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Povera Italia, Paese senza mercato per Costituzione

Povera Italia, Paese senza mercato per Costituzione

di Massimo Blasoni – Il Giornale 

“Servizio pubblico” e “concorrenza”: due parole su cui molto si è detto nel nostro Paese. La prima viene declinata come un mantra ogniqualvolta la politica mette mano a settori cruciali: ad esempio trasporti, rifiuti, approvvigionamento idrico e informazione. Peccato che la loro gestione pubblica, utilissima ad assicurare riserve di voti clientelari, spesso risulti ben poco efficiente. Il fatto che alcuni servizi siano di interesse collettivo e vadano tutelati non significa che la loro concreta gestione debba essere per forza pubblica. L’unico risultato che conta è la soddisfazione del cliente del cittadino e non è frutto di un ordine necessario che lo stato debba gestire in prima persona acqua, istruzione o sanità; soprattutto se lo fa con risultati modesti quanto a qualità e costi. Meno Municipalizzate, consigli di amministrazione e partecipate talora inventate ad uso e consumo dei loro amministratori? È possibile: si, privatizzando i servizi e sottoponendo gli attori a rigorosi controlli. Se non lo si fa è solo perché non conviene a pochi e noti, ma così insistendo a pagarne il conto siamo noi tutti.

La seconda parola che non si riesce a inverare nella realtà italiana, “concorrenza”, a molti suona ancora come una bestemmia. Lo dimostra l’estenuante iter parlamentare del ddl che dovrebbe spezzare i lacci più robusti che imbrigliano molte attività economiche. Anche questa volta la montagna di emendamenti partorirà un innocuo topolino, incapace di rosicchiare incrostazioni corporative e rendite di posizione. Passano i decenni ma il riflesso del legislatore resta lo stesso, purtroppo. Lo dimostra l’ennesimo stop deciso dal Parlamento alla multinazionale Flixbus. Un’azienda innovativa che in pochi mesi ha creato in Italia centinaia di posti di lavoro e che si contende il mercato del trasporto su gomma offrendo un servizio di qualità e competitivo. Ha successo, i consumatori la premiano, vive di concorrenza. Andava quindi punita.

I governi non fabbricano soldi (al massimo si indebitano): a creare ricchezza sono le imprese private, che andrebbero lasciate libere di crescere e investire. Invece di assecondare chi rischia in proprio con norme chiare e ben mirate, la politica considera un suo diritto entrare a gamba tesa nell’attività di un’azienda e molto spesso decide sostituirsi ad essa. D’altronde lo stesso articolo 41 della Costituzione (“L’iniziativa economica privata è libera”) recita al terzo comma che: “La legge determina i programmi e i controlli (…) perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”. Un principio ideologico che, negando la molla del profitto, giustifica un esiziale eccesso di regole e burocrazia.

Stangata per chi ha casa: 49 miliardi

Stangata per chi ha casa: 49 miliardi

di Valerio Maccari – Il Tempo

Altro che funerale delle tasse sulla casa: il fisco immobiliare è più vivo – ed esoso – che mai. Proprio oggi, infatti, scadono i termini per il pagamento della prima rata della Tasi e dell’Imu. A versare l’acconto all’erario, secondo i calcoli del Centro Studi ImpresaLavoro, sono chiamati ben 25 milioni di italiani, la metà circa della popolazione adulta del Paese. E non sborseranno poco: la stangata sugli immobili, quest’anno, vale oltre 49 miliardi di euro, e per l’acconto entreranno nelle casse dei Comuni tra i 10 e gli 11 miliardi di euro. Una cifra enorme, anche se complessivamente il gettito da immobili segnato nel 2016 è un poco di meno del poco auspicabile record di 52,3 miliardi toccato nel 2015. Ma rimane comunque decisamente superiore a quanto si pagava nel 2011.

Rispetto ad allora, infatti, la pressione fiscale sulle case degli italiani ha messo a segno un incremento monstre di 11.4 miliardi di euro su base annua, pari al 30,2% in più. Nel periodo 2011-2016, spiegano da ImpresaLavoro – il maggiore incremento registrato ha riguardato la quota patrimoniale del prelievo, più che raddoppiata (+173%), a differenza delle entrate attribuibili agli atti di trasferimento (-29%) e a quelle sul reddito immobiliare, rimaste sostanzialmente inalterate nonostante la crescita del gettito da locazioni favorita dall’introduzione della cedolare secca sugli affitti.

