». Ciò significherebbe incidere sulle modalità di tenuta della contabilità di ben 2.200.000 aziende, tra ditte individuali e società di persone, pari all’80% del totale. Il restante 20% di imprese ò interessato dall’applicazione della nuova Iri (Imposta Reddito Imprenditoriale) anch’essa prevista dalla delega fiscale. «Un primo passo è stato compiuto nella legge di stabilità con il nuovo regime forfettario. Ma è insufficiente – insiste Merletti – perché pur semplificando gli adempimenti, l’esiguo tetto dei ricavi previsti rischia di vanificare l’impianto complessivo della norma». Intanto però a marzo la delega scade, col rischio di invalidare la riforma. Per evitare il peggio Capezzone annuncia di aver «già presentato una proposta di legge per prorogare di 8 mesi la scadenza».

Sempre più complicazioni
La tendenza alla crescita della pressione burocratica sulle imprese in Italia resta sempre molto alta. Secondo l’analisi effettuata dalla Direzione politiche fiscali di Confartigianato sui 47 provvedimenti emanati nell’arco dei 2.397 giorni che intercorrono nell’arco delle ultime due legislature, scaturiscono 703 norme fiscali: di queste ben 427 complicano e appena 98 semplificano. In prati- ca nell’arco degli oltre sei anni il Fisco si complica alla velocità di 1 norma alla settimana (7,3 giorni).

A passo di gambero
Il problema è dato dalla relativa scarsità delle norme di reale semplificazione: appena 96 su 691 (il 13,9% del totale) nei 6 anni esaminati. Di qui l’effetto tela di Penelope. Dei 47 provvedimenti esaminati solo 15 (31,9%) contengono almeno una norma di semplificazione, ma solo in 2 casi c’è un intervento di alleggerimento pieno: si tratta del decreto legislativo sulle dichiarazioni precompilate (saldo impatto burocratico -22) e il Dl70 del 2011 (-19). Risultato: gli imprenditori italiani impiegano 269 ore l’anno per pagare le tasse, il 53,3% in più rispetto alla media del PaEsi dell’Ocse. Il nostro Paese, secondo il Doing business 2015 della Banca Mondiale, si colloca al 122° posto nella classifica di 189 nazioni del mondo. Una impresa in Regno Unito ne impiega invece 159 in meno, il “vantaggio burocratico” è di 132 ore in Francia, di 102 ore in Spagna e di 51 ore in Germania. E anche questo dovrebbe essere uno spread che bisognerebbe puntare a ridurre.