Il calo di 3,5 miliardi di euro registrato tra il 2015 e il 2016 è interamente attribuibile al taglio della Tasi per le abitazioni principali licenziato dal governo nella Legge di stabilità e che ha fatto passare il gettito della misura da 4,7 a 1,1 miliardi di euro. Un bel taglio, ma certo lontano dalla morte dell’imposizione immobiliare trionfalmente annunciata dall’allora Presidente del Consiglio Matteo Renzi. Per il resto, infatti, ben poco è cambiato: le entrate derivanti dall’Imu restano infatti stabili a 20,4 miliardi su base annua. Insomma, nessuna riduzione, anzi: la componente esplicitamente patrimoniale dell’imposizione sugli immobili è purtroppo più che raddoppiata rispetto al 20l1,quando il gettito che ne derivava valeva «solo» 9,2 miliardi di euro. In crescita rispetto a cinque anni or sono anche le risorse drenate dalle tasche dei cittadini italiani attraverso le tasse sui rifiuti, che sono passate da 5,6 a 8,4 miliardi di euro.

«Nonostante l’abolizione della Tasi sulla prima casa – osserva l’imprenditore Massimo Blasoni, presidente del Centro Studi ImpresaLavoro – la tassazione sugli immobili nel nostro Paese continua ad essere del 30% più elevata rispetto al 2011. Si tratta di una patrimoniale operata a danno di quello che molte famiglie consideravano un vero e proprio bene rifugio. Una misura che ci venne richiesta a gran voce dall’Europa e che ha prodotto effetti negativi su molti versanti: un impoverimento del patrimonio delle famiglie, la messa in ginocchio del settore dell’edilizia e una depressione dei consumi e della domanda interna. Motivi piu che sufficienti per rispedire al mittente le raccomandazioni del Fondo monetario internazionale, che in questi giorni insiste per un aggravio in Italia della tassazione patrimoniale degli immobili».

Altissime anche le aliquote: Confedilizia ha calcolato nell’8,8 per mille la media della somma di quelle Imu e Tasi deliberate dai Comuni capoluogo di Provincia per gli immobili locati a «canone agevolato» e nel 10,5 per mille l’aliquota media ordinaria. Dati che, secondo il Presidente di Confedilizia Spaziani Testa, «confermano l’urgenza di un intervento legislativo per salvare, almeno, l’affitto, Dopo la manovra Monti del 2011, la tassazione su questi immobili si è addirittura quadruplicata, annullando l’effetto della cedolare secca introdotta pochi mesi prima. E l’appetibilità degli affitti a canone calmierato si è di molto affievolita».

Domani si versa l’acconto Imu-Tasi. Nel 2016 tasse sugli immobili a 49,1 miliardi (+30,2% rispetto al 2011)

Domani si versa l’acconto Imu-Tasi. Nel 2016 tasse sugli immobili a 49,1 miliardi (+30,2% rispetto al 2011)

Domani circa 25 milioni di italiani saranno chiamati a versare l’acconto dell’Imu e della Tasi. Nonostante l’abolizione delle tasse sulla prima casa, resta infatti ancora in vigore il prelievo sulle seconde case e sugli immobili diversi dall’abitazione principale.

Dopo il livello record raggiunto nel 2015 (52,3 miliardi di euro), in Italia il gettito complessivo sugli immobili si è ridotto nel 2016 a 49,1 miliardi di euro (-6,1%). L’anno scorso la pressione fiscale ha toccato comunque valori decisamente più consistenti di quelli registrati nel 2011, con un incremento di 11,4 miliardi di euro su base annua (+30,2%). Lo rileva una ricerca del Centro Studi ImpresaLavoro su elaborazione di dati della Corte dei Conti e di Confcommercio.

Nel periodo 2011-2016 il maggiore incremento registrato ha riguardato la quota patrimoniale del prelievo – più che raddoppiata (+173%) – a differenza delle entrate attribuibili agli atti di trasferimento (-29%) e a quelle sul reddito immobiliare, rimaste sostanzialmente inalterate nonostante la crescita del gettito da locazioni favorita dall’introduzione della cedolare secca sugli affitti.

Il calo di 3,5 miliardi di euro registrato tra il 2015 e il 2016 è interamente attribuibile al taglio della TASI per le abitazioni principali licenziato dal governo nella Legge di stabilità e che ha fatto passare il gettito della misura da 4,7 a 1,1 miliardi di euro. Le entrate derivanti dall’IMU restano invece stabili a 20,4 miliardi su base anna: la componente esplicitamente patrimoniale dell’imposizione sugli immobili è comunque più che raddoppiata rispetto al 2011 quando valeva “solo” 9,2 miliardi di euro. In crescita rispetto a cinque anni or sono risulta in crescita anche il gettito derivante dalle tasse sui rifiuti, che sono passate da 5,6 a 8,4 miliardi di euro.

«Nonostante l’abolizione della Tasi sulla prima casa – osserva l’imprenditore Massimo Blasoni, presidente del Centro Studi ImpresaLavoro – la tassazione sugli immobili nel nostro Paese continua ad essere del 30% più elevata rispetto al 2011. Si tratta di una patrimoniale operata a danno di quello che molte famiglie consideravano un vero e proprio bene rifugio. Una misura che ci venne richiesta a gran voce dall’Europa e che ha prodotto effetti negativi su molti versanti: un impoverimento del patrimonio delle famiglie, la messa in ginocchio del settore dell’edilizia e una depressione dei consumi e della domanda interna. Motivi più che sufficienti per rispedire al mittente le raccomandazioni del Fondo monetario internazionale, che in questi giorni insiste per un aggravio in Italia della tassazione patrimoniale degli immobili».

Promesse tradite: lo Stato non paga 64 miliardi alle aziende

Promesse tradite: lo Stato non paga 64 miliardi alle aziende

di Francesco De Dominicis – Libero

Se si trattasse di una faccenda tra privati si potrebbe azzardare a ipotizzare – codice penale alla mano – financo l’appropriazione indebita e addirittura un caso di furto vero e proprio. Il ladro in questione è lo Stato e il soggetto «offeso» – ovvero derubato – è l’impresa fornitrice alla quale non viene saldata una fattura nei termini stabiliti dalla legge. E messe insieme, le fatture non pagate, creano una montagna di miliardi di euro che resta nelle casse del Tesoro. Se ne discute da almeno cinque anni, senza che venga trovata una soluzione efficace. Il risultato è sempre lo stesso: circola meno liquidità nella cosiddetta economia reale e qualche azienda, specie tra quelle più piccole, soffocata proprio dalle casse a secco, è costretta – non di rado – a portare i libri in tribunale. Si fallisce anche per colpa dello Stato, insomma. Se va meglio, si taglia qualche investimento programmato oppure si licenziano i lavoratori. L’effetto finale è un danno collettivo di proporzioni certamente non irrilevanti.

Su questo versante, per la verità, non esistono stime esatte. E sui numeri in ballo spesso si fa un po’ di confusione. Lo scandalo vero, in effetti, non è rappresentato dai 64 miliardi di euro di arretrati complessivi dello Stato verso le imprese fornitrici. Certo, il totale dei debiti è quello e fa parecchio rumore. Non a caso, il dato, riportato nell’ultima relazione della Banca d’Italia, è stato immediatamente cavalcato da associazioni di categoria oltre che centri studi, come Cgia di Mestre e ImpresaLavoro. Tuttavia, una parte di quei ritardi è fisiologica: dipende, cioè, dai tempi di pagamento concordati tra pubblica amministrazione e azienda per saldare le fatture, relative a beni e servizi.

Tempi che possono variare sulla base di norme e secondo il tipo di «prestazione» acquistata dalla pa, locale o statale. Una direttiva dell’Unione europea del 2011, nel dettaglio, fissa nella forchetta tra 30 e 60 giorni i tempi massimi di pagamento. Fino al limite di due mesi, insomma, è tutto regolare o quasi. Ne consegue che sul totale di 64 miliardi, come accennato, una parte è «fisiologica»: si tratta, secondo le stime di Bankitalia, di poco meno del 50%. Calcolatrice alla mano significa grosso modo 28-30 miliardi. Il resto, invece, è uno stock di more fuorilegge: la «componente non fisiologica», pertanto, si attesta a 34-36 miliardi. A tanto, dunque, ammonta il presunto furto. In ogni caso, il corpo del reato non è un pacchetto di bruscolini.

Dicevamo delle norme di Bruxelles. A metà febbraio la Commissione Ue ha chiesto all’Italia di chiarire se ha varato provvedimenti volti ad accelerare i bonifici alle imprese. In assenza di una svolta, il Paese corre il pericolo di subire l’ennesima procedura di infrazione. Rischio che da luglio si farà sempre più concreto, poiché partirà un monitoraggio a tappeto con l’avvio di un cervellone unico a livello europeo. Tutti i paesi avrebbero dovuto essere in regola sin dal 2013, ma l’Italia non ce l’ha fatta a rispettare la tabella di marcia imposta da Bruxelles.

L’ex presidente del consiglio, Matteo Renzi, su questo problema aveva alzato l’asticella. Era marzo del 2014 e l’allora premier promise di risolvere la faccenda entro il mese di settembre dello stesso anno. Renzi non mantenne la promessa (saldare gli arretrati fino al 2013) né pagò pegno – come invece aveva giurato – andando in pellegrinaggio, a piedi, al santuario sul monte Senario. Di là dalle chiacchiere del segretario del Partito democratico, in tre anni la situazione non è migliorata granché: rispetto al prodotto interno lordo, i debiti commerciali sono passati dal 5,8% del 2012 (record) al 4,3% del 2014, dal 4,2% del 2015 (68 miliardi) al 3,8% dello scorso anno (64 miliardi).

Lievi cali – quelli segnalati nelle carte di via Nazionale – che non migliorano il quadro, specie nel confronto internazionale. Solo la Grecia (103 giorni) paga con tempi più lunghi dell’Italia (95). Valori molto più alti rispetto a quelli di altri paesi europei, come Spagna (78), Francia (57) e Germania (23). Se Roma paga in tre mesi, Berlino salda in poco più di tre settimane. Come dire: quello sui tassi d’interesse dei titoli pubblici (btp e bund) non è l’unico spread tra italiani e tedeschi.

Il Governo deve 64 miliardi ai privati e Renzi manco va a farsi a benedire

Il Governo deve 64 miliardi ai privati e Renzi manco va a farsi a benedire

di Gianluca De Maio – La Verità

I debiti della pubblica amministrazione verso le aziende dei privati valgono ancora oggi 64 miliardi di euro. Più o meno tre Finanziarie. Un modo per spostare sulle spalle di chi produce quasi il 3% del debito pubblico. Una cifra insopportabile che per gli italiani è diventata una prassi. Ci siamo infatti dimenticati che solo il 13 marzo del 2014, dal salotto di Bruno Vespa, l’ex premier Matteo Renzi, lanciò la sua personale sfida ai debiti arretrati della Pa. Promise di smaltire tutti i pagamenti entro il 21 settembre, giorno di san Matteo. In caso contrario si sarebbe incamminato da Firenze fino al santuario di monte Senario. Venti chilometri a piedi per espiare le colpe dello Stato. Il Rottamatore non è più premier, lotta per riprendere l’incarico e non ha in mente di mettersi in cammino. Ancor meno di intervenire su un problema endemico.

«A distanza di tre anni» spiega il Centro studi ImpresaLavoro «siamo costretti a registrare che lo stock di debito commerciale contratto nei confronti delle imprese fornitrici è rimasto sostanzialmente invariato. La relazione annuale presentata nei giorni scorsi dalla Banca d’Italia certifica infatti che nel 2016 lo stock dei debiti accumulati dalla PA ammonta ancora a 64 miliardi di euro, appena 4 miliardi in meno rispetto all’anno precedente».  Gli enti pubblici nel 2016 hanno impiegato in media 95 giorni (erano 131 giorni nel 2015) per pagare i loro fornitori. Si tratta di un dato inferiore di 8 giorni rispetto alla Grecia e analogo a quello del Portogallo ma che resta superiore di 17 giorni rispetto alla Spagna, di 34 giorni rispetto a Belgio, di 38 giorni rispetto alla Francia, di 43 giorni rispetto all’Irlanda, di 72 giorni rispetto alla Germania e di 73 giorni rispetto al Regno Unito. Anche se il trend è in miglioramento – rileva lo studio – la riduzione dei tempi appare legata a una riorganizzazione organica che nulla ha a che vedere con l’intervento politico.

Per l’imprenditore Massimo Blasoni, presidente di ImpresaLavoro, «ne consegue pertanto un dato gravissimo per tutte le imprese italiane coinvolte: questo ritardo sistematico è infatti costato loro la cifra di 5,3 miliardi sotto forma di accesso al credito per consentire di pagare i propri dipendenti e onorare gli impegni presi. Questa stima è stata effettuata prendendo come riferimento il dato fornito da Bankitalia e il costo medio del capitale (pari all’8,339% su base annua) che le imprese hanno dovuto sostenere per far fronte al relativo fabbisogno finanziario generato dai mancati pagamenti».

Va inoltre sottolineato che a impattare positivamente sui numeri in questi ultimi tre anni sono state le mosse degli enti locali. E non certo dello Stato centrale. Nonostante gli enti locali continuino a subire tagli da Roma, negli ultimi due anni sono riusciti a far calare il proprio stock di debito complessivo addirittura del 10%. Da 101 a 91 miliardi. Il governo, invece, ha portato il «buco» da 2.043 a 2.130 miliardi, stando alle ultime rilevazioni del ministero, che risalgono allo scorso inverno. Un 4% in più. Per gli enti locali, si è quasi sempre registrato un avanzo di cassa: il fabbisogno di Comuni, Province e Regioni è stato negativo per 6,4 miliardi nel 2013, per 9,4 miliardi nel 2014 e per 7,09 miliardi nel 2015. Nel 2016 nei conti degli enti territoriali si è registrata un’esigenza di cassa per 829 milioni. Lo Stato si dimostra sempre più vorace, anche se demanda agli enti locali l’incasso di nuove tasse. Con tale andazzo si capisce che il debito relativo al 2014 sia stato saldato soltanto alla fine del 2016. E cosi via, mantenendo intatto un circolo vizioso.

«I ritardi nel pagamento dei debiti commerciali, pubblici e privati», conclude Massimo Blasoni, «hanno conseguenze per le imprese che vanno al di là degli oneri sostenuti per l’accesso al credito. Elaborando i dati contenuti nell’European payment report di Intrum Justitia si scopre infatti il 46% delle aziende italiane ritiene che un migliore e più puntuale sistema di pagamenti da parte dei debitori porterebbe all’assunzione di nuovi dipendenti. Per il 61% degli imprenditori i ritardi nei pagamenti rappresentano inoltre una delle cause di licenziamento dei lavoratori già in forza alle imprese e per il 73% degli intervistati il ritardo dei debitori frena la crescita del nostro tessuto imprenditoriale». La propaganda renziana attorno al Jobs act e al rilancio dell’occupazione si è ovviamente ben guardata dall’affrontare la violenza che lo Stato usa sulle aziende private costrette a fare da bancomat. E oggi che il segretario del Pd si avvia verso un’altra campagna elettorale. Ma i 64 miliardi di debiti e il macigno che rappresentano continuano a essere un tabù.

Lo Stato non paga i suoi debiti

Lo Stato non paga i suoi debiti

di Vittorio Pezzuto – Italia Oggi

In Europa il tempo medio di pagamento da parte del settore pubblico è salito da 36 a 41 giorni in un solo anno. Questa situazione si ripercuote negativamente sopratutto sulle piccole e medie imprese, costrette come sono ad accettare termini di pagamento troppo lunghi e spesso imposti dalle imprese più grandi. La piccola buona notizia è che il trend della nostra Pubblica Amministrazione appare in controtendenza, anche per merito della fatturazione elettronica: nel 2016 ha impiegato in media 95 giorni (erano 131 giorni nel 2015) per pagare i suoi fornitori. Si tratta di un dato inferiore di 8 giorni rispetto alla Grecia e analogo a quello del Portogallo ma che resta superiore di 17 giorni rispetto alla Spagna, di 34 giorni rispetto al Belgio, di 38 giorni rispetto alla Francia, di 43 giorni rispetto all’Irlanda, di 72 giorni rispetto alla Germania e di 73 giorni rispetto al Regno Unito. Lo rivela una ricerca del Centro studi ImpresaLavoro su elaborazione dei dati contenuti nell’ultima edizione dell’European Payment Report di Intrum Justitia.

Il 13 marzo 2014 il premier Matteo Renzi promise in tv agli italiani che il 21 settembre di quell’anno, giorno del suo onomastico, avrebbe fatto un pellegrinaggio al santuario di Monte Senario se il suo Governo non avesse pagato tutti i debiti che la Pubblica amministrazione aveva contratto fino al 2013. A distanza di tre anni, siamo costretti a registrare che lo stock di debito commerciale contratto nei confronti delle imprese fornitrici è invece rimasto sostanzialmente invariato. La relazione annuale presentata nei giorni scorsi dalla Banca d’Italia certifica infatti che nel 2016 lo stock dei debiti accumulati dalla PA ammonta ancora a 64 miliardi di euro, appena 4 miliardi in meno rispetto all’anno precedente. Le solenni promesse dell’allora premier Renzi sono state completamente disattese.

Per l’imprenditore Massimo Blasoni, presidente di ImpresaLavoro, «ne consegue pertanto un dato gravissimo per tutte le imprese italiane coinvolte: questo ritardo sistematico è infatti costato loro la cifra di 5,3 miliardi sotto forma di accesso al credito per consentire di pagare i propri dipendenti e onorare gli impegni presi. Questa stima è stata effettuata prendendo come riferimento il dato fornito da Bankitalia e il costo medio del capitale (pari all’8,339% su base annua)».

I ritardi nel pagamento dei debiti commerciali, pubblici e privati, hanno conseguenze per le imprese che vanno al di là degli oneri sostenuti per l’accesso al credito. Il 46% delle aziende italiane ritiene che un migliore e più puntuale sistema di pagamenti da parte dei debitori porterebbe all’assunzione di nuovi dipendenti. Per il 61% degli imprenditori i ritardi nei pagamenti rappresentano inoltre una delle cause di licenziamento dei lavoratori già in forza alle imprese e per il 73% degli intervistati il ritardo dei debitori frena la crescita del nostro tessuto imprenditoriale.

Debiti PA: stock fermo a 64 miliardi, in Europa siamo i penultimi per tempi di pagamento (95 giorni di attesa)

Debiti PA: stock fermo a 64 miliardi, in Europa siamo i penultimi per tempi di pagamento (95 giorni di attesa)

I tempi di pagamento

L’ultima edizione dell’European Payment Report di Intrum Justitia rivela che in Europa il tempo medio di pagamento da parte del settore pubblico è salito da 36 a 41 giorni in un solo anno. Questa situazione si ripercuote negativamente sopratutto sulle piccole e medie imprese, costrette come sono ad accettare termini di pagamento troppo lunghi e spesso imposti dalle imprese più grandi. La piccola buona notizia è che il trend della nostra Pubblica Amministrazione appare in controtendenza, anche per merito della fatturazione elettronica: nel 2016 ha impiegato in media 95 giorni (erano 131 giorni nel 2015) per pagare i suoi fornitori.

Si tratta di un dato inferiore di 8 giorni rispetto alla Grecia e analogo a quello del Portogallo ma che resta superiore di 17 giorni rispetto alla Spagna, di 34 giorni rispetto al Belgio, di 38 giorni rispetto alla Francia, di 43 giorni rispetto all’Irlanda, di 72 giorni rispetto alla Germania e di 73 giorni rispetto al Regno Unito.

Lo stock di debiti della PA

Il 13 marzo 2014 il premier Matteo Renzi promise in tv agli italiani che il 21 settembre di quell’anno, giorno del suo onomastico, avrebbe fatto un pellegrinaggio al santuario di Monte Senario se il suo Governo non avesse pagato tutti i debiti che la Pubblica amministrazione aveva contratto fino al 2013. A distanza di tre anni, siamo costretti a registrare che lo stock di debito commerciale contratto nei confronti delle imprese fornitrici è invece rimasto sostanzialmente invariato. La relazione annuale presentata nei giorni scorsi dalla Banca d’Italia certifica infatti che nel 2016 lo stock dei debiti accumulati dalla PA ammonta ancora a 64 miliardi di euro, appena 4 miliardi in meno rispetto all’anno precedente. Le solenni promesse dell’allora premier Renzi sono state completamente disattese. Questo dato conferma quanto abbiamo denunciato a più riprese: i debiti commerciali si rigenerano con frequenza, dal momento che beni e servizi vengono forniti di continuo. Pertanto liquidare solo in parte con operazioni spot i debiti pregressi di per sé non riduce affatto lo stock complessivo: questo può avvenire soltanto nel caso in cui i nuovi debiti creatisi nel frattempo risultino inferiori a quelli oggetto di liquidazione.

I costi per le imprese

Per l’imprenditore Massimo Blasoni, presidente di ImpresaLavoro, «ne consegue pertanto un dato gravissimo per tutte le imprese italiane coinvolte: questo ritardo sistematico è infatti costato loro la cifra di 5,3 miliardi sotto forma di accesso al credito per consentire di pagare i propri dipendenti e onorare gli impegni presi. Questa stima è stata effettuata prendendo come riferimento il dato fornito da Bankitalia e il costo medio del capitale (pari all’8,339% su base annua) che le imprese hanno dovuto sostenere per far fronte al relativo fabbisogno finanziario generato dai mancati pagamenti».

L’opinione delle imprese 

I ritardi nel pagamento dei debiti commerciali, pubblici e privati, hanno conseguenze per le imprese che vanno al di là degli oneri sostenuti per l’accesso al credito. Il 46% delle aziende italiane, infatti, ritiene che un migliore e più puntuale sistema di pagamenti da parte dei debitori porterebbe all’assunzione di nuovi dipendenti. Per il 61% degli imprenditori, poi, i ritardi nei pagamenti rappresentano una delle cause di licenziamento dei lavoratori già in forza alle imprese e per il 73% degli intervistati il ritardo dei debitori frena la crescita del nostro tessuto imprenditoriale. Dati, questi, molto più elevati della media dei nostri partner europei.

 

Attenzione alle cryptocurrencies

Attenzione alle cryptocurrencies

Sino a qualche tempo, gli esperti ne conoscevano una sola: il bitcoin. Dei rischi e delle opportunità di utilizzare una moneta sintetica creata da un algoritmo messo a punto da un matematico (pare) cinese, ne discutevano solamente pochi specialisti, usi alla speculazione monetaria. Le cryptocurrencies sono aumentate rapidamente, molto più di quanto non ci si immagini. Il 2017 Gobal Cryptocurrencies Benchmarking Study, pubblicato a fine maggio ,documenta che nel mondo ci sono più di cento cryptocurrencies copie o varianti degli originali bitcoin e circa trenta differenti ‘minatori’ di cryptocurrencies in 38 differenti Paesi e che ben tre milioni di individui utilizzano cryptocurrencies invece di valute emesse da banche centrali. Il documento sottolinea che il mercato delle cryptocurrencies in gran misura si autoregolamenta, anche se non esistendo una regolamentazione codificale le transazioni in cryptocurrencies hanno soprattutto una base fiduciaria.

Due economisti britannici del Cambridge Center for Altenative Finance scrivono in un paper recente (per averne copia scrivere a m.raucus@ibs.cam.account.UK) che, da un lato, le cryptocurrencies spingono a una sana competizione di mercato tra valute ma, da un altro, occorre trattarle con cura perché possono essere una Mecca per truffatori.

Appare interessante anche un lavoro (Bitcoin is not alone. Qantifying and Modelling Long Term Dynamics of the Cryptoxorrency market) curato da una squadra di economisti della Cuty University di Londra, del Max Planck Institute di Lipsia, della Università della Catalogna. Questo studio osserva come il mercato delle cryptocurrencies sia giunto a 55 miliardi di dollari e continui a crescere. Dall’aprile 2013 sono apparse e scomparse numerose cryptocurrencies. In questo contesto, la quota di mercato degli originali bitcoin si sta ovviamente contraendo, anche se resta la maggiore.

I riti lumaca ci costano 14 miliardi

I riti lumaca ci costano 14 miliardi

Quanto costano i ritardi della giustizia in Italia? Quanto incide l’inefficienza giudiziaria sull’economia reale del BelPaese? Secondo i numeri di un recente studio pubblicato dalla Commissione Europea, la riduzione delle cause pendenti per numero di abitanti è un fattore determinante nell’attrarre investimenti. Se il nostro Paese riuscisse a portarle al livello della media europea potrebbe, di per sé, generare afflussi extra dall’estero per un valore stimato tra lo 0,66 e lo 0,86 del Pil. Tradotto significa tra i 10,8 ei 14,1 miliardi di euro all’anno, il doppio dell’attuale.

A scattare l’impietosa fotografia di uno dei mali che affliggono il sistema imprenditoriale del nostro Paese è stato il Centro studi ImpresaLavoro, che ha quantificato l’irnpatto negativo della lunghezza dei processi e dell’arretrato di cause pendenti su variabili chiave come l’attrattività degli investimenti esteri, la nascita e lo sviluppo delle imprese italiane, la disoccupazione e i volumi del credito bancario. Ridurre di un quarto i tempi dei tribunali in Italia, per esempio, potrebbe incrementare il ritmo di nascita di nuove iniziaüve imprenditoriali di circa 143mila unità all’anno. Ci sarebbero, inoltre, nuovi prestiti alle imprese per ben 29,3 miliardi di euro, pari a un aumento del 3,75 rispetto allo stock attuale. Lo studio di ImpresaLavoro, in particolare, sottolinea la gravità del problema.

«Prendendo in considerazione le sole cause civili e di diritto commerciale, all’ultima rilevazione rimanevano in attesa di giudizio, in Italia, oltre 2.758.000 processi: un record assoluto per tutti i Paesi dell’Europa allargata», sostiene lo studio, «in grado di mettere in secondo piano il milione e mezzo di cause pendenti in Francia e le 750.000 scarse della Germania. Il dato assoluto è riferito ai soli processi di primo grado, ed è fortunatamente in calo rispetto agli anni precedenti. Sta di fatto che a fine anno rimangono pendenti, in termini relativi, 45 processi ogni 1.000 abitanti in Italia contro i 24 della Francia, i 18 della Spagna e i soli 9 della Germania».

Bollette da urlo: aumentate del 22% in 6 anni

Bollette da urlo: aumentate del 22% in 6 anni

di Francesco Borgonovo – La Verità

Quando in Italia si sente parlare di «liberalizzazioni», scorre improvviso un brivido lungo la schiena. Non perché si sia pregiudizialmente ostili ai privati cattivi. No: il panico nasce proprio dalla conoscenza dei dati. Si è discusso parecchio, nei giorni scorsi, del famoso ddl Concorrenza, che – allo stato attuale – fissa a luglio 2019 la fine del mercato elettrico tutelato. Significa che non siamo ancora in un regime di mercato totalmente libero, ma rimangono dei meccanismi di protezione per circa 20 milioni di clienti. Nonostante ciò, negli ultimi 6 anni la bolletta energetica delle famiglie italiane è aumentata del 22,34%. Eccoli, i benefici della liberalizzazione avvenuta nel luglio del 2017: le spese a carico degli italiani sono cresciute. A dimostrarlo, numeri alla mano, è un’indagine condotta dal centro studi ImpresaLavoro, che ha analizzato l’andamento dei prezzi medi dell’energia elettrica per uso domestico fornita alle famiglie di tutta Europa. «Rispetto a 6 anni fa», spiegano i ricercatori, «tra i 28 Paesi oggetto del monitoraggio solo in 8 nazioni il prezzo dell’energia domestica è diminuito: Ungheria (-31,63%), Malta (-23,30%), Cipro (-18,85%), Olanda (-9,67%) Repubblica Ceca (-6,70%), Slovacchia (-6,24%), Lussemburgo (-2,22%) e Polonia (-1,43%). In tutti gli altri casi la bolletta elettrica delle famiglie è cresciuta con aumenti anche consistenti».

In Italia, va detto, l’aumento non è tra i peggiori registrati nel Vecchio Continente. In Lettonia. per esempio, le bollette sono cresciute del 55.08%, in Portogallo del 45,05% e in Grecia del 43,77%. Ma, ovviamente, stiamo parlando di economie non proprio fortissime. Tuttavia si registrano aumenti anche nel Regno Unito (+33,40%), in Francia (+28,98%), in Spagna (+24,87%) e in Germania (+23,54%). Il nostro Paese, però, si distingue a livello continentale per il costo dell’energia. ImpresaLavoro nota che, in Italia, «il costo per l’energia elettrica domestica (tasse incluse) è passato da 0,1943 euro per kWh nel 2010 a 0,2377 kWh nei 2016», Nel 2016, il consumo medio annuo per famiglia ammontava a 3.199 kWh. Significa, per farla breve, che ogni famiglia italiana spende in media 760,24 euro su base annua per la solo bolletta elettrica. In Europa, registrano costi piti alti dell’energia soltanto Danimarca, Germania e Belgio.

MEGLIO ALL’ESTERO

«Se la stessa famiglia, infatti, si trovasse a vivere in Francia», notano i ricercatori di ImpresaLavoro, «risparmierebbe 217,05 euro su base annua: 155,31 euro se vivesse nel Regno Unito e 45,43 euro se vivesse in Spagna. In Germania, invece, il conto sarebbe più elevato: +190,82 euro». Manco a dirlo, a pesare tantissimo sul costo finale sono le tasse e le accise, che in Italia ammontano al 39.87% (la media dell’area Euro è del 39.36%, quella dell’Unione Europea a 28 Stati, invece, è del 36,07%). Un’incidenza maggiore delle imposte si registra solo n Danimarca (68,65%), Germania (53,41%) e Portogallo (47,28%). Mentre in tutti gli altri Paesi la morsa del fisco è meno stretta. In Francia, le tasse rappresentano il 35,42% del prezzo finale della luce. In Spagna sono il 21,7% e nel Regno Unito il 19,22%. «Nel nostro Paese il mercato dell’energia elettrica è stato liberalizzato dal 1 luglio 2007 ma le bollette non sono affatto calate», dice l’imprenditore Massimo Blasoni, presidente di ImpresaLavoro. «È un paradosso tutto italiano, che purtroppo non verrà sanato con l’approvazione (più volte rinviata) del ddl Concorrenza».

FUTURO NERO

E anche questa è una bella gatta da pelare. «Nella parte dedicata alla liberalizzazione del mercato elettrico», continua Blasoni, «è infatti prevista la fine del regime della maggior tutela (per chi ha mantenuto il proprio storico fornitore di energia) e il passaggio obbligatorio al mercato libero entro il luglio 2019. Si tratta in realtà di una spada di Damocle: coloro che entro quella data non avranno provveduto autonomamente al passaggio a un fornitore sul libero mercato si ritroveranno (a loro insaputa) in un basket denominato “servizio di salvaguardia” che già oggi prevede costi maggiori di quelli praticati in regime di maggior tutela. La loro utenza verrà poi riassegnata ad altra azienda a seguito di un’asta con una base di prezzo comunque automaticamente piu alta del 20%. Un provvedimento che distorce il mercato e che non potrà che incidere ulteriormente sul bilancio delle famiglie italiane».

A lanciare un allarme in questo senso è stata, all’inizio di aprile, anche un’indagine di Nomisma Energia. Che ha rilevato altri problemi a carico dei cittadini. Tanto per cominciare, la difficoltà di lettura della bolletta. Ci vogliono, hanno scritto ì ricercatori di Nomisma, 9 minuti per leggerla, ma addirittura 6 ore per comprenderla, anche perché presenta qualcosa come 179 cifre diverse, che vanno esaminate e interpretate. Nomisma ha espresso perplessità pure sul meccanismo delle aste, e ha notato come la liberalizzazione abbia portato, alla fine dei conti, alla formulazione di sconti piuttosto bassi sulla bolletta. Insomma, il quadro che emerge è parecchio sconfortante. La liberalizzazione del mercato energetico – in cui attualmente operano circa 400 società – non ha portato benefici agli italiani, nonostante fosse stata presentata come un grande favore ai consumatori. Il costo finale dell’energia è aumentato, per via delle tasse ma non solo. Le bollette che le famiglie e i singoli utenti devono pagare sono decisamente più alte che in passato. E la situazione non sembra affatto destinata a migliorare.

In più c’è un ulteriore aspetto da considerare, che riguarda proprio la difficoltà di muoversi all’interno del nuovo mercato. Decifrare le bollette è complicato, e la proliferazione di nuovi gestori ha fatto aumentare esponenzialmente le truffe. Non si contano più, ormai, le denunce e gli appelli presentati da numerose associazioni di consumatori e da organizzazioni di categoria per mettere in guardia gli utenti. La piaga peggiore sono probabilmente le truffe telefoniche, di cui risultano vittime soprattutto le persone che vengono contattate da call center e indotte a sottoscrivere nuovi contratti di fornitura. Nel complesso, il risultato è che, nel mercato reso più libero, qualcuno ci guadagna parecchio. Ma non sono i cittadini italiani.